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AGOSTINO AURELIO
Vita vissuta e filosofia sono, in Agostino, intimamente connesse; ciò è bene
espresso nell'opera che descrive il suo itinerario spirituale, le Confessioni.
Egli è determinato nel voler conoscere nient'altro che l'anima e Dio: l'uomo
interiore, l'io nella semplicità e verità della sua natura, e l'essere nella sua
trascendenza, senza il quale non è possibile riconoscere la verità dell'io.
Nacque a Tagaste, nell'odierna Algeria, nel 354.
Figlio di Patrizio, un piccolo proprietario terriero, e di Monica, fervente
cristiana, compì gli studi letterari a Madaura, Tagaste e Cartagine, studi che
perfezionò da autodidatta leggendo molti classici, in primo luogo Cicerone.
Recatosi a Roma e poi a Milano, dove aveva ottenuto la cattedra municipale di
retorica, maturò la conversione al cristianesimo, che compì all'età di trentatré
anni al termine di un itinerario di ricerca intellettuale e religiosa iniziato a
diciannove anni, quando la lettura dell'Ortensio ciceroniano (opera oggi
perduta) aveva risvegliato nel suo animo l'amore per la filosofia.
Durante il suo percorso di ricerca della verità, Agostino aveva abbracciato
per circa un decennio il manicheismo (una dottrina settaria nata tra
cristianesimo e gnosi per opera di Mani, nobile persiano del III sec. che
accreditò sue visioni e rivelazioni facendosi promotore di una dottrina
cosmologica dualistica), finché non rimase deluso da un incontro con il vescovo
manicheo Fausto, la cui ignoranza lo convinse della sostanziale falsità di
quella religione (383). Decise perciò di aderire al cristianesimo, religione in
cui sin dall'infanzia era stato educato dalla madre.
Non era riuscito tuttavia a superare alcune difficoltà quali la concezione quasi
esclusivamente materialistica della realtà e la ripugnanza per lo stile
disadorno della Bibbia. Gli ostacoli caddero dopo l'incontro con il vescovo di
Milano, Ambrogio, il quale fornì ad Agostino elementi per un'esegesi allegorica
della Sacra Scrittura e lo indirizzò verso la filosofia neoplatonica.
La lettura dei trattati di Plotino e di Porfirio mise Agostino in condizione di
intuire l'esistenza del mondo intelligibile e lo aiutò a guadagnare una
fondazione critica della conoscenza, superando il materialismo e lo scetticismo
accademico.
La definitiva adesione al cristianesimo, secondo il racconto delle
Confessioni, avvenne per ulteriori tappe.
Dapprima l'incapacità di una vita di continenza dopo il distacco dalla donna con
la quale aveva vissuto per quattordici anni e da cui aveva avuto un figlio,
Adeodato, portò Agostino a scegliersi una nuova compagna. In seguito il racconto
fattogli da alcuni amici, della conversione di due ufficiali dell'impero, e la
scoperta della vita monastica come pratica forte della sequela cristiana,
maturarono in lui la decisione finale presa nel 386, nel giardino della sua casa
di Milano, dopo la lettura del passo biblico in cui San Paolo invita il
cristiano ad abbandonare «bagordi e ubriachezze, giacigli e lussuria» (Romani
13,13). Agostino decise di lasciare definitivamente la donna e la professione e
di farsi battezzare.
Dopo un periodo di ritiro a Cassiciacum, in Brianza, nella vigilia
pasquale del 387, Agostino ricevette il battesimo, a Milano, dalle mani di
Ambrogio.
Lo stesso anno, a Ostia, sulla strada del ritorno in Africa, morì la madre
Monica; pochi anni dopo (389) a Tagaste morì anche il figlio Adeodato.
Ordinato sacerdote nel 391, cinque anni dopo fu eletto vescovo di Ippona
(l'attuale Bona). Durante il lungo episcopato Agostino di dedicò all'attività
pastorale, soprattutto alla predicazione, alla difesa dei poveri, alla
partecipazione alla vita della Chiesa universale (colloqui, dispute, concili) e
alla stesura di numerose opere.
Tra le opere filosofiche le più importanti sono: Contro gli accademici, La musica, La vera religione, Il maestro, La quantità dell'anima, Soliloqui; tra le opere teologiche le principali sono: La dottrina cristiana, La Trinità, La città di Dio.
Ragione e fede
Dio e l'anima, come già accennato, sono stati i termini verso i quali si è
costantemente indirizzata la filosofia di Agostino; di fronte a tali argomenti
null'altro risulta importante e degno di considerazione: solo Dio e anima.
Dio e anima, d'altronde, sono per Agostino intimamente connessi in una
reciprocità che le rende conoscibili nel loro confronto continuo. Cercare
l'anima, cioè indagare l'intimità dell'uomo, significa nel contempo e
identicamente cercare Dio; viceversa, indagare la natura divina significa
aprirsi la possibilità di cogliere i caratteri più propri dell'anima.
L'uomo è fatto per Dio e trova quiete soltanto in lui.
In questa cornice speculativa ragione e fede sono altrettanto intimamente
connesse. Le due modalità epistemiche (della conoscenza), infatti, l'una fondata
ultimamente sulla constatazione empirica diretta e mediata dal ragionamento,
l'altra radicata nel sapere di una fonte di cui è accertata l'autorevolezza,
sono complementari nella vita dell'uomo e si sostengono a vicenda.
Il credere è la prerogativa per comprendere, mentre il comprendere è la
condizione stessa del credere più maturo e consapevole, che a sua volta diviene
la nuova prerogativa del sapere in una crescita di livelli che conduce
all'approfondimento speculativo continuo della realtà.
Verità e conoscenza
Agostino sostiene che non è possibile dubitare della propria esistenza, in
quanto il dubbio stesso offre la garanzia della certezza dell'esistenza. Il
dubitare, infatti, non è possibile del dubitare stesso; già lo stesso dubitare è
certezza di dubbio, e il dubbio non può essere a prescindere dall'esistenza: se
dubito, esisto; nella misura stessa in cui dubito.
Inoltre, se il dubbio muove sulla verità, la verità risulta certa, in quanto se
è vero il dubbio, se, cioè, è vero che non si dà verità certa, allora si dà la
certezza, cioè la verità certa, che la verità non è data, ma questo è
contraddittorio. Se dunque la verità non c'è, in quanto messa in dubbio, essa
c'è nella misura della verità del dubbio stesso.
Il dubbio presuppone, per sua stessa natura, un rapporto dell'uomo con la
verità. Tuttavia la verità, di cui l'uomo partecipa, conoscendo, non si
identifica con l'uomo stesso o con le sue capacità; la verità trascende l'uomo
che ne è soltanto fruitore e partecipe. L'uomo si sperimenta mutevole,
incostante, incerto proprio a fronte di una verità immutabile, salda e
assolutamente certa. Tale verità è il nome stesso di Dio, è Dio e da esso,
dunque proviene all'uomo che ne può partecipare.
L'uomo è illuminato dalla verità, che si presenta come una fonte inestinguibile
di quella luce nella quale all'uomo è data la conoscenza. L'uomo conosce alla
luce della verità. Dio-Verità, dunque illumina interiormente l'uomo, ne è
maestro interiore.
La dottrina dell'illuminazione, nome con il quale si intende comunemente la
teoria della conoscenza di Agostino, spiega in modo cristiano ciò che Platone
diceva con la teoria dell'anamnesi o reminiscenza. Laddove Platone esigeva la
vita metempirica dell'anima, precedente alla vita carnale, come situazione in
cui l'uomo apprende tutte le conoscenze che poi può essere condotto a ricordare
nella vita nella materia, Agostino ritiene che tutto ciò che l'uomo conosce, in
particolare rispetto alle verità intramontabili ed eterne (non ai fatti
contingenti) derivi direttamente dalla luce che abita nell'anima e che è infusa
direttamente da Dio in termini di verità salde e incorruttibili.
Per Agostino la verità non è la ragione, ma la legge della ragione, la formula
dell'ordine stabilito da Dio all'atto della creazione del mondo. Per conoscere
la verità l'uomo non deve indagare vanamente al di fuori di se stesso, ma deve
rientrare in sé, nel proprio intimo e, sperimentandosi mutevole ed incerto,
superarsi nel senso della profondità fino a raggiungere la radice più intima del
proprio essere, cioè Dio che trascende i limiti dell'uomo e apre un orizzonte
infinito di conoscenza, da desiderare e da amare.
I giudizi di valore, contraddistinti dall'immutabilità e dalla necessità che la realtà coincida con quello che si afferma, non possono derivare dei sensi né dall'immaginazione, né dalla ragione, tutte facoltà mutevoli; la necessità di quei giudizi può solo derivare dall'intelligenza, il livello più nobile dell'anima umana, in cui ridiede la stessa luce di Dio partecipata agli uomini. Mediante l'illuminazione divina, l'uomo dispone della conoscenza di alcune verità essenziali, relative al mondo spirituale; Dio non è perciò conosciuto al termine di una dimostrazione, è, invece, la prima realtà conosciuta dalla mente, essendo egli la luce interiore, lo stesso criterio di verità partecipato all'anima umana.
Gli attributi di Dio
La verità, dunque, è Dio. Dio è scoperto come Essere e Verità, Trascendenza e
Rivelazione, Padre e Lógos. Egli è
Trascendenza dell'intimità stessa dell'uomo, ma nel contempo è Rivelazione in
quanto luce di conoscenza; in base, poi, alla rivelazione biblica, Dio è Padre
(corrispettivo dell'Essere), ma nella misura in cui è Padre, termine relativo, è
anche Figlio, quindi Lógos, Verbo
(corrispettivo della Rivelazione).
Risultano quindi dedotte le prime due persone della Trinità cristiana, ma in
quanto Padre e Figlio, perché tali, suppongono una relazione, anche la loro
relazione, vissuta a livello divino, è persona che va sotto il nome di Spirito
Santo, relazione d'amore tra Padre e Figlio.
Dal Dio-Verità Agostino giunge al Dio-Amore; l'Amore non si rivela se non a chi
cerca la Verità. Dio è la condizione che rende possibile e vero ogni amore.
La struttura dell'uomo e la volontà
La possibilità di dialogare interiormente con Dio e di sperimentarlo
nell'amore è offerta all'uomo dalla sua stessa struttura. L'uomo, creato a
immagine e somiglianza di Dio, ne rispecchia la trinitarietà, essendo
costituito, nella propria anima da tre facoltà analoghe, nell'operazione, alle
tre persone divine.
L'uomo conosce e ama, cioè è, pensa e vuole; in ciò
rispecchia Padre, Figlio e Spirito in quanto memoria, ragione (intelligenza) e
volontà, le tre facoltà che, nell'insieme, costituiscono una sola vita, come
uno solo è Dio in tre persone.
La volontà è una novità di rilievo nella concezione filosofica dell'uomo.
L'antropologia greca non aveva saputo individuare la facoltà pratica, fermandosi
con Aristotele a parlare di determinazione razionale e con Plotino di libertà
incanalata dallo Spirito, incorrendo irrimediabilmente nei paradossi
intellettualistici di ascendenza socratica per cui l'uomo buono è il sapiente
(che non può errare in quanto sapiente) mentre l'uomo malvagio è l'ignorante
(che non può non sbagliare in quanto cieco).
In base alle suggestioni raccolte nel testo biblico, la filosofia giunge invece
a teorizzare il volere dell'uomo come facoltà dell'assenso e del dissenso nei
confronti dell'essere. Oltre l'intelligenza, facoltà teoretica dell'anima, la
filosofia scopre la capacità dell'uomo di decidere del manifestarsi o meno
dell'essere per quello che è, cioè la capacità di intervenire, con un giudizio
di approvazione o di rifiuto, nei confronti dell'ordine stabilito da Dio
all'atto della creazione. La volontà, dunque, a partire dal cristianesimo, si
configura filosoficamente come la facoltà dell'amore e dell'odio, da intendersi
questi ultimi come l'accoglimento e la promozione della realtà o la resistenza
ad essa e la sua distruzione.
In connessione con la scoperta della volontà, cambiano quindi i connotati
della condizione umana che, nella filosofia greca poteva darsi come sapienza o
come ignoranza, corrispondenti a felicità e ansia, imperturbabilità e
turpitudine, ma che ora, alla luce della Bibbia, viene a differenziarsi come
condizione di grazia o di peccato, di adesione o di rifiuto nei confronti di
Dio.
Il peccato, ancor prima di essere inteso come trasgressione di un precetto,
appare come la defezione da Dio e dall'essere, come uno stato di decadimento
della natura umana derivante dalla scelta consapevole dell'uomo stesso di
recedere dal tipo di vita offertogli con la creazione, per aderire a un progetto
autonomo tanto resistente quanta è la forza che l'uomo può impiegarvi, fino al
suo esaurimento nella degenerazione e nella morte.
Il male
«Se Dio esiste, d'onde viene il male?».
L'interrogativo è drammatico, in quanto sembra denunciare una contraddizione
insanabile che tormenta dalle origini tutta la realtà.
In gioventù, per tentare una soluzione, Agostino aveva aderito al Manicheismo,
che in un certo senso offriva una risposta al problema del male nel mondo,
perché faceva derivare tutta la realtà dall'esito della lotta tra due principi
supremi: il principio del bene e quello del male, la luce, da cui deriva la
bontà propria del mondo spirituale, e le tenebre, da cui trae origine il male
che contrassegna il mondo materiale e che si diffonde per mezzo della materia.
Scoprendo l'illusorietà della soluzione manichea del problema, Agostino
comprende che la materia in sé non è male e che il principio del male non può
esistere, perché, per essere un vero e proprio male dovrebbe esserlo “molto
bene”, il che è contraddittorio. Il male, dunque, non può che essere privazione
del bene, in quanto non è in grado di produrre nulla e non può coincidere con
nulla che esista positivamente, perché ogni esistenza manifesta la positività
che solo il bene esprime.
Il male non può essere una sostanza, quindi, perché se lo fosse sarebbe un bene,
ma, privo di sostanzialità, il male come tale non esiste né può esistere.
Il male, allora, viene ricondotto da Agostino alla volontà dell'uomo, che può
darsi, negativamente, come volontà del non-essere di ciò che è. La perversione
della volontà che si volge dalla parte opposta della sostanza somma verso le
realtà inferiori, dunque, costituisce la radice del male, che, in sé, non
consiste (già Plotino aveva anticipato tale teoria, attribuendo l'origine del
male al narcisismo dell'Anima, distratta dall'Uno e rivolta alla materia).
Se di male si vuole parlare, allora, a proposito dei cosiddetti mali di natura,
bisogna distinguere:
- il male che deriva dalla necessaria differenziazione delle realtà create del
cosmo, da intendersi come inferiorità di certe cose rispetto alla superiorità di
certe altre, un male, cioè, che risulta funzionale alla completezza del mondo in
tutte le sue varietà;
- il male funzionale all'armonia del creato, come l'ombra rispetto alla luce o
la dissonanza rispetto all'accordo.
I mali fisici, poi, che affliggono l'uomo, discendono per Agostino dal peccato
dell'uomo che ha corrotto l'originaria perfezione della natura umana,
soggiogandola alla morte, mentre il male morale fa capo al peccato in quanto
tale, cioè consiste nella volontà del non essere di ciò che è, nella volontà
della sua distruzione.
La creazione e il tempo
L'universo è il risultato dell'atto libero di creazione da parte di Dio, che
Agostino legge come un atto di amore divino verso le cose create e verso l'uomo
in particolare, il quale, scrutando l'universo sensibile, scopre l'immagine
dell'ordine, della bontà e della bellezza del suo creatore.
Dio ha creato tutto attraverso la Parola, il Lógos
coeterno con il Padre, il Figlio. Questi contiene in sé le ragioni immutabili
delle cose, eterne come eterno è egli stesso; in conformità con tali forme o
ragioni sono dal Padre formate tutte le cose sensibili e transitorie. Queste
idee eterne, dunque, non costituiscono un cosmo intelligibile (l'iperuranio
platonico), ma l'eterna Sapienza attraverso la quale Dio ha creato il mondo.
Tali ragioni di sapienza vengono associate da Agostino alla ragioni seminali (di
origine stoica) che assicurano la divisione e l'ordinamento delle cose nell'atto
della creazione.
La discussione sulla creazione sollecita l'interrogativo sul “quando” della creazione, cioè sulle coordinate temporali dell'atto divino: «Che cosa faceva Dio prima della creazione del mondo?». La domanda è oziosa, ritiene Agostino, perché il tempo fa parte della creazione stessa, è la dimensione di ciò che è creato, e quindi non può essere attribuita a Dio che della creazione è autore: l'avverbio “prima”, infatti, è un avverbio di tempo, che non può essere attribuito al fare di Dio, come se Dio abitasse una dimensione temporalmente antecedente il tempo (il che sarebbe una contraddizione).
Che cos'è, dunque, il tempo?
La difficoltà ad attribuire un volto preciso al tempo, costituito dal presente,
il quale tuttavia si disperde nell'inesistenza del passato, ed è generato dal
futuro, che ancora non esiste e quando esiste non è più futuro, ma è diventato
il presente, spinge Agostino verso una soluzione originale del problema: il
tempo non esiste nelle cose, non fa parte della realtà del mondo fisico, ma
esiste nello spirito, nell'anima dell'uomo. Il tempo, propriamente, è un
distendersi dell'anima, una distensione dello spirito del soggetto che rileva le
cose nel passato (con la memoria), nel futuro (con l'attesa) nel presente (con
l'attenzione).
Il tempo non è una realtà oggettiva, esiste solo in rapporto con l'attività
della coscienza; è la misura delle vicende con cui l'anima entra in relazione,
attraverso l'attenzione (presenza del presente), il ricordo (presenza del
passato) o l'attesa (presenza del futuro).
A partire dalla sua professione retorica, Agostino ragiona sul significato di un
discorso, che, nell'immediatezza della sua pronunciazione è fatto di singoli
suoni istantanei privi di connessione e di significato, ma che, nell'azione del
suo svolgersi dalle premesse alla conclusione ottiene un senso compiuto proprio
grazie al ruolo della coscienza (la presenza a sé) che interviene attraverso le
sue singole dimensioni per raccogliere in unità tutti i segmenti sonori.
Il tempo dunque è la dimensione attraverso la quale l'uomo raccoglie la propria
esperienza storica, fatta di segmenti in se stessi privi di un senso compiuto,
entro un'unità di vita che costituisce l'identità di ciascuno, all'interno della
quale è la decisione dell'uomo a costituire il grado di importanza e di
incisività dei singoli momenti.
Il tempo, dunque, non è una realtà per sé stante, indipendentemente dalle
cose che mutano e che si succedono; “prima” della creazione, allora, esisteva
solo Dio, nella sua perenne immutabilità, totalmente al di fuori del tempo. Dio,
infatti, non si distende nel passato e nel futuro, ma è eterno presente, è
l'eternità, la quale escludendo da sé ogni mutamento e ogni successione, non può
essere considerata come il prolungarsi all'infinito della linea del tempo.
L'eternità è un presente immobile, che non ha durata come lo stato di riposo
dell'anima quando non pensa a niente.
La storia
Connesso con il tema del tempo è quello della storia, alla cui base sta la
convinzione di fondo che l'universo è segnato dalla contingenza, cioè è
appoggiato sull'eventualità del suo possibile non essere; il mondo non è
necessario, Dio avrebbe potuto non crearlo.
Non c'è storia senza tempo, anche se può esservi tempo senza storia, il tempo
della natura oggettivata, priva di coscienza, quale potrebbe immaginarsi la
natura delle cose prima della creazione di Adamo; il tempo della storia implica
la coscienza e la successione. Il contingente è temporale, storico, ma lo è
perché il corso del tempo riceve un ordine, che è l'ordine della coscienza
storicizzante.
Ciò che diviene è storico non in quanto diveniente, ma in quanto, pur fluendo
incessantemente, trova una sua stabilità nella memoria che impedisce ai fatti
transeunti di precipitare nella dimenticanza.
Tra il silenzio del passato e il silenzio del futuro c'è il momento che
sempre si rinnova del presente, della coscienza, l'istante del tempo interiore
che riesce a vincere quei due silenzi e a far nascere la storia. Il divenire
chiuso tra due silenzi non può essere storia; solo dando voce al passato e al
futuro nel presente della memoria, che ricorda e che attende, la storia acquista
la sua voce, che è la stessa parola del presente.
Il corso progressivo del tempo, la sua unidirezionalità e irreversibilità,
risultano dalla finalità della coscienza (dall'orizzonte significativo della
coscienza) che tende a rappresentarsi il tempo e quindi a possederlo,
inscrivendolo nell'unità permanente del soggetto che si distende nell'attenzione
(responsabilità), nella memoria (eredità) e nell'attesa (progetto).
In ciò il pensiero di Agostino risulta estremamente innovativo, e certamente
moderno, nel senso che la storia che noi oggi continuiamo a considerare discende
direttamente dalla concezione agostiniana, benché secolarizzata attraverso
l'Illuminismo.
Il modello creazione/caduta/redenzione/eskaton (definitività), cioè la
storia della salvezza, che scardina la visione ciclica della storia che i greci
avevano sostenuto fino a quel momento, diviene il modulo interpretativo delle
cose umane che ha guidato la cultura occidentale fino ad oggi, benché dal '700
si sia sostituito alla definitività escatologica del Regno di Dio il mito del
progresso della civiltà e della scienza.
La “Città di Dio” e il significato dello Stato
Il progetto dell'opera venne ispirato ad Agostino dalla valutazione del
destino di Roma sottoposta all'assedio dei Visigoti di Alarico e al successivo
orribile saccheggio (24 agosto 410).
L'enorme impressione suscitata dalla violazione di Roma, plurisecolare simbolo
di una civiltà considerata grande e perciò imperitura, indusse il mondo pagano
ad accusare i cristiani della decadenza di Roma e della dissoluzione della sua
civiltà, dal momento che i cristiani non intendevano impegnarsi nella vita
politica e nella difesa della civiltà romana. D'altronde, molti cristiani
avevano sviluppato un disegno di Roma come della nuova capitale religiosa del
mondo, visto che dai tempi della distruzione di Gerusalemme (70 d. C.) essa
aveva assunto le funzioni di culla del cristianesimo, di centro depositario e
propulsore della religione di Cristo e della sua chiesa.
Agostino si impegnò allora per mostrare come la religione e la cultura della
Roma pagana (città terrena) dovessero cedere il posto alla religione e alla
cultura cristiana (città di Dio).
Nella città terrena confluiscono tutte le città, tutti gli imperi e tutte le
civiltà creati dagli uomini e destinati a perire; il vero fine della storia è
legato all'insegnamento del Vangelo di Gesù Cristo, e coincide con la
costruzione di quella città che ha Dio stesso come architetto e costruttore, una
città “futura” quindi, perché in continua crescita.
Finché l'uomo vive sulla terra, città di Dio e città terrena sono talmente
intrecciate e intimamente mescolate fra loro, che il pensiero umano è incapace
di tracciare una distinzione netta tra le due.
Agostino elabora una lettura cristiana dello Stato che è segnata
dall'ambivalenza radicale del tempo della storia, all'interno della quale il
bene e il male crescono insieme, senza la possibilità di essere separati prima
della fine della vicenda storica stessa. L'ultima fonte del potere, poi, è vista
nell'ordine stabilito da Dio con l'inserimento di ogni autorità nel piano
provvidenziale di Dio nei confronti del creato; nel potere costituito, infatti,
il cristiano non coglie solo l'aspetto umano, ma altresì il riflesso di qualcosa
di trascendente.
Uno stato puramente terreno non ha valore definitivo per il cristiano, il quale
non è interessato ad esso, perché la sua vera patria non è costituita da questo
mondo. Il dominio dell'uomo sull'uomo risulta assolutamente estraneo alla natura
umana integra, qual era prima del peccato originale; uno stato che non faccia
riferimento alla giustizia connessa con il Dio cristiano è soltanto un
“latrocinio”, come un insieme di soprusi e di prepotenze.
L'esistenza di un'autorità terrena è per l'uomo il prezzo della prima colpa,
in un certo senso è una conseguenza del peccato originale: all'instaurazione del
regno di Dio, ogni dominazione umana avrà termine. Nell'attesa che ciò si
realizzi, lo schiavo deve ubbidire al padrone, il governato al governante: la
condizione di schiavo e di suddito infatti è in un certo modo naturale, in
quanto è legittima in rapporto al disordine in cui giace l'uomo dopo il peccato,
all'avvilimento della sua natura conseguente alla disobbedienza.
Dunque, il potere temporale trae forza e giustificazione da ciò stesso che lo
condanna, cioè dal suo rapporto con il peccato.
L'ETÀ MEDIEVALE
Dialettica e Sacra pagina
Nel secolo XI si è soliti individuare un dibattito tipico, tra dialettici e
teologi. Esso consiste nel problema relativo alla liceità o meno
dell'applicazione della logica aristotelica, trasmessa all'Occidente attraverso
le opere di Boezio alla pagina biblica. Ci si chiedeva se la parola di Dio,
quale era ritenuta essere la Bibbia in quanto testo rivelato, fosse suscettibile
di indagine grammaticale e logica, senza il pericolo di snaturarne il contenuto
a partire dalle regole della sintassi della parola umana.
Le posizioni, al tempo, furono diverse: alcuni, come Pier Damiani, si opposero
risolutamente all'esercizio della logica in campo teologico, ritenendolo
pericoloso e potenzialmente eretico; altri, come Berengario di Tours, assunsero
posizioni estremamente critiche nei confronti della dottrina tradizionale della
Chiesa, proprio a partire dall'applicazione indiscriminata dei principi logici
alle pagine bibliche, desumendo conseguenze inedite e indebite da una lettura
razionalistica della letteratura religiosa; altri ancora, assumendo un cauto
atteggiamento mediano, aprirono la strada alla stagione più feconda della
teologia occidentale.
Tra questi Lanfranco da Pavia e il suo discepolo Anselmo di Aosta.
Un problema che si è dimostrato centrale in questo dibattito (e che ha
costituito i prodromi della disciplina teologica) è quello dell'esistenza di
Dio.
Tale problema non è da intendere, naturalmente, nel suo senso razionalistico e
moderno, quello che, a partire dalla filosofia di Renato Cartesio (nel XVII
secolo), è divenuto centrale nella speculazione filosofica, fino a divenire
l'assurdo tormento dei pensatori, vale a dire la cosiddetta “prova
dell'esistenza di Dio”, concepita come se la ragione umana fosse, per così dire,
capace di affermarsi superiore a Dio stesso dimostrandone senza appello
l'obbligatoria esistenza; l'argomentare sull'esistenza di Dio, invece, per i
medievali significa dimostrare che, proprio grazie a Dio, dato per scontato come
presupposto evidente di ogni cosa, le linee guida del pensiero umano, e quindi i
criteri teoretici ed etici (del pensiero e dell'azione), collimano con le
dinamiche del creato in una sintonia facilmente rintracciabile ad ogni livello,
benché disturbata dalla limitatezza e dalla fatica della condizione dell'uomo
(condizione di peccatore).
Dimostrare l'esistenza di Dio, allora, significa per il medievale arrivare a vedere per via
intellettiva ciò che appare come la più grande evidenza estetica, o come la
prima e più ingenua persuasione dell'uomo.
Anselmo d'Aosta
Nato ad Aosta, priore del monastero benedettino del Bec e infine arcivescovo
di Canterbury, Anselmo, come si è detto, è uno dei principali rappresentanti
della via mediana tra dialettica e sacra pagina.
Il problema dell'esistenza di Dio gli si è presentato come un crocevia
irrinunciabile per poter affrontare una riflessione “dialettica” sulla
Rivelazione.
La verità come rectitudo
Sullo sfondo dei diversi percorsi dell'intelletto volti a rendere evidente in
linea dialettica l'esistenza di Dio dobbiamo costantemente tenere presente il
concetto anselmiano di verità: essa è, con un'espressione latina non
immediatamente traducibile, rectitudo, cioè rettitudine. La rettitudine
di cui Anselmo parla potremmo chiamarla, per capire, allineamento,
unidirezionalità; significa la scoperta che il linguaggio dell'intelletto è
potenzialmente in linea con le strutture della realtà, significa che la realtà è
intelligibile proprio perché l'intelletto, che ne fa parte, è modulato secondo i
medesimi criteri di essa e, pertanto, li sa e li può esprimere. La verità dunque
esprime la possibilità del linguaggio di essere corrispondente e coerente con
l'esperienza: ciò che l'intelletto formula coerentemente è la necessità della
natura.
Se il linguaggio dell'intelletto può esprimere l'esistenza di Dio, è perché Dio
esiste; allora Dio esiste, né potrebbe essere altrimenti.
Gli argomenti del Monologion (discorso con se stesso)
Si tratta di percorsi che traggono spunto da una ricognizione fenomenologica,
cioè che fanno appello alla constatazione di qualcosa per poter argomentare a
partire da essa nel quadro di diversi ordini di realtà: l'essere, la causalità,
le perfezioni.
Lo schema del ragionamento è analogo in tutti i casi:
- si constata che nel mondo si danno all'esperienza diversi gradi di essere,
che cioè ci sono cose che “sono” più di altre, il cui spessore di esistenza è
più consistente di quello di altre cose. Ma, se non esistesse un criterio
d'essere estraneo alla scala graduata dell'essere delle cose, cioè un criterio
d'essere assoluto, la gradualità non avrebbe neppure senso. Ora, il senso la
gradualità ce l'ha, dunque il criterio assoluto è un dato reale, benché non
immediatamente percepibile, in quanto non appartenente all'esperienza
compromessa entro i gradi. Dio è il criterio d'essere assoluto;
- si constata che nel mondo si danno all'esperienza diversi gradi di causalità,
che cioè ci sono cose che “causano” più di altre, il cui spessore di causalità è
più consistente di quello di altre cose. Ma, se non esistesse un criterio di
causalità estraneo alla scala graduata della causalità delle cose, cioè un
criterio di causalità assoluto, la gradualità non avrebbe neppure senso. Ora, il
senso la gradualità ce l'ha, dunque il criterio assoluto è un dato reale, benché
non immediatamente percepibile, in quanto non appartenente all'esperienza
compromessa entro i gradi. Dio è il criterio di causalità assoluto;
- si constata che nel mondo si danno all'esperienza diversi gradi di
perfezione, che cioè ci sono cose che sono più perfette di altre, il cui
spessore di perfezione è più consistente di quello di altre cose. Ma, se non
esistesse un criterio di perfezione estraneo alla scala graduata della
perfezione delle cose, cioè un criterio di perfezione assoluto, la gradualità
non avrebbe neppure senso. Ora, il senso la gradualità ce l'ha, dunque il
criterio assoluto è un dato reale, benché non immediatamente percepibile, in
quanto non appartenente all'esperienza compromessa entro i gradi. Dio è il
criterio di perfezione assoluto.
L' argomento “unico” del Proslogion (discorso rivolto ad altri)
Insoddisfatto dai precedenti percorsi a motivo del loro strutturale
riferimento all'indagine fenomenologica, Anselmo cerca un argomento che si
qualifichi “unico” per la sua esaustività e per il proprio riferirsi unicamente
alla facoltà dialettica, a prescindere da qualsiasi appoggio esterno.
Coerentemente con la sua posizione di teologo dialettico, si impegna a formulare
un percorso argomentativo che renda ragione dell'essere di Dio esclusivamente
facendo appello alle risorse del pensiero.
Per fare ciò intavola una conversazione fittizia con l'insipiente del Salmo
XIII, il quale diceva “in cuor suo”, cioè nel proprio intimo pensiero, «Dio
non esiste».
Dopo avere ringraziato Dio per avere impresso nel suo intimo la sua immagine da
sottoporre ad indagine, Anselmo esprime a Dio il suo desiderio di comprenderlo
nella verità, che già con il cuore e con la mente dice di amare. Anche Anselmo
crede per comprendere e afferma: «Se non crederò, non comprenderò».
Ecco allora l'argomento:
La fede, dice Anselmo, insegna a credere Dio come id quo maius cogitari
nequit (ciò di cui non si può pensare il maggiore). Ora, anche l'insipiente, pur professando la non
esistenza di Dio, quando sente con l'orecchio l'espressione “ciò di cui
non si può pensare il maggiore” ne capisce il significato: il significato dei
singoli termini usati in quell'espressione, infatti, gli è noto e, pertanto, gli
è noto anche il significato globale. Altro, tuttavia, è l'essere
nell'intelletto, a livello di comprensione, altro è il comprendere l'essere in
natura, a livello di esistenza. Ma “ciò di cui non si può pensare il maggiore”
non può comprendersi come esistente soltanto nell'intelletto, a livello di pura
comprensione, altrimenti sarebbe possibile pensarlo anche come esistente in
natura e, di conseguenza, lo si potrebbe pensare maggiore di sé, il che è
contraddittorio. Se infatti fosse possibile pensare qualcosa di maggiore di “ciò
di cui non si può pensare il maggiore” (in quanto esistente anche in natura), è
evidente che si penserebbe la contraddizione, perché “ciò di cui non si può
pensare il maggiore” non sarebbe in verità “ciò di cui non si può pensare il
maggiore”. Dunque, “ciò di cui non si può pensare il maggiore” esiste
necessariamente anche in natura.
Tale conclusione non significa, come dopo qualche secolo si è detto (da parte
di Emanuele Kant), che Anselmo pretenda un indebito passaggio dall'ordine logico
all'ordine ontologico, una passaggio che Anselmo, con le categorie filosofiche
disponibili al suo tempo non avrebbe nemmeno potuto immaginare; significa,
invece, nella prospettiva anselmiana della verità come “rettitudine”, che il
predicato dell'esistenza compete di necessità a ciò che viene espresso con la
formula “ciò di cui non si può pensare il maggiore”. Siccome, poi, vale che
l'esistenza di Dio è un'evidenza anteriore alla prova e che il linguaggio umano,
grazie all'immagine di Dio impressa nell'uomo all'atto della creazione, è
chiamato a corrispondere alla realtà in un perfetto allineamento, ecco
dimostrata la necessità di attribuire l'esistenza a Dio, anche da parte di chi
pretenda di negarla, visto il significato dei termini: Dio esiste in verità e
non è possibile pensare il contrario. L'insipiente poté affermare la non
esistenza di Dio per il solo motivo di essere insipiente, cioè incapace di
comprendere il significato delle parole.
La dialettica si ritrova al servizio della teologia per confermare la
persuasione della fede secondo l'adagio: «credo per comprendere, comprendo per
credere».
Il monaco Gaunilone, peraltro, si prese la briga di contestare ad Anselmo
l'inefficacia dell'argomento, obiettando:
- che “ciò di cui non si può pensare il maggiore” può benissimo essere
nell'intelletto alla stregua di una pittura finita nell'animo di un pittore che
si accinge a produrla;
- che in verità non è possibile possedere con la mente il significato pieno
dell'espressione “ciò di cui non si può pensare il maggiore”;
- che se valesse l'argomento allora dovrebbero esistere le isole beate,
cioè le isole presso le quali la vita è “la vita di cui non si può pensare vita migliore”.
Anselmo, in sostanza, risponde che l'argomento può valere solo ed esclusivamente
per la formula “ciò di cui non si può pensare il maggiore”, in quanto solo tale
formula esprime l'assoluto. Soltanto a “ciò di cui non si può pensare il
maggiore” si può applicare l'argomento perché esprime la perfezione assoluta e
insuperabile e non una perfezione relativa e parziale come quella delle isole felici.
La “Questione degli universali”
Introducendo allo studio delle Categorie di Aristotele, il filosofo
neoplatonico Porfirio aveva istruito il problema degli universali ponendo circa
il valore dei generi e delle specie (ad es.: “animale” e “cavallo”), i concetti
universali, appunto, la seguente concatenazione di domande, cui, peraltro, aveva
evitato di dare una risposta:
- se generi e specie siano realtà oppure concetti della mente;
- se, ammesso e non concesso che essi siano realtà, essi siano corporei o
incorporei;
- se, ammesso e non concesso che essi siano incorporei, essi siano sussistenti
di per sé oppure in relazione con le cose.
Nel secolo VI Severino Boezio, traducendo e commentando l'Introduzione
porfiriana, aveva trasmesso la questione degli universali all'Occidente latino
fornendo anche una risposta personale: gli universali sono realtà che sussistono
in prossimità delle cose materiali (circa, cioè intorno ai sensibili), ma
vengono compresi intellettualmente a prescindere dai corpi attraverso una
distinzione razionale che prende il nome di astrazione.
Più tardi, invece, le soluzioni del problema si erano codificate secondo tre
interpretazioni:
- realismo radicale o esagerato (di tipo platonico): generi e specie sono
realtà sussistenti in un mondo separato, come l'iperuranio, e consistono nelle
idee;
- realismo moderato (di ispirazione aristotelica): si tratta, in buona
sostanza, della posizione boeziana;
- nominalismo: l'unica consistenza reale dei termini universali è quella del
loro suono, cioè della parola pronunciata, oppure quella della loro sostanza
grafica (inchiostro, gesso, incisione).
Pietro Abelardo di Nantes
Figura di rilievo del secolo XII, rappresentante e protagonista della cultura scolastica, celebre per la sua acribia nell'atteggiamento critico e indipendente da qualsiasi autorità. Egli assume una posizione in parte innovativa, benché discutibile, all'interno della “Questione degli universali” e segna un progresso significativo in campo pratico, aprendo la stagione dell'etica dell'intenzione.
Abelardo, contestando come platoniche le posizioni sostenute via via dal
maestro Guglielmo di Champaux, sostanzialmente boeziane, sostiene la teoria
secondo la quale la consistenza dei termini universali si esprime nel loro
significato e viene denominata “stato”, che significa lo stato di
cose, la condizione in cui si trova attualmente ogni singola sostanza. Tale
“stato” non avrebbe un suo spessore d'essere, ma rappresenterebbe il significato
a partire dal quale ogni individuo viene compreso in situazione, data
l'impossibilità di conoscerlo nel dettaglio preciso.
Non si capisca, poi, come tale stato sia riconoscibile nell'atto conoscitivo, se
non in ragione di un previo universale già conosciuto che ne permetta
l'individuazione, ma Abelardo, su tale problema, non dà risposta.
In quanto maestro, Abelardo viene considerato l'iniziatore del metodo scolastico della quaestio disputata (= problema dibattuto) grazie al metodo applicato nella sua opera dal titolo Sic et non, che, allo scopo di discutere esaurientemente varie questioni di ordine filosofico-teologico, riporta ordinatamente a titolo di documentazione le opinioni favorevoli e le opinioni contrarie alla tesi da dimostrare per poi, attraverso il loro confronto, giungere a una soluzione magistrale del problema indagato e proporre risposte confutatorie nei confronti delle tesi avverse. Tale metodo, inaugurato, appunto, da Abelardo, sarebbe divenuto il metodo consueto per tutti i maestri delle scuole nei secoli a venire.
Sotto il profilo etico, infine, il pensiero di Pietro Abelardo risulta fortemente innovativo, per avere sottolineato l'importanza decisiva che, nel giudizio morale, deve essere attribuita all'intenzione, cioè alla componente soggettiva dell'atto libero, rispetto alla materia dell'atto in quanto tale, il versante oggettivo dell'azione, che, precedentemente costituiva il criterio quasi esclusivo di valutazione morale. Tale innovazione comporta, di conseguenza, la distinzione tra vizio e peccato, considerati rispettivamente come l'inclinazione a peccare, che non può ancora essere considerata un male, e come l'atto trasgressivo nei confronti della legge morale, il vero e proprio male morale.
La vicenda medievale del pensiero aristotelico
Nel 529 d. C. l'imperatore Giustiniano decretava la chiusura della scuola
filosofica di Atene, cioè dell'antica Accademia platonica, atto che comportò la
fuga dei maestri della scuola, i quali si rifugiarono presso Damasco, in Siria.
Il patrimonio culturale della scuola comprendeva il pensiero platonico,
neoplatonico e aristotelico; le opere di Aristotele, trasferite in Siria,
subirono una prima traduzione dal greco in siriaco, traduzione che
inevitabilmente comportò anche una certa contaminazione con elementi estranei al
pensiero aristotelico.
Successivamente, con la conquista araba conclusa a metà dell'VIII secolo,
l'opera di Aristotele, reinterpretata e tradotta in arabo, visse diversi periodi
di fulgore, soprattutto ad opera del medico e filosofo Avicenna (che operò in
Persia nel secolo X) e del filosofo e teologo Averroè (vissuto a Cordova, in
Spagna, nel sec. XII), il celebre commentatore dell'opera di Aristotele.
Attorno al secolo XII, poi, cresciuti i contatti tra il mondo latino e il mondo
arabo, alcuni maestri conoscitori della lingua dell'Islam si fecero interpreti
di nuove traduzioni, questa volta dall'arabo in latino dell'opera aristotelica,
ormai difficile da distinguersi all'interno di un più vasto corpus
scientifico d'avanguardia.
Giunto in Occidente, dove di Aristotele si conosceva soltanto l'organon,
cioè le opere di logica, trasmesso da Boezio, il sistema del filosofo di
Stagira (Aristotele) suscitò un enorme interesse, misto a una comprensibile
diffidenza che, ben presto, fu sostituita da un'entusiastica ammirazione. Esso
si proponeva, infatti, come un'interpretazione completa, consistente ed
esauriente del mondo intero, in tutte le sue dimensioni, che risultava
alternativa rispetto alla tradizionale interpretazione del mondo, basata sulla
dialettica e sulle conoscenze desumibili dall'interpretazione della Bibbia.
Il sistema aristotelico, che era già stato assorbito dall'Islam, un'altra
cultura che, come il Cristianesimo, aveva una visione di fede, costituiva ora
una sfida per il mondo Occidentale, nel senso che appariva urgente
confrontarsi con esso e con la sua avanzata scientificità, per tentare di
leggerlo in una chiave compatibile con la fede della Chiesa.
A questa opera si dedicarono molti maestri, secolari e religiosi, del mondo
universitario europeo, tra i quali spiccarono, per importanza i due domenicani
Alberto di Colonia (Alberto Magno) e il suo discepolo e confratello Tommaso d'Aquino.
Del primo ci si limiterà a dire che, una volta letta l'opera pressoché
integrale di Aristotele, ne fu talmente colpito da asserire senza remore che
la filosofia dello Stagirita poteva considerarsi tout court il sistema
della verità razionale.
Tommaso d'Aquino
L'ontologia della partecipazione
L'essere di Aristotele viene interpretato da Tommaso attraverso il teorema
della partecipazione. Tale teorema consente di distinguere l'essere di Dio, cioè
l'essere del creatore, dall'essere delle cose, cioè l'essere delle creature.
Dio viene infatti presentato da Tommaso come l'essere stesso, l'atto
sussistente dell'essere, cioè l'atto assoluto dell'essere, l'essere che
costituisce l'essenza stessa di Dio, nel quale, conseguentemente, sono identici
essenza ed esistenza. Dio non esiste (nel senso che non ha l'esistenza),
ma è l'esistere stesso, per essenza.
Tutto ciò che non è Dio, invece, esiste per partecipazione, cioè ha
l'esistenza in quanto ne è reso partecipe per creazione.
Tutto il creato vive dell'essere di Dio, senza identificarvisi; Dio elargisce
l'essere a tutto il creato senza impoverirsi.
Tutto ciò che non è Dio, quindi, distingue in sé l'essenza e l'esistenza, nel
senso che l'essenza rappresenta la misura specifica della partecipazione
all'atto d'essere stesso che è, invece, l'essenza di Dio. Un uomo, ad esempio,
partecipa all'essere con il suo atto di esistenza nella misura
dell'intelligenza, mentre una pianta partecipa al medesimo essere nella misura
della vegetatività.
Lo statuto epistemologico della Sacra doctrina
In pieno XIII secolo si compie il percorso di
progressiva definizione dello statuto scientifico della teologia. La “Dottrina
sacra” dei secoli precedenti, considerata comunemente come una forma di
sapienza, matura via via la propria consapevolezza epistemologica e giunge, con
Tommaso d'Aquino, a definire i criteri della propria scientificità in ossequio ai
canoni dettati dagli Analitici di Aristotele.
I requisiti fondamentali di una scienza, secondo le regole dettate dal filosofo
di Stagira, sono, tra l'altro, un'assiomatica consistente e un campo oggettuale
proprio, vale a dire principi primi evidenti da cui partire per argomentare in
modo apodittico e l'esistenza in natura dell'oggetto specifico di studio. I due
requisiti, per la teologia, vengono in chiaro attraverso le pagine della
Somma teologica e della Somma contro i Gentili di Tommaso d'Aquino.
Circa la prima questione, Tommaso elabora l'aristotelica dottrina della
subalternazione delle scienze, secondo la quale può dirsi scienza subalternata
quella disciplina che mutua i propri principi primi da una scienza
architettonicamente superiore, come nel caso dell'ottica che assume i suoi
postulati dalle conclusioni della geometria, la scienza che, rispetto ad essa,
si pone come subalternante. Analogamente, conclude Tommaso d'Aquino, la teologia
è scienza subalternata rispetto alla scienza di Dio (la scienza propria di Dio,
cioè la conoscenza che Dio ha di tutto) e dei beati che, al cospetto di Dio,
godono già della visione definitiva e trasparente delle cose.
Circa la seconda questione, invece, Tommaso risponde affermativamente al quesito
se Dio esista, in quanto campo oggettuale proprio della teologia, scoprendolo
mediante cinque percorsi argomentativi (cinque “vie”) nel principio necessario
che presiede a diversi ordini di realtà e a cui l'appellativo “Dio” viene
assegnato in veste di predicato nella comune considerazione delle cose.
Le cinque viae
Anche per Tommaso d'Aquino vale un'osservazione analoga a quella presentata
per Anselmo d'Aosta: le vie non sono prove dell'esistenza di Dio in senso
moderno, ma percorsi razionali che mostrano l'esistenza e la descrivibilità di
un campo oggettuale su cui fare scienza, quello di Dio, appunto, che viene detto
tale solo a titolo di conferma di un sapere antecedente ed irriflesso che
costituisce, comunque, il punto di partenza della speculazione teologica stessa.
Tra i cinque percorsi se ne possono individuare tre che si sviluppano in modo
similare, benché a partire da constatazioni diverse, di ispirazione
aristotelica, un quarto di ispirazione agostiniano-boeziana e un quinto, infine,
originale e nuovo.
Le cinque vie prendono spunto dalla considerazione delle circostanze e
argomentano il superamento dell'apparente contraddizione del divenire facendo
ricorso a un primo principio necessario.
1ª via, tratta dalla
considerazione del movimento.
Consta che nel mondo ci sono cose in movimento.
Vale assiomaticamente che tutto ciò che si muove è mosso da altro.
Questo “altro”, principio di movimento, a sua volta può essere in movimento e
dunque, per il principio citato sopra, è mosso da altro; e così via.
È però impossibile risalire all'infinito nella concatenazione tra motore
(principio di movimento) e mosso (ente in movimento), pena l'impossibilità di
riscontrare il movimento attuale da cui è partita l'argomentazione, in quanto
tale movimento dovrebbe considerare la sua origine retrocessa assurdamente
all'infinito e mai iniziata.
Dunque, è necessario ammettere che, all'origine del movimento, c'è un motore
primo immobile.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine “Dio”.
2ª via, tratta dalla
considerazione della causa efficiente.
Nella realtà effettuale constatiamo l'esistenza di un ordine di cause
efficienti, ma non è possibile che qualcosa sia causa di se stesso.
Inoltre non è possibile procedere all'infinito della concatenazione di cause
efficienti, pena l'impossibilità di riscontrare qualsiasi effetto attuale.
Dunque, è necessario ammettere che, nell'ordine delle cause, c'è una causa prima
incausata.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine
“Dio”.
3ª via, tratta dalla considerazione
del rapporto tra ciò che è possibile e ciò che è necessario.
Nella realtà constatiamo il darsi di cose che possono essere e non essere, dal
momento che possono generarsi e corrompersi, e quindi possono non essere.
È però impossibile che tutte le cose che sono, nessuna esclusa, siano di questo
genere, perché ciò che può non essere talvolta, appunto, non è. Quindi tutta la
realtà, potendo non essere, talvolta (almeno una volta) non sarebbe.
Se ciò fosse vero, allora nulla esisterebbe, perché dal non essere del tutto non
deriva nulla.
Non tutto ciò che esiste, dunque, è possibile, ma qualcosa deve essere
necessario.
Ciò che è necessario o ha causa in altro o non ha causa; ma è impossibile
risalire all'infinito nell'ordine delle cause, pena la contraddizione.
Dunque è necessario porre qualcosa che sia per sé necessario che non abbia la
causa della propria necessità in altro, ma che sia causa necessaria di
tutto il resto.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine
“Dio”.
4ª via, tratta dalla
considerazione della gradualità riscontrabile nelle cose.
Constatiamo che c'è qualcosa di più buono e qualcosa di meno buono nella
realtà, qualcosa di più o meno vero, di più o meno nobile, e via di seguito.
Il più e il meno, tuttavia, si possono riconoscere alle cose grazie al
paragone rispetto al grado massimo, in ciascun ordine di cose.
Pertanto, esiste qualcosa che è buonissimo, verissimo, nobilissimo e che è
causa di tutto ciò che fa riferimento a quel genere.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine
“Dio”.
5ª via, tratta dalla
considerazione del governo delle cose.
Possiamo trovare nella realtà alcune cose che, pur essendo prive di capacità
conoscitiva, per esempio i corpi naturali, che agiscono in vista di un fine,
sempre o, comunque, nella maggior parte dei casi, salvo si dia qualche
impedimento.
Da ciò è deducibile il fatto che tali cose, pur prive di capacità conoscitiva,
non agiscono a caso, ma ottengono il fine a partire da un'intenzione.
Ciò, tuttavia, che è privo di capacità conoscitiva, non tende ad un fine se non
perché vi è indirizzato da un'intelligenza, come nel caso della freccia scoccata
dall'arciere.
C'è, dunque, un'intelligenza dalla quale tutte le cose naturali sono ordinate ad
un fine.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine
“Dio”.
I predicati trascendentali
Nelle Quaestiones disputatae de veritate, poi, Tommaso
discute il teorema dei predicati trascendentali, cioè quei predicati
trans-categoriali che risultano, per tradizione aristotelica convertibili con il
predicato di ente.
Essi sono, oltre l'ente, l'uno, il vero, il buono, la cosa, il qualcosa.
Pur essendo convertibili con l'ente, tuttavia tali predicati esprimo particolari
prospettive di approccio all'ente:
- l'uno ne manifesta l'unitarietà e l'integralità indivisibile (ciò che è,
nella misura in cui è, è unitario);
- il vero ne rappresenta la relazione a un intelletto (ciò che è, nella
misura in cui è conosciuto, è vero);
- il buono esprime finalisticamente la realizzazione (ciò che è, nella
misura in cui è ciò che è, è realizzato quanto al suo orientamento nell'ordine
universale);
- la cosa significa la sostanzialità di ciò che è (ciò che è, nella misura
in cui è, è sostanzialmente consistente in se stesso);
- il qualcosa interpreta la distinzione e la determinatezza (ciò che è,
nella misura in cui è, è riconoscibile come tale in rapporto al resto).
Guglielmo di Ockham
La novità principale introdotta da Ockham nella logica consiste nel suo modo di intendere la dottrina della supposizione, che esprime la capacità che i termini universali hanno, all'interno di una proposizione, di stare al posto delle cose, di significare delle realtà diverse dai termini stessi. La supposizione è, cioè, la proprietà dei termini, quando entrano a costituire una proposizione in veste di soggetto o di predicato, di stare al posto di, di “supporre” per qualcosa.
La supposizione di un termine universale può essere:
- personale, quando il termine, ad es. uomo, tiene il posto di un
soggetto umano concreto, ad es. Antonio, il quale corre: «quell'uomo (Antonio,
appunto) corre»;
- materiale, quando il termine, ad es. uomo, tiene il posto del
segno orale o scritto o inciso nella sua materialità di voce, di
gesso/inchiostro, di fenditura nella pietra: «uomo è un bisillabo, una parola di
quattro lettere»;
- semplice, quando il termine, ad es. uomo, tiene il posto di un
concetto universale: «l'uomo è una specie del genere animale».
La dottrina della supposizione è strettamente collegata alla nuova concezione
sostenuta da Ockham sulla verità, la quale non viene più concepita come una
relazione tra intelletto e realtà, ma come una pura relazione di termini: una
proposizione scientifica è vera se i termini in essa impiegati suppongono per la
medesima realtà.
Conseguentemente, anche dal punto di vista epistemologico (cioè dal punto di
vista della teoria della scienza) e Ockham rappresenta un cambiamento
significativo.
La scienza è vera scienza, cioè discorso rispondente ai criteri della
scientificità, quando risulta costituita da enunciati espressi sotto forma di
proposizioni, perciò in tanto viene assicurata la loro presa sul reale, in
quanto i termini delle proposizioni vengono usati secondo la supposizione
personale. Le scienze reali sono pertanto quelle risultanti da termini che
suppongono per delle realtà extramentali, scienze razionali sono invece quelle i
cui termini suppongono per dei concetti, sia secondo la supposizione personale,
sia secondo la supposizione semplice.
La conoscenza, infatti, è sempre intuizione del singolare, perché non esistono
nature universali, ma soltanto realtà individue; la conoscenza è presa diretta
sulla realtà delle cose singole. Tutto ciò che si tratta in modo universale,
invece, appartiene alla realtà mentale, essendo puro concetto. Il criterio che
garantisce il discorso scientifico è quello per cui nell'indagine, non si
presuppone nulla più di ciò che appaia necessario per la spiegazione dei
fenomeni, il che significa l'abolizione di tutte le nature comuni o universali,
mediatrici della conoscenza secondo la teoria della conoscenza tradizionale, che
nel sistema ockhamiano non trovano più spazio (“rasoio” di Ockham).
È ovvio come, all'interno della scienza di Ockham, il discorso
metafisico-teologico perda in molti campi quella apoditticità (dimostratività)
che gli era attribuita dai maestri del XIII secolo; le prove dell'esistenza di
Dio, ad esempio, che costituiscono parte integrante della teologia, non
garantiscono per Ockham una conoscenza necessaria, ma soltanto altamente
probabile, essendo fondate non sull'intuizione diretta di Dio, impossibile
all'uomo, ma su ragioni rivelate e quindi su conoscenze indirette.
Ciò tuttavia nulla toglie alla scientificità della metafisica di cui Ockham può
considerarsi a ragion veduta un rigorizzatore, stante anche al'interno del suo
sistema l'indiscutibilità della trascendenza.
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