[ Storia ]

 

 

 

GUERRE DI RELIGIONE E NUOVI ASSETTI GEOPOLITICI

 

 

Nel periodo compreso tra gli anni '70 del XVI secolo e il 1648, l'Europa fu insanguinata da una serie ininterrotta di guerre di religione, che coinvolsero la maggior parte degli Stati.
Alla lotta religiosa tra cattolici e protestanti si intrecciò il mai sopito conflitto per il predominio sul continente tra gli Asburgo (che regnavano sulla Spagna e sull'Impero) e la Francia. Attorno alle due principali potenze gli schieramenti si definirono anche in base agli orientamenti religiosi: i paesi cattolici a sostegno degli Asburgo, quelli protestanti con la Francia.
La drammatica stagione delle guerre di religione si concluse solo nel 1648 con la pace di Vestfalia: grazie a essa, gli Stati europei riuscirono a trovare una situazione di equilibrio religioso destinata a restare immutata, nelle grandi linee, fino ai giorni nostri.
Con essa tramontò definitivamente il sogno degli Asburgo di unificare l'Europa sotto il vessillo della religione cattolica. Mentre l'Impero si frammentava, la Francia si imponeva come la principale potenza europea.

 

Le guerre di religione in Francia

Dopo la morte di Francesco II (1559-60), un ragazzo di quindici anni che la ragion di Stato aveva fatto sposare, un anno prima, con Maria Stuart, futura regina di Scozia, fu incoronato re di Francia Carlo IX (1560-74), un bambino di dieci anni.
La reggenza passò quindi nelle mani della madre Caterina dei Medici, discendente dalla grande famiglia fiorentina per parte di padre e dalla più alta nobiltà francese per parte materna.

Verso la guerra civile tra cattolici e ugonotti

La situazione che la reggente si trovò ad affrontare era molto difficile: ai problemi economici e finanziari, determinati da circa mezzo secolo di guerre, si aggiungeva il dissidio religioso. Malgrado i provvedimenti repressivi adottati da Enrico II appena salito al trono, gli ugonotti – così venivano chiamati i calvinisti francesi – avevano continuato a fare proseliti e, intorno al 1560 circa, oltre un milione di francesi era diventato calvinista.
Le spaccature religiose avevano inoltre un loro riflesso presso la nobiltà di corte: alla fazione cattolica, guidata dalla famiglia dei Guisa, si contrapponeva una fazione protestante, che faceva capo ai Coligny.
L'influenza di queste potenti famiglie cresceva anche in conseguenza della ripetuta ascesa al trono di sovrani giovanissimi e a causa del temperamento insicuro di Caterina. La reggente, che cercava di non cadere nelle mani di nessuna delle due fazioni – ma temeva in particolare i Guisa, che avrebbero voluto portare la Francia nell'orbita della cattolica Spagna – decise di avviare una politica di pacificazione religiosa, garantendo una relativa libertà di culto ai calvinisti.
Il suo progetto falli rapidamente di fronte all'inasprimento dell'odio politico e religioso.
Gli ugonotti infatti – appoggiati dall'Inghilterra e dai protestanti dei Paesi Bassi, come i cattolici erano appoggiati dalla Spagna – erano molto inferiori di numero, ma meglio organizzati. Nei territori e nelle città da loro controllate assumevano tutte le funzioni di governo, senza lasciare spazio agli avversari; laddove erano in minoranza cercavano comunque di piazzare loro uomini nell'amministrazione, creando una rete di funzionari ugonotti tra loro collegati.

Ugonotti e cattolici sul territorio francese

Nel 1562 i Guisa, sventato un tentativo di colpo di Stato da parte degli ugonotti, presero le armi e ne uccisero un gran numero.
La congiura fallita e questo episodio, noto come il massacro di Vassy, diedero inizio a una lunga serie di guerre civili che portò la Francia sull'orlo del baratro.
Invano la reggente cercò di porsi come mediatrice tra i contendenti.
Il 24 agosto del 1572, la notte di San Bartolomeo, il popolo di Parigi, accanitamente antiprotestante, sobillato dalle autorità e dal duca di Angiò – il futuro Enrico III –, scatenò una feroce caccia all'uomo, casa per casa: migliaia di ugonotti convenuti per una cerimonia, tra cui molti nobili, furono trucidati.
Lo stesso capo della parte ugonotta, ammiraglio di Coligny, fu ucciso a tradimento.

I riflessi delle tensioni sulla monarchia francese

La morte di Carlo IX e l'ascesa al trono di suo fratello Enrico III (1574-89) non mutarono la situazione, anzi la aggravarono.
La fazione protestante si riorganizzò sotto la guida di Enrico di Borbone, ottenendo alcuni importanti successi militari; quella cattolica, sotto la direzione di Enrico di Guisa, si costituì in una Lega santa.
Le vicende internazionali, intanto, incidevano sempre più sulla situazione interna francese: i Guisa strinsero rapporti strettissimi con la monarchia spagnola, che prevedevano addirittura l'eventualità di un intervento militare spagnolo in territorio francese.
Nel 1588, il disastro della Invincibile Armata nelle acque della Manica indusse Enrico III a fare assassinare Enrico di Guisa e ad allearsi con Enrico di Borbone. Il pugnale di un frate domenicano, allora, vendicò questo affronto recato alla causa cattolica e ferì a morte il re, ma, prima di morire, Enrico III designò come successore Enrico di Borbone, con la condizione che egli si convertisse al cattolicesimo.
Il Borbone salì al trono col nome di Enrico IV (1589-1610).
A questo punto Filippo II, allarmato per il fatto che la corona di Francia sembrava caduta nelle mani dei protestanti, decise l'intervento militare, mentre il pontefice Sisto V (1585-90) dichiarava nulla la successione al trono francese.
Un esercito spagnolo comandato da Alessandro Farnese mosse dai Paesi Bassi unendosi alle forze cattoliche della Lega santa e pose guarnigioni in molte città francesi, tra le quali Parigi. La reazione popolare all'invasione straniera, il timore che la corona di Francia cadesse nelle mani degli spagnoli e l'abilità di Enrico IV riuscirono tuttavia a incrinare la compattezza dello schieramento cattolico e a ristabilire la situazione.
La svolta avvenne quando, nel 1593, il re pronunciò solennemente, nella cattedrale di Saint-Denis, l'abiura del calvinismo e si proclamò cattolico.
Le ultime resistenze caddero e lo stesso papa Clemente VIII (1592-1605) finì per assolvere il re di Francia riconoscendo i suoi diritti al trono.

Una soluzione di compromesso con l'editto di Nantes

Nel 1598 Francia e Spagna firmarono la pace di Vervins, con la quale le truppe spagnole si ritirarono dal paese.
La pacificazione interna fu finalmente raggiunta lo stesso anno, con l'editto di Nantes: gli ugonotti si videro riconosciuti gli stessi diritti politici dei cattolici e piena libertà di praticare il loro culto dove era stato celebrato fino a quel momento; essi ottennero anche l'accesso alle cariche pubbliche e la partecipazione agli organi preposti all'applicazione dell'editto e, come ulteriore garanzia, la concessione di 100 piazzeforti nel paese.
Il culto protestante fu invece vietato a Parigi e nel territorio circostante.
Era una soluzione di compromesso, che accontentava moderatamente le due fazioni e consentiva di superare la drammatica fase delle guerre di religione.
La monarchia, che aveva attraversato uno dei periodi più bui della sua storia, uscì rafforzata, trovando un rinnovato consenso.

La politica di Enrico IV

Chiusa con l'editto di Nantes la sanguinosa serie delle guerre di religione, Enrico IV si dedicò alla riorganizzazione della macchina statale e al perfezionamento dell'opera di pacificazione.
Il suo ministro per gli affari economici, duca di Sully, portò in pareggio il bilancio dello Stato attraverso il taglio delle spese superflue, il recupero delle terre demaniali e l'intensificazione della vendita delle cariche pubbliche, un affare reso più lucroso dall'istituzione della paulette, una speciale tassa annuale che rendeva di fatto ereditari gli uffici acquistati.
Le cariche comportavano l'acquisizione della nobiltà, la nobiltà di toga distinta dall'antica nobiltà di spada.
Un altro ministro di Enrico IV, Barthélemy Laffemas, promosse l'istituzione di manifatture regie e introdusse misure protezionistiche per impedire che la Francia si privasse di materie prime e di metalli preziosi per importare manufatti.
Nel settore della politica estera il re indirizzò i suoi sforzi a isolare la potenza asburgica, sollecitando l'alleanza delle Province Unite e dei regni dell'Europa settentrionale.

 

Le tensioni religiose nell'Impero asburgico

 

[ Introduzione audio ]

La Germania era da sempre una realtà politica estremamente frazionata: circa mille unità politicamente semiautonome, le più piccole delle dimensioni di un villaggio, le maggiori estese quanto uno Stato di media grandezza.

La Germania dopo la pace di Augusta

La pace di Augusta (1555) aveva aggiunto a questa frammentazione politica una frammentazione religiosa; infatti, il riconoscimento del diritto dei principi tedeschi d'imporre il proprio credo nei rispettivi Stati non attenuò le gravi tensioni che laceravano il paese; la pace di Augusta, inoltre, era stata sostanzialmente un accordo tra cattolici e luterani, dal quale erano stati esclusi i calvinisti e le altre minoranze religiose.
Sebbene i due imperatori Ferdinando I (1556-64) e Massimiliano II (1564-76) si astenessero dal promuovere controffensive cattoliche, di fatto i principi cattolici, con in testa il potente duca di Baviera, sostennero campagne di "riconquista" delle regioni luterane o dove esistevano significative infiltrazioni protestanti.
In campo protestante si rafforzò il calvinismo, che divenne la religione ufficiale del Palatinato. Questa situazione certamente non favori la vita economica, che si trovò imbrigliata in una dimensione regionale.

L'annessione di Boemia e Ungheria

Inoltre, dopo la grave sconfitta inflitta a Luigi II Jagellone, re di Boemia e di Ungeria, dai turchi a Mohàcs nel 1526, e la morte dello stesso Luigi in battaglia, i domini boemi e ungheresi erano passati sotto l'autorità degli Asburgo. La Boemia era stata incorporata nell'Impero, mentre in Ungheria solo poche aree ristrette rimasero immuni dall'occupazione turca.
Dal punto di vista confessionale, la Boemia rimase fedele alla grande tradizione hussita; anche il luteranesimo fu accolto favorevolmente, mentre i cattolici restavano un'esigua minoranza. Nell'Ungheria turca, poi, attecchirono in evidente chiave antiasburgica sia il luteranesimo sia il calvinismo.

L'aggravamento del dissidio religioso

Con l'imperatore Rodolfo II (1576-1612) si riaccese il conflitto religioso.
Nel 1608 il principe del Palatinato promosse un'associazione protestante, l'Unione evangelica, appoggiata dalla Francia di Enrico IV, alla quale aderirono anche le forze anticattoliche boeme; come risposta, il duca di Baviera costituì l'anno dopo la Lega cattolica, sostenuta dalla Spagna.
Rodolfo II adottò una politica di conciliazione e concesse anche ai boemi, con la Lettera di maestà, libertà di culto, al fine di spezzare il fronte dell'Unione evangelica.
La situazione precipitò con l'avvento al potere dell'imperatore Mattia (1612-19) e l'assunzione, nel 1617, della corona di Boemia e di Ungheria da parte di Ferdinando di Stiria, suo cugino e successore designato (1619-37). Ferdinando, che era stato educato dai gesuiti ai più rigorosi ideali della Controriforma, credeva profondamente, come tanti altri sovrani asburgici prima e dopo di lui, nella stretta integrazione tra Impero e cattolicesimo. Egli abolì pertanto la Lettera di maestà e avviò una pesante restaurazione del cattolicesimo in tutta la Boemia, immettendo al tempo stesso individui di origine tedesca nei posti di maggiore responsabilità.

 

Scoppia la guerra dei Trent'anni

Le origini del conflitto

La protesta contro l'ondata di «tedeschizzazione» e di cattolicizzazione, lanciata da Ferdinando di Stiria e appoggiata dall'imperatore, fu vastissima e assunse forme violente: il 23 maggio del 1618 la folla tumultuante invase il palazzo reale di Praga e gettò dalla finestra due rappresentanti imperiali.
Alla cosiddetta defenestrazione di Praga seguirono avvenimenti ancora più gravi: la nobiltà boema dichiarò decaduto dal trono di Boemia Ferdinando – che nel frattempo era succeduto a Mattia nella carica imperiale, come Ferdinando II – e proclamò re il calvinista Federico V, giovane elettore del Palatinato e capo dell'Unione evangelica; Federico era sostenuto – ma in verità più a parole che con i fatti – da una vasta rete di relazioni: dal re d'Inghilterra Giacomo I (di cui era genero), dal re di Danimarca Cristiano IV (di cui era parente), dalle Province Unite, da Venezia.
A favore dell'imperatore si schierò naturalmente la Lega cattolica, guidata dal duca Massimiliano di Baviera e sostenuta concretamente dalla Spagna.
La Francia si mantenne, per il momento, neutrale.

La questione boema divenne così la posta di un gioco ben più importante – il predominio cattolico o protestante nell'Impero – rispetto al quale nessuna potenza europea poteva dirsi del tutto indifferente.

Fu così che un contrasto locale divenne l'avvio di una nuova guerra, destinata a insanguinare l'Europa per trent'anni, dal 1618 al 1648.

La natura del conflitto

Durante la guerra dei Trent'anni cattolici e protestanti si affrontarono in un conflitto violento che si combatté in tutta la Germania, ma si allargò presto a gran parte dell'Europa: teatro di battaglia fu in prima battuta la Boemia, dove il conflitto scoppiò – come si leggerà nelle righe seguenti –, ma in seguito si combatté anche nei Paesi Bassi, nell'Italia settentrionale, in Francia.
Questa guerra, che coinvolse molti Stati europei, fu l'ultima guerra di religione, ma a determinarla concorse un intreccio di questioni politiche e questioni religiose.
In primo luogo pesarono le ambizioni egemoniche degli Asburgo che si scontreranno duramente con quelle francesi. Infatti, la pur cattolica Francia, interverrà nella guerra in funzione antiasburgica (e dunque anche antispagnola), senza disdegnare di allearsi con i protestanti.

La guerra in Boemia

In nome dell'antica solidarietà asburgica e della comune confessione cattolica, nel 1620 Ferdinando II fu soccorso da un poderoso esercito spagnolo: soldati iberici, uniti alle truppe bavaresi, sotto la guida di Massimiliano di Baviera e del generale fiammingo Tilly, sconfissero i rivoltosi boemi nella battaglia della Montagna Bianca (nei pressi di Praga). Il fronte dei ribelli si disgregò rapidamente: Federico V non si curò nemmeno di organizzare la difesa della capitale e si diede alla fuga, abbandonando i suoi sostenitori a un triste destino.
Dopo la battaglia della Montagna Bianca si scatenò, in Boemia, un'azione capillare di sradicamento delle «eresie»: in pochi anni tutti i pastori protestanti furono espulsi. I nobili maggiormente coinvolti nella rivolta furono giustiziati, gli altri furono colpiti da ammende e confische. Per non sottomettersi al cattolicesimo, molti boemi abbandonarono il loro paese. Secondo una fonte dell'epoca, già nel 1627 erano emigrate circa 36 mila famiglie.
Le terre confiscate all'aristocrazia protestante furono assegnate agli stranieri – soprattutto tedeschi, spagnoli, italiani – che erano giunti in Boemia come ufficiali e generali al seguito degli Asburgo.
I nuovi proprietari applicarono ai loro contadini condizioni e rapporti di lavoro molto duri, che segnarono un ritorno indietro nel tempo; ne nacquero miseria e rivolte.

I principali scontri

Le manovre spagnole

Nel quadro delle operazioni militari di sostegno a Ferdinando II contro i ribelli boemi, gli spagnoli occuparono la Valtellina, nel cantone svizzero dei Grigioni, dopo aver sobillato i cattolici della regione al massacro dei protestanti (Sacro macello, 1620). La regione aveva una rilevanza strategica fondamentale perché rappresentava il corridoio di collegamento tra la Lombardia spagnola e l'Austria, cuore dei domini asburgici, e avrebbe consentito alla Spagna, che allo scadere della tregua dei dodici anni aveva riaperto le ostilità contro le Province Unite, di stringere gli olandesi in una morsa, attaccandoli da est (Impero) e da sud (Fiandre cattoliche).

L'intervento della Danimarca

Il successo di Ferdinando II, combinato con l'aggressività della politica estera spagnola, spinse all'azione, nel 1625, il sovrano di Danimarca Cristiano IV (1588-1648), il quale temeva che il suo regno venisse assorbito da un Impero troppo forte.
La sua impresa fu ben finanziata da inglesi, francesi e olandesi, ma fallì rapidamente: più volte sconfitto, Cristiano IV fu costretto a firmare, nel 1629, la pace di Lubecca, che lo impegnava a tenere la Danimarca al di fuori delle vicende tedesche.
La guerra di Boemia – con la sua propaggine danese – poteva dirsi risolta con un limpido successo di Ferdinando II.

 

Progetti politici e potenza militare di Ferdinando II

Il disegno politico dell'imperatore. L'editto di restituzione

Nel 1629 l'imperatore Ferdinando II compi un passo molto grave.
Con il cosiddetto editto di restituzione stabilì infatti che tutti i beni confiscati alla Chiesa cattolica dopo l'anno 1552 dovessero essere restituiti.
La decisione ledeva gli interessi di molti principi tedeschi che si vedevano improvvisamente privati di parti a volte molto consistenti dei loro patrimoni.
L'imperatore aveva in animo di trasformare l'Impero in una compagine unitaria, forte e accentrata. Né nascondeva, inoltre, la sua intenzione di introdurre una trasformazione rivoluzionaria nell'ordinamento dell'Impero, rendendo ereditaria – a favore della dinastia asburgica – la corona imperiale, che ormai da tempo immemorabile veniva attribuita elettivamente.

Il ruolo di Wallenstein

Non mancava infine a Ferdinando II, a incutere altro timore, un esercito agguerrito: si trattava soprattutto delle truppe di Albrecht von Wallenstein (1583-1634), un nobile boemo uscito vincitore dalla guerra danese.
Wallenstein aveva creato le basi di un enorme patrimonio acquistando a prezzi bassissimi le terre confiscate ai ribelli boemi. Speculazioni, prestiti, investimenti lo avevano poi reso uno degli uomini più ricchi del tempo.
Ambizioso, cinico, crudele egli puntava molto in alto: in cambio dei suoi preziosi servizi l'imperatore lo nominò principe dell'Impero e gli attribuì le cariche più prestigiose; ma non erano soltanto dei maligni quelli che affermavano che egli aspirava a diventare un vero e proprio sovrano, magari soppiantando lo stesso Ferdinando.
Wallenstein fece della guerra un'inesauribile fonte di denaro. Ai suoi ordini era un esercito gigantesco, che nei momenti di maggiore impiego superò i 100 mila uomini. Le prestazioni di questa poderosa macchina militare venivano vendute a caro prezzo all'imperatore; in mancanza di liquidità, quest'ultimo trovava nello stesso Wallenstein una preziosa fonte di finanziamento, alla quale, naturalmente, bisognava poi pagare i dovuti interessi.
Con Wallenstein la guerra divenne una vera e propria impresa economica in grande stile: tutto quanto ruotava intorno all'esercito e alle sue necessità – dai rifornimenti alla produzione di armi – era occasione di lucro.
I soldati di Wallenstein venivano solitamente mantenuti a spese del territorio che attraversavano, mediante contribuzioni imposte, alle quali si aggiungevano rapine, saccheggi, requisizioni: questo metodo, messo sistematicamente in atto per anni e anni, fece di loro un vero e proprio flagello per le popolazioni tedesche.
Dopo la morte di Wallenstein, sopraggiunta nel 1634, Ferdinando II proseguì il conflitto con gli eserciti spagnoli.

 

L'intervento della Svezia

La reazione alle mire espansionistiche di Ferdinando II

La politica di potenza di Ferdinando II allarmò anche il re di Svezia Gustavo Adolfo (1611-32), che decise di far ricorso alle armi: la Svezia era uno Stato protestante che doveva essere difeso, prima che fosse troppo tardi, dalle insidie dell'imperatore asburgico e dalle sue mire di restaurazione cattolica. La Svezia era anche una grande potenza nordica, per la cui sopravvivenza il controllo del Mar Baltico – una delle zone chiave dell'economia europea – era vitale.
Attraverso il Baltico l'Europa occidentale si approvvigionava, infatti, di grano e materie prime come il rame, il ferro, il catrame, la canapa, ed esportava nel Nord Europa i suoi manufatti. L'imperatore asburgico non nascondeva le sue intenzioni di estendere la sua diretta influenza anche sulle rive di quel mare e di costruire una potente flotta da guerra baltica.
La decisione del re di Svezia fu quindi motivata da esigenze strategiche. Il re si assicurò così la disponibilità della Francia e degli elettori protestanti di Sassonia e di Brandeburgo, indignati per le efferatezze – un vero e proprio sterminio – compiute dai cattolici nella città di Magdeburgo. Quindi portò i suoi soldati in Germania e nel 1631 sconfisse a Breitenfeld (nei pressi di Lipsia) le truppe della Lega cattolica comandate da Tilly.
L'avanzata svedese in territorio tedesco fu inarrestabile e di successo in successo si spinse fino alla Baviera e all'Alsazia.

L'esercito di Gustavo Adolfo

La travolgente apparizione dei soldati svedesi nel teatro di guerra germanico ebbe l'effetto di uno shock: non si era mai vista una macchina militare tanto moderna e micidiale.
Gustavo Adolfo aveva infatti introdotto alcune innovazioni belliche destinate a fare scuola in tutta Europa. Anzitutto l'artiglieria: grazie ai progressi nelle tecniche di fusione, che consentivano leghe più leggere e resistenti, egli sostituì i vecchi cannoni, pesantissimi e praticamente inamovibili nel corso del combattimento, con cannoni molto più maneggevoli, che non era difficile spostare e orientare a seconda delle mutevoli necessità dello scontro.
La seconda innovazione riguardava la cavalleria, che venne addestrata per effettuare cariche in massa a sciabola puntata e a ranghi serrati, con un micidiale effetto d'urto.
La terza innovazione riguardava l'importanza attribuita ai fucilieri, dotati di un moschetto leggero e addestrati al tiro di precisione e a ricaricare le armi rapidamente.
L'ultima e decisiva innovazione riguardò la cooperazione di queste tre armi sul campo di battaglia. La grande efficienza di questo esercito aveva una spiegazione più profonda: l'esercito svedese era costituito da truppe regolari a lunga ferma; mentre gli altri eserciti europei erano spesso composti in gran parte da individui ridotti alla miseria e raccolti in modo casuale tra gli sbandati e gli emarginati, quello svedese era composto da elementi regolarmente pagati e mantenuti dallo Stato, che restavano sotto le armi per venti anni.

La vittoria asburgica

Nella battaglia di Lützen del 1632 gli svedesi riportarono un'altra vittoria sull'esercito tedesco guidato da Wallenstein, ma durante una carica di cavalleria Gustavo Adolfo perse la vita.
Sul trono svedese saliva una bambina, la regina Cristina (1632-54).
In questa occasione Ferdinando II fu salvato dalla fortuna: la morte del suo rivale gli regalò tempo prezioso per riprendere fiato e riorganizzare la lotta contro gli svedesi. L'imperatore fece uccidere a tradimento il potente e temuto Wallenstein, che secondo l'opinione dei più mirava a soppiantarlo, e affidò le sue sorti agli eserciti spagnoli. Ancora una volta la solidarietà asburgica tra Spagna e Impero fu la carta vincente: nel 1634 le truppe svedesi furono duramente sconfitte da quelle spagnole a Nördlingen (in Franconia). L'imperatore era salvo.
L'anno dopo la pace di Praga sancì la fine delle ostilità all'interno dell'Impero: gli elettori protestanti si riconciliarono con l'imperatore ottenendo in cambio che l'applicazione dell'editto di restituzione fosse rinviata di quarant'anni. Restava però aperta la guerra con la Svezia.

 

L'intervento della Francia

Il disegno politico della Francia

L'imperatore era uscito indenne dalla lotta contro la Svezia e il suo prestigio si manteneva sempre altissimo.
Per le altre potenze europee restava quindi intatta la minaccia dell'ambizioso progetto di Ferdinando II: la trasformazione dell'Impero in una compagine unitaria, forte e accentrata.
Per scongiurare questa eventualità, il re di Francia Luigi XIII e il suo primo ministro, cardinale di Richelieu, decisero di intervenire direttamente in guerra.
In questa fase della guerra dei Trent'anni, dunque, le ragioni dell'egemonia in Europa prevalsero decisamente su quelle della lotta religiosa: così Richelieu, cardinale e ministro di un re cattolico, usciva apertamente in campo come il maggior rivale dell'imperatore e del re di Spagna, paladini della Controriforma; in seguito egli non avrebbe esitato, come già in passato, ad allearsi con le forze protestanti di Germania.

Le operazioni militari della Francia si diressero principalmente contro la Spagna, che finì per trovarsi impegnata su ben tre fronti: in Germania, a sostegno delle truppe imperiali; nei Paesi Bassi, dove era sempre aperta la guerra contro le Province Unite; contro la Francia.

La Spagna sull'orlo del collasso

La Spagna non era in grado di reggere questo sforzo immane: le condizioni economiche del paese, già da tempo gravemente deteriorate, si erano ulteriormente aggravate a causa di un fiscalismo oneroso e inflessibile, che richiedeva alle popolazioni immiserite sforzi eccessivi per mantenere al fronte eserciti che erano solo il pallido ricordo di quelli che solo alcuni decenni prima avevano trionfato in tutta Europa.
La crisi economica inasprì le tensioni politiche e attivò le forze centrifughe: nel 1640 la Catalogna e il Portogallo proclamarono l'indipendenza dalla monarchia spagnola, che si trovò così a dover fronteggiare anche una gravissima rivolta interna, abilmente sostenuta da Richelieu.
Quest'ultimo morì nel 1642, ma la sua politica estera fu proseguita dal successore, il cardinale Mazzarino.
Nel 1643 la fanteria spagnola subì una pesante sconfitta a Rocroi, nelle Ardenne, da parte delle truppe francesi guidate dal principe di Condé. A Rocroi i formidabili fanti spagnoli, la cui fama di imbattibilità durava da decenni, crollarono di fronte a un esercito agguerrito e ben addestrato. La tecnologia e la tattica militare si evolvevano rapidamente e le innovazioni passavano con rapidità da un esercito all'altro: agenti, informatori, studiosi di cose militari operavano tutti in questo senso. In un mondo in cui l'arte militare diventava sempre più una faccenda da grandi professionisti, la Francia aveva fatto passi da gigante.
A Rocroi l'Europa prese anche atto del declino inarrestabile del Regno di Spagna, un colosso ormai logoro e spento, prossimo a uscire di scena.

La pace tra spagnoli e olandesi e la fine del conflitto

I successi francesi furono tanto travolgenti da allarmare persino le Province Unite, tradizionali nemiche della Spagna: apparve preferibile, agli olandesi, l'esistenza di uno Stato-cuscinetto rappresentato dai Paesi Bassi spagnoli – posto tra loro e la potentissima Francia, piuttosto che l'immediata vicinanza con quest'ultima. D'altro canto gli stessi, spagnoli si erano ormai convinti che non sarebbero mai riusciti a domare la rivolta olandese.
La pace separata tra spagnoli e olandesi – che la Francia cercò in tutti i modi, ma inutilmente, di scongiurare – fu firmata a Münster nel gennaio 1648: con essa la Spagna riconobbe ufficialmente l'indipendenza delle Province Unite.
Le vicende della guerra si evolvevano negativamente anche per l'imperatore: i francesi erano penetrati in Baviera e puntavano su Vienna, gli svedesi si erano impadroniti della Boemia e assediavano Praga. Nel 1648 il successore di Ferdinando II, Ferdinando III (1637-57), decise opportunamente di porre fine al conflitto e firmò la pace di Vestfalia, per la quale erano in corso trattative sin dal 1644.
Tra Spagna e Francia, invece, la guerra continuò.

 

La pace di Vestfalia

La pace di Vestfalia, che pose fine alla guerra dei Trent'anni, comprendeva un complesso di trattati che furono sottoscritti nell'ottobre 1648 nelle due città di Münster e Osnabrück, in Vestfalia.

La fine delle guerre di religione

La pace segnò il definitivo crollo del progetto politico e religioso asburgico e la fine delle guerre di religione.
Sotto il profilo religioso l'imperatore dovette rinunciare al sogno di una Germania tutta cattolica: la pace di Vestfalia riconobbe, anzi, apertamente, accanto alle confessioni cattolica e luterana (già riconosciute dalla pace di Augusta del 1555), l'esistenza di una terza confessione, la calvinista.
Queste decisioni consentivano la convivenza delle confessioni, ma non significavano che la libertà religiosa fosse riconosciuta pubblicamente. La religione pubblica dei singoli Stati rimaneva infatti quella stabilita dal principe entro il 1624 (ma per il Palatinato si fissò il 1618), mentre ai sudditi di altra confessione era concesso di praticare privatamente i propri culti. Si trattava certamente di uno svuotamento del principio del cuius regio eius religio anche se il nuovo regime non si applicò nei territori ereditari degli Asburgo.
L'imperatore rinunciò infine a rivendicare le proprietà confiscate dai protestanti ai cattolici dopo il 1552 (anno fissato dall'editto di restituzione) e accettò lo spostamento di tale limite al 1624.

Dissoluzione del potere imperiale in Germania

Sotto il profilo politico, la Germania si ritrovò ancora smembrata in una miriade di piccoli stati, a ognuno dei quali fu concessa un'autonomia quasi assoluta; i principi tedeschi potevano addirittura svolgere una politica estera indipendente.
Più che una realtà politica, l'Impero era ormai una finzione.
Gli Asburgo si trovarono di fatto in condizione di poter esercitare la propria autorità esclusivamente sui domini ereditari di Austria, Boemia e Ungheria. Di qui il loro orientamento a rivolgere il proprio interesse politico verso sud (Italia) ed est (Balcani), tanto più in quanto nella seconda metà del secolo si riaffacciò la minaccia turca.
In riconoscimento dei loro successi, Francia e Svezia ottennero alcuni territori.
La prima acquisì definitivamente le città lorenesi di Metz, Toul e Verdun (che deteneva dal 1559), insieme con quasi tutta l'Alsazia.
La seconda una serie di possedimenti alle foci dell'Elba, del Weser e dell'Oder, che resero incontrastato il suo dominio nel Baltico.
Tra i principati tedeschi importanti acquisizioni ottenne la Prussia-Brandeburgo, futura potenza europea di prima grandezza, che incorporò la Pomerania orientale.

Ma la trionfatrice della guerra dei Trent'anni fu la Francia che, con il definitivo indebolimento dell'Impero – e il successo sulla Spagna sancito dalla pace dei Pirenei del 1659 –, raggiungeva un'incontrastata egemonia continentale. Un'egemonia destinata a durare fino al 1871 quando, in seguito alla vittoria della Prussia sulla Francia, si costituirà l'Impero tedesco.

Le conseguenze del conflitto

La guerra dei Trent'anni fu quindi un avvenimento di eccezionale importanza perché con essa si concluse la lunga e drammatica fase delle guerre di religione: gli Stati europei trovarono un loro equilibrio religioso destinato a restare immutato, nelle grandi linee, fino ai nostri giorni.
Le conseguenze immediate del conflitto furono però terribili.
Dall'epoca delle invasioni barbariche nessun evento bellico aveva infatti provocato tanti disastri e all'indomani della pace di Vestfalia molte regioni europee sembravano essere state attraversate da un cataclisma. Le finanze degli Stati belligeranti erano esauste per il lungo e massiccio sforzo militare e i contribuenti erano ridotti allo stremo. Le truppe di passaggio, infatti, oltre a essere mantenute a spese del territorio che attraversavano, mediante contribuzioni imposte, compivano anche rapine, saccheggi, requisizioni: questo metodo, messo sistematicamente in atto per anni e anni, fece di loro un vero e proprio flagello per le popolazioni tedesche.
Tra le conseguenze consuete della guerra c'era anche la diffusione delle epidemie.
La peste nera ebbe una nuova recrudescenza, perché di regione in regione, di città in città i soldati lasciavano una scia di contagio. Agli spostamenti delle truppe bisogna aggiungere quelli provocati dal timore che il loro arrivo suscitava nella popolazione: all'approssimarsi degli eserciti i contadini fuggivano e si accalcavano nelle città; qui, nell'affollamento e nella promiscuità, prosperavano le infezioni.
Non si trattava soltanto della peste e degli altri morbi conosciuti ormai da secoli, ma anche di nuovi agenti patogeni, insidiosi e micidiali: è questa l'epoca in cui si diffonde la sifilide, detta «mal francese», ma anche «spagnolo», «napoletano» o «germanico», dal momento che nessun paese intendeva assumersi la responsabilità di una malattia (probabilmente proveniente dall'America) considerata vergognosa e degradante.
Ai vecchi nemici se ne aggiungevano dunque di nuovi, contro i quali l'umanità era altrettanto impotente.

 

Il Regno di Russia

Michele Romanov

Mentre nel cuore dell'Europa centro-occidentale infuriavano i conflitti religiosi, a est il Regno di Russia attraversava una delicata transizione politica.
Dopo la morte di Ivan IV detto il Terribile, nel 1584, il paese aveva vissuto infatti un convulso periodo di eventi torbidi, che lo gettarono nello scompiglio: congiure di palazzo, usurpatori, lotte tra i boiari (l'alta aristocrazia) e la nobiltà di servizio (legata allo zar), sembrarono distruggere l'operato dello zar appena defunto.
L'autorità dello Stato fu ricostruita tuttavia da Michele Romanov, che regnò tra il 1613 e il 1645, mentre si consumava la guerra dei Trent'anni. Michele Romanov fu il fondatore di una dinastia che avrebbe regnato in Russia fino alla rivoluzione bolscevica (1917).

L'eredità lasciata da Ivan IV il Terribile

Il Regno di Russia era una compagine dalle dimensioni immense, nella quale per iniziativa di Ivan IV (1547-1584) era stato intrapreso il processo di riforma dello Stato. La vasta opera di riforma era stata concentrata sulla giurisprudenza, l'esercito, l'amministrazione locale e aveva portato al rafforzamento dell'autorità centrale e a un ridimensionamento del potere dei boiari.
Il territorio del Regno era stato diviso in due parti: i territori situati intorno a Mosca e nelle regioni centrali del Regno facevano parte della cosiddetta opričnina, posta alle dirette dipendenze del sovrano; i territori rimanenti, che costituivano la zemščina, erano rimasti invece sotto l'amministrazione della Duma, il Consiglio dei boiari. Questi ultimi erano stati privati dei loro possedimenti nella opričnina, in cambio dei quali avevano ricevuto terre nelle regioni periferiche, dove non avevano forza le tradizioni feudali. Contro i boiari, lo zar aveva creato anche una autorevole nobiltà di servizio, a lui legata da vincoli di fedeltà, alla quale conferì terre e privilegi.
Inoltre, tra il 1564 e il 1572 circa 4000 boiari furono giustiziati con l'accusa di tradimento. I sopravvissuti vissero nel terrore. In conseguenza di queste stragi, Ivan ricevette quel soprannome di "Terribile" con cui è passato alla storia.
Durante il regno di Ivan IV i confini dello Stato russo furono estesi lungo tutto il corso del Volga — un'arteria commerciale di fondamentale importanza —, nel Caucaso, in Asia centrale, in Siberia. Il territorio russo divenne talmente imponente da apparire come un vero e proprio impero.
Meno fortunata era stata però l'espansione militare russa verso il Baltico: su questo versante i soldati di Ivan avevano incontrato una fortissima resistenza svedese e polacca.
Le condizioni sociali dei contadini russi erano rimaste invece quelle tipiche di quasi tutte le campagne dell'Est europeo: miseria e asservimento ne erano i tratti distintivi e le riforme di Ivan IV non avevano per nulla mutato questo stato di cose.
Tanto la nuova nobiltà di servizio quanto la vecchia nobiltà dei boiari erano riusciti a imporre ai contadini prestazioni di lavoro sempre più pesanti. In Russia come in Polonia, le immense distese a est dell'Elba erano dunque il regno della servitù della gleba.

 

 

FORME DI GOVERNO MODERNE NELL'ETÀ DELL'ASSOLUTISMO

 

 

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Lo Stato moderno e lo sviluppo delle monarchie assolute

Nel corso del '600 si avviò una fase decisiva di quel processo di rafforzamento dello Stato ormai in atto da due secoli. Lo Stato moderno, che si costituì in questo periodo, era un'organizzazione politica accentrata e assoluta e la sua formazione è segnata dalla progressiva accentuazione di questi due caratteri basilari.

Esercito e fiscalità

Gli storici sostanzialmente concordano nell'individuare nei conflitti fra le monarchie e nelle conseguenti necessità militari l'impulso iniziale che mise in moto la trasformazione delle istituzioni politiche.
L'esigenza di disporre di un esercito permanente rese necessario un flusso costante di entrate, che solo un'estesa fiscalità poteva assicurare e che solo un'amministrazione ben organizzata poteva controllare. Contemporaneamente gli Stati si dotarono di apparati coercitivi, e dunque di istituzioni giudiziarie, indispensabili, fra l'altro, per garantire un'uniformità di applicazione del prelievo fiscale su tutto il territorio nazionale.
Esercito permanente, fisco, burocrazia e apparati coercitivi definiscono i contorni di una nuova struttura statale, che si contrappone alla frammentazione dei poteri di origine feudale. Una struttura accentrata intorno alla figura del sovrano, che detiene un potere del tutto indipendente e quindi «assoluto» (ossia sciolto da ogni vincolo).
Accentramento e assolutismo non sono solo le condizioni dell'esercizio del potere negli Stati moderni, ma rappresentano anche il risultato di un lungo processo costitutivo.

Caratteri delle monarchie assolute

La formazione dello Stato moderno coincide dunque con lo sviluppo delle monarchie assolute ed è costantemente accompagnata dalla lotta per il ridimensionamento politico della nobiltà tradizionale: una lotta che, nelle sue fasi iniziali, vide le monarchie allearsi ai ceti cittadini e mercantili.
Ma in un periodo successivo anche le città dovranno rinunciare alle loro antiche «libertà», cedendo alla spinta uniformatrice dello Stato. Se le monarchie riuscirono nell'intento di ridurre le autonomie politiche, non misero tuttavia in discussione il sistema dei privilegi fiscali – corrispondente di fatto all'esenzione dal pagamento delle imposte – di cui godevano i ceti nobiliari e che costituiva il fondamento della gerarchia sociale. Favorirono invece, in funzione del consolidamento del proprio potere e come alternativa alla nobiltà, la creazione, attraverso la vendita delle cariche, di un nuovo ceto burocratico.
La burocrazia dei funzionari – di estrazione borghese e di formazione giuridica – fu indispensabile all'amministrazione giudiziaria e fiscale.
Il sistema della venalità delle cariche, vendute in sempre maggior numero per incrementare le entrate, divenne tuttavia un limite all'assolutismo del potere regio: la sostanziale privatizzazione, che l'ereditarietà istituiva, negava infatti allo Stato la prerogativa di poter rimuovere o sostituire i funzionari.
In Francia – e più tardi anche in Spagna – questi limiti vennero superati con l'istituzione delle nuove figure degli intendenti. Ma in generale la venalità delle cariche rappresentò un'importante via di ascesa sociale per i ceti borghesi, un'ascesa sociale che si realizzò all'interno della cornice istituzionale della monarchia assoluta e che costituì, nonostante alcune accese fasi conflittuali – per esempio, la Fronda parlamentare in Francia –, uno degli elementi portanti dello Stato moderno.
L'ascesa di questi ceti e il parallelo processo di formazione dello Stato moderno, con le sue spinte al controllo e al disciplinamento dei vari ceti, portarono alla diffusione di codici di comportamento che propagarono una vera e propria «civiltà delle buone maniere».

La riflessione politica: Bodin e la sovranità

Il processo di rafforzamento dello Stato moderno fu, inoltre, accompagnato dall'elaborazione di nuove teorie sullo Stato che si preoccuparono di definire i caratteri della sovranità e della ragion di Stato.
Al francese Jean Bodin (1530-1596), autore dei Sei libri della Repubblica (1576), è dovuta la più chiara e completa trattazione della sovranità, intesa come «quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato» e che si manifesta nel «fare e disfare le leggi».
La sovranità, secondo Bodin, è illimitata e indivisibile: il sovrano è colui che fa e impone le leggi senza essere sottoposto ad alcuna norma o giudizio; egli è al di sopra delle parti e delle leggi (quindi, legibus solutus, svincolato dalle leggi), nonché al di sopra di ogni fazione o controversia religiosa.
Per Bodin, il potere del sovrano è assoluto, ma non arbitrario, e in questo si distingue dal dispotismo:

«Il principe non è vincolato dalle leggi sue o dei suoi predecessori: ma dai giusti patti e dalle giuste promesse che ha fatto, sia con giuramento sia senza giuramento, così come lo sarebbe un privato. E per le stesse ragioni per cui un privato può essere sciolto da una promessa ingiusta o irragionevole o troppo gravosa, per il fatto di essere stato tratto fuori strada da inganno, frode, errore, violenza, timore motivato o gravissima offesa, il principe può essere esentato da tutto quello che comporta una menomazione della sua maestà, se è principe sovrano. Così si può fissare il principio che il principe non è soggetto alle sue leggi né a quelle dei suoi predecessori, ma lo è aisuoi patti giusti e ragionevoli, soprattutto se essi implicano l'interesse dei sudditi sia come singoli sia in generale».

Il sovrano può derogare alle leggi ordinarie, ma non certo alle leggi divine e naturali. Inoltre:

«Il principe non può derogare a quelle leggi che riguardano la struttura stessa del regno e il suo assetto fondamentale, in quanto esse sono connesse alla corona e a questa inscindibilmente unite (tale è, per esempio, la legge salica, che escludeva le donne dalla successione al trono); qualunque cosa un principe faccia in proposito, il successore è in pieno diritto di abolire tutto ciò che sia stato compiuto con pregiudizio di quelle leggi su cui la stessa maestà sovrana poggia e si fonda».

Botero e la «ragion di Stato»

In ambito italiano e controriformistico nacque, soprattutto con il libro Della ragion di Stato (1589) di Giovanni Botero (1544- 1617), la trattatistica sulla «ragion di Stato», cioè su quella che potremmo chiamare la norma dell'azione politica.
A Botero si deve infatti la formulazione di un linguaggio nuovo, specialistico, della politica, sganciato da quello filosofico, religioso, morale.
Contro Machiavelli, Botero rivendicava un adeguamento della politica ai dettati della morale cattolica. Ma presto la «ragion di Stato» si trasformò in giustificazione e legittimazione dell'operato dello Stato e di ogni tentativo volto a rafforzarne e a consolidarne la potenza, al cospetto dei suoi sudditi e degli altri Stati: e con questo significato il concetto sarà impiegato in seguito.

 

Giacomo I e il parlamento inglese

 

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Fine della dinastia Tudor e ascesa di Giacomo I

Morta senza eredi Elisabetta I, la dinastia Tudor si estinse e sul trono d'Inghilterra salì Giacomo I Stuart (1603- 25), figlio di Maria Stuart e re di Scozia.
Le due corone di Scozia e d'Inghilterra – quest'ultima comprendente anche l'Irlanda – si trovarono così unite in una sola persona.
Giacomo I propose un programma di forte accentramento monarchico, basato sulla riaffermazione dell'autorità della Chiesa anglicana – dal punto di vista gerarchico e liturgico più che dottrinale –, sul prelievo di risorse economiche attraverso la tassazione, sull'esautorazione degli organismi rappresentativi tradizionali – la Camera dei Comuni – a vantaggio di esponenti della corte direttamente legati al sovrano; anche sul piano dell'amministrazione della giustizia fu notevole la spinta verso la creazione di tribunali regi esenti da nomine elettive e liberi di ignorare le garanzie accordate ai cittadini dalla ormai plurisecolare tradizione della Magna Charta.
Sul piano della politica estera, Giacomo I fu incapace di giostrare, come brillantemente aveva fatto Elisabetta, tra le due grandi potenze continentali, Francia e Spagna, ma finì per scontentarle entrambe; cosa ancor più grave, la sua assenza dalla grande scena politica europea non fu funzionale, come nel primo trentennio del regno di Elisabetta, alla tutela e al rafforzamento su scala mondiale degli interessi commerciali inglesi: significativo fu, da questo punto di vista, il declino della collaborazione tra la Corona e le grandi compagnie commerciali.

Dissenso religioso

Nel suo sforzo di accentramento, Giacomo I non riuscì a creare una solida struttura burocratica e militare e una sicura base di consenso. I cattolici, che avevano sperato di trovare in lui – figlio della cattolica e martire Maria Stuart – il campione della propria riscossa, rimasero delusi fino al punto di tramare contro la sua persona: famosa fu la cosiddetta congiura delle polveri, il cui piano – fallito – prevedeva di far saltare in aria il re con tutto il Parlamento.
Dal canto loro i puritani non accettarono il rilancio della Chiesa anglicana voluto dal re: essi erano infatti convinti che la vita religiosa dovesse essere esente da ingerenze dell'autorità civile, tanto più in quanto questa autorità non godeva del prestigio e della credibilità di Elisabetta.
Ciò comportò una ripresa delle persecuzioni religiose che causò un consistente flusso migratorio di dissenzienti: tali erano i Padri Pellegrini che, a bordo della Mayflower, approdarono nel Massachusetts, in Nord America (1620); il loro esempio sarà seguito da migliaia di inglesi nel ventennio successivo.

Dissenso del Parlamento

Il mondo dell'imprenditoria commerciale, manifatturiera, agricola che non era composto solo da un forte ceto borghese ma anche da una cospicua frangia della piccola e media nobiltà – la gentry – si vide danneggiato nei suoi interessi economici dal fiscalismo e dall'assenteismo in politica estera del re, e per di più insidiato nella sua roccaforte tradizionale, il Parlamento.
In assenza della grande nobiltà – decimata nel XV secolo durante la guerra delle Due Rose – il fronte del dissenso nei confronti della monarchia si concentrò proprio nel Parlamento, che divenne contemporaneamente sede principale della opposizione religiosa. Giacomo I si trovò ripetutamente in contrasto con l'assemblea, soprattutto in occasione di richieste di nuove imposizioni fiscali, e diverse volte si rifiutò di convocarla o ne arrestò gli esponenti più attivi.

 

Il progetto assolutistico di Carlo I d'Inghilterra

Carlo I contro il Parlamento

Il successore di Giacomo I, Carlo I Stuart (1625-49), sciolse il Parlamento per due anni consecutivi, nel 1625 e nel 1626.
Costretto a riconvocarlo nel 1628 per farsi approvare il finanziamento di una spedizione di soccorso agli ugonotti assediati alla Rochelle, il re dovette accettare una Petition of Rights (Petizione di diritti) che condannava il fiscalismo monarchico, l'oppressività della Chiesa anglicana, l'uso invalso di trattenere i cittadini senza autorizzazione da parte di alcun tribunale.
La petizione sortì tuttavia un effetto opposto a quello desiderato: nel 1629 Carlo I Stuart sciolse di nuovo il Parlamento e cominciò a reprimere sistematicamente l'opposizione politica e religiosa. La sua azione scavò un profondo fossato tra la monarchia da un lato, la gentry provinciale e le borghesie cittadine dall'altro; il re apparve in sostanza come il persecutore dei ceti economicamente più attivi e più sensibili alle suggestioni del puritanesimo.
Due tribunali speciali, la Camera stellata – le cui competenze furono estese ai reati politici – e la Corte di alta commissione – istituita per reprimere la dissidenza religiosa –, lavoravano a pieno ritmo, mentre il re aggirava la Petizione di diritti imposta dal disciolto Parlamento: senza che l'assemblea venisse convocata, fu estesa a Londra e a tutte le città del Regno l'esazione dello ship-money, un tributo originariamente versato solo dai centri portuali per il mantenimento della flotta regia.
La vendita delle cariche pubbliche e le dimensioni della burocrazia parassitaria raggiunsero proporzioni straordinarie: una pletora di funzionari, magistrati, appaltatori di pubbliche funzioni e servizi versava al tesoro regio congrue somme, di cui si rifaceva abbondantemente a spese della comunità.
Dal punto di vista religioso, il forte rilancio della Chiesa di Stato comportò un diretto attacco contro le comunità puritane, che non riconoscevano l'autorità dei vescovi anglicani e dei parroci da loro nominati.

Il Corto Parlamento

Nel 1639 l'arcivescovo William Laud – primate della Chiesa anglicana – avviò una operazione di normalizzazione della vita religiosa in Scozia, dove nel 1560 si era stabilita la Chiesa nazionale presbiteriana, di stampo calvinista ortodosso.
Di fronte al ripristino della gerarchia anglicana, al recupero delle proprietà confiscate a suo tempo agli ordini religiosi cattolici, all'introduzione di modifiche liturgiche, il clero presbiteriano, seguito dall'assemblea nazionale scozzese – nobiltà in testa – rispose con il Covenant, un 'patto' giurato di difesa a oltranza del calvinismo ortodosso dalle ingerenze inglesi.
Era la guerra: gli scozzesi sconfissero l'esercito regio e invasero il territorio inglese occupando alcune città. Esaurite le risorse finanziarie, Carlo I fu costretto, per poter continuare la guerra, a convocare il Parlamento perché approvasse nuove imposizioni fiscali. Nell'assemblea prese però corpo una vasta opposizione, che solidarizzò con i ribelli e reclamò l'abolizione dei più vessatori provvedimenti della Corona. Il re sciolse subito questa assemblea che fu detta il Corto Parlamento, perché, convocato il 13 aprile 1640, fu dissolto meno di un mese dopo.

Il Lungo Parlamento

Nel mese di novembre dello stesso anno il re convocò, pensando piega il re forse di poterlo facilmente manipolare, quello che è passato alla storia come il Lungo Parlamento, in quanto restò in carica fino al 1653. L'assemblea, capeggiata da John Pym e John Hampden, manifestò invece immediatamente una notevole combattività, rifiutò di collaborare con il sovrano e richiese la condanna a morte dei suoi principali collaboratori.
Carlo I fu costretto a piegarsi. Il successo del Parlamento fu coronato da una raffica di provvedimenti che abolivano i tribunali speciali, vietavano nel modo più assoluto l'imposizione di nuovi tributi senza l'assenso parlamentare, l'arresto di sudditi senza processo e decretavano la fine delle persecuzioni religiose.
Il primo ministro, conte di Strafford, fu messo a morte.

La rivolta irlandese

Nell'estate del 1641 la sconfitta del progetto assolutistico di Carlo I era evidente, ma la grandissima maggioranza del Parlamento era assolutamente lontana dall'immaginare la creazione di una repubblica.
La situazione, invece, precipitò rapidamente. Lo stesso anno scoppiò in Irlanda una violenta insurrezione di contadini e proprietari cattolici, che massacrarono migliaia di coloni protestanti inglesi e scozzesi: il re fu sospettato di aver fomentato la rivolta per modificare il quadro politico e ottenere il reclutamento di un esercito di cui si sarebbe poi servito per schiacciare il Parlamento. La manovra sembrava confermata dai suoi tentativi – peraltro falliti – di trarre dalla propria parte gli scozzesi.
Il Parlamento vedeva dunque messe in discussione non solo le vittorie ottenute nei dodici mesi precedenti, ma la sua stessa sopravvivenza.
Fu allora presentata la cosiddetta Grande rimostranza che – oltre a ribadire le conquiste politiche ottenute dal Parlamento – chiedeva il controllo del reclutamento degli eserciti e delle nomine ministeriali.

L'inizio della guerra civile

L'atmosfera si surriscaldò: mentre il paese era inondato di libelli di denuncia contro le manovre di Carlo I e i predicatori puritani eccitavano i fedeli con sermoni infuocati, il re tentò il colpo di Stato irrompendo nel Parlamento con una schiera di armati (4 gennaio 1642).
L'insuccesso fu completo: i capi dell'opposizione riuscirono a fuggire e la cittadinanza londinese si scatenò in furiose manifestazioni di massa. Carlo I dovette abbandonare la capitale. Era l'inizio della guerra civile.

 

La guerra civile

Gli schieramenti

Nell'estate del 1642 gli schieramenti in campo si delinearono con una certa precisione.
Dalla parte del re si schierarono i cosiddetti cavalieri – espressione con cui si designavano i nobili –: si trattava per lo più di esponenti dell'aristocrazia, della gentry, dell'altissima borghesia, contrari all'evoluzione in senso radicale del programma politico parlamentare espresso nella Grande rimostranza, all'abolizione della gerarchia anglicana, alla proliferazione della dissidenza religiosa, alle avvisaglie di disordine sociale emerse in numerose rivolte contadine e negli stessi tumulti della popolazione londinese.
I sostenitori del Parlamento, le Teste rotonde – così erano chiamati i puritani per l'uso di portare i capelli corti, diversamente dalle abitudini degli aristocratici –, raccoglievano invece il consenso della borghesia medio-alta, dei commercianti, dei bottegai, degli artigiani, tutti interessati a un regime di maggiore libertà dal giogo fiscale regio e di maggiore partecipazione politica, sia a livello parlamentare sia a livello di amministrazione locale.
Non meno importante era il fattore religioso: la grandissima maggioranza dei puritani era filoparlamentare, e questa circostanza spiega anche l'adesione di un cospicuo numero di aristocratici e di membri della gentry; i cattolici erano invece tutti realisti.

L'ascesa di Cromwell

Tra il 1642 e il 1643 la guerra si trascinò con alterne vicende. La svolta decisiva si ebbe soltanto dopo che, morti i due leader Hampden e Pym, si affacciò sulla scena politica e militare il puritano Oliver Cromwell (1599-1658).

L'Inghilterra agli inizi della guerra civile

Cromwell – che proveniva dai ranghi della gentry – si distinse in un primo momento come capo militare della fazione parlamentare, in particolare come ideatore degli Ironsides ('fianchi di ferro'), un distaccamento di cavalleria corazzata che risolse numerosi scontri con le sue travolgenti cariche a ranghi serrati.
In seguito, Cromwell riorganizzò tutte le truppe parlamentari nella New Model Army, un autentico capolavoro d'ingegneria politica e di scienza bellica. I soldati, accuratamente addestrati, eleggevano liberamente i loro ufficiali ed erano oggetto di un indottrinamento politico e religioso di stampo puritano, che li motivava fortemente alla lotta.
Carlo I fu sconfitto nelle due battaglie di Marston Moor (luglio 1644) e di Naseby (giugno 1645). Consegnatosi agli scozzesi – con i quali tentò invano un accordo separato –, fu da loro trasferito in Inghilterra nelle mani del Parlamento (gennaio 1647).
Nell'ultima fase dello scontro, il Parlamento aveva proceduto a smantellare la Chiesa di Stato anglicana e la gerarchia episcopale. L'arcivescovo Laud fu condannato a morte.

Disgregazione dello schieramento vincitore

La sconfitta del re, principale nemico da abbattere, ebbe come immediata conseguenza la disgregazione del fronte dei vincitori.
Lo schieramento puritano, infatti, si spezzò, sia dal punto di vista politico sia da quello religioso.
La maggioranza parlamentare era di orientamento presbiteriano, sosteneva cioè lo smantellamento della gerarchia episcopale anglicana (iniziato nel 1646) e l'introduzione di un'unica confessione di Stato calvinista, governata in modo autonomo dalle singole comunità di fedeli.
L'esercito, appoggiato da Cromwell, si ispirava invece alle dottrine dell'altra anima del puritanesimo, gli indipendenti, che sostenevano l'introduzione di una generalizzata libertà di culto e di organizzazione per tutti i gruppi e per tutte le sètte religiose protestanti. Questa scelta era del tutto coerente con l'organizzazione che Cromwell aveva dato al New Model Army: nell'esercito non era praticata alcuna discriminazione religiosa – se non per i cattolici e gli anglicani episcopalisti.
Sotto il profilo politico, i sentimenti decisamente antistuardisti instillati nei soldati e la democraticità che permeava l'organizzazione dell'esercito di Cromwell diffusero tra i soldati l'idea che i poteri del sovrano dovessero essere drasticamente ridotti; l'ala estremista dei levellers ('livellatori') propugnava addirittura l'abbattimento della monarchia e l'istituzione di una repubblica governata da un Parlamento eletto a suffragio universale.

Fuga del re e crisi

La difficile situazione dei rapporti tra esercito e Parlamento era complicata dall'ambigua condotta di Carlo I, che tramava con ambedue gli schieramenti e contemporaneamente cercava sempre l'appoggio degli scozzesi, ostili a Cromwell e alle Teste rotonde per le loro posizioni religiose e politiche.
Alla fine del 1647 il re fuggì nuovamente in Scozia e nella primavera successiva gli scozzesi invasero l'Inghilterra, mentre focolai di ribellione realista si accendevano in varie regioni del paese.
La situazione divenne gravissima.
Cromwell, che fino a quel momento aveva cercato di raggiungere con il Parlamento un compromesso che salvaguardasse l'istituto monarchico, fu accusato di tradimento. Nell'esercito si verificarono casi di ammutinamento: ai levellers si aggiunse il movimento ancora più radicale dei diggers ('zappatori'), sostenitori dell'abolizione della proprietà privata; in campo religioso sorse la setta dei quaccheri (dall'inglese quaker, 'tremante'), pacifisti a oltranza e contrari a ogni forma di organizzazione e autorità religiosa.
Rotto ogni indugio, Cromwell affrontò e vinse gli scozzesi e i rivoltosi realisti (primavera-estate 1648), occupò Londra ed espulse dal Parlamento il gruppo presbiteriano e i moderati (dicembre 1648): l'assemblea, epurata di circa 150 membri, fu detta Rump Parliament ('Parlamento ridotto').

Condanna e morte di Carlo I

Nel gennaio del 1649 il re fu processato e condannato a morte. La sentenza venne immediatamente eseguita.
Per la prima volta nella storia europea un movimento rivoluzionario ebbe come esito l'eliminazione fisica legalizzata di un sovrano.
Nel maggio venne abolita la Camera dei Lords e proclamato il Commonwealth, la Repubblica inglese.

 

La repubblica di Cromwell e la restaurazione degli Stuart

Ottenuto il totale controllo della situazione, Cromwell mise a tacere le frange estremiste dei levellers e dei diggers. Si volse poi a ristabilire l'ordine in Irlanda, dove nel giro di appena tre anni represse nel sangue la rivolta dei realisti cattolici (1649).
Nel 1650-51 pacificò definitivamente la Scozia.

Politica estera

In politica estera Cromwell non fu meno fortunato che nelle sue imprese in Irlanda e in Scozia.
Egli puntò soprattutto sull'espansione della potenza commerciale e coloniale inglese, coordinandola, nei limiti del possibile, con la difesa della comunità protestante internazionale.
Nel 1651, in evidente funzione antiolandese, promulgò l'Atto di navigazione, in base al quale i collegamenti commerciali con l'Inghilterra venivano riservati alle navi inglesi o dei paesi da cui provenivano le merci; esso stabiliva inoltre che il commercio con le colonie inglesi d'oltremare era monopolio della madrepatria.
La reazione olandese fu rapidamente stroncata in una breve guerra (1652-54) – la prima combattuta per puri obiettivi commerciali –, che si concluse con il riconoscimento, da parte degli olandesi, dell'Atto di navigazione.
Contemporaneamente Cromwell stipulò trattati vantaggiosi con Svezia e Danimarca, che gli assicurarono l'ingresso nel Baltico, e con il Portogallo, nel cui immenso impero commerciale gli inglesi ebbero libero accesso, muovendo così i primi passi verso la loro futura conquista dell'India.
Nel 1657 Cromwell si alleò con la Francia contro la Spagna, ottenendo, notevoli vantaggi.
Sotto Cromwell l'Inghilterra accentuò dunque il suo ruolo di potenza di primo piano sullo scenario internazionale, tanto sullo scacchiere europeo quanto su quello coloniale. Dal punto di vista economico-sociale, nell'età di Cromwell si verificò un'impennata nei processi di privatizzazione della terra e di sviluppo di un'agricoltura moderna, fondata sul lavoro salariato e orientata al mercato e al profitto.

Politica interna

In politica interna Cromwell non riuscì a dar vita a un solido sistema di governo a causa dei contrasti con il Parlamento.
Nonostante l'avvio allo smantellamento del sistema feudale, nessuna radicale riforma sociale ebbe luogo in quegli anni. Nel 1651 il Rump Parliament fu ulteriormente epurato per la sua sorda opposizione.
Questo ultimo spezzone del Lungo Parlamento, detto Barebone Parliament (letteralmente 'Parlamento scheletro'), non diede tuttavia alcun segno di collaborazione e venne disciolto nel 1653, mentre Cromwell assumeva il titolo di Lord protettore di Inghilterra, Scozia e Irlanda.

Disfacimento del Commonwealth

Anche i Parlamenti eletti successivamente manifestarono un atteggiamento ostile nei confronti del governo di Cromwell, che assunse sempre più i connotati di una dittatura militare, fino al progetto di trasformare il Protettorato in una vera e propria monarchia ereditaria.
Quanto l'ordinamento di Cromwell fosse instabile è dimostrato dal fatto che, morto il Lord protettore nel 1658, il figlio Richard assunse il potere, ma dovette lasciarlo dopo pochi mesi in un dilagare di torbidi che annunciavano la fine della Repubblica.
Seguì infatti una fase di intricati conflitti tra stuardisti e cromwelliani, Lungo Parlamento (riconvocato nel febbraio 1660) ed esercito, armate del Nord e armate del Sud, fin quando, nel maggio 1660 il generale George Monk, con l'approvazione del Parlamento, marciò su Londra e mise sul trono l'erede di Carlo I, Carlo II Stuart (1660-85).

Restaurazione degli Stuart

La restaurazione degli Stuart ebbe come immediato effetto il ripristino della Chiesa anglicana, la ripresa delle persecuzioni della dissidenza religiosa, la ricostituzione della Camera dei Lords e dei privilegi nobiliari. Non si verificò, tuttavia, un completo ritorno ai tempi di Giacomo I e Carlo I.
La crescita di una forte coscienza politica nel ceto borghese e nella piccola nobiltà diede infatti una configurazione più articolata alla classe dirigente; sotto il profilo istituzionale, inoltre, non furono ripristinati i tribunali speciali e soprattutto prese forza la centralità del Parlamento come stabile punto di riferimento e di confronto per l'esercizio del potere monarchico.
Da allora, e sempre più nettamente in seguito, Parlamento e monarchia sono considerati come due poteri distinti. Una distinzione e una separazione che accompagnarono il progressivo indebolimento e la definitiva scomparsa di ogni ipotesi politica fondata sulla monarchia di diritto divino.

L'eredità della rivoluzione

Dopo questa "grande rivoluzione" a nessun sovrano inglese sarebbe più stato concesso di imporre nuove tasse per decreto, di incarcerare gli avversari politici senza processo, di attentare ai diritti di proprietà, di modificare d'autorità le forme dell'organizzazione ecclesiastica.
La strada dell'assolutismo non poté più essere percorsa, anche se questi fondamenti del sistema politico inglese saranno definitivamente stabiliti dalla seconda ("gloriosa" e "pacifica") rivoluzione del 1688-89.
Sul piano ideologico la ricchissima eredità di idee e di proposte della rivoluzione (e dei suoi momenti più radicali) rivivrà in America e in Francia durante le rivoluzioni della fine del '700.

 

La Francia di Luigi XIII e di Richelieu

 

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Luigi XIII e Maria dei Medici

Nel 1610 Enrico IV fu ucciso da un fanatico cattolico. Gli succedette il figlio, il piccolo Luigi XIII (1610-43), al posto del quale esercitò il potere la madre, l'italiana Maria dei Medici.
L'equilibrio internazionale fu sconvolto dall'inversione di rotta della reggente, che da fervente cattolica si orientò decisamente in senso filospagnolo.
Nel 1614, in una situazione di grave conflittualità interna, furono convocati gli Stati generali (fu l'ultima volta fino al 1789). Questa assemblea, composta dai rappresentanti dei tre ordini in cui era suddivisa la popolazione, fu l'arena in cui si affrontarono i nobili e i rappresentanti della borghesia burocratica e imprenditoriale: i primi contrari all'ereditarietà degli uffici; i secondi avversi agli abusi degli aristocratici e alla reimposizione dei diritti feudali.

La politica di Richelieu

Nel 1617 Luigi XIII si appropriò del pieno esercizio del potere, malgrado la tenace opposizione della madre. Al suo fianco era il cardinale di Richelieu (1585-1642), che dal 1624 sarebbe diventato il capo del Consiglio del re.
Richelieu intraprese una vera e propria offensiva in grande stile, volta al rafforzamento del potere monarchico. In tale prospettiva, nel 1625 il cardinale attaccò le piazzeforti ugonotte — un vero e proprio Stato dentro lo Stato —, la cui autonomia appariva sempre più incontrollabile, e nel giro di pochi anni le sottomise. L'ultimo caposaldo, La Rochelle, cadde nel 1628 dopo un lungo e sanguinoso assedio.
L'anno dopo, l'editto di grazia sancì la libertà di culto dei protestanti e, insieme con essa, il disfacimento del loro apparato politico-militare.
Contro gli ugonotti Richelieu non fu animato da uno spirito d'intolleranza religiosa bensì da ragioni di Stato, le stesse che lo spinsero, pur essendo un cardinale cattolico, ad allearsi con i protestanti in funzione antiasburgica nella guerra dei Trent'anni.
Parallelamente Richelieu condusse un'azione decisa contro quegli esponenti della grande nobiltà che tramavano per ristabilire i loro antichi privilegi e facevano riferimento a Maria dei Medici e al fratello del re, Gaston d'Orléans: alcuni nobili furono giustiziati, mentre Maria fu mandata in esilio.
Richelieu esaltò inoltre il ruolo dei funzionari alle dirette dipendenze della Corona — di origine borghese e nobili di toga, tratti dai gradi inferiori della magistratura — che, con la carica di intendenti — carica non venale — accentrarono nelle loro mani l'amministrazione delle province sostituendosi ai governatori di origine aristocratica.
L'unico problema che il cardinale non riuscì a risolvere fu quello delle agitazioni popolari, che esplosero nella fase di partecipazione della Francia alla guerra dei Trent'anni, a causa dell'eccessivo fiscalismo regio, che gravò soprattutto sulle masse contadine.

 

La Francia di Mazzarino

L'era di Mazzarino

Nel 1642 il cardinale Richelieu mori. L'anno seguente scomparve il re Luigi XIII. La politica estera della Francia, impegnata nella guerra dei Trent'anni non subì, però, mutamenti di rilievo, grazie all'azione del cardinale Mazzarino, consigliere personale di Richelieu e suo successore a capo del Consiglio del re.
L'importanza di questa carica fu accentuata dal fatto che al trono francese era salito un bambino di appena cinque anni, Luigi XIV (1643-1715), in vece del quale la reggenza fu tenuta dalla madre Anna d'Austria, legata al Mazzarino da forti vincoli di fiducia e di collaborazione.

La Fronda parlamentare

Con la pace di Vestfalia, Mazzarino sancì il successo della potenza francese sulle ambizioni egemoniche della Casa d'Austria. Il conflitto continuò tuttavia con la Spagna, tanto sul confine franco-spagnolo quanto in Italia e nelle Fiandre.
Di conseguenza l'impegno finanziario dello Stato francese a sostegno della guerra non diminuì e l'emergenza bellica consentì un ulteriore giro di vite nella politica di accentramento del governo. Il progetto del cardinale, infatti, prevedeva l'affidamento dell'esazione delle imposte esclusivamente agli intendenti.
Ciò suscitò l'opposizione dei Parlamenti provinciali francesi, roccaforti della nobiltà di toga, che replicarono proponendo la soppressione degli intendenti e reclamando a sé il diritto di gestire l'imposizione delle tasse e l'amministrazione del Tesoro.
L'opposizione presto degenerò in un'aperta rivolta che fu chiamata Fronda parlamentare (1648-49), dal nome della "fionda" con cui i ragazzi scagliavano le pietre. I parlamentari riuscirono a mobilitare il popolo di Parigi e a occupare la città per alcuni giorni.
Mazzarino fu costretto a lasciare Parigi e ad accettare le rivendicazioni parlamentari (poi da lui stesso abilmente vanificate). Nel corso dello stesso anno la Fronda parlamentare andò tuttavia progressivamente disgregandosi, perché non aveva elaborato un programma di ampio respiro, ma si era limitata a tutelare i privilegi della nobiltà di toga e della ricca borghesia.

La Fronda dei principi

Nel 1650 prese avvio la Fronda dei principi, causata dall'ostilità dell'aristocrazia allo strapotere di Mazzarino, dal successo ottenuto dai Parlamenti e dalla forte oppressione fiscale.
Ancora una volta lo scontento del popolo di Parigi fu strumentalizzato e indirizzato contro il governo centrale. Mazzarino fu nuovamente costretto a lasciare Parigi e a rifugiarsi a Colonia, in Germania. Di qui diresse le operazioni delle truppe fedeli alla monarchia.
Nel 1652 il principe di Condé, vincitore di Rocroi e capo dell'esercito ribelle, fu sconfitto nei pressi della capitale e il fronte aristocratico si disciolse rapidamente. Il cardinale, accompagnato dalla reggente e da Luigi XIV, rientrò trionfalmente a Parigi nel mese di ottobre.

Vittoria sulla Spagna

La fine delle turbolenze frondiste consentì a Mazzarino di riprendere con energia la guerra contro la Spagna.
Tra le scelte diplomatiche del cardinale la più felice fu la coraggiosa alleanza con la Repubblica inglese di Cromwell. Mentre la flotta inglese paralizzava le rotte spagnole, l'esercito anglofrancese sconfisse definitivamente le truppe iberiche presso Dunkerque (1658).
Con la pace dei Pirenei del 1659 la Francia ottenne l'Artois e, lungo il confine con la Spagna, il Rossiglione; l'Inghilterra ottenne la Giamaica e la base di Dunkerque.
Questa pace decretò il tramonto della potenza spagnola e il rafforzamento della Francia nel ruolo di massima potenza continentale.
A essa fece seguito il matrimonio tra l'erede al trono di Spagna, Maria Teresa – figlia di Filippo IV – e Luigi XIV. Gli accordi prevedevano che Maria Teresa rinunciasse ai suoi diritti di successione ma recasse in dote la favolosa cifra di 500 mila scudi d'oro: quest'ultimo impegno non fu onorato e di ciò si sarebbe fatto forte Luigi XIV per giustificare il suo aggressivo programma di politica estera.

 

Il declino della Spagna

Nei primi decenni del '600, la Spagna entrò in un periodo di inarrestabile decadenza.
Dopo la morte di Filippo II, nel 1598, Filippo III (1598-1621) ereditò un regno che era afflitto da una crisi economica e sociale senza precedenti.
All'esterno, Filippo III avviò una serie di prudenti iniziative di pace con l'Inghilterra – pace di Londra del 1604 – e con le Province Unite – tregua dei dodici anni, dal 1609 –.
All'interno il re non riuscì invece a contenere l'offensiva della nobiltà che mirava a salvaguardare il proprio tradizionale livello di ricchezza attraverso un vasto processo di rifeudalizzazione.
I contadini, oggetto di un'oppressione fiscale e personale durissima, reagirono spesso dandosi al banditismo o, comunque, appoggiandolo; per altro verso venne schiacciata ogni possibilità di espansione e ascesa sociale per i ceti borghesi.

Il progetto assolutistico di Filippo IV

L'unica risposta concreta a questa situazione di crisi fu la ripresa della politica estera aggressiva, sotto Filippo IV (1621-65), a opera del primo ministro conte-duca di Olivares. Questi, infatti, decise di intervenire nella guerra dei Trent'anni a sostegno degli Asburgo d'Austria e, nel 1621, allo scadere della tregua dei dodici anni, riprese le ostilità contro le Province Unite.
L'azione politica di Olivares puntava alla realizzazione di un progetto di accentramento assolutistico, destinato a fornire alla monarchia spagnola i mezzi per un rilancio in grande stile sulla scena europea. Per rendere possibile ciò, sul piano interno, Olivares intraprese un'opera di riorganizzazione militare e amministrativa: la cosiddetta Unione delle armi, ovvero la ripartizione fiscale e il reclutamento militare proporzionali tra le varie province e tra i vari domini della Corona.
Il progetto di Olivares suscitò resistenze sempre più forti nel regno, sia per l'eccessiva esosità delle richieste, sia perché, in realtà, in molte regioni della penisola iberica vere e proprie sistematiche imposizioni fiscali e leve di soldati non erano state mai effettuate da parte del governo centrale.

Una federazione di regni

Il Regno di Spagna era infatti costituito da una federazione di regni autonomi – Castiglia, Aragona, Catalogna, Valencia, Portogallo – sui quali primeggiava la Castiglia. Ciascuno di questi regni era dotato di larghissima autonomia, benché le principali cariche pubbliche fossero ricoperte generalmente da nobili castigliani.
In questa federazione si trovavano in subordine i "vicereami" italiani (Napoli, Sicilia, Sardegna, più il Ducato di Lombardia) e coloniali, nonché i domini dinastici della Casa regnante (Paesi Bassi e Franca Contea).
Filippo IV, come del resto i suoi predecessori, era padrone assoluto della Castiglia e – almeno in linea teorica – di tutte le dipendenze fuori di Spagna; ed era da queste regioni che provenivano il gettito fiscale che riforniva il tesoro reale e il grosso del reclutamento militare. Il resto della penisola iberica non offriva alcun significativo contributo.

Rivolta della Catalogna e del Portogallo

Ecco perché alle richieste di Olivares, nell'inverno del 1640, si ribellarono la Catalogna e il Portogallo: la prima aveva fra l'altro una forte tradizione di autonomia culturale e di vivacità economica, che alimentava aspirazioni indipendentistiche; il secondo era stato integrato nel Regno di Spagna da soli sessant'anni ed era quindi ancor più motivato a distaccarsi dalla compagine castigliana.
In Catalogna la rivolta esplose nelle campagne e da qui si diffuse a Barcellona, principale centro della regione, dove l'agitazione venne gestita e guidta dalla nobiltà e dalla borghesia, e assunse la fisionomia di moto indipendentista.
Barcellona sarà riconquistata soltanto nel 1652, dopo dodici anni di guerra.

In Portogallo, invece, il fronte antispagnolo si indirizzò al recupero dell'integrità del territorio nazionale e dei domini coloniali.
Fu proclamato re il duca di Braganza, che prese il nome di Giovanni IV (1640-56), e la reazione spagnola fu respinta anche grazie all'aiuto di Francia e Inghilterra.
Nel 1668 il trattato di Lisbona sancirà l'indipendenza del Portogallo.

L'allontanamento di Olivares nel 1643 aggravò il disordine amministrativo del Regno di Spagna, mentre le sorti della guerra dei Trent'anni volgevano decisamente a favore della Francia. La guerra sempre più difficile e le ribellioni che esplodevano qua e là nella penisola iberica spinsero Filippo IV a spostare la pressione fiscale soprattutto sui possedimenti italiani. Anche qui il governo spagnolo dovette tuttavia affrontare gravi rivolte.

 

Le due anime delle Province Unite

Con la tregua dei dodici anni stipulata con la Spagna nel 1609, la Repubblica delle Province Unite, oltre a vedersi di fatto riconosciuta dalla Spagna stessa come Stato autonomo, raggiunse gradualmente la condizione di maggiore potenza commerciale europea. Né tale processo si arresterà con la ripresa della guerra nel 1621.
Ciò nonostante, anche le Province Unite attraversarono nel primo ventennio del '600 una profonda crisi politica e religiosa.

Organizzazione Politica

Ciascuna delle sette Province Unite (Olanda, Zelanda, Utrecht, Frisia, Groninga, Gheldria e Overijssel) era amministrata autonomamente da un'assemblea elettiva o Stato provinciale e aveva a suo capo un governatore civile, il Pensionario, e un governatore militare, lo Stadhouder; gli Stati generali federali, con sede a L'Aja, erano diretti da un Gran Pensionario e da uno Stadhouder generale, provenienti di solito dalla provincia più potente, l'Olanda.
Il dualismo tra Gran Pensionario e Stadhouder generale esprimeva anche gli interessi politici ed economici dei due ceti più forti: la borghesia mercantile e la nobiltà terriera; l'una propensa al rispetto delle autonomie provinciali, all'attenuazione del conflitto con la Spagna, alla pacificazione religiosa; l'altra incline a un maggiore accentramento statale – lo Stadhouder generale e anche quelli provinciali erano di norma discendenti di Guglielmo d'Orange –, alla prosecuzione della lotta contro la Spagna anche a costo di subire gravi danni economici, a coltivare l'intransigenza propria del calvinismo ortodosso – in questo appoggiata anche dagli strati più bassi della popolazione.

Religione e politica

Lo scontro politico tra le due massime autorità della Repubblica, riflesso del dissidio interno all'intera classe dirigente, esplose clamorosamente, com'era prevedibile, sul terreno religioso.
La religione, infatti, era sempre l'elemento catalizzatore del confronto politico. La corrente calvinista intransigente dei gomaristi ebbe la meglio sui tolleranti e moderati arminiani nel sinodo di Dordrecht del 1618; ottenuta la messa al bando degli arminiani dai rappresentanti delle comunità calviniste delle Province Unite, di Svizzera, d'Inghilterra, di Scozia e di Germania, lo Stadhouder Maurizio d'Orange sancì la condanna a morte per tradimento del Gran Pensionario Oldenbarneveldt (1619).

Il paese della tolleranza

Malgrado questi tragici avvenimenti, la Repubblica delle Province Unite si affermò come il paese europeo dove erano maggiormente praticate la tolleranza religiosa e la libera circolazione delle idee.
L'intensità delle relazioni commerciali olandesi determinò un costante rapporto con le più disparate realtà culturali europee. Così, a prescindere dai problemi politici e religiosi interni, la mentalità degli olandesi dovette per forza di cose adattarsi alla convivenza con i "diversi": la folla eterogenea che si accalcava in un centro d'affari come Amsterdam non poteva certo essere oggetto di pregiudizi che erano del tutto privi di interesse – e anzi sarebbero stati dannosi – per il mondo degli affari.

 

 

LA DECADENZA DELL'ITALIA

 

 

L'Italia dopo Cateau-Cambrésis

La pace di Cateau-Cambrésis firmata nel 1559 da Filippo II ed Enrico II di Francia, pose termine al lungo conflitto franco-asburgico per il controllo dell'Italia.
La Spagna si ritrovò dunque a controllare, direttamente o indirettamente, l'intera penisola.
Rientravano tra i domini diretti i Viceregni di Napoli, di Sicilia e di Sardegna, il Ducato di Milano e quella serie di importanti piazzeforti della costa tirrenica che vanno sotto il nome di Stato dei Presidi (Talamone, Orbetello, Porto Ercole, Ansedonia, Porto Santo Stefano, Porto Longone).
L'influenza spagnola, tuttavia, si estendeva indirettamente anche sulla Repubblica di Genova, su compagini di rilievo come il Granducato di Toscana e il Ducato di Savoia, sui piccoli Stati dell'area padana, come il Ducato di Parma e Piacenza, dei Farnese, il Ducato di Modena e Ferrara, degli Este, e quello dei Gonzaga di Mantova.
Gli stessi Stati che godevano di maggiore autonomia, come lo Stato della Chiesa e la Repubblica di Venezia, erano comunque condizionati dalla Spagna.
Quest'ultima, anche se avviata a un'inesorabile decadenza, era sempre la maggiore potenza politica del tempo e i suoi rinnovati contrasti con la Francia influenzarono la situazione italiana.
Da un punto di vista politico-territoriale la pace di Cateau-Cambrésis non determinò sostanziali mutamenti rispetto alla situazione delineatasi con la pace di Cambrai. Due fatti nuovi vanno tuttavia segnalati: la creazione nel Centro-nord, a opera di papa Paolo III, del Ducato di Parma e Piacenza (1545) e la scomparsa della Repubblica di Siena, inglobata, nel 1555, nel Granducato di Toscana.
Malgrado la frammentarietà del quadro politico-territoriale della penisola, all'interno dei singoli Stati italiani prese avvio un processo di consolidamento delle strutture statali: negli Stati signorili si registrò una tendenza al rafforzamento in senso assolutistico del potere del signore, mentre nelle repubbliche si accentuò il carattere oligarchico degli ordinamenti cittadini, mediante un ulteriore restringimento del numero delle famiglie ammesse al potere.

La Repubblica di Genova

Fra gli Stati italiani la Repubblica di Genova, il cui dominio si estendeva anche sulla Corsica, era certamente quella maggiormente legata alla Spagna, soprattutto per i suoi interessi finanziari. I suoi banchieri e finanzieri, infatti, avevano nella Corona spagnola il cliente più importante.
Genova inoltre era un importante punto di collegamento fra i due blocchi dell'Impero asburgico, quello spagnolo e quello tedesco, e il suo porto era utilizzato per le spedizioni militari spagnole.

L'Italia dopo la pace di Cateau-Cambrésis

Il Granducato di Toscana

In Toscana la restaurazione dei Medici era avvenuta grazie all'appoggio di Carlo V. Il legame con la Corona iberica era del resto testimoniato dalla presenza, all'interno della compagine medicea, dello Stato dei Presidi. Cosimo I (1537-74), che nel 1569 ottenne il titolo di granduca, avviò un'opera di consolidamento del proprio potere e intraprese una politica di espansione territoriale, che portò all'acquisizione della Lunigiana e della Repubblica di Siena (1555).

Il Ducato di Savoia

Pure il Ducato di Savoia, posto a cavallo tra la Francia e l'Italia, gravitava nell'orbita spagnola.
Il duca Emanuele Filiberto (1528-80) era rientrato in possesso della Savoia e del Piemonte, a lungo occupati dai francesi, grazie alla sua alleanza militare con la Spagna.
L'ingombrante presenza della vicina monarchia francese spinse Emanuele Filiberto a valorizzare politicamente la parte italiana del ducato, spostando la capitale da Chambéry a Torino e ottenendo dalla Francia, in cambio della cessione dei territori transalpini del ducato, il Marchesato di Saluzzo (1601).
Emanuele Filiberto avviò nei suoi domini una vasta opera di centralizzazione delle strutture amministrative e militari, volta a indebolire i piccoli potentati locali. A lui si deve la creazione di un esercito "nazionale" mediante l'imposizione dell'obbligo di leva per i sudditi. Questa riforma fece dello Stato savoiardo la maggiore potenza militare della penisola.

Lo Stato della Chiesa

Rinnovato e rafforzato dal concilio di Trento, il papato assunse un più deciso controllo dello Stato della Chiesa, mediante una politica di espansione territoriale – annessione di Ferrara (1598), del Ducato di Urbino (1625), di quello di Castro (1649) – e di rafforzamento del potere del pontefice. Ciò, tuttavia, non determinò l'indebolimento dei numerosi poteri locali presenti sul territorio – i comuni e le signorie – che anzi conservarono, e in alcuni casi rafforzarono, la propria autonomia.
Non meno autorevole il ruolo politico esercitato dal papato all'interno della penisola, dove riuscì a ottenere da molti principi e signori un impegno nella lotta contro l'eresia protestante. In molti Stati cercò addirittura di raggiungere una piena autonomia dalle ingerenze delle autorità civili, determinando l'insorgere di conflitti giurisdizionali, ovvero di scontri incentrati sulla difesa delle prerogative ecclesiastiche, tra i quali il più celebre fu quello che lo oppose alla Repubblica di Venezia.

La Repubblica di Venezia

Nel XVI secolo la Repubblica di Venezia, nonostante i contraccolpi rappresentati, da un lato, dall'affermazione della potenza ottomana nel Mediterraneo e, dall'altro, dalla sconfitta subita ad Agnadello, rimaneva ancora una grande realtà politica. Essa rappresentava agli occhi degli intellettuali e dei politici contemporanei un vero e proprio mito, un modello sia per la sua indipendenza dall'influenza spagnola, sia per la libertà culturale che in pieno clima controriformistico era riuscita a mantenere.
Da un punto di vista politico, Venezia era governata da un'oligarchia patrizia particolarmente attenta sia agli interessi presenti sulla terraferma da poco conquistata, sia alla prosperità mercantile. Dopo Lepanto, infatti, Venezia aveva stipulato con gli ottomani una pace che le aveva consentito di riprendere nel Mediterraneo i tradizionali commerci e traffici marittimi. Inoltre, una parte della classe dirigente veneziana, detta "partito dei giovani", insofferenti verso la dominazione spagnola e critici nei confronti della Chiesa della Controriforma, aveva stabilito rapporti economici e diplomatici con l'Europa protestante, in particolare con l'Inghilterra e con la Francia.
Questa decisione portò allo scontro col papa Paolo V (1605-21), con cui vi erano altri motivi di attrito, come, per esempio, le leggi che regolavano la proprietà ecclesiastica nel territorio della repubblica.

La questione dell'interdetto

La fase più acuta di questo conflitto fu rappresentata dalla vicenda dell'interdetto (1606-7), scoppiata in seguito all'arresto di due religiosi, colpevoli di delitti comuni, che il papato intendeva processare, sottraendoli ai tribunali veneti.
La pretesa della Santa Sede che i due religiosi fossero consegnati all'autorità ecclesiastica fu respinta dalla repubblica, che per la risoluzione della controversia si valse della consulenza di un religioso di grande statura intellettuale, lo storico Paolo Sarpi (1552-1623).
Il papa allora lanciò l'interdetto, ovvero proibì ai sacerdoti di celebrare messa e di amministrare i sacramenti sul territorio veneto. Furono momenti drammatici durante i quali si sfiorò la guerra. Tuttavia, la volontà degli spagnoli di mantenere la pace in Italia e la mediazione diplomatica del re di Francia portarono a un accordo.

 

La dominazione spagnola

L'egemonia spagnola in Italia, che si protrasse fino agli inizi del XVIII secolo, garantì alla penisola, uscita prostrata da oltre un cinquantennio di guerre, un lungo periodo di pace.
La quiete d'Italia, come fu detta dai contemporanei, divenne allora un valore assoluto, prendendo il posto della libertà d'Italia.

Caratteri della dominazione spagnola

Il principale organo di controllo dei domini diretti spagnoli era costituito dal Consiglio d'Italia, istituito nel 1555 da Filippo II. Il Consiglio d'Italia, che aveva sede a Madrid ed era composto da magistrati spagnoli e italiani, aveva competenze giudiziarie (era tribunale di ultima istanza), amministrative e di controllo sul funzionamento delle istituzioni e del personale giudiziario e finanziario.
In questi territori era inoltre attiva l'Inquisizione spagnola, meno mite dell'Inquisizione romana.
Nella penisola la monarchia spagnola era rappresentata dai viceré di Napoli, di Sicilia e di Sardegna e dal governatore del Ducato di Milano; inoltre, periodicamente, la Corona inviava visite presso i governi locali, per verificarne il buon funzionamento.
Fallirono invece i tentativi di introdurre nel Regno di Napoli e nel Ducato di Milano l'Inquisizione spagnola.
Le ragioni della stabilità del dominio spagnolo in Italia consistevano non tanto nel ricorso agli strumenti coercitivi e di repressione di cui la Corona disponeva, quanto nella capacità di Carlo V, prima, e di Filippo II, poi, di coinvolgere nel governo i ceti dirigenti locali (il patriziato milanese e il ceto baronale napoletano e siciliano). Questi, infatti, si integrarono pienamente nel "sistema imperiale spagnolo" grazie alle scelte strategiche della Corona, che concesse loro onori, feudi e uffici e promosse le alleanze matrimoniali.

La pressione fiscale

Le esigenze della politica imperialistica portata avanti dalla Corona spagnola – la guerra contro i turchi, la gestione della rivolta dei Paesi Bassi, lo scontro con l'Inghilterra elisabettiana, l'ingerenza nelle guerre di religione in Francia, la partecipazione alla guerra dei Trent'anni – fecero sì che in tutte le regioni sottoposte al dominio diretto, ma principalmente nel Regno di Napoli, la pressione fiscale raggiungesse livelli soffocanti, aggravando le condizioni di vita dei sudditi, già duramente provate dalla crisi economica che nei primi decenni del XVII secolo colpì l'intera Europa.
In particolare, in occasione della guerra dei Trent'anni, quando la Spagna dovette mobilitare tutte le sue stremate energie per far fronte al conflitto, l'Italia fu vista come una terra da spremere per arruolare truppe, ammassare viveri, procurarsi denaro. Il governo, infatti, non esitò a mettere in vendita i beni dello Stato per raccogliere risorse finanziarie. Dalla riscossione delle imposte alle dogane, ai titoli nobiliari ai terreni demaniali: tutto venne acquistato da banchieri, mercanti, nobili che cercarono di ottenere i più larghi profitti, non esitando a sfruttare le popolazioni. Questa oppressione determinò un clima di aspra tensione sociale, caratterizzato dal dilagare del banditismo e da un ribellismo diffuso.

Rifeudalizzazione

Nei secoli della dominazione spagnola si registrò nella penisola un ritorno agli antichi istituti feudali.
Gli studiosi hanno parlato a tale proposito di rifeudalizzazione: in cambio di denaro i governi concedevano titoli nobiliari, riconoscendo agli acquirenti diritti feudali (riscossione di tributi, autorità giudiziaria) sulle terre comprate.
Sul senso da attribuire al termine rifeudalizzazione occorre, tuttavia, intendersi.
Il fenomeno esprimeva senza dubbio un maggior peso dei grandi signori nel controllo dei territori. Ma certamente non si trattò – sarebbe stato impossibile, dato il livello raggiunto dalla società italiana – di un ritorno puro e semplice al feudalesimo.
Da un punto di vista strettamente economico questa rifeudalizzazione, soprattutto nelle regioni settentrionali, fu un fenomeno tutto sommato superficiale: normalmente, quando un signore otteneva un feudo da un potere superiore – per esempio il re di Spagna –, otteneva con esso le rendite derivanti da certi diritti che in precedenza erano esercitati dal sovrano; per i sudditi cambiava ben poco, perché ora essi pagavano quegli stessi diritti non più ai rappresentanti del re, ma al feudatario.
Molto più grave fu tuttavia la situazione dei sudditi delle regioni meridionali della penisola.

 

La rivolta di Masaniello

Rivolte antispagnole

Nei territori sottoposti al dominio spagnolo il malcontento per la pressione fiscale si uni spesso alla volontà di mantenere, o riconquistare, le proprie tradizioni di autogoverno e autonomia, come avvenne in Catalogna e in Portogallo, dove la ribellione antispagnola fu sostenuta da tutti gli strati sociali.
Non così nel Regno di Napoli, dove furono i ceti popolari – artigiani, mercanti, contadini, ma anche gruppi di borghesi e intellettuali – a rendersi protagonisti di un movimento di rivolta antifeudale che ben presto assunse un carattere antispagnolo.
L'esosità del fisco spagnolo, l'iniqua distribuzione del carico fiscale, il soffocante controllo dei baroni sulla società napoletana erano infatti invisi tanto al popolo quanto alla borghesia. L'imposizione di un'ennesima gabella, quella sulla vendita della frutta, diede il via alla rivolta napoletana del 7 luglio 1647.

Masaniello

La furia popolare, animata da un giovane pescivendolo di nome Tommaso Aniello, detto Masaniello (1620-1647) e coordinata dall'abate Giulio Genoino, dilagò rapidamente nei quartieri popolari e nelle campagne circostanti.
Un episodio analogo si verificò anche in Sicilia, a seguito dell'ennesimo aumento del prezzo del pane. I rivoltosi napoletani, che rivendicavano la riforma dell'ordinamento politico della capitale e l'abolizione di tutte le nuove imposte, presero d'assalto i palazzi baronali, gli uffici del fisco, il palazzo del viceré e le carceri.
Masaniello venne intanto nominato "capitano generale del popolo". Lo stile di vita sfarzoso assunto dal capopopolo e le congiure dei suoi avversari finirono per alienargli il favore popolare e il 16 luglio venne assassinato.
La sua morte non spense la rivolta, che ebbe anzi obiettivi più vasti: l'armaiolo Gennaro Annese cercò di dar vita a una repubblica, prendendo a esempio l'esperienza delle Province Unite, e chiese aiuto alla Francia. L'atteggiamento del cardinale Mazzarino fu molto cauto, ma l'appello fu raccolto dal nobile francese Enrico di Guisa, che fu nominato capo della Real repubblica napoletana.
Il fronte dei rivoltosi, peraltro mal guidato, non riuscì tuttavia a trovare una ispirazione unitaria e fu facile preda dei nemici: il governo spagnolo e i baroni organizzarono una repressione sistematica a Napoli e nelle campagne.
Nel 1648 la repubblica fu abbattuta e la situazione tornò alla normalità.

 

 

GLI STATI E LE GUERRE DEL '700

 

 

Introduzione al '700

 

[ Introduzione audio ]

Il '700

Quello che chiamiamo qui '700 non è un periodo di cento anni precisi, definiti dall'inizio e dalla fine del secolo XVIII. È invece un arco temporale più lungo che inizia nel 1660 e si conclude tra il 1775 e il 1789 alla vigilia dell'età delle grandi rivoluzioni, quella americana, quella francese e quella industriale.
Il '700 coincide prima con l'apogeo e poi con la crisi dell'assolutismo, il sistema di governo prevalente nell'Europa continentale, nel quale la sovranità dello Stato coincide con quella del monarca. Ma è anche il periodo in cui si viene formando in Gran Bretagna il sistema parlamentare, una forma di governo che pone limiti precisi ai poteri del sovrano e li trasferisce al Parlamento.
Questa scelta di definire col nome di '700 un periodo cronologico più lungo e diverso risponde all'esigenza di dare un senso compiuto e facilmente individuabile a una serie di elementi e di caratteri che connotano per quell'arco di anni l'intera Europa sul terreno della politica, dell'economia, delle strutture sociali della cultura.

La periodizzazione

Delimitare un periodo e dargli un nome rientra in quella pratica fondamentale del lavoro degli storici che chiamiamo periodizzare, di cui sono noti innumerevoli esempi.
È il risultato di un'operazione conoscitiva che fa parte dei fondamenti della storia e della concezione di un tempo lineare che non ammette ritorni ciclici. Questa concezione affonda le sue radici nelle grandi religioni monoteiste, come il cristianesimo, che adotta la cronologia prima e dopo Cristo, base del calendario dominante nel mondo, o come l'Islam, con prima e dopo l'egira.
È così possibile tracciare una linea del tempo scandita in giorni, mesi, anni, decenni, secoli ecc., ma ripartita in periodizzazioni storiche che rompono la rigida misura cronologica, si dilatano o si restringono, in relazione al significato unitario che le diverse culture e le diverse convenzioni storiografiche attribuiscono a queste scansioni.
Accanto ai grandi contenitori temporali, come "Medioevo", "età moderna", "età contemporanea" si collocano segmenti più brevi come "età della riforma e della controriforma" o "età delle rivoluzioni".
Queste denominazioni sono fondate su convenzioni diffuse, costruiscono un linguaggio comune e condiviso, consentono agli storici una comunicazione consensuale, ma possono essere, proprio per la loro dimensione convenzionale, criticate e contraddette dando luogo a diverse periodizzazioni e a diverse interpretazioni.
Il '700 europeo, nel nostro caso, rappresenta in questo caso l'ultima fase dell'età moderna prima dei grandi sconvolgimenti rivoluzionari che, secondo la tradizione italiana, ma anche francese e tedesca, danno origine all'età contemporanea. A questo lungo '700 seguirà un lungo '800 – dalla Rivoluzione francese alla vigilia della prima guerra mondiale – e un breve '900, dal 1914 alla caduta dei comunismi nel 1989-91.
Non si tratta solo di denominazioni, ma di "contenitori temporali" caratterizzati da alcuni elementi ben identificati.

La modernità politica europea: assolutismo e parlamentarismo

Uno degli elementi che caratterizzano l'età moderna è la nascita dello Stato centralizzato, diverso e contrapposto alla frammentazione dei poteri feudali tipici del Medioevo.
Lo Stato moderno è una formazione politica che sorge e si sviluppa nelle signorie e principati italiani a partire dal '400 per poi svilupparsi in altre parti d'Europa, sia nei grandi paesi che in territori meno estesi: agli Stati nazionali – come la Francia o la Spagna – si affiancano gli Stati territoriali, diffusi in Italia e in Germania.
Fondamenti dello Stato moderno sono la burocrazia, la diplomazia, un esercito professionale dipendente dal sovrano e un sistema di tassazione nazionale, indispensabile per pagare esercito e burocrazia.
L'acquisizione e l'efficiente funzionamento di questa macchina statale sono processi graduali che giungono a compimento solo nel periodo successivo alla rivoluzione francese. Ma il lungo '700 di cui parliamo rappresenta un lasso di tempo decisivo di questo processo: da un lato vede il massimo sviluppo dello Stato moderno nella forma dell'assolutismo e gli inizi della sua crisi, dall'altro registra il fallimento di questo sistema di governo nonostante i tentativi compiuti dai re della dinastia Stuart di introdurlo in un grande paese come l'Inghilterra.
Se dunque la Francia di Luigi XIV (1661-1715) rappresentava il paradigma della monarchia assoluta e del governo personale del sovrano, tanto da giustificare l'espressione attribuitagli «l'état c'est moi», 'Io Stato sono io', in Inghilterra iniziarono a consolidarsi, dopo la seconda rivoluzione del 1688-89 e i successivi atti legislativi, i poteri del Parlamento.
La modernità politica dell'Europa si presentava dunque con due volti diversi e in larga misura opposti, destinati entrambi a sviluppi significativi nel secolo successivo. Da un lato il completamento dell'architettura dello Stato moderno nelle forme in cui lo conosciamo anche oggi, dall'altro la progressiva sconfitta della monarchia assoluta, il passaggio alla monarchia costituzionale, in cui l'esercizio del potere è regolato e limitato dalle norme raccolte nella Costituzione, e infine il successivo affermarsi, in gran parte dell'Europa, di un sistema parlamentare al fianco delle antiche monarchie.
Così dall'iniziale radicale divaricazione si giungerà a un sostanziale intreccio dei modelli politici originariamente contrapposti.

La geografia politica dell'Europa nel '700

Se Francia e Inghilterra rappresentavano i punti più alti dello sviluppo politico europeo del '700, uno sguardo panoramico all'intero continente ci restituisce un affresco composito in cui, accanto a Stati sempre attivi nelle dinamiche delle guerre dinastiche e di espansione, sono presenti altre realtà solo marginalmente coinvolte nelle trasformazioni del secolo.
La Spagna, dopo una fase di nuovo protagonismo politico e militare legato al cambio della dinastia regnante dagli Asburgo ai Borbone (1700) e ai conflitti che ne derivarono, usci gradatamente dalla grande politica europea.
La Francia invece continuò a esercitare, pur con qualche difficoltà, il ruolo di potenza egemone sul continente ottenuto con la pace di Vestfalia (1648) e la conseguente frammentazione dei piccoli Stati tedeschi posti oltre il suo confine orientale.

L'Europa nel '700

Ma il bassopiano germanico, che si estende dal Reno verso est, vide nella sua parte centro-orientale il rafforzarsi, in questo periodo, della Prussia, destinata progressivamente a divenire l'antagonista della Francia grazie alla sua capacità espansiva a ovest e a est del suo nucleo originario.
Il grande Regno di Polonia, indebolito dai contrasti interni tra le varie fazioni nobiliari di una monarchia elettiva, divenne preda delle ambizioni dei potenti vicini – Russia, Austria e Prussia – che si spartirono i suoi territori fino a cancellare la Polonia autonoma dalla carta geografica (1772-95).
A est la Russia, dopo la vittoria sulla Svezia per il controllo del Baltico, oltre ai guadagni territoriali a spese della Polonia, consolidò la sua colonizzazione della Siberia, iniziata nel '600 e portata fino ai confini con la Cina e alle coste del Pacifico.
L'Austria, coinvolta a più riprese nei conflitti dinastici da cui usci solo parzialmente sconfitta, rimase tuttavia la potenza egemone nei Balcani settentrionali in costante confronto con l'impero ottomano.

L'Italia, soggetto passivo dei giochi dinastici del secolo, conservava come elementi di stabilità lo Stato pontificio lungo la diagonale dal Lazio alle Romagne, la Repubblica di Venezia, in costante arretramento nei suoi domini greci e del Mar Ionio sotto la pressione dei turchi, e quella di Genova ormai lontana dagli antichi splendori.
A cavallo delle Alpi occidentali l'opportunismo politico e militare consentì ai Savoia di ampliare e stabilizzare, dopo alterne vicende, i loro possedimenti elevati al rango di Regno di Sardegna.

In questa Europa delle monarchie,poi, convivevano numerose piccole repubbliche (come Lucca o San Marino in Italia) e città commerciali come quelle sul Mare del Nord o sul Baltico (Brema, Amburgo, Lubecca), tutte rette da patriziati cittadini.
Diverso il caso della Svizzera, dove, dopo anni di conflitti tra cattolici e protestanti, si era realizzato un equilibrio che conservava l'autonomia dei singoli cantoni e l'indipendenza dai forti Stati confinanti.
Da questo quadro panoramico dell'Europa continentale è rimasta fuori la struttura sociale e politica più nuova, quella delle Province Unite o Olanda: una repubblica mercantile, ricca, colta e tollerante, votata all'espansione oltreoceano fino alla lontana Indonesia, conquistata a partire dal 1602, ma con un retroterra agricolo moderno, di contadini e proprietari, tenuta insieme, nella sua varietà, dalla guida politica della nobile famiglia degli Orange. Certo, non era più l'Olanda del "secolo d'oro" dopo l'arretramento seguito ai successi dell'Inghilterra, proiettatasi verso il dominio dei traffici e degli insediamenti transoceanici. Peraltro, anche le ambizioni di espansione coloniale della Francia uscirono ridimensionate dal conflitto con la Gran Bretagna, una sconfitta (sancita nel 1763) che testimoniava come il grande commercio e il controllo degli oceani fosse divenuto il presupposto dello sviluppo economico e il fondamento di una nuova epoca, quella dell'industrializzazione.

La società e l'economia di ancien régime

Con ancien régime, o 'antico regime', i rivoluzionari francesi chiamarono il sistema politico travolto dalla Rivoluzione francese del 1789. Gli storici adottarono la denominazione ancien régime, usata dai rivoluzionari, per indicare, al di là della Francia, tutta l'Europa prerivoluzionaria.
Tra i caratteri distintivi dell'ancien régime due appaiono fondamentali e tali da giustificare, nonostante le differenze, uno scenario uniforme: la sopravvivenza del feudalesimo e dei privilegi del clero e una rigida separazione tra i diversi ceti che rendeva ardua ogni forma di mobilità sociale verso l'alto.
Ne discendeva l'immagine di una società irrigidita nella difesa dei poteri e dei quadri sociali tradizionali, un'immagine solo in parte corrispondente alla realtà e incapace di dar conto di alcuni fattori di graduale trasformazione che segnano in modo evidente questo periodo.
Il primo di tali fattori è il tendenziale aumento della popolazione che investe gran parte dell'Europa. Questa crescita demografica è il segnale inequivocabile del miglioramento del livello di vita della popolazione nel suo insieme, determinato da una maggiore disponibilità di risorse alimentari e dalla riduzione delle epidemie devastanti.
Inoltre, la crescita della popolazione comporta inevitabilmente l'aumento dei consumi e il fatto che non si torni alle gravi crisi alimentari dei decenni precedenti è segno di una produzione agricola ormai cresciuta e di un sistema di scambi e di approvvigionamenti più dinamico. Nei paesi più coinvolti negli scambi commerciali (le Fiandre, l'Inghilterra) si assiste inoltre a uno sviluppo particolare dell'industria domestica che comporta un aumento dell'offerta di prodotti per il mercato e un corrispondente aumento della domanda di beni durevoli e di consumi.
La somma di tanti episodi economici di piccola scala e un tessuto diffuso di unità produttive favorisce quella "rivoluzione industriosa" che precede e accompagna la successiva rivoluzione industriale (avviata tra fine '700 e inizi '800 in Gran Bretagna).

La svolta culturale e il riformismo illuminato

A contraddire l'immobilità dell'ancien régime intervenne anche la rivoluzione culturale dell'Illuminismo radicata in parte sulle ormai lontane premesse di quella rivoluzione scientifica che, nei due secoli precedenti, aveva via via sgretolato la concezione aristotelica della natura e contraddetto la visione della storia e dell'uomo fondata sulla Bibbia.
La ricerca scientifica metteva progressivamente in luce l'estraneità, dal punto di vista fisico-matematico e sperimentale, delle concezioni della realtà legate alla prospettiva della trascendenza e confermava così il processo avviato nel Rinascimento.
Accanto ai temi innovativi delle scienze della natura e del pensiero politico — da Locke a Montesquieu, da Rousseau a Beccaria —, spicca la capillarità della circolazione delle nuove idee che coinvolge tutti i centri culturali dell'Europa e che annovera tra i suoi centri propulsori le città e le regioni del nuovo sviluppo economico.
Questa rivoluzione culturale si traduce in una pluralità di esiti: sollecita al riformismo molti sovrani, promotori di una serie di provvedimenti amministrativi che non intaccano la gerarchia dei poteri, ma limitano fortemente il ruolo della Chiesa cattolica fino alla cacciata dei gesuiti, uno dei suoi bracci operativi più potenti; contribuisce al sorgere di una nuova opinione pubblica borghese consapevole del proprio ruolo e critica del sistema assolutista; svela infine la crisi inarrestabile di un grande paese come la Francia, tra i maggiori produttori e consumatori della nuova cultura.
Proprio l'impossibilità di risolvere una crisi che nasceva dall'interno stesso del sistema di potere francese diede l'avvio a una serie di eventi che sarebbero sfociati nella Rivoluzione e nella caduta dell'ancien régime.

 

L'assolutismo in Francia

 

[ Introduzione audio ]

«Io me ne vado, ma lo Stato rimarrà per sempre».
Queste parole furono pronunciate da Luigi XIV sul letto di morte: parole ascoltate da uno stuolo di cortigiani raccolti intorno a lui.
Era il 1715 e Luigi aveva regnato più di settant'anni da quando, bambino di neanche cinque anni, era succeduto al padre nel 1643.
Nei primi tempi il paese era rimasto affidato alla reggenza della regina-madre Anna (degli Asburgo di Spagna) e al cardinale Mazzarino che aveva traghettato la Francia attraverso le due guerre civili della Fronda e salvato la monarchia dei Borbone: ma nel 1661, alla morte di Mazzarino, il giovane re aveva iniziato a governare in prima persona.
Era finita l'epoca dei grandi ministri, Richelieu e Mazzarino, e iniziava l'età di Luigi XIV.

L'accentramento dei poteri

Il rafforzamento dello Stato fu in effetti la realizzazione più significativa di quel periodo e ancora oggi la Francia, dopo il completamento dell'opera della monarchia assoluta compiuto da Napoleone agli inizi dell'800, si distingue per una forte centralizzazione delle istituzioni politiche e amministrative.
Luigi XIV si avvalse di numerosi ministri e collaboratori, ma accentrò nelle sue mani il governo dello Stato e non rinunciò mai a intervenire sulle questioni principali.
L'accentramento nelle mani del sovrano di tutti i poteri comportava la contemporanea riduzione di tutti i potenziali antagonismi. L'antica nobiltà di spada, resasi pericolosa ai tempi della Fronda, fu svuotata dei suoi residui poteri, ammansita da donativi e pensioni, e obbligata a risiedere a corte almeno sei mesi l'anno sotto l'occhio vigile del re.

Versailles, lo spettacolo del potere assoluto

La nuova reggia di Versailles, il grandioso palazzo costruito a una ventina di chilometri da Parigi, allontanò la corte dalla popolazione irrequieta della capitale divenendo il centro effettivo del governo e la rappresentazione scenografica del potere del grande sovrano.
Imitata, seppure in scala minore, in tutta l'Europa continentale, Versailles rappresentava l'esempio tangibile di un'egemonia culturale confermata anche nell'adozione del francese come lingua parlata da tutta la nobiltà europea.
Alla corte di Versailles tutto ruotava intorno alla persona del re e alla sua stessa vita privata, a cominciare dalle cerimonie del risveglio e della vestizione alle quali erano ammessi singoli esponenti della grande nobiltà. La partecipazione a questi rituali, regolata dalle norme di etichetta che fissavano la posizione di ognuno nei diversi gradi di vicinanza fisica al sovrano, era un privilegio ambito e ricercato. Ma questi privilegi dispensati dall'alto contribuivano a trasformare i nobili, un tempo "pari" del re di Francia, in sudditi cortigiani al suo servizio.

L'amministrazione e il colbertismo

Al declino della nobiltà di spada corrispondeva l'ascesa della più recente nobiltà di toga, dalla quale erano tratti gli intendenti, esponenti di origine borghese e di nomina regia, ai quali era affidata l'amministrazione delle province, mentre dal centro un ruolo decisivo di coordinamento era svolto dal controllore generale delle finanze, che fino al 1683 fu Jean-Baptiste Colbert.
Il controllo delle finanze e della fiscalità, elemento decisivo di tutti gli Stati moderni, assumeva in Francia un'importanza tanto più decisiva quanto maggiori erano le ambizioni politiche e militari di Luigi XIV.
Colbert avviò una politica economica volta ad aumentare la ricchezza interna della Francia attraverso l'incremento delle esportazioni e l'introduzione di alti dazi doganali sulle importazioni. Questa politica, nota come colbertismo, era una variante del mercantilismo, una prassi comune ai maggiori Stati europei che, se da un lato incrementava i commerci, dall'altro attivava aspre rivalità tra i maggiori protagonisti dei mercati internazionali.
Colbert favorì lo sviluppo delle compagnie commerciali, l'espansione coloniale in India, nelle Antille, in Africa e il consolidamento dei possessi già francesi in Canada; finanziò le manifatture di beni di lusso e ne protesse l'esportazione.
Era inevitabile che questo dinamismo francese entrasse in rotta di collisione con gli interessi delle potenze marittime e commerciali come l'Inghilterra e l'Olanda. In particolare la rivalità con le Province Unite, la repubblica dei mercanti calvinisti, aveva anche delle giustificazioni confessionali con evidenti riflessi sulla politica religiosa di Luigi XIV.

L'uniformità religiosa

L'imposizione dell'uniformità religiosa divenne presto uno degli obiettivi dell'assolutismo monarchico: un'applicazione del principio del cuius regio eius religio, 'la religione del principe sarà anche quella dei sudditi', paradossalmente più rigida di quella in vigore negli Stati tedeschi dopo la pace di Vestfalia del 1648.
Il cattolico Luigi XIV ritenne che la libertà di culto degli ugonotti, i calvinisti francesi, garantita dall'editto di Nantes, concesso nel 1598 dal nonno Enrico IV per la pacificazione religiosa della Francia, andasse cancellata col pretesto che non esistevano più seguaci della «pretesa religione riformata».
In effetti gli ugonotti avevano visto ridotte le loro salvaguardie politiche e militari già dai tempi di Richelieu e ora erano colpiti dalle continue angherie dei reparti militari: ma erano tutt'altro che estinti, se ne contavano tra 800 mila e 1 milione.
La revoca dell'editto di Nantes (1685) determinò – nonostante i divieti di emigrazione, le conversioni forzate e le requisizioni di beni – la fuga e l'esilio di oltre 200 mila ugonotti verso i paesi protestanti in Europa e oltreoceano: la Svizzera, l'Olanda, l'Inghilterra, il Nord America, la colonia olandese del Sud Africa. L'emigrazione si tradusse in un grave danno economico per la Francia che perse molti dei suoi migliori artigiani (ad esempio nel campo della tessitura e dell'orologeria), marinai, ufficiali dell'esercito, mercanti e uomini di cultura. Queste competenze arricchirono i paesi di destinazione e alcuni se ne avvantaggiarono dal punto di vista demografico, come il Brandeburgo e Berlino, dove si trovano ancora molti cognomi francesi.
Tra i motivi che contribuirono alla cacciata degli ugonotti vi era anche una questione di prestigio: rafforzare l'immagine di re cattolico e di difensore della fede offuscata dalla recente vittoria dell'imperatore contro i turchi che si erano spinti ad assediare Vienna (1683).
Nell'imposizione dell'uniformità religiosa Luigi XIV, pur rimanendo fedele alle tradizioni di controllo regio sulla Chiesa di Francia, contribuì alla persecuzione dei giansenisti, più volte condannati dai pontefici romani.
I giansenisti (seguaci del teologo olandese Cornelio Giansenio, 1565-1638) aderivano a una concezione della grazia come dono divino che li apparentava al protestantesimo. Il loro maggior centro spirituale e culturale, il convento di Port-Royal a una trentina di chilometri da Parigi, fu alla fine soppresso e raso al suolo nel 1709.

 

I limiti dell'egemonia francese

Le guerre di Luigi XIV

Non bastavano certo l'imposizione dell'uniformità religiosa, né la repressione delle sparse rivolte contadine, né l'espansione coloniale e neppure la protezione delle arti o lo splendore di una reggia a costruire un grande regno. Per la scala di valori di quell'epoca la fama si otteneva sui campi di battaglia con la gloria militare, con la conquista di nuove città e territori. Per questo si armava e potenziava un esercito permanente, si costruivano opere di difesa e piazzeforti lungo i confini.
Luigi XIV fu quasi sempre in guerra, alternativamente con quasi tutti gli Stati europei. Dal 1667 al 1697 la Francia perseguì con successo l'obiettivo di allargare i propri confini a est, con l'annessione della Franca Contea e della città libera di Strasburgo, e a nord con la conquista di Lille e di parte delle Fiandre a spese dei Paesi Bassi spagnoli.

La guerra di successione spagnola

Quando, nel 1700, Carlo II morì senza figli e con lui si estinse la dinastia degli Asburgo di Spagna, si scoprì che aveva designato come erede universale dei suoi regni Filippo di Borbone, duca d'Angiò, nipote di Luigi XIV e della sua sposa Maria Teresa (sorellastra del re defunto), purché i due rami della dinastia dei Borbone (della monarchia di Francia e di Spagna) rimanessero separati.
Filippo salì sul trono di Spagna, con il nome di Filippo V, ma nessuna delle grandi potenze europee era disposta a credere che la clausola della separazione sarebbe stata rispettata. Luigi XIV per primo, avviando l'occupazione dei Paesi Bassi spagnoli, non sembrava volerla onorare.
Le altre grandi potenze europee – Austria, Inghilterra e Province Unite, seguite tra le altre dalla Prussia – non potevano accettare il rischio dell'unificazione delle corone di Francia e Spagna, che avrebbe dato vita a un enorme impero in Europa e nelle Americhe, ed entrarono in guerra.
Il conflitto che ne seguì durò oltre dieci anni (dal 1702 al 1714) e le due paci che lo conclusero – quella di Utrecht nel 1713 e quella di Rastatt nel 1714 – ridimensionarono le ambizioni di Luigi XIV.
 

L'Europa nel 1714

Fu mantenuta la separazione dei due rami dei Borbone, mentre all'Austria di Carlo VI (1711-40) vennero concessi larghi vantaggi territoriali, a spese della Spagna, in Italia e nelle Fiandre quale compenso alla rinuncia dei diritti degli Asburgo d'Austria alla riunificazione dei domini asburgici quali erano stati al tempo dell'imperatore Carlo V.

Bilancio di un regno

Nel 1715 Luigi XIV morì: il suo lungo regno è considerato come il momento più alto della monarchia assoluta in Europa.
Questo giudizio corrisponde solo in parte a quanto realmente avvenuto dal momento che il progetto assolutista rimase largamente incompiuto e limitato dai molti compromessi con le élites locali e con gli organismi giudiziari, i parlamenti, spesso in conflitto con il sovrano. Riflette invece in larga misura l'autorappresentazione della monarchia, della sua pompa e del suo splendore, propagandata dalle gazzette del tempo e da innumerevoli immagini, tra cui quella di Luigi XIV come il re Sole. Una rappresentazione accettata dai contemporanei e confermata dai posteri.

Il regno di Luigi XV

L'ascesa al trono di Luigi XV (1715-74), pronipote di Luigi XIV, iniziava di nuovo con un periodo di reggenza, affidata a Filippo d'Orléans, dal momento che il nuovo re era anche lui un bambino di appena cinque anni. A differenza del predecessore, tuttavia, quando raggiunse la maggiore età Luigi XV affidò il governo del paese ai suoi ministri.
In un primo periodo il prestigio francese rimase intatto e non mancarono i successi militari e diplomatici, in particolare nel corso di due diverse guerre di successione, quella polacca e quella austriaca, che consentirono l'annessione dell'importante provincia orientale della Lorena.
Durante la cosiddetta guerra dei Sette anni (1756-63), invece, si consumò il conflitto tra Francia e Gran Bretagna, schierate su fronti opposti, per il controllo dei domini coloniali: il conflitto si risolse in una sconfitta epocale dei francesi con la perdita di ampi territori in America del Nord (il Canada) e dei recenti insediamenti in India.
Nonostante questi gravi insuccessi la Francia rimaneva pur sempre la maggiore potenza continentale europea, ma gli scandali, gli intrighi e la corruzione della corte e il ruolo stesso della monarchia interpretato da un re irresoluto in politica e dissoluto nella vita privata sollevavano la critica velenosa dei polemisti, degli intellettuali e dell'opinione pubblica borghese.
Inoltre gli altissimi costi delle guerre avevano ormai innescato una crisi finanziaria alla quale il governo non riuscì a porre rimedio né allora né in seguito, data l'impossibilità di tassare il clero e i ceti nobiliari, fino a sfociare in una più ampia crisi del sistema assolutista e nel suo tracollo con la Rivoluzione del 1789.

 

La rivoluzione del 1688-89 in Inghilterra

 

[ Introduzione audio ]

Gli anni che vanno dal 1660 al 1730 videro in Inghilterra prima la sconfitta di una monarchia a vocazione assolutista, poi il prevalere della sovranità del Parlamento in tutte le grandi questioni politiche — dalla definizione dei diritti dei sudditi alle norme per la successione al trono —, infine la nascita di un governo controllato dal Parlamento.

Da Giacomo Il Stuart a Guglielmo Il d'Orange

Dopo la breve esperienza della Repubblica di Cromwell (1650-60), la restaurazione monarchica della dinastia Stuart, sancita nel 1660 dall'incoronazione di Carlo II, aveva lasciato irrisolto e anzi accentuato il dualismo di poteri tra la Corona e il Parlamento.
Quando nel 1685, dopo la morte di Carlo II, il fratello Giacomo II salì al trono e iniziò a governare, il conflitto si riaccese fino a sfociare tre anni dopo in una soluzione rivoluzionaria.
Giacomo II infatti non solo si era convertito al cattolicesimo, ma dal suo secondo matrimonio, con una nobile italiana della casa d'Este, era nato un erede maschio che minacciava la continuità della monarchia protestante. Inoltre, la politica assolutista del re, ispirata a quella di Luigi XIV, puntava a modernizzare lo Stato costruendo un organismo accentrato e burocratico, a ridurre i privilegi della Chiesa anglicana, a distribuire le cariche tra l'esigua minoranza cattolica.
Tutte queste iniziative suscitarono una diffusa opposizione nel paese tanto da indurre sette esponenti della nobiltà inglese a inviare, nel giugno 1688, una lettera a Guglielmo d'Orange, governatore delle Province Unite e marito di Maria, figlia di primo letto di Giacomo II, per invitarlo a intervenire militarmente in difesa delle «libertà inglesi e della religione protestante».
Approntata una flotta, il 4 novembre 1688, Guglielmo sbarcò sulla costa meridionale dell'Inghilterra con 11 mila fanti e 4 mila cavalieri. Giacomo II, indebolito dalla defezione di molti dei suoi ufficiali, si sottrasse allo scontro, ma venne catturato e brevemente imprigionato, salvo consentirgli, poco dopo, di fuggire in Francia.
Nel febbraio 1689 il Parlamento, dopo una complessa trattativa tra Camera dei Lords e Camera dei Comuni, proclamò Guglielmo e Maria unitamente re e regina d'Inghilterra con il titolo di Guglielmo III e Maria II.

Il Bili of Rights e l'Act of Settlement

Nel mese successivo i due sovrani accettarono una dichiarazione dei diritti che elencava gli abusi di Giacomo II, le prerogative del Parlamento e i compiti dei nuovi sovrani, condizione politica per la loro ascesa al trono.
Questo testo, trasformato in legge dal Parlamento il 18 dicembre 1689, è noto come Bill of Rights («la legge sui diritti dei sudditi e sulle norme della successione»). In una serie di punti si stabiliva, tra l'altro, il divieto per il sovrano di sospendere l'applicazione delle leggi e di tenere un esercito permanente in tempo di pace senza il consenso del Parlamento, si riaffermava la libertà delle elezioni politiche, la libertà di stampa e di parola, nonché il diritto dei sudditi protestanti di tenere armi per propria difesa; infine escludeva la possibilità che un discendente cattolico della famiglia Stuart salisse sul trono di Inghilterra.
Il Bill of Rights divenne la legge fondamentale del regno.
Nel 1701, di conseguenza, di fronte alla mancanza di eredi protestanti del ramo principale degli Stuart, il Parlamento decretò il passaggio del trono alla casata tedesca degli Hannover, lontani parenti protestanti degli Stuart: ci riuscì approvando l'Act of Settlement (la legge della successione che impediva a un cattolico di salire al trono) e riaffermando così la supremazia degli organismi rappresentativi in Inghilterra.

La seconda Rivoluzione inglese: "gloriosa", ma tutt'altro che pacifica

Gli avvenimenti del 1688-89 sono passati alla storia col nome di "gloriosa rivoluzione", una definizione destinata a celebrare la soluzione pacifica di un conflitto in cui vincitori e perdenti avevano tenuto un atteggiamento moderato.
Questa volta il re era fuggito, non era stato decapitato come Carlo I nel 1649 al culmine della prima Rivoluzione inglese, e il radicalismo politico era stato bandito dalla contesa.
Questa volta aveva prevalso la tolleranza nei confronti dei protestanti che non si riconoscevano nella Chiesa anglicana (puritani e quaccheri), liberi ora di professare i loro culti (grazie al Toleration Act del 1689): una tolleranza che non si estendeva tuttavia ai cattolici ("i papisti") che rimanevano nemici irriducibili.
Questa volta la rivoluzione non era sfociata in una dittatura, com'era stata quella di Cromwell, ma era nata una monarchia di tipo costituzionale fondata sulla separazione dei poteri tra re e Parlamento. Un sistema politico che aveva i suoi fondamenti nel Bill of Rights e nella precedente legge sull'Habeas corpus (1679), la norma che impediva gli arresti arbitrari imponendo che entro tre giorni un giudice convalidasse il fermo dell'accusato: questa tutela, che garantiva gli avversari politici, sarebbe diventata uno dei capisaldi di ogni ordinamento liberale e/o democratico.

In realtà la rivoluzione del 1688-89, se fu "gloriosa" per i risultati politici conseguiti, fu tutt'altro cha pacifica.
Non fu il risultato di un tranquillo accordo tra élites politiche e religiose sigillato dal Bill of Rights. Fu invece un aspro conflitto tra schieramenti contrapposti, contrassegnato, come tutte le altre rivoluzioni, da una vasta mobilitazione popolare, da insurrezioni, sommosse e rivolte, soprattutto in Scozia e in Irlanda, e da una dura repressione.
L'episodio più significativo si ebbe nell'estate del 1690, quando lo sbarco in Irlanda del cattolico Giacomo II, alla testa di un contingente francese, aveva costretto Guglielmo III a intervenire. L'11 luglio, lungo il fiume Bovne l'esercito di Giacomo affiancato da milizie raccogliticce di contadini cattolici irlandesi, fu sconfitto dalle più numerose e addestrate truppe di Guglielmo d'Orange, composte da reggimenti scelti olandesi e danesi a cui si erano aggiunti reparti di ugonotti francesi: fu quella l'ultima battaglia confessionale del '600.
La vittoria confermò l'esito della rivoluzione e consolidò la posizione internazionale di Guglielmo III, ma solo nel 1697 Luigi XIV riconobbe la legittimità della nuova monarchia inglese e allentò il sostegno, fino allora concesso, a Giacomo II e ai suoi seguaci.

 

Verso il governo parlamentare in Gran Bretagna

Whigs e Tories

La visione della rivoluzione del 1688-89 come una rivoluzione pacifica è il frutto di una costruzione propagandistica a posteriori compiuta dai Whigs, la fazione politica che dominò la vita politica inglese in quel periodo e per gran parte del '700, in costante antagonismo con i Tories. In realtà, l'ascesa al trono di Guglielmo e Maria fu il risultato di un accordo tra una maggioranza whig della Camera dei Comuni e una minoranza tory presente soprattutto nella Camera ereditaria dei Lords.
La contrapposizione tra i due schieramenti, che diverrà poi quella tra liberali (i Whigs) e conservatori (i Tories), era basata allora più sugli orientamenti politici che sulle diverse origini sociali.
Entrambi i gruppi provenivano dalla nobiltà terriera, grande o piccola, e solo alcuni membri (tra i Whigs) discendevano da una borghesia terriera o cresciuta al servizio dello Stato e poi nobilitata. Monarchici i Tories e legati alla Chiesa anglicana; sostenitori della sovranità del Parlamento i Whigs, ispirati dalle nuove riflessioni politiche maturate in questo periodo, in particolare dal contrattualismo e dall'idea di tolleranza teorizzati dal filosofo John Locke: entrambi erano favorevoli alla politica espansionistica oltreoceano, con una preferenza dei Tories per le conquiste territoriali, mentre i Whigs erano sostenitori dello sviluppo commerciale.

Il governo parlamentare

Nel 1707 la Corona d'Inghilterra (con il Galles) e quella di Scozia si unirono costituendo la Gran Bretagna.
Dopo questo evento e durante il regno dei primi due sovrani della casata degli Hannover, Giorgio I (1714-27) e Giorgio II (1727-60), il predominio whig fu esercitato da Robert Walpole, un uomo politico di grande abilità, dal 1721 al 1742. Fu con lui che nacque quella prassi politica chiamata governo di gabinetto, un governo formato da un gruppo ristretto di ministri scelto e guidato dal leader della maggioranza parlamentare che, su delega del sovrano, esercitava il potere esecutivo sotto il controllo del Parlamento.
Si trattava della prima attuazione di un sistema di governo parlamentare e del passaggio da una monarchia costituzionale a una monarchia parlamentare che in Gran Bretagna si sarebbe realizzata compiutamente nel secolo successivo.
Questo sistema politico rimaneva in graduale definizione, legato com'era non solo alle qualità dei leader del Parlamento, ma anche alla personalità dei sovrani e alla loro propensione a intervenire nella politica della nazione: debole quella di Giorgio I e Giorgio II, decisamente più incisiva quella di Giorgio III, il primo re della dinastia degli Hannover nato in Inghilterra, che regnò dal 1760 al 1820.

I caratteri della vita politica

Nella lunga fase di trasformazione dei rapporti istituzionali tra re, governo e Parlamento, la lotta politica era dominata dal conflitto per mantenere il controllo del patronage, il meccanismo, fondato su relazioni personali e clientelari, che garantiva la distribuzione e il controllo delle più importanti cariche governative.
La corruzione era diffusissima come lo era la pratica di comprare i voti per essere eletti soprattutto nelle piccole circoscrizioni rurali, dominate dai maggiorenti locali, spesso nobili e grandi proprietari terrieri. Un sistema di abusi e irregolarità destinati a essere modificati solo con la riforma elettorale del 1832.
La vita politica era oggetto di vivaci discussioni e critiche da parte di un'opinione pubblica che si veniva formando nei luoghi di ritrovo come le coffeehouses (i caffè) o nella lettura delle gazzette sempre più diffuse anche lontano dalle grandi città.
Tutti questi aspetti erano espressione di un vitale dinamismo della società inglese. Pur rimanendo divisa, essa era concorde nella difesa degli interessi nazionali che ormai vedevano intrecciati lo sviluppo del commercio internazionale e il controllo di vasti territori oltreoceano.

La politica estera

Divenuta ormai la maggiore potenza marittima, la Gran Bretagna era tuttavia pronta a intervenire in Europa, direttamente o sovvenzionando gli alleati, per evitare che l'equilibrio tra le potenze venisse alterato dalle guerre di quegli anni, avvantaggiando stabilmente uno dei contendenti.
Durante la guerra dei Sette anni (1756-63), sotto la guida di William Pitt il Vecchio, gli inglesi sconfissero le ambizioni coloniali della Francia in Canada, nelle Antille e in India. I successi in serie per terra e per mare dell'«anno mirabile 1759» furono poi consolidati dalla pace di Parigi del 1763 che consegnava alla Gran Bretagna un dominio degli oceani destinato a durare per oltre un secolo e mezzo.

 

Le ragioni delle guerre

[ Introduzione audio ]

Le molte guerre di un secolo

Dalla pace dei Pirenei (1659), che aveva chiuso il conflitto tra Francia e Spagna, e fino alle paci di Parigi e Hubertusburg (1763), che conclusero la guerra dei Sette anni, si contano in Europa almeno quindici guerre in cui si confrontarono più di due contendenti.
Guerre per il controllo degli oceani e del commercio internazionale, che videro coinvolte le une contro le altre Gran Bretagna, Olanda, Spagna e Francia; guerre per il dominio del Baltico e dei suoi territori costieri, tra Svezia, Danimarca, Russia, Prussia e Polonia; guerre per la successione dinastica sui troni di Spagna, Polonia, Austria. Vanno ricordate anche le guerre contro i turchi ottomani, combattute dall'Austria nei Balcani e dalla Russia per la conquista delle sponde del Mar Nero.
Gli attori principali degli scenari bellici, in Europa e sul fronte extraeuropeo, furono Francia, Gran Bretagna, Austria e Russia, cui presto si affiancò una giovane potenza, la Prussia, che andava consolidandosi lungo le rive del Mar Baltico.
Le origini di tante guerre si possono spiegare individuando quattro motivi principali spesso intrecciati e coincidenti tra loro: gli interessi commerciali, le questioni dinastiche che sottendono una concezione patrimoniale dello Stato (secondo l'idea che il potere regio si riceve in eredità dal predecessore come se fosse un bene patrimoniale di famiglia), le ambizioni di conquista, il contesto geopolitico.

Gli interessi commerciali

Per i paesi che avevano possedimenti, più o meno ampi, nelle Americhe, nelle Antille, sulle coste africane, in Asia, l'obiettivo delle guerre era per alcuni difendere tali territori per altri quello di accrescerli.
Era in palio il controllo dei commerci più redditizi, come quello degli schiavi africani, o quello delle importazioni e riesportazioni di beni di lusso (tessuti, porcellane) o dei generi coloniali (caffè, tè, zucchero, tabacco).
In questo quadro la Spagna tenne un ruolo difensivo di fronte alla politica aggressiva dell'Olanda, della Francia e soprattutto della Gran Bretagna.

Le questioni dinastiche

In questo periodo ogni variazione delle regole di successione dinastica divenne motivo di conflitto tra le potenze: dal momento che quasi tutte le case regnanti erano in qualche misura imparentate tra loro, era sempre possibile rivendicare diritti nel caso di estinzione della linea diretta maschile di successione.
Scendevano allora in campo gli eserciti e si dava avvio a una guerra: ma dopo qualche anno e molte battaglie interveniva la diplomazia che, attraverso una serie di compensazioni territoriali, riportava in equilibrio il sistema dei rapporti di forza tra le potenze.
Così era accaduto al tempo della guerra di successione spagnola, e così accadde per la successione polacca e, poco dopo, nel 1740, per quella austriaca.
Alla morte dell'imperatore Carlo VI, privo di eredi maschi, la figlia Maria Teresa salì al trono dei domini di casa d'Austria, come era stato stabilito da una norma, la Prammatica sanzione, emessa dallo stesso imperatore molti anni prima (nel 1713), per consentire la discendenza femminile fin allora proibita dall'antica Legge salica.
Le potenze, che appena due anni prima avevano trovato un accordo con l'Austria al termine della guerra di successione polacca grazie a molte compensazioni territoriali a danno degli Asburgo in Italia, rientrarono in guerra: erano principalmente Francia, Spagna e Prussia (quest'ultima però non aveva preso parte al precedente conflitto dinastico).
Il primo a muoversi fu il re della Prussia, Federico II, che occupò la ricca provincia della Slesia fino allora in mano austriaca.
Dopo otto anni di scontri, la pace di Aquisgrana del 1748 provvide ad alcuni scambi e restituzioni territoriali, ma la Prussia riuscì a conservare la Slesia; inoltre, le potenze che avevano combattuto contro l'Austria (e i suoi alleati) riconobbero la validità della Prammatica sanzione e accettarono l'ascesa al trono imperiale di Francesco di Lorena, consorte di Maria Teresa d'Austria.

Le ambizioni di conquista

Se alla metà del '700 apparivano risolti i problemi legati alle successioni dinastiche, non per questo si erano placate le ambizioni di conquista degli Stati più aggressivi e dinamici.
Tra Francia e Gran Bretagna era ormai in atto un conflitto planetario, con i francesi impegnati a ostacolare il predominio coloniale britannico. Al centro dell'Europa, invece, la giovane potenza prussiana non si sentiva ancora garantita nelle sue conquiste, accerchiata com'era da Austria, Francia e Russia.
Le tensioni scoppiarono nella guerra dei Sette anni (1756-63), che si combatté su due fronti: europeo ed extraeuropeo.
Fu Federico II di Prussia a dare inizio alla guerra, ma le sue straordinarie vittorie militari contro francesi e austriaci non gli avrebbero assicurato il successo finale: solo l'improvvisa morte della zarina Elisabetta, sua acerrima nemica, e l'ascesa al trono di Russia del filoprussiano Pietro III consentirono alla Prussia di uscire indenne dalla guerra.
Sul fronte extraeuropeo la vittoria della Gran Bretagna sulla Francia, sancita nel 1763, pose un freno all'espansione coloniale francese, mentre sul continente europeo si stabilì una nuova intesa tra Prussia, Austria e Russia che avrebbe portato, a partire dal 1772, alla progressiva spartizione del grande Regno di Polonia.

Il contesto geopolitico

Il vario alternarsi di dinastie in Italia e la spartizione della Polonia sono tra le conseguenze più significative delle guerre del '700.
Proprio questi risultati trovano una spiegazione se utilizziamo un criterio di analisi geopolitica, un criterio che tiene conto della posizione geografica delle singole aree e della forza delle organizzazioni statali che gravitano su di esse.
Da questo punto di vista è possibile distinguere in Europa tra aree forti e aree deboli. Le prime si collocano lungo il margine atlantico (Spagna, Portogallo, Francia, Gran Bretagna e Province Unite) o appartengono alla Scandinavia, alla Prussia e alla Russia: tutte corrispondono a realtà storiche, linguistiche e religiose sostanzialmente definite e a strutture politico-amministrative già consolidate o in via di costruzione.
Un arco di aree forti circonda dunque a ovest, a nord e a est due grandi aree deboli, il bassopiano tedesco-polacco dall'Elba al Dnjepr e la Penisola italiana: deboli per la labilità dei confini e per un regime politico soggetto all'ingerenza continua delle potenze confinanti, nel caso della Polonia, o per l'assenza di uno Stato unitario, nel caso dell'Italia.

Gli eserciti

Guerre numerose dunque per tutto il '700, ma non drammaticamente letali come erano stati i massacri delle popolazioni al tempo dei conflitti religiosi.
Per condurre queste continue guerre era necessario potenziare gli eserciti ormai divenuti permanenti. Un potenziamento che si ottenne non solo con il numero dei soldati arruolati, ma con l'addestramento continuo e il rafforzamento della disciplina.
I due aspetti erano strettamente collegati: si trattava di trasformare in soldati professionali a lunga ferma contadini arruolati spesso con l'inganno, sbandati, piccoli malviventi. Soldati resi uniformi dalla divisa, soggetti a una disciplina spesso durissima, che dovevano imparare a marciare rapidamente tenendo le linee compatte e a non scompigliarle sotto il fuoco nemico.
Soldati addestrati a sparare, a caricare e ricaricare rapidamente il moschetto, pronti a usare la baionetta negli scontri ravvicinati.
Sempre più frequente era l'arruolamento nei territori dello Stato (con l'obbligo per le singole province di fornire un certo numero di reclute, come avveniva in Prussia), ma erano diffuse truppe professionali provenienti da paesi e regioni che da secoli fornivano contingenti mercenari, come la Svizzera, la Scozia, l'Irlanda nonché l'Asia e il Brunswick in Germania.
Si trattava anche di assicurarsi la fedeltà e la competenza di un corpo di ufficiali, nei primi tempi tratti dalla nobiltà cadetta di tutta Europa, ma in seguito sempre più originari degli Stati in cui prestavano servizio.

La burocrazia e l'amministrazione

L'alto costo delle guerre, degli armamenti e degli approvvigionamenti richiedevano un'organizzazione e una burocrazia in grado di raccogliere e amministrare le risorse materiali e umane. Come scrisse Federico II nel 1747, «Il maggior segreto nella condotta della guerra e il capolavoro per un buon generale è di riuscire ad affamare l'avversario. La fame esaurisce il nemico più sicuramente del coraggio altrui e voi otterrete il successo con meno rischi che attraverso il combattimento».

 

L'ascesa della Prussia

Una nuova potenza in Europa

«Giù il cappello, signori. Se ci fosse stato lui, noi oggi non saremmo qui».
Questo fu l'omaggio che Napoleone, vincitore a Jena contro i prussiani nel 1806, rese di fronte alla tomba di Federico II.
L'imperatore francese celebrava il grande generale, ma Federico II va ricordato soprattutto per il suo contributo decisivo all'ascesa della Prussia al rango di grande potenza. Un risultato ottenuto non solo con le vittorie militari, ma con il sistematico rafforzamento dello Stato e della sua amministrazione volta soprattutto a garantire il finanziamento e il funzionamento di una efficiente e potente macchina bellica.
Alla fine del regno di Federico II, la Prussia poteva mettere in campo un esercito di 195 mila uomini mentre la Francia, con una popolazione almeno tripla, ne schierava poco più di 180 mila.
Come dicevano i contemporanei, la Prussia non era «uno Stato con un esercito, ma un esercito con uno Stato». In tutti gli aspetti relativi all'organizzazione militare la Prussia divenne, nella seconda metà del '700, la potenza militare più temibile anche grazie alla superiore capacità tattica e ai successi sui campi di battaglia di Federico II contro avversari spesso più numerosi dei prussiani.
Protagonista delle guerre contro la Francia di Napoleone e alla fine vincitrice dopo molte umilianti sconfitte, la Prussia sarebbe diventata, nell'800, l'elemento propulsore dell'unificazione tedesca, ottenuta dopo la sconfitta della Francia nel 1870. Per questo la sua ascesa riveste un significato decisivo nella storia europea.

La composizione territoriale del Regno di Prussia

Il regno di Federico II (1740-86) si collocava al termine di un processo che era iniziato nei primi decenni del '600.
E infatti nel 1618 che la Prussia, una regione posta sul Baltico al confine orientale della Polonia (cui era legata da vincoli feudali) oltre che possesso originario dell'Ordine teutonico, si aggiunse ai territori del principe del Brandeburgo, una regione storica della Germania centro-settentrionale. Prussia e Brandeburgo erano e rimasero distanti tra loro per oltre un secolo e mezzo. Quando l'elettore del Brandeburgo (della famiglia degli Hohenzollern) divenne re di Prussia, nel 1701, le due regioni erano ancora separate: il Brandeburgo a ovest con capitale Berlino e la Prussia a est con capitale Königsberg, la patria del filosofo Immanuel Kant.

La formazione della Prussia

Solo con la prima spartizione della Polonia, nel 1772, si stabili una continuità territoriale tra est e ovest. Peraltro al nuovo regno appartenevano anche altri più piccoli Stati territoriali posti nella Germania occidentale.
Proprio questa frammentarietà sollecitò i principi elettori del Brandeburgo e poi i primi re di Prussia a potenziare l'accentramento e l'amministrazione statale: si trattava di piegare la nobiltà feudale e terriera, gli Junker, al servizio dello Stato nell'amministrazione e nell'esercito e di ridurre i privilegi e le autonomie periferiche.
Un esercito permanente era stato creato già da Federico Guglielmo il Grande Elettore (1640-88) per poter entrare in gioco nei numerosi conflitti di quell'epoca. Dopo la prima guerra del Nord (1654-60), con cui si era inserito nel conflitto per la supremazia sul Baltico, il Grande Elettore ottenne la fine della dipendenza feudale della Prussia dal Regno di Polonia, mentre la Svezia conquistava il dominio sul Baltico assicurandosi anche il controllo delle coste settentrionali della Germania.
Ma nella successiva seconda guerra del Nord, terminata nel 1720-21, la Svezia fu sconfitta: il controllo del Baltico passò alla Russia, mentre il Regno di Prussia ottenne la Pomerania e la città di Stettino che divenne il suo porto principale.

L'impulso ai commerci e alle manifatture

Questo risultato consentiva alla Prussia di partecipare ai lucrosi commerci del Baltico che fornivano legnami per la costruzione delle navi delle potenze marittime e cereali per i paesi a forte urbanizzazione e demograficamente più sviluppati.
Dal momento che il numero degli abitanti era considerato uno degli elementi della ricchezza di un paese, venne visto positivamente l'arrivo degli emigrati ugonotti dalla Francia nelle città del Brandeburgo e soprattutto a Berlino, dove contribuirono a sviluppare le attività manifatturiere di una città prevalentemente burocratica.
Ma la vocazione principale della Prussia rimase, in questo periodo, quella militare per contrastare le altre grandi potenze territoriali dell'Europa centrale.

 

La Russia da Pietro il Grande a Caterina II

Alla metà del '700 la Russia prese parte alla guerra dei Sette anni: per la prima volta il grande impero dell'Europa orientale si spingeva con il suo esercito nei territori tedeschi confrontandosi con i grandi Stati continentali.
Nei primi anni del secolo la Russia aveva infatti interrotto il suo isolamento ed era ormai assurta al rango di grande potenza europea, dopo la conquista dell'egemonia sul Baltico, seguita alla sconfitta di Carlo XII di Svezia sul campo a Poltava, in Ucraina nel 1709, e alla pace di Nystadt del 1721.

Le politiche di Pietro I il Grande

Artefice di questa trasformazione fu lo zar, e poi imperatore, Pietro I il Grande (1682-1725).
Rientrato a Mosca dopo un lungo viaggio in Europa occidentale, dove ebbe modo di conoscere direttamente i sistemi di governo e dare sfogo alla sua curiosità per la tecnica militare e le costruzioni navali (in Olanda lavorò in un cantiere), nel 1698 Pietro assunse direttamente il potere fin allora tenuto da una reggente.
Dotato di grande determinazione ed energia (anche fisica: era alto più di due metri), diede inizio alla modernizzazione della Russia.
Al di là di alcune iniziative fortemente simboliche, come l'imposizione del divieto di portare le tradizionali lunghe barbe a conferma del passaggio a costumi più occidentali, l'opera di Pietro fu interamente politica e militare.
Il giovane zar – aveva allora 26 anni – seguì le tre abituali direttrici riformatrici volte a costruire un sistema di governo secondo il modello delle monarchie assolute: creazione di un esercito permanente, con un parziale reclutamento obbligatorio; depotenziamento della grande nobiltà posta ora al servizio dello Stato; costruzione di un sistema amministrativo e di un sistema fiscale in grado di fornire le risorse alla nascente potenza militare.
Inoltre, per vincere la sfida della supremazia nel Baltico era indispensabile sconfiggere per terra e per mare la Svezia, che era il principale avversario dell'impero russo. Fu così sviluppata anche una marina da guerra mentre gli effettivi dell'esercito giunsero a quasi 300 mila uomini di cui 100 mila cosacchi che, in cambio del riconoscimento dell'autonomia delle loro comunità, prestavano una lunghissima ferma militare.
L'obiettivo del Baltico era confermato anche dalla fondazione nel 1703 di una nuova capitale, San Pietroburgo, progettata da architetti italiani sull'estuario del fiume Neva, all'estremità orientale del golfo di Finlandia: una città presto divenuta scenografia monumentale del nuovo potere russo e insieme principale porto militare e commerciale.

L'impatto sociale delle riforme

Un passaggio decisivo verso un'amministrazione moderna fu l'apertura a tutti (nobili e borghesi) dell'accesso alle cariche statali, mentre ogni avanzamento fu basato sulla preparazione e sul merito.
Nel 1722 la Tabella dei ranghi suddivise tutte le carriere (militari, civili, di palazzo) in quattordici gradi; stabilì inoltre che tutti, compresi i nobili, sarebbero partiti dal livello più basso, e che il raggiungimento dell'ottavo grado avrebbe comportato il conferimento della nobiltà a chi ne era privo. Veniva così favorita una mobilità sociale ascendente nel quadro dell'amministrazione dello Stato.
Il potere dello zar, che si estendeva anche sulla Chiesa ortodossa e sulle proprietà ecclesiastiche, era privo di ogni controllo, anche di quelli che nelle monarchie assolute occidentali potevano provenire dagli organismi giudiziari o dalle autonomie periferiche.
La Russia era ormai divenuta un'autocrazia, che corrispondeva al titolo che Pietro si diede nel 1721 di «imperatore e autocrate di tutte le Russie».
La modernizzazione autocratica non intaccò le basi sociali del mondo rurale russo basate sulla nobiltà terriera e sulla servitù della gleba: anche se le antiche sopravvivenza schiavistiche vennero abolite, la servitù e la connessa proprietà sulle persone e il controllo sui movimenti dei contadini servi si mantennero fino al 1861, quando fu soppressa dall'imperatore Alessandro II.

Elisabetta I e Caterina II

La rapidità con cui furono realizzate tante riforme era destinata a creare malcontento soprattutto tra la nobiltà, e i successori di Pietro dovettero rallentarne la rigida applicazione. Il nuovo sistema di potere poteva funzionare correttamente solo se esercitato da personalità forti, in grado di muoversi abilmente e con determinazione tra le insidie della grande nobiltà e gli intrighi di corte.
Dopo la morte dello zar riformatore, nel 1725, solo Elisabetta I (174162), che impegnò la Russia nella guerra dei Sette anni contro la Prussia, e soprattutto Caterina II (1762-96), che riprese i progetti riformatori ed estese i territori russi in Polonia e verso il Mar Nero, possono reggere il confronto con il grande Pietro.

L'Europa nel 1748

 

I risultati di cento anni di guerre

La gerarchia delle potenze

Gibilterra, la rocca che controlla gli accessi al Mediterraneo, è dal 1713 un possesso britannico.
Il Québec, la maggiore colonia della Francia nell'America settentrionale, grande cinque volte l'Italia e dove ancora si parla francese, fu conquistata dalla Gran Bretagna nel 1759 e da allora fa parte del Canada, che fu colonia britannica prima di diventare Stato indipendente.
Sono due esempi degli esiti delle guerre del '700 che modificarono i confini degli Stati e le appartenenze delle colonie, instaurando una nuova gerarchia tra le potenze europee.
La Spagna scese di rango e così le Province Unite e la Svezia, mentre emersero le nuove grandi potenze di Prussia e Russia e la Gran Bretagna ottenne l'egemonia sugli oceani.
Dalla Penisola iberica a occidente alla Russia e ai Balcani a oriente, per chiudere con l'Italia a sud, possiamo seguire sulla carta d'Europa la diversa entità dei cambiamenti intervenuti in un secolo.

 - Portogallo Nel 1703, durante la guerra di successione spagnola, il Portogallo aveva siglato accordi con l'Inghilterra in base ai quali erano stati stabiliti reciproci vantaggi per gli scambi commerciali tra i vini portoghesi e i tessuti di lana inglesi. Tali accordi, noti anche come Port Wine Treaty (in riferimento al porto, vino liquoroso molto diffuso in Gran Bretagna), contribuirono a mantenere l'impero coloniale portoghese, che comprendeva il Brasile, fuori dai conflitti tra le potenze.
 - Spagna Al termine della guerra di successione spagnola, la Spagna aveva perso tutti i suoi possedimenti in Italia e nei Paesi Bassi; aveva dovuto riconoscere anche le conquiste inglesi di Gibilterra e dell'isola Minorca (tornata definitivamente spagnola nel 1802) e cedere il monopolio dell'asiento (il commercio degli schiavi verso le colonie spagnole) a una compagnia commerciale inglese. Tuttavia, al termine della guerra di successione polacca, nel 1738, la nuova dinastia dei Borbone di Spagna ottenne il Regno di Napoli e di Sicilia che un ramo cadetto (i Borbone di Napoli) governerà dal 1759 al 1860.
 - Francia Ai successi iniziali delle "guerre di rapina" di Luigi XIV, che videro l'ampliamento dei confini territoriali francesi a est e a nord, con città come Strasburgo e Lille, si sarebbe aggiunta per via ereditaria la Lorena nel 1766. Nel complesso, pur mantenendo una posizione preminente in Europa, la Francia subì grandi perdite nei suoi possessi coloniali ceduti alla Gran Bretagna nel 1763: oltre al Canada francese (Québec), parte della Louisiana (un'altra parte andò alla Spagna), alcune isole delle Antille (Dominica, Grenada, Saint Vincent e le Grenadines, Tobago) e molti dei suoi possessi in India.
 - Paesi Bassi spagnoli I Paesi Bassi spagnoli (o del Sud), corrispondenti agli attuali Belgio e Lussemburgo, passarono all'Austria dopo la guerra di successione spagnola. i sovrani austriaci non riuscirono durante il loro dominio, durato fino al 1794, a ottenere dalle Province Unite la riapertura dell'estuario del fiume Schelda (privilegio ottenuto dagli olandesi nel 1648), la cui chiusura aveva strangolato le fiorenti attività commerciali della città di Anversa.
 - Province Unite Uscite sostanzialmente indenni dalle guerre di fine '600 e anzi col prestigio accresciuto dalla difesa contro Luigi XIV, le Province Unite non sarebbero state più tra i protagonisti del '700. Conservarono tuttavia intatti i grandi possessi coloniali in Indonesia e lungo le coste dell'America Latina e nei Caraibi mantenendo il ruolo di grande potenza commerciale grazie alle due compagnie delle Indie orientali e delle Indie occidentali.
 - Gran Bretagna Superate le tensioni rivoluzionarie e pacificati i conflitti interni, l'Inghilterra o, più correttamente a partire dal 1707, la Gran Bretagna giocò un ruolo decisivo durante la guerra di successione spagnola per poi dedicarsi prevalentemente ad accrescere i suoi possedimenti coloniali a spese della Spagna e soprattutto della Francia.
 - Prussia Se messa a confronto con la permanente frammentazione dei piccoli Stati tedeschi, esclusa la Baviera, l'ascesa della Prussia a grande potenza militare e territoriale rappresenta l'avvenimento più significativo del '700 nell'Europa continentale. Conquistata e difesa la Slesia, gli ulteriori ingrandimenti avvennero soprattutto a spese della Polonia.
 - Svezia e Polonia Potenza militare egemone nell'area del Baltico alla metà del '600, sconfitta dalla Russia, la Svezia non riuscì più a svolgere un ruolo di rilievo dopo il 1720. Vittima delle sue debolezze istituzionali, invece, il Regno di Polonia — più esattamente la Confederazione polacco-lituana — rimase preda dei più potenti vicini, Prussia, Austria e Russia, che l'accerchiavano da tutti i lati. Nelle tre spartizioni del 1772, 1793 e 1795 perse tutti i suoi territori e Varsavia divenne una città prussiana.
 - Russia Dopo la sconfitta della Svezia e la raggiunta egemonia sul Baltico ottenuta da Pietro il Grande, la Russia volse le sue armi contro l'impero ottomano raggiungendo il mar Nero tra il 1774 e il 1783 ed ergendosi contemporaneamente a protettrice delle minoranze ortodosse contro i turchi.
 - Austria Ottenuti i possedimenti spagnoli in Italia dopo la guerra di successione spagnola, già nel 1738 l'Austria dovette cedere il Regno di Napoli e di Sicilia ai Borbone di Spagna. La pace di Aquisgrana (1748), che pose termine alla guerra di successione austriaca, confermò la perdita della Slesia conquistata dalla Prussia e decise la cessione del Ducato di Parma a un ramo cadetto dei Borbone di Spagna. L'Austria conservava in Italia la Lombardia con Milano e Mantova, mentre il Granducato di Toscana, dopo l'estinzione dei Medici, era andato a Francesco di Lorena, marito di Maria Teresa d'Austria. Il bilancio non era positivo per l'Austria anche per i risultati delle lunghe guerre nei Balcani contro l'impero ottomano. Dopo la liberazione di Vienna dall'assedio turco (1683) gli eserciti austriaci si erano spinti verso sud sotto la guida di Eugenio di Savoia conquistando Belgrado nel 1717. Ma nel 1739 gli ottomani avevano ripreso gran parte dei territori perduti.
 - Italia Nella Penisola italiana il '700 si presenta con due volti diversi. Da un lato mantenevano la continuità politica e territoriale le Repubbliche di Genova e di Venezia e lo Stato pontificio, dall'altro si alternavano le case regnanti o se ne installavano di nuove tra il 1713 e il 1748, come abbiamo visto accadere in Lombardia, a Parma, in Toscana, nei Regni di Napoli e di Sicilia. Solo a partire dal 1748 la situazione italiana si può dire stabilizzata. In questo contesto l'unico significativo elemento di autonomo protagonismo è quello rappresentato dal Piemonte dei Savoia che vide premiata la politica opportunistica con l'acquisto della Sicilia nel 1713 e il connesso titolo regio. L'abilità di Vittorio Amedeo II (1675-1732) consenti allo Stato sabaudo di uscire dalla sudditanza francese, che durava da oltre un secolo e mezzo, e di affermarsi, grazie alla riorganizzazione amministrativa e alla costruzione di un forte esercito, come una "piccola" potenza, decisiva per le sorti future dell'Italia. Nel 1718 i Savoia dovettero cedere la Sicilia all'Austria, ottenendo in cambio la Sardegna e assunsero da allora quel titolo di re di Sardegna che porteranno fino al 1861 quando, con l'unificazione, Vittorio Emanuele II diverrà re d'Italia.

L'Italia nel 1713 e nel 1748

 

 

LA SOCIETÀ E L'ECONOMIA

 

 

La demografia del '700

La crescita demografica

L'aumento della popolazione delle città, e in particolare delle città capitali, è il segnale più vistoso della crescita demografica del '700. Londra passa da 700 mila a 950 mila abitanti, Parigi raggiunge i 650 mila alla fine del secolo. In Italia è Napoli la città più popolosa: cresce da poco più di 200 mila a oltre 300 mila abitanti nel corso del '700. Crescono le città che sono grandi centri commerciali e produttivi, ma crescono anche le capitali prevalentemente burocratiche come Vienna e Berlino.
Ma perché aumentano gli abitanti delle città? Non tanto per una crescita naturale della popolazione quanto per una costante migrazione verso i grandi centri. In questo periodo si determinò infatti, nelle aree rurali, un surplus demografico e gli individui giovani si trasferirono nei centri urbani impegnandosi nei lavori più richiesti: servi e serve per le famiglie nobili o agiate, manovali, apprendisti; inoltre, quanti avevano titoli di studio o competenze specifiche trovarono impiego nel campo delle libere professioni o presso le amministrazioni pubbliche.

Le ragioni della crescita

Tra le ragioni che spiegano l'incremento demografico del secolo in quasi tutta l'Europa, se ne possono indicare con ragionevole certezza almeno tre: l'aumento fisiologico della popolazione, l'aumento della produzione agricola, l'aumento del numero dei matrimoni.
 - Una ripresa fisiologica Al lungo periodo di diminuzione della popolazione, imputabile alle guerre, alla peste e alle carestie del '600, fece seguito una fase di ripresa fisiologica: così era avvenuto dalla metà del '400 e così avvenne dalla fine del '600. Così è avvenuto anche in tempi più recenti, dopo le grandi guerre mondiali.
 - L'aumento della produzione agricola La diminuzione delle grandi epidemie determinò una diminuzione della mortalità catastrofica (quella dovuta a guerre e carestie, oltre che alle epidemie), mentre l'aumento della produzione agricola sostenne la crescita della popolazione. Si interruppe così il tradizionale andamento del ciclo demografico nel quale la scarsità di risorse disponibili arrestava l'aumento della popolazione.
 - L'aumento dei matrimoni Contemporaneamente si assistette all'aumento del numero dei matrimoni e alla diminuzione dell'età degli sposi: sposarsi più giovani comportava la possibilità di avere più figli, e ciò contribuì a far crescere il tasso di natalità. Diminuì per contro la pratica del matrimonio tardivo, diffusa soprattutto nell'Europa centrale e settentrionale dove, fino ad allora, le donne si sposavano a 24-26 anni: questa pratica aveva ridotto di 6-8 anni il periodo di fecondità naturale entro il matrimonio attivando un controllo implicito delle nascite; né erano al tempo molto numerosi i figli illegittimi sia per il rispetto delle norme religiose, sia per la frequente soppressione dei nati fuori dal matrimonio.

Il nesso tra natalità e mortalità

L'aumento della natalità e la riduzione della mortalità (in particolare di quella infantile) sono condizioni determinanti per la crescita della popolazione.
Nel corso del '700 e poi dell'800 si verificò infatti, in Europa, un incremento demografico dovuto in particolare all'aumento dei tassi di natalità e alla diminuzione costante della mortalità. Di questa crescita della popolazione, che segna la cosiddetta prima transizione demografica (cioè il passaggio da un sistema demografico tradizionale uno moderno), furono protagonisti i paesi economicamente più sviluppati. In seguito, invece, a partire dalla fine dell'800, cominciò, seppure in tempi diversi a seconda dei luoghi, la seconda transizione demografica, caratterizzata dalla contemporanea diminuzione della mortalità e della natalità, tipica delle società contemporanee.

Le malattie infettive

Sul tasso di mortalità influirono nel '700 anche le epidemie. Le grandi epidemie di peste si ridussero ad episodi marginali, ma in generale le malattie infettive e contagiose mantennero elevato il loro carattere letale soprattutto entro le grandi agglomerazioni urbane. Il tifo e la dissenteria proliferarono facilitati dalle cattive condizioni igieniche, mentre il vaiolo continuava a mietere vittime in tutti gli strati sociali lasciando sfigurati nel corpo e nel volto quanti contraevano la malattia. La maggiore organizzazione ospedaliera non ridusse la mortalità, anzi probabilmente la aumentò, poiché i luoghi di cura accentuavano le occasioni di contagio. L'inoculazione antivaiolosa, a cui si ricorreva nel '700, era spesso letale e, fino alla scoperta di Edward Jenner sull'efficacia della vaccinazione effettuata con i germi del vaiolo (1796), l'unico rimedio rimaneva quello di circoscrivere il contagio.

Crescita demografica e sviluppo economico

Nonostante gli ostacoli frapposti dalle malattie infettive, l'aumento della popolazione nel '700 è certificato da tutti i dati disponibili, per quanto frammentari e approssimativi, ed è ragionevolmente collegabile allo sviluppo economico. Confortano questa tesi alcuni fenomeni demografici, sebbene anteriori a questo periodo: il grande centro mercantile di Amsterdam, per fare un esempio, vide crescere la sua popolazione da 54 mila a oltre 200 mila abitanti proprio nel corso del '600, nell'epoca del suo massimo splendore, per rimanere poi stabile nel '700, in un periodo di parziale declino.

 

Mobilità e gerarchie sociali

La mobilità sociale

L'aumento della popolazione determinò anche una significativa mobilità sociale ascendente, ossia un diffuso cambiamento in meglio dello status sociale? Non è possibile dare una risposta univoca a questo interrogativo. Un certo peso ebbe lo sviluppo economico, di cui si dirà nei paragrafi finali del capitolo. È evidente, infatti, che nei settori investiti dallo sviluppo — nuova agricoltura, industria domestica, manifatture, traffici commerciali — si registrarono forme di ascesa sociale accompagnate da una nuova ricchezza personale o familiare. Lo stesso avvenne all'interno delle amministrazioni pubbliche con l'aumento delle funzioni e delle cariche, mentre fu costante l'ascesa di chi era impegnato nelle libere professioni: avvocati, notai, medici. Ma le spinte innovative si scontrarono, in particolare nell'Europa continentale, con la permanenza di una struttura e di un ordinamento normativo della società organizzati rigidamente in base alla tradizione e al rango.

La società per ceti

Contadini, popolani di città, borghesi, proprietari terrieri, nobiltà, clero: questi erano i ceti o i gruppi sociali prevalenti nella società di ancien régime, distribuiti in una piramide a base molto larga su cui poggiavano i vertici della nobiltà e del clero. Ad ogni ceto si apparteneva per nascita ed era estremamente difficile uscire dal proprio status di provenienza. Chi nasceva nobile rimaneva nobile tutta la vita. E chi nasceva contadino aveva altissime probabilità di restare tale. Cambiare ceto era un evento eccezionale, possibile solo in virtù del conferimento di privilegi particolari, come quelli delle "patenti di nobiltà" concesse a un borghese. Solo nel clero non si accedeva per nascita, ma i gradi alti della carriera ecclesiastica erano prevalentemente prerogativa della nobiltà.

I privilegi e la diseguaglianza dei diritti

La società per ceti era caratterizzata dai privilegi, ossia dalle norme e dalle giurisdizioni particolari riservate a ogni gruppo. L'appartenenza a un ceto comportava il godimento di certi diritti e l'esclusione da altri: questo era il fondamento giuridico della diseguaglianza sociale. La società per ceti trovava anche un riconoscimento ufficiale nell'ordinamento politico di molti Stati che mantenevano rappresentanze e assemblee per ceti, tali è determinare, in molti casi, tensioni e conflitti nei rapporti col potere centrale. Il sistema più noto era quello dei tre ordini, o stati, francesi: clero, nobiltà e terzo stato. Quest'ultimo raccoglieva tutti i sudditi che non appartenessero ai primi due ordini, dal grande mercante al più povero dei contadini.
Molti contemporanei consideravano questo ordinamento per ranghi un carattere immutabile della società e le differenze, anche minime, di status erano aspramente difese, soprattutto quando comportavano un'esenzione fiscale totale o parziale. Ma nel corso dell'ultima parte del '700 molte voci critiche si levarono contro questo sistema.

La critica al sistema dei privilegi

Intellettuali e pensatori politici attaccarono i privilegi fiscali del clero e della nobiltà non solo sul piano dei principi, ma anche perché aggravavano la crisi finanziaria degli Stati. Inoltre, molti scrittori posero al centro dei loro romanzi le differenze di rango e gli ostacoli frapposti agli spontanei sentimenti dei giovani innamorati: sentimenti ostacolati dal forzato rispetto delle tradizioni e dalla prospettiva di matrimoni combinati a tutela degli interessi patrimoniali delle famiglie. Seppure di qualche anno più tardi, il romanzo Orgoglio e pregiudizio (1813) della scrittrice inglese Jane Austen ci restituisce un'analisi illuminante delle convenzioni sociali dominanti all'epoca: la ribellione della giovane protagonista femminile (Elisabeth) a queste norme, e la sua combattività, sostenuta da sensibilità e intelligenza, conferiscono all'opera la forza comunicativa di un pamphlet politico radicale.

 

Famiglia, matrimoni e figli

La composizione delle famiglie

Nel '700 la struttura familiare dominante è ancora quella della famiglia estesa o allargata, in cui convivono tre generazioni (nonni, genitori e figli) insieme con altri parenti (zii e zie, spesso celibi e nubili, ma talora coniugati e con figli) e con una presenza variabile di domestici e garzoni: è il modello familiare prevalente nelle campagne, sia tra i ceti popolari sia tra quelli più elevati. Molto spesso l'economia familiare, per quanto garantita dalla disponibilità di numerose "braccia" per le attività lavorative, poteva entrare in crisi per le troppe "bocche" da sfamare: per questo alcuni giovani membri erano affidati o ceduti ad altre famiglie oppure migravano verso i centri urbani in grado di offrire loro un lavoro. Ma proprio nelle città, in questo periodo, si veniva affermando gradualmente, soprattutto nelle prime generazioni degli immigrati urbani, un nuovo modello familiare: la famiglia nucleare o coniugale, formata dai soli genitori e figli.

Gli inizi della contraccezione

L'aumento demografico e la relativa mobilità sociale, di cui si è detto, favorivano inoltre la diffusione di nuovi modelli culturali e comportamentali come risposta ai problemi delle famiglie troppo numerose. In alcuni paesi, come la Francia rurale e l'Ungheria, e in alcuni gruppi sociali come la borghesia ginevrina e la nobiltà italiana, ma anche in gruppi etnico-religiosi come gli ebrei italiani, si comincia a registrare infatti la tendenza a intervenire sui ritmi naturali della fecondazione limitando le nascite. Per quanto circoscritto, anche per la limitatezza delle ricerche in proposito, tale fenomeno è l'indicatore di un nuovo atteggiamento di controllo razionale della vita sessuale e affettiva. Dal momento che la cronologia di questi comportamenti sembra non coincidere con i grandi mutamenti politici e culturali di fine secolo, i motivi principali che gli storici e i demografi hanno individuato per spiegare il fenomeno sono tre: l'esigenza di tutelare la proprietà, una maggiore attenzione alla salute della donna, l'affermarsi di una nuova sensibilità per l'infanzia.
 - La tutela della proprietà La proprietà immobiliare rurale o urbana, soprattutto se di recente acquisizione e se non garantita dalle norme feudali del maggiorascato, non doveva rischiare, dove vigeva la divisione ereditaria, di essere eccessivamente frammentata tra un numero troppo elevato di figli.
 - L'attenzione alla salute delle madri Una maggiore attenzione alla salute della donna cominciò a diffondersi verso la fine del '700: soprattutto nelle famiglie altoborghesi e in qualche settore della nobiltà, queste attenzioni erano volte al fine di preservare le madri dall'eccessivo numero di gravidanze, causa di innumerevoli morti precoci per parti e di nascite a rischio.
 - La nuova centralità dell'infanzia Infine, i bambini, considerati fino allora come adulti in miniatura, iniziarono ad essere oggetto di sollecitudini particolari, di tenerezza, di attenzioni mirate alla loro età e alla loro educazione: atteggiamenti che contribuirono a distanziare le nascite.

La discendenza delle case regnanti

La necessità di garantire una discendenza escludeva ogni forma di limitazione delle nascite nelle famiglie regnanti. La regine Anna di Inghilterra quando salì al trono nel 1702, a trentasette anni, non aveva eredi, nonostante ben diciassette gravidanze: il solo figlio, che era sopravvissuto agli aborti o alla morte in tenerissima età di tutti gli altri, era morto nel 1700 a 11 anni. Questo spiega perché il Parlamento inglese emise, già nel 1701 l'Act of Settlement che trasferiva la Corona d'Inghilterra ai lontani eredi protestanti della famiglia degli Hannover. La dinastia degli Asburgo fu invece più fortunata. Maria Teresa d'Austria rappresentò infatti un'eccezione: dei sedici tra figli e figlie avuti tra i 20 e i 39 anni, quattro morirono di vaiolo e due in tenerissima età. Ma tutti gli altri, oltre ai due eredi al trono imperiale, Giuseppe II e Leopoldo II, entrarono in altre case regnanti o principesche secondo una sapiente politica di matrimoni.

 

Il feudalesimo e i contadini

Nella notte del 4 agosto 1789, durante la Rivoluzione francese, l'Assemblea nazionale abolì il feudalesimo. Fu questo uno dei risultati più clamorosi della rivoluzione appena iniziata in Francia, un evento epocale, dal significato pratico e simbolico fortissimo vissuto in particolare dalle masse rurali come una liberazione dall'oppressione.

La sopravvivenza del feudalesimo

Dunque, nel '700, a distanza di quasi un millennio dalla sua diffusione, il feudalesimo, era ancora sistema economico e giuridico dominante nelle campagne europee? La domanda impone una risposta articolata. Il feudalesimo si era in realtà ridotto, anche nelle regioni del suo originario insediamento (Francia e Germania occidentale), a una forma d proprietà nobiliare sulla terra accompagnata da una serie di obblighi di lavoro gratuito e di tributi che gravavano sui contadini. Praticamente inesistente era la tutela che il feudatario accordava ai suoi sudditi, mentre permanevano alcune forme di controllo (sui matrimoni ad esempio e sulla facoltà di allontanarsi dalle terre) e l'amministrazione della bassa giustizia, esercitata dal signore per i reati minori. La servitù personale non era più una realtà diffusa nel feudalesimo occidentale, di cui quello francese rappresentava il modello più conosciuto, mentre era la regole nell'Europa orientale, a est dell'Elba, dove si era avuta, a partire dal '500, una vera e propria rifeudalizzazione. Non vi era servaggio in Inghilterra, dove il regime feudale era praticamente scomparso già nel '600. In declino era il feudalesimo in Spagna mentre in Italia meridionale e in Sicilia, anche se la servitù personale era da tempo superata, i prelievi in denaro e in natura e le prestazioni personali erano così ampi da far ritenere che il regime feudale fosse vivo e particolarmente vessatorio. In pieno vigore nel Lazio, la feudalità era generalmente scomparsa nel resto dell'Italia centrale e in quella settentrionale, con alcune presenze, significative in Lombardia e in Friuli, modeste in Piemonte.

Il conflitto tra contadini e signori

I vincoli feudali che gravavano sulle terre ne limitavano l'uso e i redditi. Anche nei casi in cui il contadino poteva trasmettere in eredità o vendere la terra coltivata, questa non era detenuta in piena proprietà: dovevano infatti essere corrisposti al signore dei tributi ordinari — in denaro o in natura — per l'uso o straordinari nei casi di vendita e di successione. L'ammontare di questi tributi era in genere stato fissato secoli prima e si era mantenuto stabile per consuetudine: le corresponsioni in denaro presentavano quindi il vantaggio, rispetto a quelle in natura, di essersi ridotte di valore in seguito alla progressiva svalutazione della moneta. Ma questo sistema era alla base dei numerosi conflitti tra i contadini che volevano alleggerire il loro carico e i signori che miravano a incrementarlo. Un conflitto tanto più aspro nei periodi di carestia, ma anche nei casi di aumentata produttività i cui risultati rischiavano di venire sottratti ai contadini da una normativa considerata intollerabile.
Un altro ambito di conflitto era quello relativo agli usi civici, ossia ai diritti collettivi della comunità contadina, come quelli di pascolo, di raccolta della legna nelle zone boschive o delle spighe sparse nei campi dopo la mietitura (la spigolatura). Da un lato infatti i signori puntavano alla privatizzazione integrale della terra, all'inasprimento dei gravami feudali e all'abolizione degli usi civici, dall'altro le comunità contadine difendevano i tradizionali usi collettivi delle terre.

La particolare condizione dei contadini agiati

Questa contrapposizione era particolarmente aspra in molte regioni dell'Europa occidentale dove si stava affermando il ceto dei contadini agiati, proprietari e affittuari che adottavano strategie diverse secondo le circostanze: se erano proprietari miravano alla riduzione dei diritti delle comunità, se invece erano affittuari di terre signorili — cui era legata la riscossione di diritti — tendevano a mantenere e a rafforzare le forme del prelievo feudale.

La decima

Tutti avvertivano ormai come insopportabile non solo il peso delle tasse a favore dello Stato, come la taglia sugli individui o la gabella sul sale, prodotto indispensabile alla conservazione delle carni, ma anche il prelievo a favore della Chiesa nella misura di un decimo del raccolto. La decima, in realtà inferiore a 1/10 e pari in genere a 1/12-1/13, era una tassa antichissima, destinata in origine al mantenimento del parroco, ma spesso passata nelle mani dell'alto clero. Come gli altri diritti e prelievi feudali, la decima sarebbe stata abolita in Francia nella notte del 4 agosto 1789.

 

La rivoluzione agricola e le nuove colture

Il regime feudale delle terre rappresentava per larga parte la componente arretrata dell'agricoltura. Nel corso del '700, tuttavia, si accentuarono alcuni processi relativi alla proprietà delle terre e alle tecniche colturali che consentono di parlare di una rivoluzione agricola. Qui, come altrove, l'impiego del termine di "rivoluzione" in campo economico e sociale si riferisce a trasformazioni radicali che si compiono in tempi molto più lunghi di quelli caratteristici delle rivoluzioni politiche.

La privatizzazione delle terre comuni in Inghilterra

Le maggiori innovazioni in campo agricolo si registrano in Inghilterra dove le strutture agrarie cambiarono più profondamente fra '600 e '700. Le trasformazioni avvennero in seguito alle recinzioni — in inglese enclosures — dei campi aperti e delle terre comuni e all'introduzione di nuove tecniche e colture. Il sistema a campi aperti — open fields — caratterizzava nel '600 oltre la metà delle campagne inglesi: era costituito da appezzamenti non recintati, contigui, ma di proprietà individuale. Le consuetudini prevedevano che su questi campi, dopo il raccolto, tutti gli abitanti del villaggio potessero spigolare o inviare gli animali al pascolo. Di proprietà collettiva erano invece le terre comuni — common lands — destinate, tra le altre attività, al pascolo e alla raccolta di legna. I diritti d'uso di queste terre appartenevano a quanti avevano proprietà nel villaggio. Su di esse risiedevano, nei cottages (modestissime capanne), i contadini poveri e privi di proprietà.

Fattori di trasformazione e mercato

Le enclosures comportarono la recinzione — con muretti, siepi, steccati — e la ricomposizione degli appezzamenti situati nelle zone dei campi aperti, la recinzione e la privatizzazione delle terre comuni. Questa operazione (che avveniva col consenso del Parlamento) mirava a una più chiara definizione della proprietà e a una utilizzazione più razionale delle terre in grado di rispondere alla domanda del mercato. Le enclosures richiedevano investimenti per le opere di chiusura e per la riconversione colturale: contemporaneamente determinarono la graduale trasformazione dei cottagers in braccianti agricoli e la diminuzione dei piccoli proprietari.
Altro fattore di trasformazione dell'agricoltura inglese fu il passaggio da una rotazione triennale a una rotazione pluriennale con l'introduzione nel ciclo produttivo delle piante da foraggio, come il trifoglio e le rape, alternate ai cereali. Le colture foraggere avevano la proprietà di arricchire di azoto il terreno, consentendo una produttività più elevata. Aumentavano così le disponibilità alimentari per gli uomini e per il bestiame. L'allevamento diveniva una componente fondamentale dell'azienda agricola: forniva infatti concime naturale per la terra, carne e latte per il mercato.

L'agricoltura capitalistica

Rotazioni complesse, integrazione di agricoltura e allevamento, produzione per il mercato non furono una prerogativa inglese: i nuovi sistemi erano già diffusi in alcune regioni della Francia settentrionale, nelle Fiandre, in Olanda e nella Germania nord-occidentale. In Italia la cascina lombarda con i suoi prati costantemente irrigati, che consentivano ripetuti tagli d'erba, rappresentava un modello di progresso e produttività. Ma questa agricoltura — definita "capitalistica" per la presenza di un imprenditore, proprietario o affittuario, che investe capitali sulla terra, si avvale di manodopera salariata e produce per il mercato — rimaneva, almeno in Italia, un settore marginale in lenta espansione.
I nuovi sistemi produttivi, infatti, incontrarono molti ostacoli alla loro diffusione. La frammentazione fondiaria con le difficoltà organizzative che ne derivavano, l'assenteismo dei proprietari, le consuetudini dei contadini erano tutti elementi di resistenza al cambiamento.

La lenta diffusione delle nuove colture

Si spiega così il ritardo con cui si affermarono le coltivazioni di origine americana — la patata e il mais —, nonostante garantissero una resa superiore a quella del frumento e degli altri cereali. Esse erano comunque destinate a modificare profondamente le abitudini alimentari, soprattutto degli strati popolari.
Solo le carestie della seconda metà del secolo imposero la patata come coltura alimentare dominante dall'Inghilterra alla Francia e dalla Germania alla Polonia; in Irlanda divenne presto l'elemento base della dieta contadina.
Il mais (o granturco) ebbe diffusione più precoce, ma egualmente lenta, nonostante i vantaggi di un ciclo vegetativo più breve di quello del frumento: fu ostacolato dalle sue stesse proprietà colturali che volevano climi temperati e un'intensa lavorazione del terreno durante la crescita. Fu coltivato nei paesi mediterranei: Spagna, Francia meridionale, Sicilia, Italia settentrionale. In alcune regioni italiane, come il Veneto, la polenta di mais sarebbe divenuta il cibo quotidiano dei contadini, mentre i prodotti del frumento erano destinati alla tavola dei ceti più agiati o al mercato.
Nel '700 si diffusero anche altre colture, seppure di minore importanza. Il riso nelle zone irrigue del Piemonte e della Lombardia; il tabacco un po' ovunque, in Olanda, Belgio, Germania, Italia. Questa fu l'unica delle nuove colture coloniali che, per ragioni climatiche, poteva affermarsi in Europa mentre tè, caffè, cacao — ingredienti base di bevande "eccitanti" il cui consumo crebbe notevolmente nel '700 — rimasero prodotti di importazione.

 

L'industria rurale e l'economia industriosa

Dalle corporazioni all'industria rurale

L'organizzazione del lavoro artigianale era regolata nelle città dalle corporazioni di mestiere, alle quali si accedeva dopo un lungo apprendistato.
Le corporazioni imponevano norme estremamente rigide sulle procedure, sulle tecniche e sulla qualità del prodotto tanto che, col passare del tempo, si erano chiuse a ogni innovazione lasciando lievitare di conseguenza i costi di produzione e smarrendo la capacità di adeguarsi alla domanda del mercato. Già tra '500 e '600 era divenuto più conveniente spostare le attività produttive nelle campagne dove molte famiglie contadine erano in grado di avviare un'industria rurale domestica.
Nelle campagne, infatti, era facile reperire manodopera a basso costo, da impiegare in modo elastico in rapporto all'andamento della domanda. La nuova figura del mercante imprenditore, chiave di volta di questo metodo produttivo, forniva la materia prima, ritirava il prodotto finito e provvedeva a venderlo sul mercato. Questo sistema ebbe un'ampia diffusione in tutta Europa, ma soprattutto nelle regioni e nei dintorni delle città con forti tradizioni artigianali: nelle Fiandre per la filatura e tessitura del lino, nella Germania occidentale per le armi da taglio e i coltelli, nelle zone prealpine dell'Italia settentrionale per la seta, in Inghilterra per i tessuti di lana.

La "rivoluzione industriosa"

L'industria domestica rurale consentì di rispondere con una certa efficienza allo sviluppo della domanda interna e internazionale — anche coloniale — e offrì a molte famiglie contadine un'alternativa di reddito e la possibilità di raggiungere più alti livelli di vita. Rispetto alla fase successiva della rivoluzione industriale, che ebbe inizio tra la fine del '700 e 1'800, queste attività sono espressione di una protoindustrializzazione. Il lavoro a domicilio continuò tuttavia a caratterizzare settori importanti della produzione — soprattutto quello della tessitura — anche in fase di industrializzazione ormai avviata. Le attività e le pratiche della protoindustria coincidono con quella che una nuova tendenza della storia economica ha cominciato a chiamare la "rivoluzione industriosa", diffusa nelle regioni che si aprono sulle due sponde dell'Atlantico: Olanda, Paesi Bassi, parte della Francia, Inghilterra e le colonie britanniche del Nord America. Questa categoria individua nell'aumento dei consumi il risultato di una domanda sostenuta dalle unità familiari produttive. Grazie a un'intensificazione del lavoro nell'ambito dell'industria domestica queste unità familiari disponevano di una quota di reddito da impiegare nell'acquisto di generi voluttuari — zucchero, caffè, tè, tabacco, liquori — o di beni durevoli, come gli orologi da tasca che registrano un vistoso incremento produttivo alla fine del '700. Il fenomeno alimentò una domanda che rimase sostenuta nel tempo e trovò una risposta nell'interazione tra la produzione industriale locale e l'aumento delle importazioni dei generi coloniali. Il modello della "rivoluzione industriosa" non era solo una prerogativa di quella parte del mondo occidentale, ma trovava un corrispettivo anche in paesi dell'Oriente, come il Giappone, nello stesso arco temporale.

Le manifatture statali

Anche gli Stati avevano un ruolo nelle attività produttive di tipo industriale attraverso il sistema della manifattura. La manifattura è l'organizzazione del lavoro in cui gli operai, concentrati in un unico laboratorio o officina, svolgono, per lo più manualmente, tutte le fasi del processo produttivo. Tipiche manifatture furono quelle promosse in Francia da Colbert al tempo di Luigi XIV, per la fabbricazione di prodotti di lusso destinati al mercato delle esportazioni, come arazzi e porcellane, nel quadro di una politica mercantilista. Anche in altri paesi le manifatture furono spesso costituite su iniziativa statale per la fornitura di armi e uniformi agli eserciti. La manifattura, comunque, non fu mai l'organizzazione dominante e non lo fu soprattutto nel settore tessile, quello che assorbiva allora e avrebbe coinvolto anche in seguito la quantità più rilevante di manodopera.
Caratteristiche dell'epoca furono anche le manifatture installate nelle prigioni o negli ospizi dei poveri e dei trovatelli, questi ultimi istituiti in larga parte nel corso del '600 come strumenti di "controllo sociale". Le istituzioni per indigenti rispondevano infatti con la reclusione e l'obbligo del lavoro alla mutata sensibilità nei confronti della mendicità, avvertita come fenomeno sociale destabilizzante e pericoloso.

 

 

 

UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

 

 

L'Illuminismo: capisaldi e diffusione del movimento

L'Illuminismo ha tanti nomi: Lumières in francese, Enlightenment in inglese, Aufklarung in tedesco.
Tutti fanno riferimento alla luce, ai "lumi della Ragione" che rischiarano le tenebre dell'ignoranza e del pregiudizio, e indicano le vie del progresso.
Partendo dalle basi gettate dalla nuova scienza del '600 e dal pensiero politico di Locke, l'Illuminismo fu un grande movimento intellettuale, politico e culturale, e coinvolse, a partire dalla Francia degli anni '30 del '700, via via tutta l'Europa.

I capisaldi dell'Illuminismo

I tratti comuni di questo movimento, che presenta in realtà molti e talora contrastanti interessi e orientamenti, possono essere ridotti a tre principali: l'uso libero e spregiudicato della ragione, con l'obiettivo concreto di assicurare la felicità e il benessere degli uomini; la critica delle istituzioni politiche e religiose, del principio di autorità e delle tradizioni:
 - l'uso libero e spregiudicato della ragione, con l'obiettivo concreto di assicurare la felicità e il benessere degli uomini;
 - la critica delle istituzioni politiche e religiose, del principio di autorità e delle tradizioni;
 - la fiducia nel progresso, fondata su una concezione della storia dell'uomo come graduale processo di incivilimento e come liberazione dalla tutela del sacro e dell'irrazionale.
Bersaglio della critica illuminista furono la Chiesa e le confessioni religiose in genere, considerate fonti di ignoranza, di superstizione e pregiudizi: in questo senso l'Illuminismo fu un movimento profondamente laico.
Non sempre questo atteggiamento comportava la negazione della fede: prevalse invece l'adesione al deismo e a una religione naturale e razionale, anche se fra gli illuministi non mancarono prese di posizione atee e materialiste (fondate sull'idea che la realtà derivi unicamente dalla materia e che dunque non possa spiegarsi con il ricorso all'intervento divino).

L'intellettuale illuminista

Protagonista dell'Illuminismo fu una nuova figura di intellettuale, più saggista che filosofo, spesso giornalista e pubblicista, e quindi specializzato nella divulgazione delle nuove idee presso il pubblico colto.
L'intellettuale illuminista rivendicava un proprio ruolo chiave nella società e con questo obiettivo si moltiplicarono i luoghi e gli strumenti della comunicazione: salotti, caffè, club, accademie, società letterarie e scientifiche e tutte le pubblicazioni a stampa o i pamphlets.
Intellettuali illuministi furono, inoltre, tra i consiglieri e i collaboratori di quei sovrani assolutistici che colsero le esigenze di rinnovamento politico e avviarono in questa epoca una stagione di riforme.
La connotazione razionalista rivendicata dall'Illuminismo non deve tuttavia far dimenticare che, proprio nell'ambito della nuova cultura, nacque l'interesse per le componenti affettive ed emotive. L'analisi dei sentimenti divenne una chiave di lettura dell'agire umano e la loro rappresentazione si pose al centro di molte opere letterarie (come Giulia o la nuova Eloisa di Rousseau del 1761).

Un movimento cosmopolita

Tutti i paesi europei parteciparono, in maggiore o minor misura, al movimento illuminista.
Dal Portogallo alla Polonia, dall'Italia alla Svezia fu tutto un fiorire di opere, di periodici, di gazzette e di accademie ispirate agli ideali e ai programmi dei Lumi.
Nessun grande dibattito o tema di discussione rimase chiuso nel suo ambito d'origine. Intellettuali, riformatori e pubblico colto: tutti erano convinti di partecipare a una grande opera di rinnovamento che non conosceva confini nazionali.
Questo cosmopolitismo fu l'elemento portante di una cultura tendenzialmente di élite, in grado tuttavia di alimentare una vivace circolazione di idee che coinvolgeva un pubblico ben più vasto e spesso lontano dai centri propulsivi della cultura dei Lumi.

Perché in Francia?

Sebbene l'Illuminismo sia diventato presto un fenomeno europeo, il suo centro propulsore fu la Francia, e Parigi in particolare.
La Francia esercitava dal '600 un'egemonia culturale su gran parte dell'Europa continentale. Il francese era la principale lingua di comunicazione come oggi è l'inglese. Le arti della parola – il teatro, la letteratura, l'oratoria – avevano avuto nel '600 uno straordinario sviluppo. Un largo ceto intellettuale, in parte di origine nobiliare, ma soprattutto di origine borghese, protetto e finanziato dai grandi signori, si era affermato al centro della scena culturale.
L'assolutismo aveva, per altro verso, suscitato una estesa cultura di opposizione alimentata sul fronte interno e soprattutto estero, in particolare dall'Olanda che ospitava esiliati e fuorusciti, come gli ugonotti.
Sostenuta anche da una larga letteratura clandestina, spesso di contenuto irriverente nei confronti del sovrano e del clero, si stava diffondendo un'opinione pubblica colta ostile al sistema di governo, anche se non ancora apertamente schierata.
In questo ambiente e da queste sollecitazioni nacquero le prime opere dell'Illuminismo: scritti che ponevano al centro della loro riflessione la critica alla società del tempo, al sistema politico e ai fondamenti della monarchia di diritto divino.

La Massoneria

Uno dei più potenti strumenti di diffusione delle nuove idee e dei programmi riformatori in Europa fu la Massoneria.
Setta segreta nata in Inghilterra, adottò i riti e le tradizioni delle antiche corporazioni di liberi muratori (free-masons). Composta in realtà da nobili, borghesi e intellettuali la Massoneria si batteva per la tolleranza, contro il fanatismo e l'oscurantismo religioso, in nome della filantropia, della fratellanza universale e della certezza sull'efficacia dei Lumi.
Si diffuse tra gli anni '20 e '30 del '700 in tutta Europa (dove si distinsero diversi riti o obbedienze: inglese, scozzese, francese) e fu talora legata alla curiosità e alle mode, che contribuirono tuttavia ad accrescerne le adesioni.
Le élites riformatrici poterono così disporre di un formidabile strumento di pressione rafforzato dal fascino della segretezza.

 

Una nuova scienza

La nascita dell'economia politica

Anche lo studio dei fenomeni economici trovò in questi periodo la sua prima sistemazione disciplinare con la scuola dei fisiocratici francesi.
François Quesnay (1694-1774) fu il maggior rappresentante della fisiocrazia (dal greco physis, 'natura', e kratein, 'dominare'), la dottrina che considerava la terra come la fonte unica della ricchezza.
È l'agricoltura infatti, secondo i fisiocratici, che grazie alla fertilità dei suolo produce quel sovrappiù di ricchezza che consente di alimentare i contadini, i proprietari terrieri e la «classe sterile», quella dei mercanti e degli artigiani. Da questa premessa discendeva la proposta di un programma di riforme teso a eliminare ogni ostacolo alla coltivazione e alla libera circolazione delle derrate agricole: i fisiocratici proponevano la libertà dei commerci – soprattutto dei grani –, l'abolizione dei dazi doganali. l'introduzione di un'imposta unica sulla rendita fondiaria. Nasceva con la Fisiocrazia la convinzione che l'analisi dei meccanismi produttivi consentisse di comprendere l'intera organizzazione sociale.

Smith e la «ricchezza delle nazioni»

È, tuttavia, allo scozzese Adam Smith (1723-1790) e alla sua opera Ricerche sopra la natura e la causa della ricchezza delle nazioni (An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776) che dobbiamo la prima enunciazione di una teoria generale dell'economia.
Studioso di filosofia morale, Smith rintracciava, come altri filosofi scozzesi, nel sentimento – simpatia, interesse, ecc. – il movente dell'agire e dell'associarsi e nell'utile individuale e sociale il fondamentale criterio di comportamento. Se ciascuno è lasciato agire liberamente secondo il proprio interesse particolare – affermava Smith –, inevitabilmente contribuisce al benessere collettivo e alla felicità generale, secondo una provvidenziale volontà che domina le azioni dei singoli: un agire che va al di là delle originarie intenzioni individuali e che appare guidato da quella che Smith chiama la «mano invisibile».
Punto centrale dell'analisi di Smith è il concetto di lavoro produttivo, misura del valore di scambio delle merci e unica fonte della ricchezza sociale: nell'analisi dello studioso il "valore della merce", è infatti direttamente proporzionale al lavoro impiegato per produrla.
L'espansione dell'economia è legata secondo Smith all'incremento della produttività: a garantirla sono la crescente divisione del lavoro tra la manodopera impiegata, il reinvestimento continuo dei profitti derivati dall'attività economica e l'innovazione tecnologica introdotta nei processi produttivi.
Anche Smith, come i Fisiocratici, era convinto che il libero mercato e il libero scambio fossero le condizioni più favorevoli per lo sviluppo dell'attività economica: si doveva dunque annullare ogni forma di protezionismo e ridurre l'intervento statale al controllo delle imposte e alla garanzia dei servizi pubblici.
L'arripiezza e l'importanza delle sue analisi fecero di Smith il fondatore di quella che sarà definita l'economia «classica» e il primo teorico del liberismo.

 

L'assolutismo illuminato

All'interno del movimento illuminista è possibile individuare gli elementi di un disegno riformatore che mirava alla modernizzazione dello Stato e al raggiungimento della «felicità pubblica».
Questi elementi si tradussero in azioni di politica interna in molti paesi europei nella seconda metà del '700 inserendosi nel solco del lungo processo di formazione dello Stato moderno.
Se la Francia, la patria dell'Illuminismo, non raccolse le richieste di rinnovamento politico, altre monarchie assolute avvertirono invece l'esigenza di allargare i poteri dello Stato a spese dei privilegi del clero e della nobiltà. Si trattava di un obiettivo che poteva mettere in discussione i fondamenti del consenso alla monarchia da parte dei ceti dirigenti tradizionali, ma era anche un passaggio decisivo per il rafforzamento dello Stato, lo sviluppo della società civile e dell'economia.

L'assolutismo illuminato

La storia politico-istituzionale del secondo '700, tra gli anni '50 e gli anni '80, fu segnata da una pratica di governo che prende il nome di assolutismo illuminato.
In questa breve stagione alcuni sovrani come Federico II (1740-86) di Prussia, Maria Teresa (1740-80) e Giuseppe II (1765-90) d'Austria, Caterina II (1762-96) di Russia, e in Italia Carlo III (1734-59) nel Regno di Napoli e Pietro Leopoldo (1765-90) in Toscana, avviarono una politica di riforme che aveva molti tratti in comune:
 - la presenza, tra i consiglieri e collaboratori dei sovrani, di intellettuali illuministi o di funzionari illuminati;
 - l'avvio, nei paesi cattolici, di una politica ecclesiastica — il giurisdizionalismo —volta a estendere la giurisdizione e il controllo dello Stato sull'organizzazione delle Chiese nazionali;
 - la realizzazione delle riforme dell'amministrazione statale e del sistema fiscale.

Il giurisdizionalismo

La politica ecclesiastica mirava ad eliminare quella struttura giuridica parallela rappresentata dai diritti e privilegi ecclesiastici: diritti come quello d'asilo, che riconosceva l'immunità a quanti, accusati di un delitto, si rifugiavano nei luoghi di culto, o il privilegio che riservava ai soli tribunali ecclesiastici di giudicare anche reati comuni (come il furto e l'omicidio) quando fossero compiuti da religiosi.
Vennero messi in discussione la legittimità del tribunale dell'Inquisizione e il monopolio religioso dell'istruzione. In questa politica l'Illuminismo realizzò i suoi maggiori successi.

Contro gli Ordini religiosi

Agli occhi dei riformatori i conventi e la vita monastica apparivano forme di parassitismo, mentre le estese proprietà della Chiesa, difese dai vincoli di manomorta — che ne impedivano la vendita —, erano di ostacolo alla circolazione dei beni, ritenuta un potente stimolo all'economia.
Questo orientamento, condiviso dalle élites, era visto con timore dai ceti popolari, beneficiari del sistema assistenziale della Chiesa e in genere ostili al cambiamento.
Il successo più rilevante della lotta agli ordini religiosi fu l'espulsione della Compagnia di Gesù da molti paesi europei: dal Portogallo nel 1759, dalla Francia nel 1764, dalla Spagna nel 1767, dal Regno di Napoli nel 1768.
All'espulsione seguiva l'incameramento dei beni da parte dello Stato.
Fino ad allora i gesuiti avevano esercitato una larga influenza sui ceti dirigenti: erano spesso confessori dei principi e nei loro collegi si educavano i figli della nobiltà. Ma i gesuiti erano considerati nemici di ogni innovazione: così, nel 1773, la pressione dei sovrani costrinse il papa Clemente XIV a sopprimere la Compagnia di Gesù (che sarà tuttavia restaurata nel 1814).

La riorganizzazione amministrativa e fiscale

La razionalizzazione della macchina statale fu ottenuta concentrando le decisioni, riorganizzando le normative per ridurre la varietà delle leggi, costruendo quella struttura basata su dipartimenti e ministeri che ancora oggi caratterizza l'amministrazione pubblica.
Una parte consistente delle entrate era destinata alle spese militari: così i quasi trent'anni di pace dopo la fine della guerra dei Sette anni (1763) resero la riorganizzazione del sistema fiscale più agevole.
In molti Stati, ma soprattutto nei domini asburgici, fu avviata l'imponente impresa della redazione di un catasto dei beni terrieri e immobiliari, destinata a dare fondamento certo all'imposizione fiscale riducendo al tempo stesso le esenzioni.
Gli elementi comuni del dispotismo illuminato variano tuttavia molto se analizzati nei singoli territori di applicazione.

 

 

I DOMINI COLONIALI E LE VIE DEL COMMERCIO

 

 

Le due direttrici dell'espansione coloniale europea

Alla metà del '600 si era già consolidata l'espansione coloniale europea: a ovest nelle Americhe, a sud verso l'Africa, a est verso l'Asia.

Spagna e Portogallo

Protagonisti iniziali di questa politica, a partire dal periodo delle scoperte geografiche alla fine del '400, erano stati gli spagnoli e i portoghesi.
A Occidente le due potenze iberiche avevano ormai costituito i loro imperi dotati di un'efficiente amministrazione controllata dalla madrepatria.
La Spagna dominava, a partire dal Messico, tutto il versante occidentale e meridionale dell'America del Sud a cui si aggiungevano le maggiori isole delle Antille, il Portogallo aveva invece conquistato il Brasile.
Il trattato di Tordesillas del 1494 aveva, come sappiamo, suddiviso verticalmente le due sfere di conquista: le terre ad ovest della raya (l'immaginaria linea di divisione che attraversava l'oceano Atlantico) spettavano alla Spagna, quelle poste ad est al Portogallo.
A sud e a est furono i portoghesi a fondare le prime basi commerciali lungo le coste africane occidentali e orientali, per poi conquistare Goa in India nel 1510 e Macao in Cina nel 1557, due colonie destinate a rimanere al Portogallo, rispettivamente, fino al 1961 e al 1999.
Nel 1543 erano arrivati in Giappone portando le armi da fuoco e introducendo il cristianesimo.
Gli spagnoli, dal canto loro, giunsero in Asia da est, dal Messico, uno dei più antichi domini della Spagna in America, per conquistare le Filippine a partire dal 1565.

Le altre potenze navali

Questo duplice scenario geografico subì profondi mutamenti tra gli inizi del '600 e la fine della guerra dei Sette anni nel 1763.
Altre potenze europee cominciarono infatti a contrastare l'egemonia spagnola nelle Americhe e quella portoghese in Africa e in Asia. Erano tutte potenze navali dell'Atlantico: Francia, Olanda, Gran Bretagna e Danimarca e tutte si spinsero nei due quadranti occidentali e orientali.
Inizialmente a prevalere fu il modello portoghese della fondazione di scali commerciali, poi presero avvio le conquiste territoriali.
Col sostegno degli Stati furono le compagnie commerciali dei singoli paesi a impiantare sia i primi insediamenti sia a procedere nell'occupazione dei territori.
Non si trattava di una pacifica competizione, ma di veri e propri conflitti per ottenere privilegi di esportazione dalle coste occupate e di guerre di rapina, sostenute dalle marine militari, per sottrarre possessi coloniali alle potenze rivali.
Se in un primo momento i portoghesi si erano appropriati del commercio orientale delle spezie, che per secoli era stato organizzato e controllato dagli arabi, tradizionali mediatori tra l'Occidente e l'Estremo Oriente, gli olandesi prima e gli inglesi poi, affacciatisi sui mari orientali all'inizio del '600, soppiantarono progressivamente l'egemonia portoghese.

Gli olandesi e gli Inglesi in Asia

Così verso la metà del '600 la Compagnia olandese delle Indie orientali, un'associazione di mercanti che su concessione del governo godeva del monopolio dei traffici con l'Oriente, divenne la più significativa presenza europea in Asia.
I mercanti olandesi riuscirono a impadronirsi delle Molucche, le favolose isole delle spezie, della Malacca, di Sumatra e di Giava dove, a Batavia (Jakarta), fissarono la capitale del loro impero commerciale. Da lì, per quasi mezzo secolo, gli olandesi furono padroni del traffico delle spezie, in particolare della noce moscata e dei chiodi di garofano, dei quali riuscirono ad avere il monopolio assoluto.
Molto meno ricca della concorrente olandese, l'inglese East India Company concentrò i propri interessi sulla costa orientale dell'India, una zona che gli olandesi avevano trascurato e dove si stavano istallando anche i francesi. Successivamente l'attività fu estesa più a nord, al Bengala, ma il risultato più importante fu l'acquisizione (1665) di Bombay, fondamentale nodo commerciale sulla costa occidentale indiana. L'Inghilterra importava dall'Oriente tè, caffè, salnitro, ma soprattutto tessuti – sete, cotoni, broccati.
Anche l'Olanda e la Francia importavano grandi quantitativi di tessuti indiani, mettendo in allarme i produttori europei di tessuti in seta, lana e lino: ma, nonostante il tentativo di arginare le importazioni con vincoli protezionistici, le compagnie commerciali furono sempre più impegnate nell'esportazione di prodotti orientali in Occidente.

Lo scontro tra Gran Bretagna e Francia in India

Nel 1673, con la cessione alla Compagnia francese delle Indie orientali del villaggio di Pondichéry, non lontano dal possedimento inglese di Madras, la Francia diede inizio al tentativo di costituire un proprio impero coloniale in India, entrando in contrasto con la Gran Bretagna nel Bengala.
Lo scontro tra le due potenze si accentuò durante la guerra dei Sette anni (1756-63) e la potenza navale britannica riuscì a sovrastare le forze francesi: gli inglesi posero l'assedio a Pondichéry e la conquistarono (1761).
La Francia, sconfitta, dovette abbandonare il Bengala mentre la Compagnia britannica, rimasta sola a dominare il commercio con l'India, avrebbe poi assunto l'amministrazione del Bengala e del Bihar, trasformando così un dominio commerciale in un vero e proprio possedimento coloniale.
Solo dopo la metà dell'800 la Corona britannica avrebbe assunto il diretto controllo dell'India.

I conflitti nelle Americhe e la conquista delle Antille

Ben più accesi e prolungati furono i contrasti tra le potenze nelle Americhe: prima nelle Antille poi nell'America settentrionale.
La Spagna aveva imposto alle sue colonie di commerciare solo con la madrepatria, ma questo monopolio fu continuamente attaccato dalla pirateria e dal contrabbando, praticati soprattutto da inglesi, olandesi e francesi.
I pirati – bucanieri o filibustieri – assaltavano e depredavano le navi cariche di metalli preziosi, mentre i contrabbandieri, con la complicità delle autorità locali, smerciavano beni fortemente richiesti nelle colonie e che la Spagna non era in grado di fornire.
Le numerose isole delle Grandi e Piccole Antille costituivano punti di appoggio ideali per le azioni dei pirati e dei contrabbandieri e, dal momento che gli spagnoli controllavano solo le più grandi fra esse (Cuba e Santo Domingo), olandesi, inglesi e francesi si insediarono in questa area durante il '600.
L'iniziativa fu presa come sempre dalle compagnie commerciali.
Gli olandesi si stabilirono a Curaçao dal 1634 e in altre isole a ridosso dell'attuale Venezuela. La Compagnia olandese delle Indie occidentali, inoltre, amministrava sul continente la Guiana, dove alla fine del '500 era stata introdotta la coltivazione della canna da zucchero. La Guiana fu a lungo molto contesa e, accanto agli olandesi, vi si insediarono gli inglesi e i francesi.
Gli inglesi avevano possedimenti disseminati lungo tutto l'arco delle Piccole Antille, conquistati prevalentemente nella prima metà del '600. Tra il 1625 e il 1629 si impadronirono di molte isole dell'arcipelago Bahama e nel 1655 della Giamaica, la terza per dimensioni delle Grandi Antille e grande centro di smistamento degli schiavi africani.
Nello stesso periodo, i francesi occuparono alcune isole nelle Piccole Antille (fra cui Guadalupe e Martinica nel 1635) e la parte occidentale di Santo Domingo, che denominarono Haiti.

Britannici e francesi nel Nord America

Lungo le coste dell'America settentrionale gli inglesi avevano dato avvio, dai primi anni del '600, a una serie di colonie di popolamento (deputate all'insediamento dei migranti dalla madrepatria) subentrando, in qualche caso, a svedesi e olandesi: Nieuw Amsterdam, per esempio, nel 1664 divenne New York. Riuscirono poi a unificare i loro territori dove si rafforzò il controllo diretto della madrepatria con la nomina di un governatore e di pubblici funzionari, che cercarono di limitare le autonomie amministrative e le forme di autogoverno locale.
Molto più a nord i francesi si erano insediati in Canada lungo il corso del fiume San Lorenzo: la penetrazione era stata avviata dai mercanti di pellicce che commerciavano con i pellerossa, tribù indiane per lo più nomadi che vivevano nell'area praticando caccia e allevamento.
In realtà, la presenza francese fu sempre numericamente limitata, anche perché il divieto di immigrazione per gli ugonotti impedì che nella colonia giungesse la sola comunità che, come i dissidenti religiosi inglesi, cercava di espatriare per non subire le persecuzioni di cui era vittima.
Nella prima metà del '600 vennero fondate le prime importanti basi in Canada, Québec e Montréal. In seguito i francesi scesero dalla regione dei Grandi Laghi lungo il corso del fiume Ohio e nel bacino del Mississippi costruendo delle piazzeforti lungo i fiumi.
La presenza francese a nord e a ovest delle colonie britanniche rese inevitabile lo scontro tra le due potenze schierate su fronti avversi nelle guerre del '700 europeo: così la Francia, in seguito alla pace di Utrecht (1713) che poneva fine alla guerra di successione spagnola, dovette rinunciare a Terranova e alla Nuova Scozia, riuscendo però a conservare il Canada e il controllo del bacino del Mississippi, che in onore di Luigi XIV era stato chiamato Louisiana.
In seguito però, al termine della guerra dei Sette anni (1763), che in America è ricordata come la French and Indian War (per l'alleanza franco-indiana in funzione antibritannica), la Gran Bretagna ottenne dalla Francia il Canada e i territori della Louisiana a est del Mississippi e dalla Spagna la Florida.
Da parte sua la Spagna ricevette in cambio la Louisiana a ovest del Mississippi con Nuova Orléans.
I domini francesi in America erano ormai ridotti alle isole delle Antille, mentre la Gran Bretagna conquistava una indiscussa egemonia territoriale nel Nord America.

 

La tratta degli schiavi e il commercio triangolare atlantico

I metalli preziosi

L'economia delle Americhe era stata caratterizzata in un primo, lungo periodo, essenzialmente dall'esportazione dei metalli preziosi, oro e argento, dalle colonie spagnole.
Si è calcolato che dal 1500 al 1660 furono introdotte in Europa 181 tonnellate d'oro e 16 mila tonnellate d'argento, pari al 25% dell'intera disponibilità europea.
L'argento americano contribuì ad aumentare in misura rilevante le risorse finanziarie della Corona spagnola, ad accrescere la circolazione monetaria in Europa e a consentire gli acquisti sui mercati dell'Estremo Oriente.

Il sistema agricolo delle piantagioni e la canna da zucchero

Nella seconda metà del '500 si affermò anche il sistema agricolo delle piantagioni. La piantagione era una grande proprietà ter- riera dedita in genere a una sola coltura: canna da zucchero, cacao, caffè, cotone, tabacco, tutti prodotti destinati all'esportazione. Questo tipo di sfruttamento della terra si diffuse nelle terre poste lungo le coste dell'Oceano Atlantico, come il Brasile e la Guiana, e nelle Antille.

Il sistema delle piantagioni era approdato in America Latina con l'inizio della coltivazione della canna da zucchero in Brasile.
Originaria del Golfo del Bengala in India, la canna da zucchero aveva percorso un lungo viaggio verso ovest, attraverso il Medio Oriente, Cipro e la Sicilia. Dalla seconda metà del '400 era coltivata nelle isole atlantiche portoghesi a ridosso dell'Africa (Madera, Azzorre, Canarie) dove si impiegava il lavoro degli schiavi africani. Di lì la canna da zucchero varcò l'oceano e si affermò in Brasile nella seconda metà del '500.
Per la coltivazione della canna sono necessari un clima caldo-umido, energia idrica o animale, legname, capitali per i mulini di spremitura e una larga disponibilità di manodopera da impiegare soprattutto nella raccolta.
I portoghesi disponevano dei capitali occorrenti per le macchine, il Brasile forniva tutto il resto ma non la manodopera. Gli indios, infatti, dove non erano stati decimati, erano considerati troppo ostili o fisicamente inadatti al lavoro pesante, organizzato e disciplinato delle piantagioni.

La tratta degli schiavi e l'istituzione della schiavitù

Così cominciarono a essere importati schiavi neri dall'Africa.
Gli insediamenti portoghesi sulle coste africane operavano come centri di raccolta verso i quali venivano convogliati i neri fatti prigionieri in azioni di guerra o in razzie nell'interno. Gli schiavi erano in primo luogo vittime delle guerre fra gli Stati africani o fra i diversi clan e tribù, ed era proprio la loro condizione di prigionieri di guerra a giustificarne la schiavitù.
Del resto non furono gli europei a introdurre la schiavitù, che era invece una istituzione già diffusa in Africa e alimentata dalla domanda del mondo arabo. Gli europei diedero nuovo sviluppo a questo mercato tradizionale offrendo in cambio degli schiavi prodotti molto ambiti, come tessuti, chincaglieria, ferramenta minuta, coltelli, ma soprattutto armi da fuoco e cavalli. A questi prodotti si aggiunse in seguito l'alcool, in particolare il rhum.

Il commercio triangolare

I portoghesi, che controllavano nel'500 questi scambi, imbarcavano schiavi in Africa, li vendevano in America e riportavano in Europa le navi cariche di zucchero o di melassa: così i traffici legati allo zucchero si configuravano come un commercio triangolare, che sarebbe divenuto caratteristico dell'intero sistema commerciale atlantico.
L'economia delle piantagioni – non solo di canna da zucchero, ma anche di caffè, tabacco, cotone –, fondata sul lavoro degli schiavi, presto si diffuse dal Brasile ad altre zone dell'America: prima le Antille e poi l'America del Nord.
Data l'elevata mortalità degli schiavi nelle piantagioni – nelle quali la speranza di vita non superava i dieci anni –, la manodopera nera andava continuamente rinnovata. La forzata immigrazione degli africani – si calcola che ne furono "importati" da 10 a 12 milioni tra il 1525 e il 1867 – non solo produsse durature trasformazioni nelle strutture sociali ed economiche, ma diede luogo a una vera e propria rivoluzione etnica e demografica.
Quando, agli inizi dell'800, fu possibile tracciare un quadro statistico della popolazione americana, risultò che i neri di origine africana erano la componente etnica più numerosa in Brasile (dove la schiavitù fu abolita solo nel 1888) e di gran lunga maggioritaria nelle Antille.

Il predominio britannico

Naturalmente molti altri paesi europei e singole città portuali partecipavano al sistema di commercio triangolare atlantico iniziato dai portoghesi.
La città libera di Amburgo si era specializzata come mercato delle spezie e dello zucchero mentre Nantes e Bordeaux, in Francia, si svilupparono grazie alla tratta degli schiavi trasportati sulle loro navi. Ma era la potenza navale britannica a crescere a spese delle altre nazioni marittime.
Questo predominio si accrebbe lungo tutto il '700. In uno dei settori più importanti, quello del commercio degli schiavi, la Gran Bretagna aveva ottenuto con la pace di Utrecht del 1713 il monopolio della tratta verso le colonie spagnole, l'asiento de negros, che mantenne fino al 1750. L'asiento ('accordo'), che prevedeva una "fornitura" di 4800 schiavi l'anno, fu stipulato con una compagnia commerciale britannica. Prima dell'accordo con la compagnia britannica gli spagnoli, che non praticarono mai direttamente il commercio degli schiavi, avevano concesso l'asiento a mercanti genovesi e tedeschi, poi a compagnie portoghesi e, dal 1701, francesi.
Questo commercio "ufficiale" rappresentava comunque solo una piccola parte della tratta complessiva, alla quale partecipavano molti armatori inglesi soprattutto delle città portuali di Bristol e Liverpool. Anche le colonie britanniche del Nord America entrarono stabilmente in questo circuito: esse, infatti, erano favorite rispetto all'Europa da una minore distanza dalle Antille e da una capacità produttiva che era in grado di soddisfare non solo la domanda europea – tabacco e cotone –, ma anche quella dei Caraibi e dell'America spagnola e portoghese – grano, pesce e legname da costruzione. Erano inoltre importatrici di schiavi neri dall'Africa e di melassa dalle Antille.

 

L'egemonia britannica e la conquista dell'Australia

L'imperialismo commerciale e lo sviluppo industriale

«II commercio è la ricchezza del mondo; il commercio stabilisce le differenze tra ricchi e poveri, tra una nazione e l'altra; il commercio alimenta l'industria, l'industria genera il commercio; il commercio dispensa la naturale ricchezza del mondo, e il commercio fa sorgere nuove forme di ricchezza».
Non sorprende che l'autore di questo elogio del commercio (A Plan of the English Commerce, 1728) fosse uno scrittore e saggista inglese come Daniel Defoe, autore delle celebri avventure di Robinson Crusoe (1719).
La Gran Bretagna si avviava a diventare infatti la principale potenza commerciale mondiale: agli inizi del '700 aveva già conquistato il quasi monopolio negli scambi con il Portogallo e il Brasile, mantenendo una posizione privilegiata nel commercio con i domini spagnoli. Primeggiava anche nell'attività di riesportazione di molti prodotti coloniali. Inoltre quando, a partire dalla seconda metà del '700, si inserì nel commercio triangolare il cotone grezzo delle piantagioni americane (Antille e Nord America), un mercato di vendita su scala mondiale era già pronto per i tessuti di cotone dell'industria inglese.

La conquista e il popolamento britannici dell'Australia

Dominatrice degli oceani, la Gran Bretagna si avviò anche a conquistare terre inesplorate agli antipodi dell'Europa come l'Australia.
Fino all'insediamento degli europei nel '700 l'Australia era restata completamente esclusa dai processi di civilizzazione che avevano trasformato il pianeta. In questo continente, di gran lunga il più arido, il più piccolo, il meno fertile, il meno popolato e il più povero di risorse biologiche, gli indigeni vivevano in età moderna ancora senza agricoltura e allevamento, non usavano archi e frecce, non avevano villaggi permanenti, né conoscevano la scrittura o qualche forma di organizzazione politica. Gli aborigeni australiani erano cacciatori-raccoglitori nomadi, riuniti in bande, che utilizzavano ancora strumenti di pietra.
Scoperta nel 1642 dall'olandese Abel Tasman, l'Australia era conosciuta come Nuova Olanda. Ma dopo che il capitano James Cook ne ebbe esplorato le coste orientali nel 1770, gli inglesi si stabilirono in alcune zone costiere, soprattutto nel Sud-est, che furono dapprima adibite a colonie di deportazione (per i detenuti della madrepatria) e solo successivamente divennero colonie di popolamento.
Il primo gruppo di deportati, imbarcati in Inghilterra, arrivò in Australia nel 1788: il 26 gennaio una flotta di undici vascelli con a bordo 1030 persone, di cui 548 prigionieri uomini e 188 donne, entrò nella baia di Sydney. Erano per lo più giovani, in gran parte colpevoli di piccoli furti, che la durissima giustizia penale britannica aveva condannato a morte e poi graziati. Divennero i protagonisti di un esperimento mai tentato prima da uno Stato: organizzare un insediamento, lontano dalla patria, dove confinare i "criminali" recidivi e considerati più pericolosi.
Tra 1788 e 1853, quando vennero interrotte le deportazioni, oltre 160 mila prigionieri, tra cui circa 24 mila donne, erano stati trasferiti a forza dalla Gran Bretagna in Australia.

La nuova società australiana

Solo una minima parte di questa massa di deportati (circa il 10%) fu reclusa nei famigerati stabilimenti penali (Norfolk Island, Port Arthur, Macquarie Harbour, Moreton Bay), dove soprusi, violenze e torture costituivano terribili esperienze quotidiane.
La maggior parte dei prigionieri venne in realtà utilizzata per svolgere lavori obbligatori per i coloni liberi o fu fatta lavorare alle dirette dipendenze del governo: essi non conobbero dunque la reclusione, ottennero dopo un periodo la semilibertà e spesso, scontata la pena, riuscirono a integrarsi nella società coloniale.
Così, progressivamente, cominciò a consolidarsi una nuova società, caratterizzata dalla formazione di un singolare ceto medio costituito dai discendenti dei detenuti, con propri valori e un dinamico spirito imprenditoriale. E fu anche per la mobilitazione di queste nuove generazioni nate in Australia, che non gradivano il marchio di deportato e non tolleravano la concorrenza della manodopera coatta, che la Gran Bretagna decise nel 1853 di interrompere definitivamente la deportazione dei "criminali" nell'isola.

 

 

LA NASCITA DEGLI STATI UNITI

 

 

[ Introduzione audio ]

Le rivoluzioni politiche alle origini dell'età contemporanea

L'ampio arco temporale, dal 1776 al 1848-49, segnato dalle grandi rivoluzioni corrisponde al periodo in cui collochiamo gli inizi dell'età contemporanea.
Non una data precisa, ma un insieme di vicende, tutte caratterizzate da trasformazioni rivoluzionarie (o da tentativi rivoluzionari votati all'insuccesso) che si susseguono in quei decenni tanto determinando radicali e alla fine irreversibili mutamenti nei rapporti politici e nelle strutture economiche, quanto avviando processi che portarono nei decenni immediatamente successivi a grandi risultati come l'indipendenza e l'unità d'Italia e l'unificazione tedesca.
Le rivoluzioni politiche – americana, francese, del Sud e del Centro-America – sono state inserite, da alcuni storici, in un quadro unitario, quello delle "rivoluzioni atlantiche", per il loro affacciarsi sulle due sponde dell'oceano e per i reciproci influssi che, nelle due direzioni, legavano Europa e America nella realizzazione di modelli politici liberali e democratici.
Altri storici hanno contestato questa visione d'insieme ritenendo le differenze più significative delle affinità: essa segnala tuttavia l'ampiezza delle aree coinvolte nella grande trasformazione che poniamo alle origini dell'età contemporanea.
Le rivoluzioni politiche spazzano via le strutture del privilegio, cancellano i residui feudali, riducono drasticamente il dominio delle aristocrazie lasciando emergere i nuovi ceti borghesi. «Da sudditi a cittadini» è la formula che condensa l'insieme di questi mutamenti caratterizzati dall'eguaglianza di fronte alla legge e dall'acquisizione dei diritti politici: innanzitutto il diritto di voto attribuito (ai soli uomini) dapprima in base alla ricchezza posseduta o a determinati titoli culturali. L'allargamento del suffragio rimase in tutto il periodo una delle richieste dei gruppi democratici e uno dei principali punti di contrasto tra liberalismo e democrazia.

La grande Rivoluzione

In Europa la Rivoluzione francese (scoppiata nel 1789) è la matrice principale del cambiamento, non solo per l'abbattimento dell'ancien régime, ma perché è dalla vicenda rivoluzionaria che emergono i nuovi protagonisti della lotta politica.
In primo luogo le masse popolari urbane – artigiani, lavoratori manuali, piccoli borghesi –, protagoniste non solo sulla scena francese (e parigina in particolare), ma anche delle fasi rivoluzionarie degli altri paesi europei in tutta la prima metà dell'800. La loro violenza, che ricalcava in parte codici di comportamento delle rivolte popolari di antico regime, solo gradatamente verrà incanalata verso obiettivi politici e programmatici ben definiti.
Un ruolo decisivo in questo ambito ebbero i nuovi politici di professione, un altro portato della Rivoluzione francese, come i giacobini, i primi a dar vita a un'organizzazione centralizzata simile ai successivi partiti politici.
Dagli ideali rivoluzionari interpretati in chiave espansiva e nazionalista emerse la figura di Napoleone Bonaparte, iniziatore di una trasformazione politica e amministrativa non solo della Francia ma di gran parte dell'Europa conquistata dagli eserciti francesi.
Il modello di governo napoleonico, fondato all'interno su un consenso raccolto rivolgendosi direttamente ai cittadini con lo strumento del plebiscito, inaugurò una forma di potere autoritario destinato a riproporsi più volte in varie parti dell'Europa e del mondo nel corso dell'età contemporanea.

La rivoluzione industriale e la questione sociale

Negli stessi decenni delle rivoluzioni politiche americane ed europee, in Gran Bretagna (e in particolare in Inghilterra, dove un secolo prima era stato introdotto un sistema costituzionale-parlamentare) prese avvio la rivoluzione industriale. Le nuove tecnologie destinate ad aumentare e migliorare la produzione, innanzitutto nel settore tessile cotoniero, e contemporaneamente ad abbassare i costi del lavoro, diedero vita non solo a un nuovo sistema produttivo e al luogo fisico delle attività lavorative, la fabbrica, ma anche alla classe operaia, composta dai lavoratori salariati e dalle loro famiglie. Queste trasformazioni, nel loro graduale diffondersi, investirono nei primi decenni dell'800 altri paesi europei – il Belgio, la Francia, le regioni occidentali della Germania – e gli Stati Uniti. Tra gli anni '30 e '40 la rivoluzione industriale fu affiancata progressivamente dalla rivoluzione dei trasporti legata alla costruzione delle ferrovie che stesero la loro rete di comunicazioni nei paesi più sviluppati. Contemporaneamente, in Gran Bretagna prima, nell'Europa continentale in seguito, iniziava a emergere dalle dure condizioni di lavoro e dalle forme di sfruttamento proprie del sistema di fabbrica la questione operaia e il correlato conflitto tra imprenditori industriali e lavoratori. Più in generale l'addensarsi nelle grandi città e nelle nuove città industriali di un numeroso proletariato in condizioni di dura povertà poneva all'attenzione dei governi e dei movimenti politici il manifestarsi della questione sociale accompagnata da nuovi antagonismi tra ceti e classi: agli occhi della classe dirigente e di molti osservatori le classi laboriose si presentavano come «classi pericolose». Questione operaia e questione sociale trovarono due diverse forme di tutela e/o di rappresentanza. In Gran Bretagna nelle prime organizzazioni sindacali delle Trade Unions, altrove nei movimenti politici espressione delle prime forme di socialismo (che postulavano una società nuova fondata sui valori della solidarietà e della uguaglianza).

Le ideologie politiche

Il socialismo nelle sue diverse varianti utopistiche e rivoluzionarie è in ordine di tempo l'ultima delle grandi ideologie che si formano e si affermano in questo periodo. Ma la novità più radicale, quella del socialismo scientifico di Marx e Engels, pur manifestandosi proprio sul finire dell'età delle rivoluzioni, comincerà solo in seguito ad esercitare la sua presa sulla classe operaia.
Bisogna quindi tornare all'indietro per ricordare che dal grande bacino di idee dell'Illuminismo si erano generate le due correnti principali del pensiero politico di quest'epoca, il liberalismo e la democrazia.
Le differenze, che si esprimevano in radicali contrapposizioni – diversamente dal loro successivo avvicinarsi e quasi confondersi a partire dal secondo '900 nella forma della liberaldemocrazia –, si misuravano allora nitidamente sul piano degli obiettivi e dei programmi: tutela dei diritti individuali e difesa dagli abusi di un potere dispotico, ascesa del merito contro i privilegi di ceto per i liberali, allargamento della partecipazione politica e della rappresentanza per i democratici. Ma erano evidenti anche per la diversa base sociale di riferimento che nel caso della democrazia si estendeva alla piccola borghesia e agli elementi più politicizzati dei ceti popolari urbani.

Il Romanticismo e l'idea di nazione

Il vario formarsi e modellarsi della cultura politica e delle ideologie tra '700 e '800 si intreccia con il grande movimento culturale del Romanticismo.
Impossibile da racchiudere in una formula, il Romanticismo è tante cose insieme, talora contraddittorie, spesso declinate assai diversamente nei vari paesi in cui si manifesta. Gli elementi comuni sono il rifiuto del razionalismo illuminista (e, sul piano dei costumi, del libertinaggio settecentesco), l'esaltazione del sentimento puro e sofferto, talora in forme morbose o estreme, e dell'entusiasmo giovanile con forti tratti di contrapposizione generazionale. Movimento letterario, artistico e musicale contrapposto al classicismo degli stili e delle forme, ma anche somma di comportamenti e di stili di vita, sul piano storico guardava alle origini profonde dei popoli e al recupero delle tradizioni.
Da queste numerose e articolate suggestioni emerse e si affermò l'idea di nazione, che già Rousseau, in pieno Illuminismo, vedeva come espressione di un popolo e di una comunità.
Interpretata dalla Francia in maniera aggressiva ed espansionistica nelle guerre rivoluzionarie e napoleoniche, essa alimentò per contrapposizione in Germania una concezione romantica della nazione fondata sull'unità delle origini, della lingua, della terra e del sangue.
La rinascita nazionale tedesca nelle guerre antinapoleoniche (per liberarsi dal dominio francese) e le successive aspirazioni e lotte per l'indipendenza di paesi come la Grecia, la Polonia, l'Ungheria e l'Italia sono tutte manifestazioni di questa nuova idea nazionale, di un nazionalismo che esalta la tradizione e la storia e rivendica un primato particolare se non una missione da affidare ai popoli finalmente consapevoli di un proprio destino.

La Restaurazione e la nuova ondata rivoluzionaria

Negli Stati Uniti rivoluzione, indipendenza e nascita della democrazia avevano avuto un percorso coevo e sostanzialmente unitario. E così in larga misura era avvenuto nelle colonie in America Latina. In Europa invece, dove gli antichi ordinamenti sociali e politici erano assai più forti, il rovesciamento del dominio napoleonico portò alla restaurazione dei vecchi sovrani e dei sistemi di governo tradizionali, anche se molti degli ordinamenti giuridici imposti dai francesi non poterono essere smantellati.
Ma la mobilitazione politica liberale e democratica innestata negli anni della Rivoluzione francese e dalla diffusione dei programmi rivoluzionari in Europa non poté essere arrestata. Nel 1820-21, nel 1830-31 e di nuovo nel 1848-49 tre cicli rivoluzionari coinvolsero diversi paesi europei dalla Spagna alla Polonia, dall'Ungheria all'Italia.
Nei primi due cicli la richiesta principale fu l'ampliamento delle libertà politiche e la concessione di una costituzione. Dovunque prevalse la repressione, il braccio armato della Santa Alleanza che tutelava la Restaurazione.
In Italia a riportare l'ordine fu l'Austria, in Spagna intervennero i francesi nel 1823. Solo qualche anno dopo in Grecia e in Belgio, rispettivamente nel 1829 e nel 1830, con la conquista dell'indipendenza dei due paesi, fu raggiunto un risultato duraturo che ebbe il consenso delle maggiori potenze.
Nel frattempo la rivoluzione si era riaffacciata in Francia e il regime costituzionale dei Borbone (successivo alla caduta di Napoleone) fu abbattuto dalla sollevazione parigina del luglio 1830. Il nuovo sistema di governo borghese-liberale della monarchia orleanista (che segui i fatti di luglio) si rivelò via via sempre più chiuso alle istanze di un ampliamento democratico, vittima a sua volta della nuova rivoluzione del febbraio 1848.
L'ondata rivoluzionaria che attraversò l'Europa nel 1848-49 fu assai più estesa e combattuta.
Per la prima volta fu l'Austria, il centro propulsore della Restaurazione, ad essere coinvolta direttamente a Vienna e in molte parti del suo impero: a Budapest, a Milano, a Venezia. Nella rivoluzione del 1848 entrarono in campo anche gli Stati tedeschi con l'obiettivo di instaurare regimi costituzionali e insieme avviare l'unificazione del paese. Ma l'ostilità della Prussia, il più forte Stato tedesco, a ogni innovazione spense rapidamente gli entusiasmi nazionali germanici.
Ancora una volta la diversità, spesso radicale, di obiettivi e di programmi tra liberali e democratici, peraltro non sostenuti da alcuna forza armata organizzata, dovette piegarsi alla dura repressione militare messa in atto soprattutto nell'Impero asburgico.
Questa sconfitta generale delle forze democratiche investi anche la Francia dove, dopo la proclamazione della Repubblica, il suffragio universale portò al potere Luigi Napoleone Bonaparte, nipote del primo Napoleone, con l'appoggio delle forze conservatrici e cattoliche, e del mondo rurale. Giocò a suo favore la potente leva rappresentata dalle memorie dei successi dello zio, che aveva fondato il grande Impero francese.
Rinasceva nuovamente su base plebiscitaria un Impero napoleonico con l'obiettivo di tornare ad avere un ruolo decisivo nella storia d'Europa.

L'Italia e il Risorgimento

L'Italia tornò protagonista della storia europea e artefice diretta dei propri destini col movimento di rinascita politica del Risorgimento: protagonista per la partecipazione ai moti costituzionali del 1820-21 e del '31, per il diffondersi della consapevolezza di una nuova identità nazionale votata all'unificazione del paese, per la particolarità della sua mobilitazione politica.
L'obiettivo ostacolo delle antiche divisioni territoriali e del perdurare dei particolarismi, la dominazione austriaca diretta o indiretta su tanta parte della penisola e la presenza della Chiesa con un proprio ampio Stato territoriale, rendevano il processo risorgimentale e unitario particolarmente difficile.
Altri fattori, tuttavia, agivano per un radicale cambiamento dei tradizionali assetti italiani: le ambizioni di espansione territoriale del Piemonte dei Savoia, la diffusione e il consenso a nuove teorizzazioni e movimenti politici, come sul fronte moderato il neoguelfismo di Gioberti, che poneva al centro della storia d'Italia degli anni a venire il nuovo compito unificatore della Chiesa di Roma, o il federalismo democratico di Cattaneo. Ma, per ampiezza di adesioni e di gruppi sociali coinvolti, decisivo fu il ruolo di Mazzini e delle sue idee democratiche e repubblicane animate da uno spirito di sacrificio e dal fascino di una "nuova religione politica" in cui la fede nella libertà e nel progresso umano era vissuta come una fede religiosa.
Il paradosso di un papa riformatore come Pio IX diede l'avvio a un incendio rivoluzionario che, tra il '48 e il '49, sconvolse l'Italia con un significativo anticipo rispetto a quanto avveniva nel resto d'Europa.
La concessione delle costituzioni, le rivolte di Milano e Venezia, l'inizio della guerra del Piemonte all'Austria, la prima guerra d'indipendenza, con l'iniziale partecipazione degli altri Stati italiani, si susseguirono in tempi rapidissimi.
La prima sconfitta del Piemonte nel '48, la ripresa della guerra e la definitiva sconfitta del Regno sabaudo nel '49 si compirono mentre continuava la resistenza democratica della Repubblica romana contro l'intervento francese, volto a restaurare il papato, e di Venezia contro gli austriaci.
Nonostante la duplice sconfitta dell'opzione bellica piemontese e delle rivoluzioni democratiche di Roma e Venezia, quello del '48-49 fu un biennio epocale. Un biennio che testimoniava la nuova dimensione europea del problema italiano, e certificava la nascita di un movimento nazionale e di una mobilitazione patriottica alimentata dalla partecipazione di decine di migliaia di italiani.

 

Le colonie britanniche nell'America del Nord

[ Introduzione audio ]

La formazione degli Stati Uniti d'America è il primo episodio di quella stagione rivoluzionaria – politica ma anche economica e sociale – che inizia negli ultimi decenni del '700 e si chiude alla metà dell'800: l'età che abbiamo chiamato delle "grandi rivoluzioni".
Con la nascita degli Stati Uniti fa il suo ingresso sulla scena mondiale un nuovo protagonista: anche se dovranno passare molti decenni, e una drammatica guerra civile, perché il nuovo Stato si consolidi. Ma dalla fine dell'800, prima con la guerra contro la Spagna per l'indipendenza di Cuba (che divenne protettorato americano nel 1898), poi con la partecipazione al primo conflitto mondiale (nel 1917), gli Stati Uniti si affermarono come grande potenza fino a dominare la seconda metà del '900 e gli anni iniziali del nuovo secolo.

I primi insediamenti

Agli inizi del '600 in due diversi punti delle coste atlantiche dell'America settentrionale aveva preso avvio la colonizzazione inglese: nel 1607 nei territori della Virginia e nel 1620 con lo sbarco, molto più a nord – a Cape Cod, nel Massachusetts –, dei "Padri Pellegrini", una congregazione di puritani inglesi già esuli in Olanda.
I nuovi insediamenti furono favoriti dall'assistenza fornita dagli indiani nativi, i pellerossa, nel contribuire alla esplorazione del territorio e nel fornire risorse alimentari prima che le nuove coltivazioni potessero cominciare a dare i loro frutti. Presto però dissodamenti e disboscamenti sarebbero stati all'origine di duri conflitti con le tribù dei pellerossa sul possesso delle terre.
Nell'espansione inglese dei decenni successivi si sommarono l'iniziativa delle compagnie commerciali e una consistente immigrazione di minoranze politiche e religiose dalla Gran Bretagna ma anche da altri paesi europei, come quella degli ugonotti dalla Francia o degli amish dalle regioni di lingua tedesca.
Via via gli inglesi risalirono verso nord e discesero verso sud conquistando e mettendo a coltivazione territori sempre più estesi, assorbendo e talora acquistando i precedenti insediamenti olandesi e svedesi.

Le tredici colonie

Nel 1763, alla fine della guerra dei Sette anni contro la Francia, le colonie britanniche si estendevano dal Canada a nord (la Nuova Scozia) alla Florida a sud, mentre a ovest erano delimitate dalla catena montuosa degli Appalachi.
Distese su un territorio così lungo, le colonie erano caratterizzate da grandi diversità climatiche, ma differivano anche per composizione sociale e assetti economico-produttivi.
Le quattro colonie settentrionali. La Nuova Inghilterra
In Massachusetts, New Hampshire, Rhode Island, Connecticut il clima, simile a quello dell'Europa nordoccidentale, aveva consentito la coltivazione dei cereali e la costituzione di villaggi rurali. Nei centri urbani della costa, però, primo fra tutti Boston, fiorì, grazie alla larga disponibilità di legname, un'importante industria cantieristica.
Le quattro colonie del Centro
Nei territori di New York, del New Jersey, della Pennsylvania e del Delaware, che non costituivano un blocco omogeneo, la situazione economica era simile a quella della Nuova Inghilterra, ma con più forti squilibri sociali e una diversa struttura della proprietà terriera – soprattutto nello Stato di New York dominavano infatti i grandi latifondisti.
Le cinque colonie del Sud
In Virginia, Maryland, Carolina del Nord e del Sud, Georgia tutta l'economia era incentrata sulle piantagioni (tabacco, riso e, più tardi, cotone), si fondava principalmente sulla grande proprietà e si reggeva sul lavoro degli schiavi di origine africana. Ma era anche diffusa la piccola e media proprietà terriera che si avvaleva anch'essa della manodopera degli schiavi neri.

Le appartenenze religiose e la mentalità del "nuovo popolo eletto"

Le colonie si differenziavano profondamente anche dal punto di vista religioso, pur essendo tutte protestanti.
Nella Nuova Inghilterra prevalevano largamente i dissidenti della Chiesa anglicana (presbiteriani, congregazionalisti, metodisti): qui, negli anni 1730-40, aveva trovato larga diffusione il movimento del Grande risveglio protestante, animato da impetuosi predicatori che volevano rivitalizzare la fede, ritornare alla Bibbia, rafforzare la pratica religiosa. La Pennsylvania ospitava larghe comunità di quaccheri e di amish. Nelle colonie del Sud era dominante invece la fedeltà alla Chiesa anglicana.
Le numerose denominazioni religiose del protestantesimo intransigente erano impegnate nella difesa delle forme di autogoverno, delle libertà dei coloni e alimentavano il dissenso nei confronti delle istituzioni e dei controlli esercitati dall'amministrazione e dalle istituzioni della Corona britannica. Queste posizioni erano fondate sul nesso sempre più stringente tra libertà religiosa e libertà politica nonché sulla convinzione di una nuova missione e di un destino speciale affidato da Dio ai nuovi americani che si consideravano un popolo eletto, chiamato a realizzare il vero cristianesimo.

La popolazione e le tradizioni insediative

Secondo le stime, nel 1770 la popolazione aveva superato i 2 milioni e nel 1780, con un elevato tasso di incremento, avrebbe raggiunto i 2.780.000 individui.
Tra la popolazione si contavano oltre 500 mila schiavi neri, concentrati nelle colonie meridionali dove rappresentavano il 40% circa degli abitanti.
Un ruolo rilevante avevano gli indiani pellerossa, dislocati all'interno dei territori e sospinti dalla colonizzazione sempre più verso ovest, non facilmente conteggiabili ma in continua diminuzione. Tra le numerose "nazioni" indiane (questo era il termine con cui venivano chiamate le tribù) spiccavano la confederazione degli Irochesi del Nord-est, già alleati dei britannici nelle guerre franco-indiane, gli Algonchini, schierati invece con i francesi, e i Cherokee a Sud.
Le colonie non erano caratterizzate da una significativa urbanizzazione, soprattutto nei territori del Sud. Diversa era la situazione nelle colonie del Centro e del Nord. Philadelphia era la città più popolosa con 40 mila abitanti, mentre gli altri due principali centri urbani, Boston e New York, che pure avevano conosciuto un vistoso incremento demografico del 50% tra il 1760 e il 1775, si fermavano a 18 mila e 21 mila abitanti rispettivamente. Centri dunque relativamente piccoli ma vivacissimi per le attività economiche e la vita politica e culturale.

 

Una rivoluzione per l'indipendenza

Le dure premesse

Le colonie americane, largamente inserite nel sistema di scambi atlantici, dovevano sottostare alle leggi commerciali imposte da Londra.
Solo le navi britanniche potevano accedere ai porti del Nord America e tutte le merci dirette alle colonie dovevano passare per la Gran Bretagna. La quasi totalità della produzione coloniale – il tabacco e il riso del Sud, il legname della Nuova Inghilterra, il pesce e l'olio di balena, il rhum e le pellicce – era destinata ai mercati britannici, mentre l'industria locale, salvo quella cantieristica, era ostacolata per evitare che entrasse in concorrenza con quella della madrepatria.
Sul piano politico-amministrativo, invece, le colonie, pur sottoposte al controllo di un governatore di nomina regia, si erano date assemblee legislative elette dai cittadini che nel corso del tempo avevano assunto poteri sempre maggiori. Questo dualismo di poteri di fatto lasciava spazio a continui conflitti, intensificati soprattutto dopo la fine dell'ultima guerra franco-indiana: a partire dal 1763 le tredici colonie cominciarono a sentirsi come un'unità autonoma, diversa dalla madrepatria, con una propria identità e non più come parte integrante di un impero britannico unitario.

Dal boicottaggio alla guerra

Questi sentimenti si accentuarono fino a trasformarsi in diffusa opposizione politica quando la Gran Bretagna intensificò il prelievo fiscale.
Si trattava di rimettere in sesto le finanze statali dissanguate dalle guerre e di pagare i funzionari e le truppe stanziate nei territori americani. Ma se ai vincoli commerciali le colonie avevano risposto con il contrabbando o eludendo le norme, ora all'inasprimento fiscale risposero con il boicottaggio delle merci provenienti dalla madrepatria.
L'imposizione di una serie di dazi doganali – come quello sullo zucchero del 1764 – e dello Stamp Act (1765), l'obbligo di una marca da bollo non solo sui documenti ma anche su giornali e riviste, provocò la dura reazione dei coloni. Della protesta si fecero interpreti le assemblee legislative e i numerosi periodici politici delle colonie, che potevano contare su un larghissimo consenso in tutti i ceti sociali, dai grandi proprietari del Sud, agli artigiani del Nord, agli intellettuali. Venne richiamata con forza la stessa tradizione del parlamentarismo britannico: in particolare il principio secondo cui nessuna tassa poteva essere imposta senza l'approvazione di un'assemblea in cui i diritti dei tassati trovassero adeguata rappresentanza.
In base a questo principio — «no taxation without representation» — il Parlamento di Londra, dove i coloni non erano rappresentati, non aveva diritto a imporre tasse ai territori d'Oltreoceano.
La tensione, già alta, si accentuò quando un provvedimento del 1773 assegnò alla Compagnia delle Indie il monopolio della vendita del tè nel continente americano, danneggiando gravemente i commercianti locali. Nel dicembre 1773, nel porto di Boston — centro principale dell'agitazione antibritannica — furono assalite alcune navi della Compagnia e fu gettato in mare il carico di tè.
All'atto, passato alla storia come Boston Tea Party, il governo centrale rispose con dure misure di ritorsione: nel 1774 il porto di Boston fu chiuso, il Massachusetts fu privato delle sue autonomie, in tutte le colonie i giudici americani furono sostituiti da funzionari britannici.
Da questo momento in poi, la rivolta divenne aperta e generalizzata.
Nel settembre '74, in un primo Congresso continentale, i rappresentanti delle tredici colonie si accordarono per portare avanti le azioni di boicottaggio e per difendere con ogni mezzo le loro autonomie. Nell'aprile 1775 si ebbero i primi scontri armati tra le milizie dei coloni e le truppe britanniche nei pressi di Boston. In maggio, un secondo Congresso continentale decideva la formazione di un esercito comune, il Continental Army, e ne affidava il comando a George Washington (1732-1799), un proprietario terriero della Virginia che, nel volgere di un decennio, sarebbe divenuto il primo presidente degli Stati Uniti d'America.
La protesta delle colonie, trasformatasi ormai in rivoluzione, sfociava così in una vera e propria guerra.

La Dichiarazione di Indipendenza. Un atto fondativo

Il 4 luglio 1776, dopo un lungo e acceso dibattito, il Congresso continentale approvò una Dichiarazione di indipendenza stesa da Thomas Jefferson (1743-1826), che può essere considerata il vero atto di nascita degli Stati Uniti d'America.
Questo documento fondamentale, oltre a enumerare minuziosamente i motivi del contrasto con la Corona britannica sul modello del Bill of Rights inglese del 1689, si richiamava ai principi del giusnaturalismo, ai diritti inalienabili dell'uomo e al diritto di un popolo a ribellarsi gettando le basi di un nuovo e concreto progetto politico.
La Dichiarazione era un progetto rivoluzionario che rompeva ogni legame con la monarchia britannica e dava vita a una repubblica.

La guerra, la vittoria e la pace

L'indipendenza venne dichiarata poco più di un anno dopo l'inizio di una guerra che si sarebbe trascinata per otto anni: durò infatti dal 1775 al 1783. Inoltre, dopo l'ingresso della Francia e della Spagna a fianco degli Stati Uniti con l'evidente obiettivo di trarre vantaggi territoriali da un'eventuale sconfitta della Gran Bretagna, il conflitto si sarebbe combattuto anche nei Caraibi, a Gibilterra (inutilmente assediata dagli spagnoli per tre anni), sulle coste africane e in India.
Negli Stati Uniti le prime fasi del conflitto non furono favorevoli agli americani, anche perché le truppe britanniche, forti di 35 mila uomini (tra cui un nutrito contingente di mercenari tedeschi), contro gli 8000 poco addestrati dell'esercito di Washington, assunsero l'iniziativa occupando New York (agosto 1776).
Washington adottò allora una tattica prudente evitando gli scontri campali e logorando gli avversari con ostinate azioni di guerriglia — sabotaggi, assalti, attentati a sorpresa —, finché i britannici non subirono a Saratoga (1777) la loro prima seria sconfitta.
La posizione degli insorti restava comunque difficile e piuttosto grave era la situazione finanziaria, che costrinse le colonie a sostenere i costi del conflitto ricorrendo a una serie di imposte straordinarie.
A favore degli indipendentisti si schierò l'opinione pubblica europea — nella stessa Gran Bretagna non mancarono le voci favorevoli ai ribelli — tanto che, a partire dal 1777, cominciarono ad arrivare, provenienti da diversi paesi europei, numerosi volontari pronti a battersi a fianco degli Stati Uniti. Ma l'aiuto decisivo venne dall'intervento delle potenze europee che impegnarono la Gran Bretagna su molti altri teatri bellici. Importante in questa fase fu in particolare il ruolo della Francia, che, alla fine del '77, riconobbe l'indipendenza delle colonie e, nel gennaio '78, firmò con esse un patto di alleanza militare.
Nell'estate dell'81, in coincidenza con l'arrivo di una flotta francese, gli americani passarono al contrattacco e posero l'assedio a Yorktown, in Virginia, dove si era concentrato il grosso delle forze britanniche costringendole alla resa nell'ottobre 1781.
Con la pace di Versailles del settembre 1783 la Gran Bretagna riconosceva l'indipendenza delle tredici colonie, ma conservava sostanzialmente intatto il resto del suo impero, pur dovendo restituire alla Spagna la Florida (che aveva occupato nel 1763).

 

La guerra civile e gli ideali repubblicani

Patrioti versus lealisti

La guerra contro la Gran Bretagna fu anche una guerra civile che vide schierati i "patrioti" indipendentisti contro i "lealisti", fedeli alla Corona britannica o, come anche si disse, i Whigs contro i Tories.
Si ritiene che i rivoluzionari fossero il 40% della popolazione e altrettanti i pacifisti (come i quaccheri) e gli indifferenti. I lealisti erano quindi una minoranza, ma molto combattiva. Tra i patrioti erano schierati l'élite dei proprietari di piantagioni del Sud, come i virginiani Washington e Jefferson, grandi e piccoli mercanti, ceti artigiani e agricoltori indipendenti soprattutto nel Nord, e appartenenti alle congregazioni protestanti non anglicane.
La contrapposizione con i lealisti tuttavia non era sociale, ma politica e ideologica.
Salvo che nella Nuova Inghilterra, dove la maggioranza indipendentista non trovò molti avversari, gli scontri tra le due fazioni furono durissimi e spietati, fino al massacro degli avversari. Alla fine della guerra tra i 60 e i 100 mila coloni lealisti furono costretti all'esilio e le loro proprietà vennero confiscate. Gli esiliati, a cui si aggiunse qualche migliaio di schiavi liberati, si trasferirono in Canada nella regione dell'Ontario, nei Caraibi o tornarono in Gran Bretagna.
La radicalità dello scontro rifletteva la diversità delle posizioni ideologiche. La cultura rivoluzionaria era figlia delle tradizioni radicali inglesi, tanto politiche che religiose, dei principi del contrattualismo di Locke, ma anche del richiamo alle antiche libertà che risalivano alla Magna Charta. Inoltre, il mito delle virtù repubblicane era contrapposto alla corruzione del dispotismo monarchico.
Erano diffusi anche gli ideali della Massoneria (peraltro condivisi nello schieramento monarchico) più per la loro capacità aggregante che per gli aspetti dottrinari. Massoni furono alcuni dei leader rivoluzionari, come George Washington, Benjamin Franklin (17061790), uomo di scienza e cultura oltre che politico di peso, e Alexander Hamilton (1755-1804), che era stato uno dei più stretti collaboratori di Washington e in seguito fu esponente delle tesi federaliste.

Gli esclusi dalla Rivoluzione

Anche gli schiavi neri (o i neri liberati) e gli indiani nativi furono coinvolti nella guerra.
A molti schiavi fu promessa la liberazione da entrambi gli schieramenti in cambio dell'arruolamento.
Al Sud, soprattutto in Carolina, molti neri fuggirono approfittando dei disordini della guerra mettendo in grave crisi l'economia delle piantagioni. Le maggiori nazioni indiane si schierarono prevalentemente dalla parte dei britannici, che sembravano poter tutelare meglio le tribù pellerossa dai rischi dell'espansione dei coloni americani nei territori ad ovest degli Appalachi.
Di fatto, i principi egualitari, per quanto enunciati nel preambolo della Dichiarazione di indipendenza, si ritenevano implicitamente limitati ai bianchi americani e non si potevano estendere alle popolazioni native né agli schiavi di colore. Peraltro, gli indiani pellerossa erano il principale ostacolo all'allargamento verso ovest della colonizzazione e gli schiavi neri erano indispensabili per mantenere efficiente il sistema produttivo degli Stati del Sud. In questo senso gli uni e gli altri possono essere considerati gli sconfitti del grande esperimento politico della Rivoluzione americana.

 

La Costituzione e la democrazia americana

La Costituzione del 1787

Il nuovo organismo politico uscito vittorioso dalla Rivoluzione e dalla guerra era privo di un ordinamento istituzionale che superasse i potenziali antagonismi tra i diversi Stati e si presentasse unito sulla scena internazionale.
Per risolvere questo problema nel maggio 1787 si aprì a Philadelphia, sotto la presidenza di Washington, una Convenzione costituzionale, ossia un'assemblea dei rappresentanti di tutti i tredici Stati, che in meno di due mesi approvò una Costituzione, destinata a reggere nelle sue linee fondamentali ancora ai nostri giorni e a fungere da modello per molte successive esperienze di regime rappresentativo. Ispirandosi al principio della divisione e dell'equilibrio dei poteri, la Costituzione dava vita a nuovi organi federali, in grado di esercitare la propria autorità su tutti i cittadini della Confederazione, che si trasformava così in Unione o Federazione, acquistando la fisionomia di un vero e proprio Stato unitario.

Gli organi federali

Il potere legislativo era esercitato da due Camere.

Le istituzioni americane

La Camera dei rappresentanti, che aveva competenza per le questioni finanziarie, era eletta in proporzione al numero degli abitanti (un deputato ogni 30 mila).
Il Senato, cui spettava il controllo sulla politica estera, era invece composto da due rappresentanti per ogni Stato.
Questa soluzione costituiva un compromesso tra le esigenze degli Stati più popolosi e le preoccupazioni degli Stati minori, destinati a essere sacrificati in un sistema di rappresentanza basato esclusivamente sulla consistenza numerica della popolazione.
Potevano votare, con criteri variabili nei singoli Stati, solo i maschi bianchi dotati di un certo reddito, in base al criterio del suffragio censitario.
Il potere giudiziario – ferma restando l'autonomia in materia dei singoli Stati – veniva posto sotto il controllo di una Corte suprema federale, composta da giudici a vita nominati dal Presidente con l'assenso del Senato.
La maggiore novità della Costituzione stava nella creazione di un forte potere esecutivo, accentrato nella figura del Presidente, eletto ogni quattro anni con voto indiretto, cioè non direttamente da tutti gli aventi diritto, ma da un'assemblea di "grandi elettori" designati dagli Stati.
Indipendente dal potere legislativo, il presidente era dotato di poteri amplissimi: tra l'altro deteneva il comando delle forze armate, nominava, oltre ai giudici della Corte suprema, i titolari di molti importanti uffici federali, poteva bloccare col suo veto le leggi approvate dal Congresso – termine con cui si designavano entrambi i rami del legislativo, ovvero la Camera dei rappresentanti e il Senato.
Il Congresso poteva però a sua volta mettere in stato d'accusa il presidente e destituirlo se questi si fosse reso colpevole di violazioni della legge.

Federalisti e antifederalisti

La Costituzione, per entrare in vigore, doveva essere approvata dalle assemblee dei singoli Stati. Fu appunto in questa fase che il dibattito costituzionale si sviluppò in termini più aperti e più vivaci.
Favorevoli alla soluzione federalista – ossia al rafforzamento del potere centrale – e quindi all'approvazione della Costituzione erano soprattutto i gruppi legati al commercio e alla industria, ma anche i grandi proprietari, e in genere i ceti più conservatori, che speravano di trovare in un esecutivo forte la migliore garanzia contro i rischi di disordine sociale e le tendenze radicali.
Le idee antifederaliste avevano invece maggior seguito tra i ceti medio-bassi, in particolare tra i piccoli coltivatori, che temevano di non poter essere sufficientemente rappresentati da un governo centrale, considerato come un possibile strumento in mano alle oligarchie finanziarie e agli affaristi delle città.
Le tesi federaliste finirono col prevalere quasi dappertutto: la Costituzione fu approvata da undici Stati su tredici, per essere poi solennemente ratificata dal Congresso continentale nel settembre 1788. Nel febbraio seguente furono tenute le prime elezioni legislative. Un mese dopo, George Washington veniva eletto alla carica di presidente.
Le richieste degli antifederaliste ottennero una parziale soddisfazione con l'approvazione da parte del Congresso, tra 1'89 e il '91, di dieci articoli aggiuntivi – o emendamenti – alla Costituzione, noti come il Bill of Rights americano, che avevano lo scopo di ribadire e di tutelare i diritti naturali di libertà e proprietà dei cittadini e le prerogative dei singoli Stati contro qualsiasi invadenza del potere federale.

I due partiti

Il governo federale fu organizzato in dipartimenti, ossia in ministeri.
Il dipartimento del Tesoro fu affidato ad Alexander Hamilton, esponente dell'orientamento federalista, che ebbe un ruolo importantissimo nel risanare le dissestate finanze dell'Unione e nel promuovere la riorganizzazione del sistema creditizio attorno a una banca nazionale, la Banca degli Stati Uniti.
La politica di Hamilton, che favoriva i ceti commerciali e finanziari del Centro-nord, suscitò l'opposizione dei proprietari del Sud e dei coloni dell'Ovest, che trovarono un punto di riferimento in Thomas Jefferson, estensore nel '76 della Dichiarazione di indipendenza.
Si formarono così due veri e propri partiti: il repubblicano-democratico, che faceva capo a Jefferson, e il federalista, che aveva il suo principale leader in Hamilton.

L'espansione degli Stati dell'Unione

L'assestamento delle istituzioni e il definirsi delle divisioni politiche coincisero con l'accelerazione di quella espansione territoriale che si era manifestata già durante il periodo coloniale.
Con l'Ordinanza del Nord-ovest emanata nel luglio 1787, le regioni da colonizzare ottenevano la condizione di "territori", cioè di aree poste sotto la tutela del Congresso statunitense che vi avrebbe inviato giudici e governatori.
Contemporaneamente erano incoraggiate a darsi propri organi di autogoverno fino a che, una volta raggiunti i 60 mila abitanti, potessero trasformarsi in Stati dell'Unione.
Questo meccanismo fu sperimentato già nell'ultimo decennio del secolo, che vide la nascita di tre nuovi Stati: il Vermont, il Kentucky e il Tennessee.
Il sistema si sarebbe dimostrato valido anche nell'800, e avrebbe contribuito non poco alla formazione di un modello di sviluppo territoriale (ed economico) destinato a caratterizzare la storia degli Stati Uniti per tutto il secolo XIX: un modello "aperto", capace di conciliare le spinte espansionistiche con la tutela delle autonomie e con la crescita della democrazia.

 

 

LA RIVOLUZIONE FRANCESE E NAPOLEONE

 

 

[ Introduzione audio ]

Dal 1789 al 1815 la Francia, e tutta l'Europa, attraversarono un periodo di conflitti e profonde trasformazioni.
Per prima la Rivoluzione francese rovesciò l'ancien régime, diede vita a un nuovo sistema politico repubblicano, portò il paese in guerra contro le altre potenze e creò nuove "repubbliche sorelle" della Francia in Europa.
L'opera rivoluzionaria fu continuata da Napoleone che costruì con le vittorie militari un grande Impero francese, dalla Spagna alla Polonia, fino alla sua rovinosa sconfitta nel 1815.

 

La crisi finanziaria e gli Stati generali

Luigi XVI ricorre agli Stati generali

Dalla morte di Luigi XIV (1715), l'assolutismo francese si era indebolito senza riuscire a riformarsi.
Nonostante la vivacità del dibattito culturale e politico, il governo era chiuso nel suo immobilismo, incapace di affrontare la crisi finanziaria, il principale problema che lo affliggeva. L'indebitamento statale, dovuto soprattutto alle spese per le continue guerre, aveva raggiunto dimensioni tali che solo la tassazione dei ceti privilegiati – clero e nobiltà – poteva risolvere.
Luigi XVI, al governo dal 1774, ritenne allora di affidare la soluzione della questione fiscale agli Stati generali, l'assemblea dei tre ordini – clero, nobiltà e Terzo stato mai più riunitasi dal 1614.

Società, disagio e mobilitazione politica

Su una popolazione totale di 24-25 milioni, in Francia, il 98% era formato dal Terzo stato, al quale appartenevano tutti coloro che non erano nobili o ecclesiastici. Meno di 400 mila erano i nobili (1,5%), mentre il clero contava 130 mila individui (0,5%), divisi fra basso e alto clero (parroci e prelati) e tra secolari e regolari (sacerdoti e appartenenti agli ordini religiosi). Almeno 20 milioni di persone vivevano nelle campagne, Parigi contava 650 mila abitanti, Marsiglia e Lione 100 mila.
Se finanzieri e mercanti erano le figure di maggiore prestigio della borghesia, più importanti si riveleranno nelle successive vicende politiche gli uomini di legge, gli avvocati soprattutto, uomini colti, partecipi delle nuove idee dell'Illuminismo.
La decisione di convocare gli Stati generali per il maggio 1789 determinò una grande mobilitazione politica nel paese. Il tema più controverso era quello del numero dei rappresentanti e del sistema di voto.
Non pareva infatti possibile applicare le vecchie regole che attribuivano lo stesso numero di rappresentanti ai tre ordini e stabilivano che ogni ordine esprimesse un unico voto collegiale. In questo modo il Terzo stato non avrebbe visto riconosciuto il peso reale che aveva nella società.
Si formò allora un raggruppamento eterogeneo di intellettuali e pubblicisti borghesi, il partito nazionale, nel quale confluirono anche esponenti del clero e della nobiltà, espressione dell'opinione pubblica illuminista e liberale, dei suoi strumenti di comunicazione – giornali, pamphlets, circoli, logge (luoghi di riunione) massoniche – e di un programma mirante all'eguaglianza politica e a un governo rappresentativo.
Il partito nazionale chiedeva anche il raddoppio dei rappresentanti del Terzo stato, l'abolizione del voto per ordine e l'introduzione di quello individuale.
Un'ampia testimonianza delle aspettative e delle ragioni del malessere diffuse nel paese si veniva nel frattempo raccogliendo nei cahiers de doléances ('quaderni di lagnanze'), testi che documentavano le rimostranze e le proposte da presentare agli Stati generali.
In essi era già evidente una radicale divaricazione di obiettivi: mentre tutti e tre gli ordini puntavano alla nascita di istituzioni rappresentative cui affidare le decisioni in materia fiscale, il Terzo stato sosteneva anche l'eguaglianza giuridica, l'abolizione dei privilegi, difesi ancora dalla nobiltà e dal clero, e l'adozione del criterio del merito come forma di promozione sociale.

La composizione interna dell'Assemblea

Quando si riunirono gli Stati generali il 5 maggio 1789, a Versailles, l'assemblea di 1139 membri, eletti a suffragio maschile censitario, contava 578 deputati del Terzo stato, cui il re Luigi XVI aveva concesso il raddoppio: per la metà erano uomini di legge, di cui almeno 200 avvocati; 80-100 erano i commercianti, mercanti e finanzieri, e circa 50 i proprietari terrieri; una trentina erano gli uomini di scienza, fra cui molti medici. Furono eletti nel Terzo stato anche due transfughi dagli altri ordini, l'abate Sieyès e il conte Mirabeau, esponenti di spicco del partito nazionale.
Su 291 rappresentanti del clero i parroci erano la stragrande maggioranza e molti aderivano ai programmi del Terzo stato. Ma anche nell'alto clero non mancavano i fautori del mutamento, come il vescovo di Autun, Talleyrand. I più intransigenti difensori della società d'ordini erano invece i nobili: tuttavia, su 270 un terzo circa erano gli esponenti liberali, fra cui il marchese di La Fayette, reduce della guerra d'indipendenza americana.

 

L'avvio della Rivoluzione e la fine dell'ancien régime

L'Assemblea nazionale costituente

La maggioranza numerica dei deputati degli Stati generali era dunque favorevole a un profondo rinnovamento delle strutture politiche e amministrative: il Terzo stato allora prese l'iniziativa e, con l'appoggio di alcuni membri del basso clero, si autoproclamò Assemblea nazionale giurando di non sciogliersi prima di aver dato alla Francia una costituzione. A essi si aggiunse la maggioranza del clero e, dopo qualche giorno, il re ordinò alla nobiltà e alla minoranza del clero di unirsi al Terzo stato. Dalla antica rappresentanza per ceti il 9 luglio 1789 nasceva l'Assemblea nazionale costituente: era il primo atto formale della Rivoluzione.

14 luglio. La presa della Bastiglia

Mentre i primi passi della Rivoluzione negli ordinamenti politici si compivano a Versailles, Parigi era in subbuglio.
Voci incontrollate parlavano di un intervento armato contro l'Assemblea costituente. Come risposta a questo allarme, cominciò a formarsi una milizia borghese, che avrebbe preso il nome di Guardia nazionale, con lo scopo di contrapporsi alla repressione regia e di tenere sotto controllo le eventuali iniziative popolari.
Contemporaneamente strati consistenti di popolo minuto si venivano armando. Il 14 luglio, un corteo popolare, alla ricerca di armi, giunse sotto le mura del castello della Bastiglia, la prigione-fortezza simbolo dell'assolutismo, e dopo alcune ore di scontri la conquistò.
Il 14 luglio sarà considerata in seguito la data iniziale della Rivoluzione francese. E in effetti la presa della Bastiglia impresse una svolta agli avvenimenti: il popolo parigino irrompeva prepotentemente sulla scena e da allora l'avrebbe dominata per anni costringendo tutte le forze politiche a misurarsi con questa decisiva presenza, con il suo protagonismo e con la sua spesso imprevedibile e incontrollabile violenza.
Un "popolo" composto soprattutto da piccoli commercianti e artigiani, per oltre due terzi alfabetizzati, da lavoranti e manovali, da impiegati e da qualche professionista. In pochi giorni, una serie di atti rivoluzionari – la formazione dell'Assemblea costituente, l'organizzazione della milizia borghese, l'instaurazione di nuove rappresentanze municipali (che, iniziata a Parigi con il riconoscimento del re, si estese a tutte le province) – testimoniava la nascita di nuovi poteri e il progressivo sgretolamento dell'ancien régime.

L'abolizione del feudalesimo

Nella seconda metà di luglio una sollevazione delle campagne determinò un'ulteriore accelerazione del processo.
La difficile situazione economica e l'improvviso diffondersi di un panico collettivo – la «grande paura» –, legato a voci di supposte scorrerie di briganti e di congiure aristocratiche, fecero esplodere una violenta rivolta antifeudale. Furono assaliti e devastati i castelli, incendiati gli archivi dei signori, dove era conservata la documentazione dello sfruttamento feudale.
Sospinta da questi avvenimenti, in un'atmosfera di entusiastica volontà distruttiva del passato, l'Assemblea, nella notte del 4 agosto, approvò l'abolizione del regime feudale sopprimendo anche tutti i privilegi giuridici e fiscali, la venalità delle cariche e la decima ecclesiastica.

La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino

Il 26 agosto fu discussa e approvata dall'Assemblea la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, il documento più celebre della Rivoluzione, destinato a divenire un punto di riferimento per tutti i regimi liberali e democratici del mondo contemporaneo.
Espressione delle idee giusnaturaliste e illuministe, la Dichiarazione rivendicava i principi fondamentali della libertà e dell'uguaglianza – «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti» (art. 1) – e indicava come obiettivo «la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione» (art. 2). Dichiarava inoltre che la legge è «l'espressione della volontà generale» e che «tutti i cittadini hanno diritto di concorrere [ ... ] alla sua formazione».
Affermando i principi dell'uguaglianza di fronte alla legge e della partecipazione dei cittadini alla vita politica senza distinzione di ceto, la Dichiarazione poneva il sigillo al rovesciamento dell'ancien régime.

Luigi XVI e la Rivoluzione

Il re non appariva tuttavia disposto ad accettare queste decisioni.
A rompere una preoccupante situazione di stallo fu l'iniziativa di gruppi di popolane parigine, donne dei mercati e pescivendole, che, dopo essersi armate, marciarono verso Versailles seguite dalla Guardia nazionale al comando di La Fayette.
Sventato un attacco della folla contro la reggia, il sovrano si piegò a firmare i decreti antifeudali e acconsentì a trasferirsi a Parigi nel palazzo delle Tuileries.
Un corteo formato dal re e dalla sua famiglia, dai deputati dell'Assemblea, dal popolo parigino, dalla Guardia nazionale marciò verso Parigi in un'apparente concordia. In realtà, la monarchia era ormai incapace di affrontare gli eventi e di puntare a una soluzione all'inglese (istituendo una monarchia di tipo costituzionale): Luigi XVI non aveva le capacità politiche, né la mentalità, né il temperamento per accettare il nuovo regime e quindi venire a patti con la Rivoluzione.

La requisizione e la vendita dei beni ecclesiastici

Le ultime spallate alla struttura dell'ancien régime, attuate tra la fine dell'89 e l'inizio del '90, furono la requisizione dei beni ecclesiastici e la soppressione degli ordini religiosi, salvo quelli dediti all'insegnamento e all'assistenza ospedaliera. Proprietà terriere, edifici urbani e rurali divennero beni nazionali e servirono come garanzia per l'emissione di nuovi titoli di Stato, gli assegnati. La vendita all'asta dei beni nazionali, pagabili con gli assegnati, avrebbe sanato il deficit pubblico.
Il gigantesco passaggio di proprietà, realizzato a partire dal 1790, interessò dal 6 al 10% del territorio nazionale. In molte regioni nel Nord e nel Mezzogiorno, percentuali consistenti di beni furono acquistate dai contadini più agiati; in altre, soprattutto in prossimità delle città, prevalse la borghesia urbana. La vendita dei beni nazionali creò nuovi ceti proprietari, contadini e borghesi, o rafforzò quelli già esistenti, legando tutti saldamente ai destini della Rivoluzione.
Cessarono infine le discriminazioni nei confronti dei protestanti ai quali, nel dicembre 1789, furono riconosciuti i diritti civili. Tale riconoscimento fu esteso agli ebrei tra il '90 e il '91. L'abolizione della schiavitù nelle colonie sarà invece decretata solo nel febbraio 1794.

Le quattro fasi della Rivoluzione

Nonostante la straordinaria densità di eventi che segnarono il periodo tra il 1789 e il 1790 appena descritto, le vicende della Rivoluzione francese furono, negli anni seguenti, non solo numerose ma anche complesse e intricate. Per essere meglio comprese, possono suddividersi in quattro fasi.
La prima fase La rivoluzione liberale, che coincide con gli avvenimenti accaduti tra la convocazione degli Stati generali, nel 1789, e la Costituzione del 1791, sancendo il rovesciamento dell'ancien régime e la nascita di un sistema costituzionale e rappresentativo. In questa fase si raccolgono i risultati più duraturi della rivoluzione.
La seconda fase La rivoluzione popolare e democratica, dal settembre 1791 alla fine del 1793. Il periodo è segnato dal protagonismo del popolo parigino, dall'inizio della guerra contro le potenze avverse alla Francia rivoluzionaria, dalla condanna a morte del re, infine dal trasferimento di tutti i poteri al Comitato di salute pubblica giacobino.
La terza fase La dittatura giacobina e la nascita di una "democrazia totalitaria" guidata da Robespierre, tra il 1793 e il 1794, che instaura il sistema del Terrore volto a eliminare tutti gli avversari politici. Solo un colpo di Stato della residua parte moderata, che vedeva la rivoluzione divorare sé stessa, riesce a porre termine alla dittatura giacobina.
La quarta fase La fase della continuità rivoluzionaria e della stabilizzazione difensiva sia dai rischi della controrivoluzione sia dalla ripresa del radicalismo di sinistra. In questo periodo, tra il 1794 e il 1797, assumono sempre maggior peso i generali comandanti delle vittoriose campagne militari in Europa.
Per il suo stesso carattere di trasformazione rapida e improvvisa, la Rivoluzione è sinonimo di instabilità: data la difficoltà di trasformare i suoi risultati in un sistema di poteri legittimi e accettati, essa appare agli attori principali sempre incompiuta o tradita. Questo spiega l'asprezza della lotta tra i diversi schieramenti politici rivoluzionari, le continue varianti del sistema di governo e lo sbocco finale nel dispotismo di Napoleone, che trova la sua forza e la sua legittimazione non sul terreno della politica, ma nel controllo delle forze armate e nei successi militari.

 

La rivoluzione liberale

[ Introduzione audio ]

La rappresentazione del consenso

Il rovesciamento dell'ancien régime suscitò entusiasmi e aspettative in tutta la Francia. Le nuove municipalità e la Guardia nazionale furono i più importanti organismi di aggregazione e di partecipazione. In diverse zone del paese guardie nazionali cominciarono a federarsi per la difesa degli obiettivi rivoluzionari. Sotto la spinta di iniziative periferiche fu organizzata e celebrata a Parigi, il 14 luglio 1790, anniversario della presa della Bastiglia, la grandiosa Festa della federazione. Con un rituale dai forti contorni religiosi, di fronte a 300 mila partecipanti La Fayette, a nome dei federati, prestò il giuramento che univa «i francesi tra loro e i francesi con il re per difendere la libertà, la costituzione e la legge». Poi il re giurò fedeltà alla nazione tra l'entusiasmo generale. Ma si trattava di un consenso provvisorio: in realtà, profonde differenze e orientamenti diversi erano già chiaramente visibili nei nuovi strumenti di cui si stava dotando la lotta politica.

I giornali e i club politici

La libertà di stampa (articolo 11 della Dichiarazione dei diritti) aveva favorito il proliferare di numerosissimi giornali di ogni tendenza (democratica, moderata, controrivoluzionaria) e la costituzione di diversi club aveva contribuito all'organizzazione dei vari gruppi politici: la Società dell'89, per esempio, era di tendenze moderate, mentre posizioni radicali aveva il club dei cordiglieri (dal nome dell'ex convento dei frati minori, cordelliers, dove si riuniva). A quest'ultimo aderivano alcuni dei futuri protagonisti delle fasi più accese della Rivoluzione: Georges-Jacques Danton (1759-1794) e Camille Desmoulins (1760-1794), entrambi avvocati, il medico Jean-Paul Marat (1743-1793), il giornalista Jacques-René Hébert (1757-1794).
Il club più importante, però, si rivelerà quello dei giacobini (dal nome dell'ex convento domenicano di San Giacomo).
Organizzati secondo una rigida disciplina, i giacobini, con 450 società affiliate, erano dotati di una presenza capillare nel paese che per certi aspetti prefigurava quella dei moderni partiti politici.
Fra i membri di maggiore spicco dei giacobini erano Maximilien Robespierre (1758-1794), avvocato originario di Arras e presedente del club dal marzo 1790, e Jacques-Pierre Brissot (17541793), anch'egli avvocato, futuro leader della frazione dei girondini.
Intorno ai giornali e ai club nasceva un nuovo ceto politico per gran parte giovane (poco più che trentenne) e di formazione giuridica, grandi oratori, giornalisti dalla penna graffiante. Ma nessuno dei personaggi ricordati qui sarebbe sopravvissuto alle fasi più drammatiche della Rivoluzione.

Il sistema elettorale censitario

Uno dei temi più controversi fu il criterio per definire il corpo elettorale.
I cittadini furono distinti in attivi e passivi in base al censo (cioè al reddito, alla ricchezza). Soltanto quanti pagassero un'imposta annua pari a tre giornate di lavoro erano considerati cittadini attivi ed elettori: erano oltre 4 milioni di cittadini maschi di età superiore ai 25 anni. Ma non tutti gli elettori erano anche eleggibili: infatti, per essere eletti era necessario possedere una qualsiasi proprietà fondiaria e pagare almeno un marco d'argento (pari a 52 lire francesi) di tasse.
Questo sistema elettorale censitario – analogo a quelli esistenti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti – riservava ai notabili la rappresentanza della nazione, ma era in contrasto con la mobilitazione di larghi strati popolari, soprattutto urbani, in parte relegati nella categoria dei cittadini passivi, privati dei diritti politici ed esclusi anche dalla Guardia nazionale (almeno 3 milioni).
Il nuovo sistema politico si prefigurava come un regime di borghesi benestanti e di proprietari terrieri, designati appunto con il termine "notabili": e in questo senso possiamo parlare di rivoluzione borghese.

Il partito di corte e gli emigrati

Proprio questa connotazione borghese e rappresentativa rendeva sempre più evidente il contrasto con la monarchia assoluta di diritto divino.
Luigi XVI continuava a subire passivamente la Rivoluzione. Era inoltre sempre più legato al "partito" della regina Maria Antonietta (figlia di Maria Teresa d'Austria), decisa controrivoluzionaria, e alla consistente emigrazione nobiliare che si organizzava all'estero in previsione di un ritorno al passato, se necessario con l'aiuto delle grandi potenze europee.
Del resto in varie parti della Francia si erano già avuti episodi di ribellione antirivoluzionaria che potevano far intravedere soluzioni favorevoli a una restaurazione.

La politica ecclesiastica

Un altro elemento di instabilità era legato alla politica ecclesiastica.
Dopo la requisizione dei beni della Chiesa, spettava allo Stato il mantenimento dei membri del clero, equiparati ai funzionari pubblici dalla Costituzione civile del clero, votata nel luglio 1790. La legge attribuiva la nomina dei vescovi e dei parroci alle assemblee elettorali locali e, come tutti gli altri funzionari, anche gli ecclesiastici furono obbligati a giurare fedeltà alla nazione, al re e alla Costituzione civile.
Questa radicale modifica dell'organizzazione ecclesiastica fu, come era prevedibile, condannata da papa Pio VI (1775-1799). Solo sette vescovi su 130 prestarono il giuramento, mentre il basso clero, il più vicino al popolo minuto, si divise a metà tra favorevoli, costituzionali, e contrari, refrattari, alla Costituzione civile.
La gravissima frattura che si era aperta nella Chiesa di Francia ebbe come conseguenza lo schierarsi di una parte consistente e progressivamente maggioritaria del clero tra le file della controrivoluzione.

Le riforme amministrative

Nello stesso arco di tempo, fra il '90 e il '91, l'Assemblea costituente proseguì nella grande opera di edificazione delle nuove strutture amministrative. La Francia fu suddivisa in 83 dipartimenti, e i dipartimenti in circondari, geograficamente omogenei per consentire di recarsi e tornare in giornata dal centro amministrativo più vicino. Fu instaurato un compiuto decentramento che rovesciava il sistema accentrato, voluto dalla monarchia assoluta e realizzato dagli intendenti.
Parigi fu divisa in 48 sezioni (o circoscrizioni) che corrispondevano ad altrettante assemblee elettorali.
L'Assemblea nazionale costituente, ispirata da principi liberisti e anticorporativi, non solo soppresse tutte le corporazioni di mestiere, ma vietò altresì le coalizioni operaie e gli scioperi, favorendo il mercato libero della manodopera.

La Costituzione del 1791 e il tentativo di fuga del re

Il regime politico che si veniva definendo era un regime liberale fondato sulla separazione dei poteri.
I giudici divennero elettivi.
Fu previsto un Parlamento composto da una sola camera, l'Assemblea legislativa, della durata di due anni.
I ministri, di nomina regia, erano responsabili solo di fronte al sovrano e non potevano essere membri dell'Assemblea.
Il re aveva facoltà di opporre un veto sospensivo alle leggi votate dall'Assemblea: solo dopo la conferma in due successive votazioni, tali leggi sarebbero diventate esecutive.
Il sistema previsto dalla Costituzione del '91, approvata il 3 settembre, era stato congegnato in modo da richiedere, per un suo corretto funzionamento, uno stabile accordo tra il potere esecutivo e quello legislativo, fra sovrano e Assemblea.
Ma l'equilibrata attuazione di una monarchia costituzionale fu irrimediabilmente pregiudicata dalla fuga del re da Parigi, il 20-21 giugno 1791.
La decisione di Luigi XVI mostrava il suo consenso ai programmi degli emigrati aristocratici e della controrivoluzione. Il disegno era quello di guidare dall'estero una restaurazione armata della vecchia Francia. Riconosciuto e arrestato a Varennes, il re fu ricondotto a Parigi, insieme con la sua famiglia, fra due ali di guardie nazionali e di popolo ostile. Era un colpo mortale alla monarchia, la cui sopravvivenza era legata alla capacità di rappresentare l'unità della nazione francese.
Ormai si era aperta un'alternativa repubblicana mentre la soluzione liberale e moderata sarebbe divenuta rapidamente impraticabile.

 

La rivoluzione popolare e democratica

[ Introduzione audio ]

Dall'Assemblea legislativa alla Convenzione nazionale

In un anno, tra l'elezione dell'Assemblea legislativa a suffragio ristretto, tenutasi nel settembre 1791, e quella a suffragio universale della Convenzione (la nuova assemblea), nel settembre 1792, si assiste in Francia a una svolta egualitaria e democratica.
La Legislativa aveva visto una maggioranza di deputati moderati e costituzionali e una minoranza di radicali, i giacobini, tra i quali erano anche i girondini (per l'origine di molti deputati dal dipartimento della Gironda, quello della città portuale di Bordeaux).
Nella Convenzione si confrontarono invece due schieramenti usciti dai giacobini: i girondini, collocati a destra, e i montagnardi collocati alla sinistra alta dell'assemblea (la montagna). Questi ultimi erano composti dai giacobini radicali di Robespierre e dagli ex cordiglieri.
I moderati, posti al centro, erano il gruppo più numeroso ma meno omogeneo, designato col nome di "Palude".

La Convenzione era stata eletta dalla sola Francia rivoluzionaria. Nonostante il suffragio universale, aveva votato infatti soltanto un decimo circa degli oltre 7 milioni di elettori.

La mobilitazione del popolo parigino

Un mese prima delle elezioni per la Convenzione, il 10 agosto, i sanculotti, così chiamati perché non portavano (sans, 'senza') i calzoni al ginocchio (culottes) degli aristocratici e dei ricchi borghesi, ma i calzoni lunghi, diedero l'assalto alla reggia delle Tuileries con l'obiettivo di deporre un re traditore, pronto ad allearsi con i nemici della Francia. Luigi XVI venne sospeso dalle sue funzioni e arrestato insieme ai suoi familiari.

La guerra e la vittoria di Valmy

Poco dopo, nell'aprile 1792, scoppiò il conflitto con le potenze ostili alla Francia rivoluzionaria: Austria, Prussia e poi anche Gran Bretagna. Da questo momento la guerra condizionò in misura decisiva lo svolgimento degli avvenimenti insieme ai ripetuti tentativi controrivoluzionari in alcune regioni tradizionaliste e cattoliche, ma anche nella capitale.
Durante il conflitto, il 20 settembre 1792 le truppe francesi, innervate dai volontari, batterono i prussiani a Valmy. Per la prima volta un popolo in armi sconfiggeva una grande potenza e dimostrava che anche sul campo di battaglia la Rivoluzione poteva rovesciare l'ancien régime.
La vittoria però fu più importante per il suo significato simbolico che per quello militare.

Gli attacchi alla Francia

La caduta della monarchia

Il giorno dopo Valmy, il 21 settembre 1792, la Convenzione dichiarò l'abolizione della monarchia e proclamò la Repubblica.
Luigi XVI fu messo sotto processo. Sul destino del re e sul ruolo da attribuire al movimento dei sanculotti e al Comune insurrezionale di Parigi che li rappresentava si apri un duro contrasto tra montagnardi e girondini.
Le differenze tra i due gruppi erano di natura strettamente politica e ideologica: disposti al compromesso i girondini, radicalmente intransigenti i montagnardi. Il re fu giudicato colpevole quasi all'unanimità, ma la richiesta dei girondini di appellarsi al popolo per una conferma della condanna venne respinta.
Il 21 gennaio 1793 il re fu decapitato.
La ghigliottina si ergeva di fronte al palazzo reale delle Tuileries, sulla piazza ormai denominata Piazza della Rivoluzione. Il monarca di diritto divino venne giustiziato come un uomo qualunque: uno dei fondamenti della storia di Francia e d'Europa fu cancellato da quel gesto.

L'allargamento del conflitto e le rivolte

Nel febbraio 1973, sul fronte esterno, il conflitto si allargava e le potenze coalizzate contro la Francia crescevano di numero: Austria, Prussia, Gran Bretagna, Olanda, Spagna, Stati italiani.
La Repubblica otteneva successi militari e annessioni territoriali (Savoia, Belgio, Renania), ma nel marzo una grande rivolta contadina esplose in Vandea (una regione dell'Ovest, a sud della Loira) e nei dipartimenti vicini.
L'insurrezione, appoggiata dai nobili e dai preti refrattari, fu alimentata soprattutto dall'opposizione e dall'estraneità di una parte del mondo rurale alla Rivoluzione.

Il Comitato di salute pubblica: Robespierre al potere

Dall'aprile del 1793 il governo effettivo del paese passò nelle mani di un nuovo organismo, il Comitato di salute pubblica, composto da nove membri scelti dalla Convenzione.
I girondini, tra i principali sostenitori della guerra rivoluzionaria ma ostili al movimento popolare e vicini alle posizioni moderate, vennero combattuti in tutto il paese e nel giugno 1793 i sanculotti riuscirono a imporre l'arresto di molti deputati girondini.
Il nuovo successo dei sanculotti apri la strada all'egemonia dei giacobini. Depurati dei girondini, essi coincidevano ormai con i montagnardi. Il loro capo era Robespierre, leader del Comitato di salute pubblica e mediatore della convergenza tra movimento popolare e borghesia rivoluzionaria.

 

La dittatura giacobina

[ Introduzione audio ]

L'alleanza tra giacobini e sanculotti

All'inizio dell'estate del '93, il governo della Francia poggiava sull'alleanza di due minoranze, quella costituita dai militanti e sanculotti rivoluzionari – il 10% circa della popolazione maschile adulta – e quella composta dal personale politico giacobino – non più di 100 mila uomini in tutto il paese con circa 2000 società affiliate.
L'ideologia dei giacobini discendeva dalle teorie democratiche degli illuministi, in particolare di Jean-Jacques Rousseau, alle quali attingeva nelle linee di fondo anche il movimento popolare.
Dal punto di vista economico, giacobini e sanculotti auspicavano una società caratterizzata da un insieme di piccoli produttori, contadini e artigiani, proprietari dei mezzi di produzione. In questo senso, erano ancora collocati in un contesto di economia tradizionale.
Dal punto di vista politico i giacobini e Robespierre giustificarono il loro potere imponendosi come i veri interpreti del popolo e come espressione della volontà generale.
Si inaugurava così un modello di democrazia totalitaria, centralizzata e organizzata, che verrà ripreso nei secoli successivi e in particolare dai rivoluzionari bolscevichi nel 1917 in Russia. I giacobini credevano di poter trasformare nel profondo la società francese, gestendone in modo capillare il cambiamento di struttura e finanche di mentalità.

Il Terrore

Gli strumenti della dittatura giacobina furono il Tribunale rivoluzionario e il Terrore, ossia la sistematica eliminazione fisica degli avversari politici.
Fu varata la Costituzione democratica del '93, in realtà mai applicata, mentre venivano sospese le più elementari garanzie dei cittadini.
Quando i giacobini cominciarono a governare, in gran parte della Francia dilagava l'insurrezione "federalista", sotto la guida di girondini e realisti (di fede monarchica).
Nel giro di sei mesi, tuttavia, le truppe della Convenzione riuscirono a reprimerla e a domare, seppure provvisoriamente, la Vandea.
Sotto la pressione dei sanculotti, la Convenzione mise «il Terrore all'ordine del giorno», intensificando la politica repressiva e introducendo criteri totalmente discrezionali per definire le categorie dei "sospetti".
Le prigioni si riempirono, i tribunali e la ghigliottina lavoravano senza tregua: da 300 mila a 500 mila furono gli arrestati in tutto il periodo del Terrore. A Parigi, in ottobre, furono processati e decapitati l'ex regina Maria Antonietta e i capi girondini, fra cui Brissot.

La leva in massa

La minaccia di un'invasione nemica impose un controllo ferreo sull'economia e l'introduzione di un calmiere dei prezzi (il maximum) per meglio organizzare l'approvvigionamento delle truppe. Contemporaneamente fu introdotta la leva in massa degli uomini tra i 20 e i 25 anni – nel 1799 la leva sarebbe divenuta obbligatoria – e giovani generali, anche di estrazione popolare, assunsero il comando, sotto il controllo dei commissari della Convenzione.

Il colpo di Stato del 9 termidoro

Dalla primavera del 1794 i contrasti tra i gruppi politici al potere si fecero sempre più aspri.
Alla contestazione della sua egemonia Robespierre rispose eliminando prima gli avversari di sinistra, gli hebertisti (i cordiglieri vicini a Hébert), e poco dopo gli indulgenti, capeggiati da Desmoulins e Danton, da tempo favorevoli a una politica meno intransigente nel paese e all'estero.
Ma, nonostante l'importante vittoria militare di Fleurus contro austriaci e britannici (26 giugno 1794), Robespierre intensificò la politica del Terrore.
In questa atmosfera maturò il colpo di Stato, una congiura che vide unite l'ala moderata e quella estremista della Convenzione.
Il 9 termidoro del calendario rivoluzionario, ovvero il 27 luglio, Robespierre e i suoi seguaci più stretti, Saint-Just e Couthon, vennero messi sotto accusa e arrestati. I sanculotti non si mossero. Dichiarati fuori legge, Robespierre e altri 21 furono giustiziati senza processo il 10 termidoro.
Il giorno dopo altri 71 robespierristi salirono sul patibolo. In meno di un anno i condannati a morte del Terrore furono circa 17 mila ai quali vanno aggiunte le vittime delle esecuzioni in massa (come quelle gettate nella Loira, a Nantes, durante la repressione dell'insurrezione vandeana) per un totale di 35-40 mila vittime. A Parigi le sentenze di morte furono 2639, ma la grande maggioranza fu pronunciata nelle regioni insorte.

 

Continuità rivoluzionaria e stabilizzazione difensiva

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La fine dei giacobinismo

La caduta di Robespierre non segnò la fine della rivoluzione, ma l'inizio di una nuova fase caratterizzata, all'esterno, dall'espansione francese in Europa e, all'interno, da faticosi tentativi di stabilizzazione volti a garantire la tutela dei risultati rivoluzionari e la sopravvivenza del nuovo ceto politico.
In breve tempo fu smantellata la struttura di potere giacobina: decine di migliaia di sospetti furono liberati e, a dicembre, la Convenzione reintegrò i girondini superstiti.
I club giacobini vennero chiusi, mentre una nuova mobilitazione dei sanculotti che protestavano contro il carovita fu repressa nella primavera del '95.
La repressione fu affidata all'esercito che, per la prima volta dall'inizio della Rivoluzione, marciò sui quartieri popolari e disarmò i sanculotti.
Nel Mezzogiorno e nel Sudest infuriava il Terrore bianco – così detto dal colore della bandiera borbonica – con vendette e massacri nei confronti dei giacobini e dei preti costituzionali.

La Costituzione dei 1795 e il Direttorio

Il processo di stabilizzazione interna venne consolidato dai successi militari ai quali seguirono, fra aprile e luglio 1795, i trattati di pace con la Prussia e l'Olanda. Ma la guerra rimaneva aperta con l'Austria e la Gran Bretagna.
Contemporaneamente la Convenzione elaborò un nuovo testo costituzionale, che doveva conferire stabilità al nuovo assetto politico borghese della Francia.
Il potere esecutivo fu affidato a un Direttorio di 5 membri che nominava i ministri. La nuova Costituzione riprese in molti punti quella del '91 e soprattutto accentuò il carattere censitario del sistema elettorale e la tutela della proprietà.

Tentativi insurrezionali

Nonostante questa nuova struttura istituzionale, la debolezza del nuovo regime dava spazio a tentativi insurrezionali monarchici, come quello represso a cannonate dal generale Napoleone Bonaparte a Parigi nell'ottobre '95, o rivoluzionari come la "Congiura degli Eguali" promossa da François-Noël Babeuf e sventata nel '96.
Babeuf teorizzava l'uguaglianza, la comunità dei beni, l'abolizione della proprietà della terra: tra i capi della congiura figurava anche il toscano Filippo Buonarroti, la cui esperienza ebbe grande rilievo nell'ispirare le prime società segrete del movimento nazionale democratico in Italia.

Il ruolo dei militari

Mentre gli eserciti della Repubblica avevano ripreso vittoriosamente l'offensiva in Europa, nuove difficoltà interne si presentarono costringendo la maggioranza del Direttorio (guidata da Paul Barras) ad attuare un colpo di Stato nel settembre 1797: furono annullate le elezioni tenute in quell'anno, deportati numerosi deputati e giornalisti, introdotti severi controlli sulla stampa. Decisivo per il colpo di Stato era stato l'appoggio dei comandanti militari impegnati all'estero.
La sopravvivenza del regime e la continuità rivoluzionaria erano ormai affidate non solo alle vittorie degli eserciti ma al diretto intervento dei generali vittoriosi nella vita politica.

 

Gruppi politici e avvenimenti della Rivoluzione (1789-1795)

1789-90
Assemblea nazionale costituente
(9 luglio 1789)
Partito nazionale: fronte riformatore composto dal Terzo stato con l'apporto di aristocratici illuminati e molti esponenti del basso clero • Nasce la Guardia nazionale
• Assalto alla Bastiglia (14 luglio '89): il popolo parigino sulla scena rivoluzionaria
• Nuove rappresentanze municipali a Parigi e nelle province (luglio '89)
• Sollevazione nelle campagne: «grande paura» (luglio '89)
• Abolizione del regime feudale (4 agosto '89)
• Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (26 agosto '89)
• Requisizione dei beni ecclesiastici (novembre '89)
• Sistema elettorale censitario (dicembre '89)
1790-91 Assemblea nazionale costituente Società dell'89: di tendenze moderate
Cordigliere: di tendenze radicali (Danton, Desmoulins, Marat, Hébert)
Giacobini: di tendenze radicali, organizzati come un moderno partito politico (Robespierre e Brissot, futuro capo dei girondini)
• Festa della federazione (14 luglio '90)
• Costituzione civile del clero (luglio '90)
• Decentramento amministrativo (dipartimenti provinciali e «sezioni» parigine)
• Costituzione del 3 settembre '91: regime liberale, fondato sulla separazione dei poteri esecutivo, legislativo, giudiziario
• Fuga del re (20-21 giugno '91)
• Elezioni per la nuova Assemblea legislativa
1791-92 Assemblea legislativa (1° ottobre 1791) Foglianti: di tendenze moderate
Costituzionali: difensori della Costituzione del '91
Giacobini: raggruppamento dei radicali (comprendono i Girondini)
• Dichiarazione di guerra all'Austria (20 aprile '92)
• Deposizione del re su iniziativa dei sanculotti parigini (10 agosto '92)
• Elezioni a suffragio universale per la nuova Convenzione nazionale
1792-93 Convenzione nazionale Comune insurrezionale Palude (o Pianura): di tendenze moderate
Girondine: ex giacobini, ora su posizioni meno radicali
Montagnardi: giacobini legati a Robespierre ed ex Cordiglieri (Danton, Marat)
• Scontro tra girondini e montagnardi sul ruolo da attribuire al Comune insurrezionale e ai sanculotti parigini
• Vittoria francese sui prussiani a Valmy (20 settembre '92)
• Abolizione della monarchia (21 settembre '92)
• Processo, condanna a morte e decapitazione di Luigi XVI (21 gennaio '93)
• La Francia è in guerra con quasi tutti gli Stati d'Europa
• Sollevazione antirivoluzionaria in Vandea (marzo '93)
• Creazione del Comitato di salute pubblica (aprile '93)
• Epurazione dei girondini (giugno '93)
1793-94 Comitato di salute pubblica   • Dittatura giacobina
• II Terrore
• Leva in massa
• Calendario repubblicano
• Colpo di Stato contro Robespierre (9 termidoro/27 luglio '94)
• Robespierre e i suoi più diretti seguaci vengono ghigliottinati
1795-99 Direttorio   • Costituzione dei '95

 

Nuova politica e mentalità rivoluzionaria

[ Introduzione audio ]

Il ruolo delle masse popolari

Nella fase più radicale della Rivoluzione le fazioni politiche al governo traggono la loro legittimazione non solo dalle elezioni, ma anche dalla mobilitazione dal basso del popolo parigino, dei sanculotti.
Il ruolo delle masse rappresenta una delle maggiori novità della Rivoluzione fin dall'89 e condizionerà anche in seguito la politica francese in tutti i momenti cruciali per quasi un secolo.
I gruppi politici radicali – giacobini, montagnardi, hebertisti – cercheranno di incanalare e di sfruttare questa mobilitazione popolare armata, protagonista della caduta della monarchia (10 agosto 1792), dell'arresto dei deputati girondini – che avevano trovato nelle province il loro maggior sostegno politico – e infine del controllo sull'operato della Convenzione.
Nasce da questa necessità di guidare il popolo e dalla convinzione di parlare «in nome del popolo» l'ideologia incentrata sulla «volontà generale» di cui molti leader, ma in primo luogo Robespierre, ritengono di essere gli unici veri interpreti.

Una pedagogia politica

Questa ideologia e questa pratica politica furono accompagnate da una larga attività di educazione collettiva, di pedagogia rivoluzionaria fondata sulle celebrazioni della Rivoluzione e dei suoi martiri (come Marat pugnalato dalla realista Charlotte Corday), su un largo repertorio di simboli – la coccarda tricolore, il berretto frigio degli schiavi liberati – e sulla diffusione di immagini popolari del rovesciamento del Vecchio Mondo.
Si puntò anche a creare un sistema educativo pubblico e a diffondere l'uso di una lingua nazionale che liberasse le masse illetterate dalla sudditanza ai dialetti locali.
Cancellata la monarchia e osteggiata duramente la Chiesa, i due riferimenti fondamentali dell'identità popolare, era necessario segnare profondamente il rinnovamento rivoluzionario. In questa direzione la decisione più significativa fu l'introduzione del nuovo calendario repubblicano o rivoluzionario, in vigore dall'ottobre 1793 fino al 31 dicembre 1805, che stabiliva una nuova datazione dalla proclamazione della Repubblica in poi: oltre a cambiare il nome dei mesi e dei giorni, aboliva il ciclo settimanale e la domenica (sostituendoli con gruppi di dieci giorni) intervenendo direttamente sulla scansione del tempo legata alle pratiche religiose.

La scristianizzazione e il culto dell'Essere supremo

Il nuovo calendario era un aspetto della più sistematica scristianizzazione, promossa soprattutto dal club dei cordiglieri di Hébert, con la distruzione di simboli religiosi come le statue dei santi e le campane, e la celebrazione di feste per la dea Ragione.
La scristianizzazione non ebbe l'appoggio di Robespierre, che vi scorgeva i rischi dell'ateismo razionalista e dell'attenuazione del controllo morale e sociale esercitato dalla religione: nel maggio del '94 il leader giacobino sostenne e impose invece il culto dell'Essere supremo, espressione delle sue concezioni deiste.
Molti aspetti della ventata scristianizzatrice vanno ricondotti alle componenti di fondo della mentalità rivoluzionaria, che univa volontà punitiva e ossessione del complotto controrivoluzionario alla convinzione della necessità di un rovesciamento totale del passato. Un rovesciamento inteso come inversione dei ruoli (trionfo dei poveri sui ricchi, degli umili sui potenti) e come distruzione simbolica di tutto ciò che rappresentava l'antico regime.

 

L'espansione rivoluzionaria

Sostenitori e critici della rivoluzione in Europa

Quanto accadeva in Francia fu costantemente seguito dall'opinione pubblica in tutta Europa. Se all'inizio i ceti illuminati guardarono con favore al rovesciamento dell'assolutismo e a un possibile sviluppo costituzionale all'inglese, successivamente lo scoppio della guerra e soprattutto l'uccisione del re ridussero drasticamente il numero dei sostenitori.
Il Terrore divise ulteriormente i fautori della rivoluzione, separando le correnti liberali e moderate da quelle democratiche.
Tra i primi a ragionare sulla Rivoluzione fu lo scrittore politico di origine irlandese Edmund Burke (1728-1797). Esponente dei Whigs, già nel novembre 1790 pubblicò le Riflessioni sulla rivoluzione in Francia, una durissima requisitoria contro l'astrattezza antistorica dei principi dell'89 e in difesa della tradizione.
Alle origini della rivoluzione egli vedeva, tra l'altro, la "congiura dei filosofi", un motivo destinato ad avere larghissima fortuna in tutto il pensiero politico successivo. Significativa era anche la contrapposizione instaurata con la pacifica Rivoluzione inglese del 1688-89 che dimostrava la superiorità dello sviluppo politico britannico, risultato di una continuità storica, su quello francese fondato sulla rottura con il passato.
La Rivoluzione non costituì solo uno spartiacque del pensiero politico, ma determinò anche contrastanti reazioni in tutta Europa.
Da un lato i governi si impegnarono a reprimere ogni forma di protesta o di dissenso nel timore che l'esempio francese dilagasse, dall'altro i nuclei di opposizione presero coscienza di sé e dei propri obiettivi. Quella stessa rete di comunicazione (la stampa, le logge massoniche), che aveva dato luogo alla feconda circolazione delle idee illuministe, agì anche per i principi rivoluzionari. Principi che la Francia sostenne, dal 1792, con una vigorosa propaganda ideologica.

La "nazione armata"

In realtà, l'espansione rivoluzionaria in Europa fu affidata soprattutto alle baionette dell'esercito: senza l'appoggio militare della "nazione armata" – in cui i francesi si erano identificati dal 1792, con l'inizio della guerra contro l'Austria –, nessun nuovo regime sarebbe stato in grado di reggersi. Inoltre l'esercito, più di ogni altra istituzione, era profondamente legato – dai soldati agli ufficiali – ai principi e ai risultati della Rivoluzione.
L'influenza della Rivoluzione fu particolarmente forte (e precoce) nei paesi limitrofi, dove si legò a esigenze autonomistiche o a conflitti già in corso. Tali furono i casi del Belgio e dell'Olanda: il Belgio fu annesso alla Francia (1793-95), l'Olanda si trasformò in Repubblica batava (1795).
In Italia un centro di organizzazione rivoluzionaria si costituì a Oneglia, in Liguria, sotto la diretta influenza dell'occupazione francese e la guida di Filippo Buonarroti, che vi agiva come commissario della Convenzione.
Negli altri Stati italiani – a Torino, a Bologna, a Napoli e in Sicilia – i club di giacobini (termine che qui indicava genericamente tutti i sostenitori della Rivoluzione) furono duramente repressi dalle autorità di governo, che ne condannarono a morte i maggiori esponenti (1794). Da questi primi nuclei si svilupparono tuttavia altri gruppi che appoggiarono l'intervento diretto francese nel 1796-97.

L'Europa dal 1789 al 1799

 

La conquista dell'Italia e le Repubbliche giacobine

[ Introduzione audio ]

La politica di conquista del Direttorio

Il Direttorio intensificò la politica di espansione francese in Europa nella convinzione che la sicurezza della Francia potesse essere garantita non solo dal raggiungimento delle "frontiere naturali" – le Alpi e il Reno – ma anche dalla costituzione di "repubbliche sorelle" della Francia immediatamente al di là di queste frontiere.
La realizzazione del disegno era legata alla sconfitta dell'Austria, che doveva essere attaccata in primo luogo sul territorio tedesco in direzione di Vienna, mentre altre truppe avrebbero tenuto impegnati gli austriaci in Italia, mirando alla conquista del Piemonte e della Lombardia.

La campagna d'Italia

Nel 1796 il comando dell'armata d'Italia fu affidato a un giovane generale di 26 anni, Napoleone Bonaparte.
Le sue vittorie nel 1796-97 furono l'inizio di una carriera politica e militare destinata a segnare profondamente, per quasi un ventennio, tutta la storia di Francia e d'Europa. La campagna d'Italia mise immediatamente in luce le sue straordinarie qualità di comandante militare: la capacità di imporsi agli ufficiali e di trascinare i soldati, la rapidità di manovra e di decisione. Bonaparte riuscì nel disegno strategico di mantenere unite le sue forze, inferiori di numero, e di dividere quelle nemiche.
Il 15 maggio, sconfitti separatamente i piemontesi e gli austriaci, entrava trionfalmente a Milano. Gli austriaci cercarono di riprendere il controllo della Lombardia inviando nuove truppe, ma Bonaparte li sconfisse nella decisiva battaglia di Rivoli Veronese (gennaio 1797) proseguendo poi verso Vienna.
Nel frattempo i francesi avevano costretto il papa Pio VI a cedere il possesso dell'Emilia e della Romagna (trattato di Tolentino).

L'Italia nel 1799

Campoformio e la fine della Repubblica di Venezia

Le vittorie militari consentirono a Bonaparte di condurre direttamente le trattative con l'Austria.
Con il trattato di Campoformio (ottobre 1797) ottenne il riconoscimento dell'egemonia francese in Lombardia e in Emilia, dell'annessione del Belgio, nonché l'attribuzione alla Francia della riva sinistra del Reno. L'Austria venne compensata con il Veneto, l'Istria e la Dalmazia.
I territori di Bergamo e Brescia passarono alla neonata Repubblica cisalpina.
Fra lo sgomento e l'indignazione dei patrioti, la Repubblica di Venezia veniva smembrata e cessava di esistere: dopo oltre un millennio finiva uno dei più antichi Stati italiani.
Le decisioni di Campoformio non devono sorprendere. L'Italia era considerata terra di conquista da depredare e saccheggiare. Le indicazioni del Direttorio in questo senso erano chiarissime e non diverse da quelle adottate in Belgio e in Olanda. Bonaparte e i suoi generali erano inoltre privi di scrupoli di sorta. Così masse ingenti di denaro (frutto di imposizione ai sovrani e agli strati sociali più abbienti) servirono al mantenimento dell'esercito o al risanamento delle finanze francesi. Grandi tesori d'arte presero la via di Parigi.
Tutto ciò non contraddiceva tuttavia il più complesso progetto politico di creare in Italia una serie di "repubbliche sorelle".

La nascita delle repubbliche

Impegnato a dare un nuovo assetto politico all'Italia settentrionale, Bonaparte fu attentissimo a utilizzare tutti i mezzi di comunicazione del tempo – stampa, proclami, immagini – per propagandare i suoi successi e per imporsi all'opinione pubblica francese: un disegno che rispondeva all'esigenza di mostrare, accanto a quelli militari, anche i suoi meriti politici.
Nel dicembre 1796 fu creata in Emilia e Romagna la Repubblica cispadana.
Nel giugno 1797 si formarono la Repubblica ligure e, sui territori occupati della Lombardia, la Repubblica cisalpina, con la quale a luglio si fuse la Cispadana.
Successivamente nel febbraio 1798 i francesi intervennero a Roma – dove, nella repressione di un tentativo giacobino, era stato ucciso un generale francese – e proclamarono la Repubblica romana, che comprendeva il Lazio, l'Umbria e le Marche. Pio VI fu deposto e trasferito prima in Toscana e poi in Francia, dove morì nel 1799.
Alla fine del 1798, inoltre, la ripresa delle ostilità contro la Francia da parte delle potenze alleatesi dopo la spedizione napoleonica in Egitto indusse il Regno di Napoli ad attaccare la Repubblica romana. Le truppe borboniche furono respinte e Napoli fu occupata dai francesi, che qualche giorno dopo vi proclamarono la Repubblica partenopea (gennaio 1799).

Le repubbliche "giacobine"

Passate alla storia come repubbliche "giacobine", le repubbliche italiane imposte dai francesi non ebbero in realtà mai caratteristiche tali da richiamare il radicalismo rivoluzionario.
Le Costituzioni repubblicane, del resto, furono tutte modellate sulla Costituzione francese del 1795: solo quella napoletana, redatta da Mario Pagano, aveva contenuti più democratici.
Inoltre, sia Bonaparte sia i suoi successori in Italia si appoggiarono ai nobili e ai borghesi di orientamento moderato.
Il controllo dei francesi si tradusse anche nella nomina diretta dei membri degli organi legislativi e di governo, nonché nella loro sostituzione a seconda del maggiore o minore allineamento alla politica del Direttorio o a quella dei comandanti militari in Italia.
L'egemonia francese diede tuttavia l'avvio a una serie di riforme anche al di fuori dell'ambito dell'organizzazione istituzionale: come l'introduzione dello stato civile, l'abolizione di maggiorascati e fedecommessi – che impedivano il frazionamento e la vendita dei beni di origine feudale –, la soppressione degli enti religiosi e l'inizio della vendita dei loro beni, convertiti in beni nazionali.
Alcune di queste riforme rimasero allo stato di pura enunciazione, soprattutto quelle miranti alla costituzione di una diffusa piccola proprietà contadina: non ebbero alcun seguito, infatti, le proposte in questa direzione avanzate nella Repubblica romana dove, soprattutto nella campagna intorno a Roma, era presente un'imponente proprietà latifondistica.
Le nuove repubbliche determinarono un vigoroso risveglio del dibattito politico: utopisti e riformatori, rivoluzionari e moderati – come Melchiorre Gioia, Matteo Galdi, Enrico Michele L'Aurora e il più radicale Vincenzio Russo – si impegnarono in una riflessione sulle forme politiche, sui problemi economici, sui possibili destini unitari della penisola.
Anche per la brevità dell'esperimento repubblicano non vi fu il tempo per consentire alle nuove idee di affermarsi e trovare un qualche sostegno nei ceti popolari, rimasti sempre ostili ed estranei al nuovo regime.

L'opposizione popolare

Già nell'aprile 1797 le truppe francesi di stanza a Verona erano state assalite (le Pasque veronesi), mentre a Napoli, nel 1799, i popolani («lazzaroni») si opposero violentemente all'ingresso dei francesi in città.
Questa estraneità e ostilità si estese anche alle altre Repubbliche giacobine.
Quando il controllo francese sull'Italia cominciò a vacillare, alla fine del '98 e nel '99, si registrarono infatti numerosi episodi di sollevazioni popolari.
Nell'Italia meridionale, in particolare, i contadini non videro alcun vantaggio immediato per le loro durissime condizioni ad opera del nuovo regime repubblicano: le norme che abolivano i prelievi feudali e garantivano la continuità degli usi civici giunsero troppo tardi (alla fine di aprile 1799). Fu agevole quindi per il cardinale Fabrizio Ruffo, emissario dei Borbone, sollevare i contadini e guidare l'armata della Santa Fede – di cui facevano parte anche bande di briganti – contro la repubblica dei miscredenti. La conquista di Napoli a opera dei sanfedisti (giugno 1799) anche con l'aiuto della flotta inglese consenti il ritorno dei Borbone che effettuarono una durissima repressione.
Fra gli altri furono impiccati Mario Pagano, Vincenzio Russo, Francesco Caracciolo ed Eleonora de Fonseca Pimentel.
La rapida fine della Repubblica partenopea (durata solo sei mesi) diede spunto allo scrittore politico Vincenzo Cuoco per rivolgere pesanti accuse all'astrattismo dei patrioti e ai carattere «passivo» della rivoluzione napoletana (nel celebre Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato nel 1801). Certo è che l'episodio sanfedista testimoniava della difficoltà di coinvolgere le masse contadine nella rivoluzione «borghese», difficoltà che anche la Francia conosceva in quegli anni con l'endemica ribellione vandeana.

 

Il colpo di Stato e la svolta autoritaria di Bonaparte

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La spedizione in Egitto

Nella primavera del '98 fu concesso a Bonaparte, dopo la rinuncia a un progetto di invasione della Gran Bretagna, di organizzare una spedizione militare contro l'Egitto. Da lì avrebbero potuto essere colpiti gli interessi commerciali britannici in Oriente. La disponibilità del Direttorio a un progetto avventuroso e azzardato mascherava il desiderio di allontanare da Parigi un personaggio divenuto, dopo i successi in Italia, troppo ingombrante.
A maggio un'imponente flotta di oltre 300 navi salpò da Tolone: vi erano imbarcati 38 mila soldati e una numerosa commissione scientifica. L'Egitto era una provincia dell'Impero ottomano, sostanzialmente autonoma e dominata dalla setta militare dei Mamelucchi.
Sbarcati ad Alessandria i francesi si spinsero verso il Cairo, e qui, nella battaglia delle Piramidi, sconfissero i Mamelucchi a luglio.
La vittoria diede nuova fama a Bonaparte e contribuì a diffondere nel mondo occidentale la moda per tutto ciò che era egiziano. Ma pochi giorni dopo, il 1° agosto, l'ammiraglio inglese Horatio Nelson (1758-1805) sorprendeva la flotta francese all'ancora di fronte ad Abukir e la distruggeva, isolando i francesi.

Verso il colpo di Stato

L'unico risultato certo della spedizione in Egitto fu la ricomposizione di un'alleanza generale contro la Francia, animata come sempre dalla Gran Bretagna e con la partecipazione anche della Russia, dell'Austria e dell'Impero turco.
Così, mentre Bonaparte si dedicava all'amministrazione del paese occupato e la commissione scientifica iniziava un amplissimo rilevamento delle antichità egiziane, in Italia e in Germania i francesi cominciarono a ripiegare rapidamente sotto l'attacco degli austro-russi.
Le nuove difficoltà militari aprirono a Parigi un'ennesima crisi politica e le forze di sinistra ripresero vita. A giugno i parlamentari attaccarono duramente il Direttorio, nel quale era stato da poco nominato Sieyès (uno dei protagonisti della prima fase della Rivoluzione). Nonostante i successi militari dell'ottobre 1799, che arrestarono l'avanzata russa, le divisioni politiche rimanevano profonde e, come nel 1797, un colpo di Stato era nell'aria.
Sieyès, l'uomo forte del Direttorio, puntava chiaramente a una revisione costituzionale che rafforzasse l'esecutivo, ma non disponeva di una maggioranza parlamentare.
A metà ottobre Bonaparte rientrò a Parigi: una vittoria sui contingenti turchi appena sbarcati e la notizia delle sconfitte in Europa gli avevano dato motivi sufficienti per abbandonare l'Egitto. Pur lasciandosi alle spalle il primo insuccesso, il suo ritorno sembrò un trionfo.
Ben presto Bonaparte divenne l'elemento decisivo del nuovo colpo di Stato. Il 18 brumaio (9 novembre) 1799, con il pretesto di un complotto, i deputati vennero trasferiti a Saint-Cloud nei pressi della capitale, sotto protezione militare. Il 19 brumaio Napoleone impose con le armi una riforma costituzionale. I deputati accettarono la creazione di una commissione esecutiva con pieni poteri composta dai tre consoli della Repubblica francese, Sieyès, Ducos (un altro membro del Direttorio) e Bonaparte.

Un governo dittatoriale

Il successo di Napoleone Bonaparte nella conquista del potere poggiava su un elemento di fondo: il ruolo dell'esercito nella vicenda rivoluzionaria. Dei dieci anni fra 1'89 e il '99, sette erano stati anni di guerra. Dal momento in cui il popolo francese si era identificato con la nazione in armi – dal 1792, con l'inizio della guerra contro l'Austria – e questa identificazione era divenuta uno degli elementi portanti della mobilitazione politica, il controllo dell'esercito divenne la fonte principale del potere e la garanzia di una stabilizzazione delle conquiste rivoluzionarie.
Napoleone rimarrà indissolubilmente legato ai successi militari e alla necessità di rinnovarli. Ma proprio il dominio francese sull'Europa susciterà per contrasto l'emergere di forze nazionali che determineranno il crollo dell'Impero napoleonico.
L'ascesa al potere di Bonaparte venne sancita dalla nuova Costituzione dell'anno VIII che, sottoposta a plebiscito, entrò in vigore alla fine del 1799.
Il potere esecutivo fu interamente attribuito al Primo console, ovvero allo stesso Bonaparte, che deteneva anche l'iniziativa legislativa (avendo il diritto di proporre leggi). Gli altri due membri del consolato ebbero solo un ruolo consultivo.
Si venne di fatto instaurando un governo dittatoriale incentrato sulla figura di Bonaparte, propostosi come nuovo despota illuminato, restauratore dell'ordine, l'unico in grado di concludere la Rivoluzione.
Ma Napoleone mirò soprattutto a garantirsi un ampio consenso nel paese, oltre a quello che gli veniva dall'esercito. Con questo obiettivo, il ricorso al plebiscito fu uno dei fattori costitutivi del regime napoleonico. Il plebiscito era inteso infatti come ricerca di una delega diretta da parte del popolo.
Nella prima di queste consultazioni popolari, la Costituzione dell'anno VIII ricevette 3 milioni di «sì» e poco più di 1500 «no». Ma al voto, che era palese, non parteciparono, nonostante le pressioni della polizia, oltre 4 milioni di aventi diritto.

 

Dal consolato all'Impero

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2 dicembre 1804. Napoleone imperatore

Nel giro di cinque anni, il Primo console Napoleone consolidò il suo regime personale attribuendogli un'inedita veste istituzionale.
Nel 1802, sempre grazie a un plebiscito, trasformò la sua carica in consolato a vita con la facoltà di designare il proprio successore. Nel 1804, con l'obiettivo di cancellare ogni ipotesi di restaurazione borbonica si fece nominare imperatore dei francesi, dando così inizio a una nuova dinastia.
La Costituzione dell'anno XII, che istituiva la dignità imperiale ereditaria, fu sottoposta a plebiscito e approvata con oltre 3,5 milioni di «sì» e circa 2500 «no».
Il papa Pio VII fu obbligato a partecipare alla cerimonia dell'incoronazione, il 2 dicembre 1804, nella cattedrale di Notre-Dame, ma con gesto accuratamente preparato Napoleone tolse la corona dalle mani del papa e se la pose sul capo, quindi incoronò la moglie Giuseppina.
A favorire questi passaggi istituzionali e a garantire il consenso dei francesi erano stati principalmente tre fattori: le vittorie militari con la garanzia di un periodo di pace, l'esito positivo degli accordi con la Chiesa e una decisa lotta alle opposizioni.
 - La ripresa della guerra e la pace
Il consolidamento del potere napoleonico era legato alle vittorie militari e alla conquista della pace. Ma la pace passò inevitabilmente per una ripresa della guerra. Nella primavera del 1800, mentre le truppe del generale Moreau attaccavano in Germania, Napoleone varcava le Alpi riuscendo a prevalere sugli austriaci a Marengo (giugno 1800). L'Austria, dopo ulteriori sconfitte, si adattò a firmare la pace di Lunéville (febbraio 1801), che riconosceva il controllo francese (diretto o indiretto) sull'Italia centro-settentrionale e la cessione definitiva alla Francia della riva sinistra del Reno. A questo punto, dopo il ritiro della Russia dalla coalizione antifrancese, il conflitto rimaneva aperto con la sola Gran Bretagna: nel marzo 1802, con la pace di Amiens, la Francia restituiva l'Egitto all'Impero ottomano, mentre la Gran Bretagna riconosceva le conquiste francesi in Europa. Ebbe allora inizio l'unico, e del resto brevissimo, periodo di pace tra la Francia napoleonica e la Gran Bretagna.
 - Il Concordato con la Chiesa
Napoleone ritenne che l'equilibrio del suo potere potesse essere assicurato solo dalla ricomposizione della frattura con la Chiesa di Roma. Questo obiettivo fu raggiunto con il Concordato del luglio 1801, con il quale il nuovo pontefice Pio VII riconosceva la Repubblica francese e la vendita dei beni nazionali. Tutti i vescovi, sia costituzionali sia refrattari, furono sostituiti da altri nominati dal Primo console e insediati dal papa. I vescovi dovevano giurare fedeltà alla Repubblica, ma era loro concesso nominare direttamente i parroci, che quindi cessavano di essere elettivi. Da parte sua lo Stato si assumeva l'onere della retribuzione del clero.
 - La repressione del dissenso
Il rafforzamento dei poteri del Primo console era stato accompagnato da un'accentuazione dei controlli sulla stampa e, in genere, su tutti gli aspetti della vita culturale. Bonaparte, insofferente delle critiche alla sua politica, aveva epurato i residui organi consultivi di molti intellettuali e più tardi aveva allontanato da Parigi Madame de Staël, la scrittrice che riuniva nel suo salotto molte voci dissenzienti. In realtà, la minaccia più consistente al governo napoleonico veniva dai sostenitori della monarchia appoggiati dalla Gran Bretagna. Nel marzo 1804 fu sventata una pericolosa congiura realista. La riorganizzazione politica e amministrativa poté procedere senza ostacoli perché furono sistematicamente combattute le opposizioni più radicali, di destra e di sinistra: la guerriglia vandeana fu progressivamente sconfitta; i giacobini più accesi vennero deportati alle Seychelles.

Le riforme e lo Stato napoleonico

Fu negli anni del consolato che Napoleone avviò una profonda riforma dello Stato nella quale coinvolse il personale politico rivoluzionario e recuperò molte figure dell'antico regime.
Questo processo di integrazione si attuò soprattutto grazie alla riforma amministrativa, la più duratura delle realizzazioni napoleoniche, rimasta sostanzialmente in vigore per oltre 150 anni.
I prefetti, rappresentanti del governo in ogni dipartimento – e in questo eredi degli intendenti dell'ancien régime –, furono il principale strumento della centralizzazione burocratica e amministrativa. L'accentramento, potenziato già nel '93-94 in periodo giacobino, trovò con Napoleone la sua definitiva messa a punto.
Il prefetto, che dipendeva direttamente dal Primo console, aveva compiti politici oltre che amministrativi: applicava le direttive del governo ed esercitava il controllo sullo «spirito pubblico» e, quindi, soprattutto sulle opposizioni. I prefetti furono le «masse di granito» (l'immagine è dello stesso Napoleone) su cui si edificò il regime napoleonico. Collegata all'esigenza di formare un capace ceto di amministratori e di tecnici fu l'attenzione prestata all'istruzione pubblica, media e universitaria. Venne potenziata l'École polytechnique, come sede di formazione preparatoria alla specializzazione nei settori minerari, dell'artiglieria e delle costruzioni. Ma la struttura fondamentale dell'insegnamento pubblico furono i licei, che avevano il compito di fornire una cultura generale, soprattutto classica e letteraria, al nuovo ceto dirigente.
Questo intervento nel campo scolastico non fu che uno degli aspetti dell'enorme dilatazione delle competenze e attribuzioni dello Stato realizzata in questo periodo. Lo Stato fu investito dei compiti di assistenza sociale e sanitaria nonché del controllo dei mendicanti.
La burocrazia si dedicò con apposite inchieste a una rilevante raccolta di dati statistici, economici e sociali, che dovevano servire di base all'intervento pubblico. Lo Stato, come lo conosciamo oggi, si formò in epoca napoleonica.

Il Codice civile e il nuovo ceto dirigente

Nel marzo 1804 la promulgazione del Codice civile completò e l'opera riformatrice di Napoleone.
Il Codice salvaguardava e dava certezza giuridica alle più importanti conquiste dell'89, quelle relative all'abolizione dei diritti feudali, alle libertà civili, alla difesa della proprietà.
Nel diritto di famiglia venne mantenuto il divorzio (legalizzato in Francia in piena rivoluzione, nel 1792), mentre in campo successorio l'accesso di tutti i figli all'eredità aboliva definitivamente i privilegi di primogenitura, che la consuetudine riconosceva non solo alle famiglie nobili ma, in molte regioni, anche a quelle di altri ceti sociali.
Veniva così garantita la più ampia circolazione delle proprietà, uno dei capisaldi del liberismo economico e del pensiero riformatore settecentesco. Le strutture politiche e amministrative e la riforma giuridica contribuivano a definire un ceto dirigente composto da notabili e proprietari terrieri – i soli a cui era riservato di fatto l'accesso alle cariche pubbliche –, strettamente legati a un regime che impersonava la loro ascesa recente e la riconciliazione con il passato.
In questo senso, le riforme degli anni del consolato rappresentarono il risultato più duraturo della politica di Bonaparte.

 

La Francia napoleonica e l'Europa

Le vittorie militari e i nuovi regni

La pace tra Francia e Gran Bretagna durò solo pochi mesi e le ostilità ripresero nel 1803 coinvolgendo presto le potenze europee.
Le vecchie monarchie infatti non potevano accettare un usurpatore come Napoleone. Solo dopo cinque anni di guerre (1805-9), di annessioni, di formazione di nuovi regni l'Europa intera, ma non la Gran Bretagna, si piegò a riconoscere il nuovo impero.
La geografia politica del continente ne risultò profondamente modificata. Nell'Europa centrale e orientale un'inarrestabile sequenza di grandi vittorie militari – ricordiamo solo la più spettacolare, quella di Austerlitz sugli austro-russi il 2 dicembre 1805 – costrinse alla pace Austria, Prussia e Russia.
All'Austria umiliata, nel 1806, Napoleone impose la soppressione del Sacro romano impero (istituito nel lontanissimo 962) e, nell'area germanica, la costituzione della Confederazione del Reno posta sotto il controllo francese.
Alla Prussia, fortemente ridimensionata a livello territoriale, venne conferita una sovranità limitata e imposta la presenza di truppe francesi. Alcuni territori prussiani occidentali confluirono in un nuovo Stato vassallo dell'Impero, il Regno di Vestfalia.
In Olanda e in Polonia Napoleone istituì altri Stati satelliti.
Anche in Spagna, nonostante una durissima guerriglia che inflisse le prime sconfitte ai napoleonica, fu instaurato un dominio francese: il trono spagnolo venne affidato al fratello di Napoleone, Giuseppe.
L'assegnazione di alcuni Stati satelliti a parenti diretti o acquisiti dell'imperatore divenne una caratteristica del sistema di dominio napoleonico.
Con il giovane zar Alessandro I, invece, fu stabilita (nel 1807) una pace che riconosceva gli interessi espansionistici della Russia.
In Italia la Repubblica italiana (erede della Cisalpina) fu trasformata in Regno d'Italia (1805): Bonaparte ne cinse la corona e nominò viceré Eugenio Beauharnais, figlio di primo letto di Giuseppina. Il Piemonte, la Toscana e una parte dello Stato pontificio con Roma, il Lazio e l'Umbria furono annessi alla Francia, mentre il papa Pio VII, che aveva scomunicato Napoleone, fu arrestato. Il Regno di Napoli, deposti i Borbone, fu concesso prima al fratello di Napoleone, Giuseppe, poi al cognato Gioacchino Murat. Sotto il controllo borbonico restava la Sicilia e sotto quello dei Savoia la Sardegna.

Il sistema continentale e il matrimonio con Maria Luisa d'Austria

In tutti i paesi del continente sottomessi, alleati o controllati, Napoleone aveva imposto il divieto di mantenere relazioni commerciali con la Gran Bretagna (1806). Il sistema o Blocco continentale mirava a distruggere la potenza commerciale britannica, dato che sembrava impossibile ridurne quella navale, soprattutto dopo la battaglia di Trafalgar (ottobre 1805), quando la flotta francese era stata sbaragliata dai britannici comandati da Nelson, morto in combattimento.

L'Europa nel 1812

Fra il 1810 e il 1812 il Grande Impero – Francia e Stati vassalli – raggiunse la sua massima estensione, dalla Spagna alla Polonia, dalla Calabria al Baltico. Un dominio che Napoleone cercò di consolidare sposando la figlia dell'imperatore d'Austria, la granduchessa Maria Luisa. Dopo il divorzio da Giuseppina, dalla quale non aveva avuto eredi, il nuovo matrimonio fu celebrato a Parigi nel 1810. Il "figlio" della rivoluzione sposava una nipote di Maria Antonietta, la regina ghigliottinata nella capitale 17 anni prima, nell'intento di legittimare il nuovo impero.

L'esercito e la nuova nobiltà napoleonica

L'Impero napoleonico era fondato sulla supremazia militare. Una supremazia che poggiava non solo sulle doti strategiche e sul prestigio di Napoleone, ma anche su un esercito di cittadini politicamente motivati. In Francia la leva in massa del 1793-94 aveva introdotto il principio della coscrizione obbligatoria.
Il sistema francese, secondo il quale ogni cittadino era anche un soldato, dimostrò, nonostante le numerose diserzioni, buone capacità di funzionamento grazie anche ad alcuni importanti correttivi che escludevano dalla leva gli uomini sposati e consentivano ai più agiati di pagarsi un sostituto. Ciò favori i giovani borghesi, che poterono così sottrarsi al servizio militare.
Modi e atteggiamenti "democratici", eredità delle origini rivoluzionarie, si mantennero vivi nell'esercito, che offriva grandi possibilità di carriera e rimaneva la principale via di ascesa sociale. Dall'esercito proveniva infatti una parte rilevante del gruppo dirigente del regime napoleonico e il 59% della nuova nobiltà istituita nel 1808.
La creazione di un ceto nobiliare non fu che l'ultimo atto della costruzione di una nuova gerarchia sociale dipendente dall'onore delle armi e dal rapporto personale con l'imperatore. Questa nobiltà divenne automaticamente un attributo delle più elevate cariche statali: era ereditaria e legata a ben definiti livelli di ricchezza. Come estrazione sociale per il 58% era di origine borghese, il 22,5% proveniva dall'antica nobiltà e il 19,5% dai ceti popolari.

Innovazioni e resistenza nell'Europa napoleonica

Nei paesi conquistati o annessi Napoleone si appoggiò invece assai più a quei settori delle forze tradizionali che mostrarono la loro disponibilità a inserirsi nel nuovo sistema di potere.
Più significativa come fattore di trasformazione fu l'estensione degli istituti giuridici (in primo luogo del Codice civile) e dell'amministrazione napoleonica: tutti gli Stati «vassalli» adottarono il modello francese dello Stato accentrato. Dappertutto la feudalità o i residui del regime feudale furono aboliti, espropriati e soppressi gli ordini religiosi, mentre i beni ecclesiastici vennero messi in vendita per sanare il debito pubblico.
Quasi ovunque questo rilevante passaggio di proprietà determinò un rafforzamento dei ceti già proprietari, soprattutto borghesi, ma anche nobiliari.
Nonostante il rilevante svecchiamento delle istituzioni e la mobilitazione della società civile il consenso al nuovo regime si mantenne piuttosto modesto. Anzi la presa di coscienza della società civile, indotta dalle nuove istituzioni, portava inevitabilmente a rifiutare la passiva accettazione dell'egemonia politica, militare ed economica della Francia e a favorire la diffusione di aspirazioni all'indipendenza nazionale. Proprio queste aspirazioni, in qualche caso, si tradussero in movimenti di opposizione.
Tra i principali motivi di resistenza era l'imposizione del Blocco continentale che ostacolava tutta l'economia europea da tempo inserita in un sistema di scambi e danneggiava anche le manifatture francesi. Inoltre in Spagna Giuseppe Bonaparte non riusciva a venire a capo della guerriglia, né ad arginare la riconquista britannica.
Anche la Sicilia occupata dalla Gran Bretagna, dove si erano rifugiati i Borbone di Napoli, sfuggiva al dominio francese.
Nel 1812 la Costituzione che le Cortes di Spagna (ossia le antiche assemblee rappresentative) si diedero a Cadice e quella adottata in Sicilia sotto l'influenza britannica furono due episodi di alternativa liberale e moderata al predominio del dispotismo napoleonico sul resto d'Europa.
Ispirate entrambe al modello britannico (quella spagnola anche alla Costituzione francese del '91), abolivano la feudalità, introducevano la separazione dei poteri, istituivano una monarchia costituzionale e un sistema elettorale censitario.
Episodi di breve durata, le due Costituzioni diverranno, negli anni della Restaurazione, modelli e obiettivi per il movimento liberale.

Le riforme prussíane

Decisive invece per lo sviluppo di tutta la successiva storia tedesca e dei rapporti con la Francia furono le riforme introdotte in Prussia dopo l'umiliante disfatta subita a Jena (1806) e sotto la spinta di una rinascita intellettuale e culturale fondata sul recupero della tradizione, che culminò nei Discorsi alla nazione tedesca (1807-8) del filosofo Johann Gottlieb Fichte.
Le riforme economiche e sociali avviate nel 1807 dal barone von Stein abolirono la servitù della gleba, introdussero la libera circolazione e proprietà della terra, il libero accesso alle professioni. Più importanti, per il loro effetto immediato, furono le riforme dell'esercito, che adottavano il principio del servizio militare come dovere, per ogni cittadino, di difendere lo Stato.
Non fu tuttavia introdotta la leva obbligatoria, ma venne applicato un criterio di addestramento e di rapido avvicendamento degli uomini, che consentì di disporre di una larga riserva di truppe.
Solo nel 1813, e per la sola durata della guerra, la leva divenne obbligatoria e il nuovo esercito territoriale prussiano (Landwehr), infiammato dal patriottismo e dal coinvolgimento della gioventù studentesca e degli intellettuali, fu un elemento determinante nella sconfitta di Napoleone.

 

Il crollo dell'Impero

[ Introduzione audio ]

Nonostante il breve periodo di pace tra il 1809 e il 1812, e la nascita di un erede («il re di Roma»), la continuità dell'Impero napoleonico era tutt'altro che garantita. L'incrollabile ostilità britannica, la ribellione spagnola e l'opposizione delle nascenti forze nazionali erano ormai ostacoli insuperabili. Le potenze sconfitte non desideravano altro che porre fine all'avventura napoleonica indissolubilmente legata ai successi militari. Così quando la Russia riprese la sua libertà di commercio uscendo dal sistema continentale e sganciandosi dall'alleanza con la Francia, Napoleone rispose ancora una volta con la guerra.
L'invasione della Russia sarebbe stata l'inizio del suo declino.

L'invasione della Russia

Napoleone non fu in grado di valutare realisticamente le difficoltà dell'impresa.
Per quanto numeroso (circa 650 mila uomini) il suo esercito era mal equipaggiato e troppo composito: nell'estate del 1812, accanto ai francesi c'erano polacchi, italiani, tedeschi, svizzeri e molti altri, per un totale di 20 nazioni e 12 lingue diverse.
I russi non si lasciarono agganciare e indietreggiarono facendo terra bruciata alle loro spalle. L'esercito napoleonico, abituato a sfruttare i paesi occupati, ebbe subito difficoltà di approvvigionamento.
Solo a 100 chilometri da Mosca i russi accettarono battaglia e furono sconfitti a Borodino (settembre): ma non fu uno scontro decisivo, come non lo fu la conquista di Mosca, presto distrutta da un gravissimo incendio.

La campagna di Russia del 1812

Napoleone non era nella posizione di forza per trattare con uno zar che lo considerava un "anticristo" contro cui risvegliare tutte le energie della santa Russia. In ottobre fu ordinata la ritirata presto trasformatasi in rotta per il freddo, il fango, la neve e gli attacchi della cavalleria cosacca.

La sconfitta e l'abdicazione

Nel 1813 tutta l'Europa era in armi contro la Francia.
I prussiani preparavano la loro «guerra di liberazione». Si costituì una coalizione fra Gran Bretagna, Russia e Prussia, cui si aggiunse anche l'Austria.
La guerra culminò a Lipsia nella battaglia delle nazioni (16-18 ottobre 1813), in cui forze soverchianti sconfissero i francesi. A essa fece seguito l'avanzata degli alleati nel cuore della Francia invano rallentata da battaglie di interdizione: Parigi fu occupata alla fine del marzo 1814.
In aprile Napoleone abdicò e i vincitori gli assegnarono il possesso dell'isola d'Elba. Sul trono di Francia fu restaurato un Borbone, Luigi XVIII, fratello del re ghigliottinato, che concesse una Costituzione con un sistema elettorale a suffragio molto ristretto.
Riunite nel 1814 in congresso a Vienna, Gran Bretagna, Russia, Prussia e Austria avviarono contemporaneamente la ridefinizione dei confini d'Europa.

18 giugno 1815. La disfatta di Waterloo

Ma l'avventura napoleonica non era finita. Il malcontento degli strati popolari nei confronti dei Borbone (i contadini temevano il ripristino dei prelievi feudali, i lavoratori urbani avevano visto peggiorare le loro condizioni) e il malessere di tanti soldati e ufficiali, esclusi dall'esercito, convinsero Napoleone che un suo ritorno in Francia avrebbe avuto buone probabilità di successo. E in effetti il suo sbarco sulle coste francesi (il 1° marzo 1815) fu seguito da una marcia trionfale verso Parigi, abbandonata da Luigi XVIII.
Napoleone riformò la Costituzione imperiale dell'anno XII, dando spazio alle esigenze liberali, e ricorse di nuovo al plebiscito per approvare questa iniziativa. Erano gli ultimi sussulti di un regime che aveva perso la sua vitalità e che le potenze europee avevano ormai deciso di cancellare.
Napoleone non riuscì a dividere e affrontare separatamente le forze nemiche che puntavano sulla Francia. A Waterloo (in Belgio), il 18 giugno, la resistenza dei britannici del duca di Wellington consentì ai prussiani di intervenire e sconfiggere duramente i francesi. Fu l'ultima battaglia di Napoleone.
Consegnatosi un mese dopo alla Gran Bretagna, venne deportato sull'isola di Sant'Elena nell'Atlantico, dove morì il 5 maggio 1821.
L'illusione del ritorno era durata solo cento giorni.

 

Rivoluzione e Impero: una duplice modernità

La Rivoluzione francese e l'Impero napoleonico rappresentano non soltanto due vicende fondamentali per la storia di Francia e d'Europa, ma sono anche due momenti di accelerazione del tempo storico e di modernizzazione politica destinati a influenzare profondamente l'intera storia mondiale successiva.
Oltre a formulare e difendere nuovi principi, si concepiscono, in questi decenni, forme e pratiche nuove del fare politica.

La modernizzazione politica

La modernizzazione si attua su vari livelli con alcuni tratti – elencati scritti di seguito – che si rivelano comuni tanto alla Rivoluzione quanto all'Impero, seppure in un processo di trasformazione e di evoluzione.
 - Il rovesciamento della società dei privilegi e del feudalesimo
Con la Rivoluzione si attua questo fondamentale ammodernamento della società in primo luogo in Francia. Esportato poi nelle "repubbliche sorelle", Napoleone lo impone infine in tutto il Grande Impero.
 - La definizione dei diritti civili e politici
Presenti nella Dichiarazione dell'89 e nella prima Costituzione, i diritti civili e politici vengono prima ampliati tra'92 e'94 sul terreno dell'eguaglianza, poi di nuovo limitati dai criteri di censo. Il Codice civile napoleonico del 1804, che recepisce e dà certezza giuridica alle più importanti conquiste dell'89, garantisce l'uguaglianza di fronte alla legge e il diritto di proprietà.
 - La mobilitazione delle masse popolari
Al tempo della Rivoluzione si mobilitano in primo luogo le masse urbane; in seguito quelle prevalentemente rurali, arruolate nell'esercito rivoluzionario e poi napoleonico.
 - Il rafforzamento dello Stato accentrato
Già obiettivo della dittatura giacobina, l'accentramento raggiunge il suo culmine, per organizzazione ed efficienza, col sistema dei prefetti di Napoleone.
 - Il ruolo centrale della guerra
La guerra, non è intesa solo come azione di conquista, ma anche come imposizione dei nuovi ordinamenti istituzionali: assume un carattere ideologico e politico. Per la massa dei cittadini soldati, le vittorie militari – sia quelle rivoluzionarie come a Valmy, sia quelle napoleoniche – rappresentano un elemento di aggregazione e di formazione del consenso popolare.

La tradizione e il diritto

La forza delle due grandi vicende, quella rivoluzionaria e la napoleonica, è stata anche di dare origine a due potenti tradizioni e a due miti largamente diffusi, seppure in ambiti politicamente diversi se non opposti.
Nonostante la faticosa, e sostanzialmente fallita, fusione fra aspirazioni ideali e realizzazioni pratiche, la Rivoluzione francese costruisce un'immagine mitica positiva di sé stessa. Un mito costruito e alimentato dagli stessi rivoluzionari e divenuto potente fattore di coinvolgimento emotivo e di mobilitazione politica. Un mito che giustificava e assolveva anche gli aspetti più violenti e sanguinari del Terrore.
Su queste basi si costruì una tradizione legata a principi come la libertà, l'eguaglianza civile, l'eguaglianza sociale. Per questo, da un unico ceppo nasceranno più tradizioni rivoluzionarie: liberale, democratica, socialista.
Così tutte le tendenze politiche dell'800 – e non solo in Francia – si caratterizzeranno in base a un rapporto di adesione o rifiuto dei valori della Rivoluzione o di suoi specifici momenti. E in particolare ogni movimento rivoluzionario, anche nel '900, vorrà ritrovare nel rapporto privilegiato, immaginario o reale, con il modello della Rivoluzione francese la propria legittimazione storica.
«Io non agisco che sull'immaginazione della nazione», aveva detto Napoleone nel 1800; e questo rapporto continuerà anche dopo la sua definitiva sconfitta. Con una forzatura della memoria e sulle ali del mito l'immaginazione popolare fece di lui l'eroe della Rivoluzione.
Così quella contraddizione tra Rivoluzione e dispotismo, che aveva contrassegnato Napoleone e quasi un ventennio di successi politici e militari, continuò ad alimentare la sua leggenda. Il mito di Napoleone durò non solo per gran parte dell'800, anche oltre il Secondo Impero del nipote Napoleone III, e il suo modello continuerà ad essere evocato dai grandi e piccoli despoti della storia successiva.

Due vicende incompiute

Un altro tratto che avvicina la rivoluzione e Napoleone fu l'incompiutezza delle due vicende.
Dalla fase liberale a quella democratica e alla dittatura, la rivoluzione non riuscì mai a chiudere il suo ciclo per poi deformarsi nel dispotismo napoleonico: un sistema di potere a sua volta destinato a non trovare mai una definitiva legittimazione, costretto a difendere con le armi un dominio precario e a essere inevitabilmente sconfitto.

Le differenze

A questo quadro che ha sottolineato finora i punti di convergenza vanno aggiunti gli elementi che ne individuano le specifiche differenze.
Specifiche degli anni della Rivoluzione furono la violenza delle masse urbane, protagoniste delle fasi più sanguinarie della Rivoluzione; la nascita del partito politico nella versione embrionale, ma fortemente organizzata, dei giacobini; l'esperienza della politica assembleare fino al colpo di Stato del 18 brumaio.
A segnare il periodo napoleonico furono invece l'introduzione del plebiscito con la correlata raccolta del consenso popolare per via plebiscitaria (un meccanismo che vedremo all'opera anche in seguito); la coincidenza nella stessa persona del potere politico e di quello militare; la creazione di una nuova classe dirigente e di una nuova nobiltà, risultato della grande mobilità sociale di quegli anni nata dalla politica, dall'esercito e legittimata dall'alto.
Infine, scorrendo questi 25 anni di rivoluzioni e di guerre con gli occhi della nostra sensibilità vien fatto di chiedersi quale fu il costo umano di questa straordinaria modernizzazione politica. Le vittime per secoli non sono entrate a far parte dei "conti" della storia. Ma forse noi dobbiamo ricordare i circa 3 milioni di caduti (secondo stime approssimative) di questa grande pagina della storia europea.

 

 

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

 

 

Caratteri della rivoluzione industriale

Le cause

«Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, gli scambi con le colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all'industria uno slancio fino allora mai conosciuto L'esercizio dell'industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non bastava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura [...]. Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattura era più sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All'industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al medio ceto industriale subentrarono i milionari dell'industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni». In questo brano, tratto dalle pagine iniziali del Manifesto del partito comunista scritto nel 1848, due profondi conoscitori delle trasformazioni della società come i filosofi politici tedeschi Karl Marx e Friedrich Engels individuavano i passaggi cruciali che avevano determinato la rivoluzione industriale e la nascita della grande industria: il ruolo del commercio internazionale nel sollecitare la domanda di nuovi prodotti e il passaggio dalla produzione delle corporazioni artigiane a quella delle manifatture; l'importanza delle macchine per dar vita alla fabbrica meccanizzata e la nascita di nuove classi sociali come la borghesia imprenditoriale e il proletariato industriale (composto dai lavoratori salariati e dalle loro famiglie).

Una rivoluzione economica

La rivoluzione industriale segna una radicale svolta nel sistema di produzione delle merci che ebbe inizio in Gran Bretagna, in particolare in Inghilterra, a partire dagli anni '60 del '700 per poi estendersi nell'800 ad altri paesi europei e agli Stati Uniti. Il tasso di sviluppo dell'economia che si registrò in quegli anni, pari all'1,5%, può essere considerato basso se paragonato ai ritmi di crescita del '900 (vicini e talora superiori al 6-8%), ma l'aspetto più importante è la continuità dello sviluppo accompagnato da profonde trasformazioni sociali. Le rivoluzioni economiche non hanno i tempi rapidi delle rivoluzioni politiche, misurabili in giorni e mesi, e qualche volta in numero limitato di anni, ma producono effetti duraturi ed evidenti nel medio e lungo periodo. Grande produttrice di ricchezza, l'industrializzazione sarebbe divenuta, in tutto il pianeta, la via obbligata per la conquista del benessere o almeno per l'uscita dalla povertà, anche se a prezzo di un iniziale peggioramento delle condizioni di lavoro per migliaia di uomini, donne e bambini.

 

Perché in Gran Bretagna?

Condizioni preliminari

Per comprendere le ragioni per cui la Gran Bretagna divenne la prima nazione industriale è indispensabile individuare i pre-requisiti ossia le condizioni preliminari e particolari che consentirono alla rivoluzione di prendere avvio sul suolo britannico e non altrove.

Materie prime a basso costo Dalla metà del '700 la Gran Bretagna dominava il commercio internazionale: questo significava minore costo delle importazioni di materie prime – come il cotone grezzo – e la possibilità di esportare su tutti i mercati i prodotti delle attività industriali nazionali.
Società prospera e dinamica La società britannica si distingueva per una superiore diffusione delle libertà e della tolleranza, elementi strettamente connessi al commercio e all'ascesa delle classi medie. Paese già prospero e culturalmente vivacissimo, era in grado di offrire molti sbocchi allo spirito pragmatico, alla disponibilità al rischio e al dinamismo dei suoi imprenditori.
Disponibilità di capitali La rivoluzione agricola e la privatizzazione delle terre, sostenuta con energia dal Parlamento, avevano contribuito alla concentrazione della ricchezza e alla disponibilità di capitali nel paese.
La cultura scientifico-pratica Alla diffusione anche negli strati artigianali degli elementi della formazione di base – leggere, scrivere e soprattutto fare di conto –corrispondeva la presenza di una cultura scientifico-pratica che sollecitava la ricerca di nuove soluzioni tecniche per la nascente meccanizzazione. I principali inventori delle nuove macchine per l'industria tessile non furono scienziati ma ingegnosi praticanti.
Energia a basso costo Un costo del lavoro relativamente alto (se paragonato a quello di altri paesi europei o asiatici) e una disponibilità di energia, idrica o prodotta dal carbone, a basso prezzo, rese conveniente puntare sull'innovazione tecnologica e sulle nuove macchine per aumentare la produzione complessiva e la produttività per lavoratore. Ciò fu particolarmente evidente nelle innovazioni applicate alla filatura del cotone. Altrove, in Francia e in Austria per non parlare dell'India, il basso costo del lavoro non costituiva un incentivo alla meccanizzazione.

Innovazioni e sviluppo tecnologico

Numerose furono le invenzioni che accompagnarono i primi anni dello sviluppo industriale: tuttavia, non è l'invenzione in quanto tale che provoca il cambiamento, ma è la sua applicazione diffusa e costante – l'innovazione – che costituisce il cuore della trasformazione tecnica. I settori principalmente interessati dai cambiamenti tecnologici furono quelli delle macchine utensili e della generazione di forza motrice e, strettamente connesso a quest'ultimo, della estrazione e lavorazione delle materie prime, in particolare del carbone e dei minerali ferrosi.
Nel settore dell'industria tessile, la reciprocità del rapporto tra invenzione e produzione risulta particolarmente evidente. In un breve giro di anni una serie di invenzioni consentì il passaggio alla completa meccanizzazione della filatura (che trasforma il materiale grezzo in filo) e alla produzione di un filato sempre più sottile e resistente: venne messa a punto prima la macchina per filare azionata a mano, la jenny di James Hargreaves, brevettata nel 1765; poi, nel 1769, fu inventato da Richard Arkwright il filatoio idraulico, alimentato appunto con energia idrica; e nel 1779 il filatoio mule di Samuel Crompton, un ibrido fra le due precedenti macchine. La tessitura rimase invece prevalentemente manuale nonostante l'invenzione del telaio meccanico di Edmund Cartwright (1787), che tuttavia si affermò solo a partire dal 1820, mentre i telai tradizionali rimasero in attività fino al 1850 circa.

La macchina a vapore

Ancora nei primi decenni dell'800, le ruote idrauliche installate lungo i corsi d'acqua fornivano l'energia necessaria a muovere le nuove macchine e le fabbriche si chiamavano mills, 'mulini'. Una svolta decisiva fu il passaggio allo sfruttamento dell'energia termica con la costruzione delle prime macchine a vapore – a cominciare da quella inventata da James Watt nel 1769. La macchina a vapore funzionava bruciando carbone per riscaldare l'acqua e produrre vapore. Generava così energia artificialmente e in base alle esigenze di produzione. Divenne allora sempre più conveniente utilizzare una forza motrice costante alimentata da un combustibile, il carbone, di cui la Gran Bretagna possedeva ricchi giacimenti, senza sottostare più ai cicli naturali – che condizionavano l'impiego di energia eolica e idrica – o ai limiti della forza fisica umana e animale. A questo punto, vapore e carbone divennero gli strumenti del progresso. Nel 1800 erano in funzione 1000 macchine a vapore, nel 1815 la potenza installata era già cresciuta di 20 volte.

 

Cotone e ferro

L'industria cotoniera

«Se diciamo rivoluzione industriale, intendiamo cotone»: nien- te di più vero di questa affermazione dello storico Eric J. Hobsbawm. È il settore dell'industria cotoniera che determina il decollo dell'industrializzazione: il cotone fu infatti il battistrada del nuovo modo di produzione basato sulla fabbrica. Intorno al 1760 la Gran Bretagna importava 2,5 milioni di libbre di cotone grezzo, nel 1787 l'importazione era salita a 22 milioni, per giungere cinquant'anni dopo a 366 milioni. Questi dati lasciano chiaramente comprendere l'enorme incremento produttivo dell'industria cotoniera britannica. Tradizionale grande produttrice ed esportatrice di tessuti di lana, la Gran Bretagna cominciò a primeggiare anche nel settore cotoniero.
I tessuti di cotone avevano un mercato molto più ampio di quello della lana, erano adatti a tutti i climi e in grado di sostituire la canapa e il lino. Per quasi tutto il '700 il Bengala indiano, ormai sotto dominio britannico, era stato il maggior produttore di tessuti di cotone, imbattibili per costo e qualità, distribuiti in tutto il mercato internazionale dalle navi mercantili britanniche. Fu proprio questa competizione internazionale a sollecitare la meccanizzazione della filatura con risultati straordinari tanto sul versante quantitativo quanto su quello qualitativo, e con un'alta remunerazione dei capitali investiti. Contemporaneamente all'aumento di produttività dovuto alle macchine, la diminuzione del costo del lavoro era favorita da un'ampia disponibilità di manodopera alla quale non era richiesta una particolare specializzazione, data l'elementarità della manovra delle nuove macchine tessili. L'espansione demografica e la possibilità di impiegare donne e bambini fornirono all'industria la necessaria quantità di forza lavoro a basso costo per poter entrare sul mercato a prezzi competitivi e sostenere quindi l'ampliamento della domanda di un prodotto sempre più economico e sempre più richiesto.

L'industria siderurgica

ro, l'industria del ferro – la siderurgia – segnò un passaggio indispensabile dell'industrializzazione britannica. La progressiva meccanizzazione, infatti, dipendeva da investimenti in nuove attrezzature e in macchine costruite prevalentemente in ferro. Ma anche qui era necessario introdurre innovazioni che eliminassero e riducessero le strozzature di una produzione legata al tradizionale impiego del carbone di legna per alimentare gli altiforni che producevano la ghisa. Il risultato era infatti una ghisa di scarsa qualità dovuta alle impurità del minerale ferroso locale: solo la dispendiosa importazione del ferro svedese, più puro, consentiva di ottenere un prodotto di qualità accettabile. Neppure l'impiego del coke, risultato dalla distillazione del carbone fossile, materia prima largamente disponibile in Gran Bretagna, era riuscito a migliorare la qualità della ghisa data la difficoltà di raggiungere le alte temperature necessarie negli altiforni.
La macchina a vapore e il sistema di Henry Cort per il puddellaggio, brevettato nel 1783-84, mutarono totalmente questa situazione: permettendo non solo la produzione di ghisa di buona qualità anche a partire dal minerale britannico, ma soprattutto un notevole abbattimento dei costi di produzione. Infatti, l'insufflazione di aria negli altiforni, assicurata dalle macchine a vapore, consentiva la completa combustione del coke e il raggiungimento di temperature tali da rendere possibile la raffinazione del ferro. La macchina a vapore rendeva inoltre disponibili in modo continuo le grandi potenze necessarie per modellare la ghisa con i magli e i laminatoi.
La produzione di ghisa crebbe costantemente dalle 68 mila tonnellate del 1788 alle 581 mila del 1825 e, dal 1812, la Gran Bretagna diventò un paese esportatore. Il ferro assurse a simbolo della nuova civiltà della macchina e il suo impiego, oltre che in ogni tipo di strumenti, si affermò nell'edilizia pubblica e abitativa, in parte per le caratteristiche intrinseche e la convenienza del materiale, ma in parte anche per il suo valore simbolico. Fra il 1775 e il 1779 veniva costruito a Coalbrookdale, sul fiume Severn, il primo ponte interamente in ghisa con una luce di 30 metri. Il trionfo di questa funzione celebrativa del ferro si sarebbe avuto con la costruzione del Crystal Palace per l'Esposizione universale di Londra del 1851.

 

La nascita della fabbrica

La divisione dei lavoro

L'attività produttiva preindustriale si svolgeva nelle botteghe artigiane o più spesso nei sobborghi e nelle campagne, dove il metodo di produzione era prevalentemente quello a domicilio. Con l'introduzione delle macchine e del vapore questo sistema cambiò radicalmente: le fabbriche – soprattutto le filature tessili – erano grandi edifici a più piani sorti inizialmente lungo i corsi d'acqua anche in campagna (per sfruttare l'energia idrica). L'adozione delle macchine a vapore consentì lo spostamento delle fabbriche nelle città. Il lavoratore generico divenne un operaio salariato: abbandonò cioè tutte le altre attività che nell'impresa familiare continuava a svolgere, in particolare quella agricola, ed ebbe nella fabbrica il suo unico impiego. Inoltre, cominciò a eseguire solo l'operazione parziale – spesso molto semplice ma continuamente ripetuta – affidatagli sulla base di una crescente divisione del lavoro.

Lo sfruttamento dei lavoratori

L'avvento del sistema di fabbrica impose condizioni di lavoro molto gravose, che prevedevano orari oscillanti fra le 12 e le 16 ore giornaliere. La semplificazione del processo produttivo rese possibile il largo impiego, soprattutto nell'industria tessile, di donne e bambini che furono sottoposti a un duro sfruttamento. La condizione operaia era caratterizzata dalla estrema precarietà del posto di lavoro ed era inoltre aggravata da tutti i problemi connessi al processo di inurbamento. Gli operai erano costretti ad abitare in situazioni di sovraffollamento, in case fatiscenti e in pessime condizioni igieniche, potendo contare su un'alimentazione povera in quantità e qualità.

Le trasformazioni del paesaggio urbano crurale

Il sistema di fabbrica trasformò anche la distribuzione territoriale delle unità produttive e ridisegnò con essa l'immagine topografica e architettonica delle città e il paesaggio. L'attività lavorativa, infatti, si concentrò progressivamente nei centri urbani che crebbero in misura considerevole secondo tipologie edilizie di tipo intensivo, mentre anche la campagna circostante modificava le sue colture in funzione di una popolazione urbana in forte aumento. Manchester, che divenne il principale centro dell'industria cotoniera, sestuplicò la sua popolazione da 20 mila a 120 mila abitanti tra il 1760 e il 1830.

I Luddisti

La formazione dei grandi agglomerati di popolazione urbana e le nuove modalità di aggregazione sociale rappresentate dalla fabbrica e dal quartiere operaio da un lato resero più omogenei bisogni e condizioni di vita, dall'altro, attraverso l'intensificarsi dei contatti, diffusero la consapevolezza di un desti- no comune. Questi furono i presupposti per il sorgere di forme nuove di analisi e di azione politica. Tuttavia la consapevolezza del processo di trasformazione in atto nelle condizioni di lavoro e nel ruolo sociale dei lavoratori maturarono inizialmente negli strati tradizionali degli artigiani e non fra i nuovi operai di fabbrica. Fu tra i lavoranti a domicilio, gli artigiani e i giornalieri del settore tessile che si diffuse il luddismo, una delle prime manifestazioni di opposizione sociale. Questo movimento, organizzato in segrete e disciplinate "bande di guerriglia", prese il nome dal leggendario tessitore Ned Ludd che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio meccanico per la fabbricazione delle calze di lana. I luddisti contrastavano il diffondersi della prima meccanizzazione adottando come principale, anche se non unica, forma di lotta la distruzione delle macchine, nel cui impiego veniva individuata la causa fondamentale della disoccupazione e dei bassi salari. In questa elementare protesta trovavano espressione soprattutto il rifiuto del nuovo ordinamento della produzione e delle condizioni di vita che a questo si accompagnavano, ma anche la reazione alla politica governativa dei primi anni dell'800, improntata alla repressione di ogni fermento e di ogni spinta associativa dei ceti subalterni. La legislazione penale inglese, durissima non solo contro i distruttori di macchine ma contro qualsiasi forma di organizzazione, di sciopero e di rivendicazioni salariali, venne ulteriormente inasprita nel 1812 con l'introduzione della pena di morte contro i luddisti.

 

L'espansione dell'industria nell'Europa continentale

L'arretratezza dell'Europa continentale

Il nuovo sistema produttivo si affermò nel resto dell'Europa e negli Stati Uniti a partire dal 1830 circa. Da allora il capitalismo industriale cominciò a costituire il principale elemento propulsivo delle trasformazioni dell'intera realtà economica e sociale. Fino a quella data l'Europa si presentava come un'economia arretrata se paragonata ai contemporanei sviluppi della rivoluzione industriale britannica.
L'economia dell'Europa continentale era essenzialmente agricola e l'agricoltura era ancora, nella media, tecnicamente arretrata. 1 principali cambiamenti introdotti in questo periodo – uso di aratri in grado di smuovere la terra più in profondità, sistemi più complessi di rotazione, estensione delle colture foraggiere che consentivano di integrare agricoltura e allevamento – si limitavano al perfezionamento di tecniche già note. Le macchine agricole – mietitrici, trebbiatrici –, già usate in Gran Bretagna, erano pressoché sconosciute sul continente. Di concimi artificiali si cominciò a parlare solo dopo il 1840, grazie all'opera pionieristica del grande chimico tedesco Justus von Liebig (1803-1873).
In questo periodo si ebbero anche due gravi carestie, quella del 1816-17 e quella del 1846-47, entrambe causate dai cattivi raccolti. La crisi del '46-47 – l'ultima di questo genere nella storia europea – fu provocata soprattutto dal diffondersi della peronospora, una malattia della patata, che in alcune zone, come l'Irlanda e l'Europa centrale, era diventata la base dell'alimentazione. La carestia colpì soprattutto la poverissima Irlanda, dove quasi un milione di persone morirono – su un totale di circa 9 milioni – e almeno altrettante furono costrette a emigrare in Nord America.

La ferrovia

Quando l'Europa continentale cominciò a entrare stabilmente nel sistema produttivo industriale, era già iniziata la rivoluzione dei trasporti legata alla macchina a vapore. La prima nave a vapore fu costruita nel 1803 dallo statunitense Robert Fulton. Le prime locomotive furono realizzate in Gran Bretagna più o meno negli stessi anni: il tipo più perfezionato – quello costruito da George Stephenson nel 1813 – fu subito usato per il trasporto del carbone in una miniera. L'invenzione della locomotiva e l'affermazione delle ferrovie si possono considerare come una conseguenza diretta del grande sviluppo assunto dall'industria carbonifera. Fu l'esigenza di trasportare quantità sempre maggiori di carbone dalle miniere ai luoghi di imbarco, o direttamente alle industrie consumatrici, a suggerire l'idea di far viaggiare i vagoni contenitori su rotaie fisse di ghisa e di farli trainare da macchine a vapore mobili, le locomotive. Il risparmio che così si otteneva, rispetto al trasporto su carri a trazione animale attraverso strade spesso accidentate e sconnesse, era tale da incoraggiare gli investimenti assai elevati che erano necessari per la costruzione di vere e proprie linee ferroviarie su percorsi sempre più lunghi, da adibire anche al trasporto dei passeggeri.

La costruzione della rete ferroviaria

Fra il 1830 e il 1850 furono costruiti in Gran Bretagna 11 mila km di ferrovie, che già costituivano l'ossatura di un'efficiente rete nazionale. Anche gli altri paesi del vecchio continente e gli Stati Uniti cominciarono in questi anni a progettare e a costruire treni e strade ferrate, ma con ritmi più lenti e con risultati meno significativi: solo dopo la metà del secolo le ferrovie conobbero un vero e proprio boom su scala europea. Comunque, già negli anni '30 e '40, la locomotiva e la ferrovia divennero — per le velocità, all'epoca quasi incredibili, che consentivano di raggiungere e per lo sconvolgimento traumatico che introducevano nel paesaggio rurale — un evidente simbolo del progresso. E costituirono anche un potente fattore per il diffondersi dell'industrializzazione: infatti lo sviluppo delle ferrovie, oltre a offrire nuove possibilità di trasportare merci, stimolava direttamente la produzione delle industrie siderurgiche e meccaniche.

I nuovi centri industriali

Nonostante la presenza di molti fattori sfavorevoli — come la scarsezza dei capitali e la propensione agli investimenti terrieri e immobiliari — alcuni nuclei di industria moderna — soprattutto nel settore tessile, ma anche in quello meccanico — riuscirono ad affermarsi già nell'età della Restaurazione, ossia dopo il 1815. Ciò avvenne in alcune zone "privilegiate", favorite dalle ricchezze del sottosuolo, dalla disponibilità di energia idrica — che restava, accanto al vapore, la principale forza motrice nelle fabbriche — e da particolari caratteristiche geografiche — presenza di vie d'acqua navigabili, vicinanza ai mercati dei grandi centri urbani — ma anche dalla crescita di una borghesia imprenditoriale. La più vasta di queste zone si estendeva dalle coste della Manica alle Alpi svizzere e comprendeva il Belgio, alcuni distretti della Francia nord-orientale — la zona di Lille e Roubaix —, l'Alsazia francese e la Renania tedesca. Altri nuclei industriali si trovavano in Sassonia, in Slesia, in Boemia e nelle regioni di Parigi, Berlino e Vienna.

Il Belgio e la Francia

Proprio grazie ai suoi stretti rapporti con la Gran Bretagna, oltre che alla ricchezza dei suoi giacimenti carboniferi, il Belgio riuscì ad assicurarsi in questo periodo un indiscusso primato in campo industriale fra i paesi dell'Europa continentale. La Francia ebbe invece una crescita più lenta. Progressi importanti si ebbero nel settore laniero e cotoniero e anche in quello siderurgico e meccanico: il numero delle macchine a vapore fisse passò da meno di 1000 nel 1833 a quasi 4500 nel 1846. Ma, ancora nel 1850, la potenza complessiva delle macchine installate in Francia era di 5-6 volte inferiore a quella della Gran Bretagna. A impedire un decollo più rapido, e probabilmente più traumatico, era la stessa struttura della società rurale francese, caratterizzata dalla diffusione della piccola e media proprietà contadina, che teneva legati alla terra capitali e forza-lavoro, anziché "liberarli", com'era avvenuto in Gran Bretagna, e renderli disponibili per l'industria.

La Germania e l'Impero asburgico

In Germania l'avvio dell'industrializzazione fu ancora più difficile. A metà secolo, l'area tedesca era di parecchie lunghezze indietro rispetto alla Francia per numero di macchine a vapore e per volume della produzione di ferro e di carbone. Ancora più grave, poi, era il ritardo nel settore tessile. Però in questi anni furono poste alcune premesse fondamentali: il completamento di un'unione doganale tra i singoli Stati, la costruzione di una rete ferroviaria abbastanza estesa, lo sviluppo dell'istruzione superiore e l'affermarsi di una prestigiosa scuola scientifica, soprattutto nei campi dell'ingegneria e della chimica. Diversa fu l'evoluzione dell'Impero asburgico, dove pure esistevano alcuni promettenti nuclei di sviluppo industriale – in Austria e in Boemia – ed erano presenti alcune condizioni favorevoli: una amministrazione efficiente, una buona rete stradale, un discreto livello di istruzione.
Al di fuori dei paesi che abbiamo appena considerato – e di pochi isolati nuclei nell'Italia settentrionale, nella Spagna del Nord (Barcellona) e in Russia (la regione di Pietroburgo) – l'industria moderna era praticamente sconosciuta. I paesi dell'Europa orientale e di quella mediterranea mancarono l'appuntamento con la prima fase dell'industrializzazione. Alcuni di essi, come l'Italia e la Russia, avrebbero tentato, ispirandosi al modello tedesco, di rientrare nel gioco partendo dalle fasi successive. Ma le conseguenze del ritardo si sarebbero fatte sentire per molto tempo.

 

 

LE IDEE, I SISTEMI POLITICI
E I MOVIMENTI SOCIALI NELL'800

 

 

Il completamento dello Stato moderno

[ Introduzione audio ]

Durante gli anni del dominio napoleonico in Francia e nell'Europa continentale i poteri dello Stato, il sistema di governo e l'organizzazione amministrativa avevano raggiunto un livello elevato di efficienza: con la scomparsa dei privilegi della Chiesa e dei ceti nobiliari, con la codificazione delle norme giuridiche, con il rafforzamento dell'amministrazione, lo Stato ottenne allora in modo definitivo quel monopolio della forza legittima che costituiva la sua principale attribuzione.
Era il compimento di un processo plurisecolare di accentramento del quale si possono ricordare alcuni passaggi particolarmente significativi. Gli intendenti francesi del '600 con funzioni di controllo del prelievo fiscale, le varie forme di codificazione giuridica in Prussia e nei domini asburgici, infine i prefetti napoleonici dagli estesi poteri sulla società e sui ceti dirigenti locali: sono altrettante tappe della costruzione dello Stato moderno nell'Europa continentale.
In Gran Bretagna, invece, l'itinerario fu diverso per l'assenza di una burocrazia tendenzialmente stabile e di forme di codificazione sistematica. Furono invece le élites espressione dell'aristocrazia, della gentry – la piccola nobiltà di provincia – e della nascente borghesia a governare il paese in virtù dei collaudati meccanismi di patronage.

Lo stato burocratico-amministrativo

Al di fuori della Gran Bretagna, lo Stato moderno assunse la forma dello Stato burocratico-amministrativo, emancipato da quel controllo della nobiltà e delle assemblee dei ceti che aveva rallentato la prima affermazione dell'assolutismo. I poteri tradizionali vennero sostituiti da un sistema di potere legale, fondato su norme di legge, mentre il rispetto e l'applicazione delle norme erano garantiti dalla burocrazia amministrativa. L'amministrazione e il suo personale dirigente, la burocrazia, rappresentavano le ossa e i muscoli dell'organismo statale. Il funzionario statale aveva in genere una formazione giuridica e il suo reclutamento, inizialmente soggetto alla discrezionalità del potere politico, sarà sempre più regolato da verifiche obiettive come i pubblici concorsi.
In alcuni paesi, prima di ogni altro in Francia e successivamente in Prussia, scuole superiori tecniche e militari formavano specialisti nel campo delle costruzioni stradali, dell'ingegneria edilizia e dell'artiglieria, la più "matematica" delle armi. L'amministrazione pubblica si dotava quindi di un personale tecnico, che si aggiungeva a quello di formazione giuridica, e che avrebbe accompagnato le nuove sfide nell'epoca dell'industrializzazione.
A partire dal periodo napoleonico, fu la Francia a porsi all'avanguardia nelle applicazioni della statistica, la nuova scienza al servizio dello Stato. Nel corso dell'800 tutti gli Stati si dotarono di un'organizzazione di statistica la cui principale attività sarà quella legata ai censimenti effettuati con uniformi criteri scientifici, a partire da quello belga del 1846.

L'amministrazione, un potere neutrale?

L'ampliamento dei poteri e la tendenziale autonomia dell'amministrazione contribuirono ben presto a innescare momenti di conflittualità con la nuova classe politica rappresentativa. L'espansione dello Stato burocratico-amministrativo nell'800, infatti, coincise con il progressivo affermarsi delle istituzioni rappresentative e con la nascita dei partiti politici.
In questa fase l'amministrazione non si configurò sempre come un potere neutrale, al di sopra delle parti: fu invece il braccio più efficace dei vari sistemi di governo.

Da sudditi a cittadini

Al momento culminante della costruzione dello Stato moderno, dunque, corrispose la fase d'avvio dei primi sistemi politici rappresentativi fondati sulla parità dei diritti civili e politici e su un parlamento elettivo.
La Rivoluzione francese aveva trasformato i sudditi in cittadini. E questo processo, esteso gradatamente al resto dell'Europa continentale sotto la spinta delle armate napoleoniche, non sarebbe stato più arrestabile.
La sovranità non apparteneva più al solo principe ma, insieme, al popolo e ai suoi rappresentanti: questo era il carattere della monarchia costituzionale rappresentativa.
Nei regimi repubblicani la sovranità apparterrà invece interamente al popolo e ai suoi rappresentanti.

Lo Stato di diritto e lo sviluppo dei sistemi politici

Lo sviluppo dei sistemi politici era strettamente legato all'esistenza di una costituzione. Quest'ultima, analogamente a quanto era accaduto con la Rivoluzione americana e con la Rivoluzione francese, definisce il nuovo patto che regge una comunità e fonda lo Stato come insieme di ordinamenti giuridici e politici.
L'ordinamento politico retto da una legge fondamentale come la costituzione, basato sul principio della separazione dei poteri – esecutivo, legislativo, giudiziario – e sulla superiorità della legge su ogni forma di privilegio e di arbitrio, si definisce come Stato di diritto.
Lo sviluppo dei sistemi politici rappresentativi nell'800 si caratterizzò in Europa per la presenza di due diverse forme di governo: il governo costituzionale, in genere nelle monarchie costituzionali, in cui il capo dell'esecutivo – primo ministro o presidente del Consiglio dei ministri – era responsabile solo di fronte al sovrano che lo aveva nominato, e il governo parlamentare, in cui invece l'esecutivo rispondeva al Parlamento che gli aveva concesso la fiducia.
Queste due forme di governo si alternarono in Europa: l'affermarsi del governo parlamentare fu determinato più da una prassi politica e da una consuetudine – come in Gran Bretagna nel '700 e in Italia dopo l'unità – che da una norma scritta.
Egualmente significativo fu, nello stesso arco di tempo, il contrasto sui sistemi elettorali. Si confrontarono su questo tema il principio liberale, sostenitore di un suffragio ristretto legato al censo e al livello culturale di una circoscritta élite sociale, e il principio democratico, fautore del suffragio universale maschile.
Del resto non fu questo il solo terreno su cui liberalismo e democrazia si scontrarono: fu anzi proprio l'antagonismo fra liberali e democratici – che invece oggi associamo nel modello liberai-democratico – a caratterizzare la lotta politica per gran parte dell'800.

 

Il Romanticismo

 [ Introduzione audio ]

Le origini e la diffusione

Nei primi decenni dell'800 si affermò e si diffuse in tutta Europa la cultura romantica. Essa si contrapponeva al razionalismo settecentesco, mostrando un carattere antilluminista e anticlassicista: per un verso, infatti, il Romanticismo esaltava la spontaneità dei sentimenti e degli stati emotivi, come pure la libera creatività individuale, per l'altro rifiutava la compostezza e l'equilibrio formale del mondo classico. Inoltre, nell'alveo della cultura romantica assunsero particolare peso i valori della tradizione e della nazione.
I romantici cercarono nella storia la fonte di una nuova e più profonda razionalità vedendo in tutte le epoche storiche – comprese quelle fin allora ritenute «oscure» o barbariche, come il Medioevo – l'espressione di uno spirito universale o la manifestazione di un disegno divino.
Come corrente letteraria, artistica e filosofica, il Romanticismo era nato in Germania negli ultimi decenni del '700. Aveva avuto i suoi primi assertori nel filosofo Herder e il suo nucleo originario in quel gruppo di poeti e drammaturghi – fra gli altri, lo stesso Herder, Goethe e Schiller – che diedero vita, attorno al 1780, al movimento detto Sturm und Drang ('tempesta e impeto').
Una più organica sistemazione teorica venne, negli anni tra la fine del '700 e l'inizio dell'800, con la grande filosofia idealista di Fichte e Schelling. Romanticismo e idealismo fornirono allora la base culturale a quel movimento di riscoperta della nazione e di riscossa patriottica che coinvolse buona parte degli intellettuali tedeschi, sull'onda delle lotte contro il dominio napoleonico.
In quegli stessi anni a cavallo fra i due secoli, il Romanticismo si affermò in Gran Bretagna – con la lirica di Coleridge e col romanzo storico di Walter Scott – e cominciò a diffondersi anche in Francia, già patria dell'Illuminismo, nella versione cattolica e tradizionalista di Chateaubriand. Un contributo decisivo all'affermazione delle nuove tendenze anche nei paesi latini lo diede Madame de Staël, brillante scrittrice ginevrina, col libro De l'Allemagne (Sulla Germania), uscito nel 1810, che descriveva ed esaltava le esperienze intellettuali fiorite in Germania negli ultimi decenni.
Fu soprattutto attraverso le discussioni suscitate da questo libro che la cultura romantica penetrò in Italia, dove trovò sostenitori entusiasti negli intellettuali lombardi della rivista «Il Conciliatore».
A partire dal 1815, il Romanticismo si diffuse un po' ovunque, fino a costituire il quadro di riferimento comune a tutte le più importanti espressioni della cultura europea della prima metà dell'800: dalla poesia al romanzo, dalla musica sinfonica al melodramma, dalla storiografia alla filosofia, dalla pittura all'architettura.

La cultura che dominò un'epoca

L'influenza del Romanticismo si estese ben oltre il mondo delle lettere e delle arti. Quella romantica fu una cultura nel senso più ampio del termine: fu una mentalità diffusa, un fenomeno di costume che investi in modo decisivo il modo di pensare, di agire e di apparire della minoranza colta, in particolare dei giovani intellettuali.
Per le generazioni formatesi fra la fine del '700 e l'inizio dell'800 – e in larga misura anche per quelle successive – il Romanticismo fu anche uno stile di vita, un modo di atteggiarsi. Muoversi, vestirsi, declamare (persino cercare il suicidio per amore) come il giovane Werther, protagonista del celebre romanzo di Goethe, oppure imitare in ogni sua forma quel singolare impasto di slanci eroici e di indolenza scettica e malinconica che si incarnava nella figura del poeta inglese George Byron appariva ai giovani inquieti come una prova della propria superiore sensibilità.
Una sensibilità che si esprimeva anche nell'attenzione ai dettagli esteriori, considerati come spie di qualcosa di più profondo: un certo accostamento di colori, un certo modo di incedere, di gestire o di indossare un abito (l'età romantica coincise con un'autentica rivoluzione nell'abbigliamento maschile, con l'abbandono delle parrucche settecentesche e dei pantaloni al ginocchio) diventavano segni di riconoscimento e connotati di un nuovo modo di sentire. Persino la malattia fisica poteva essere idealizzata in quanto contrassegno di una personalità pura, non contaminata dalle convenzioni e dalle ipocrisie della società.

Romanticismo, correnti di pensiero, movimenti politici

Cultura dominante di un'intera epoca, il Romanticismo non si identificò con una determinata tendenza ideologica, ma contagiò quasi tutte le correnti di pensiero e tutti i principali movimenti politici operanti all'inizio dell'800. Romantici e reazionari, romantici e liberali, romantici e democratici: tutte le combinazioni e gli intrecci erano possibili e praticati.
Certo, nella cultura romantica c'erano molti elementi che si prestavano a essere fatti propri dai fautori del ritorno al passato.
La critica al razionalismo illuminista dei giacobini e alla sua pretesa di rifondare la società senza tener conto delle tradizioni storiche e delle peculiarità nazionali – critica già presente negli scritti di liberali moderati come Edmund Burke, britannico di origine irlandese, o l'italiano Vincenzo Cuoco – fu una costante di tutta la polemica antirivoluzionaria dell'epoca.
Il richiamo alla storia e alla tradizione si trasformò non di rado nella pura e semplice nostalgia del passato e nel tentativo di riportarne in vita questo o quell'aspetto. La riscoperta della dimensione religiosa divenne spesso ritorno alle religioni positive, in particolare al cattolicesimo con le sue gerarchie e i suoi culti tradizionali.
Se molti intellettuali vissero l'esperienza romantica come un ritorno al passato, alla tradizione, all'autorità, molti altri vi trovarono le premesse per scelte di tutt'altro genere. Romanticismo significava anche libertà, rottura di norme consolidate, affermazione dell'individuo contro le convenzioni: gli stessi valori che ispiravano le battaglie dei liberali, dei democratici e di quanti si opponevano alla Restaurazione.
Per limitarci al caso della Francia, si deve ricordare che fra i primi assertori del credo romantico vi erano, accanto al cattolico e legittimista Chateaubriand, personaggi di orientamento liberale come Madame de Staël, lo scrittore Benjamin Constant e lo storico Simonde de Sismondi; e che anche in seguito si sarebbero richiamati al Romanticismo molti intellettuali impegnati nelle lotte per il liberalismo e la democrazia.

 

Nazione e nazionalismi

[ Introduzione audio ]

L'idea di nazione

Strettamente legato alla cultura romantica fu l'affermarsi dell'idea di nazione.
Sino alla fine del '700, il concetto di nazione aveva infatti un contenuto generico e dei confini incerti e soprattutto non svolgeva un ruolo centrale nella cultura politica e nel sentire comune. Il senso di appartenenza a una nazione veniva, per importanza, dopo l'affiliazione a una confessione religiosa e dopo l'identificazione con una comunità locale o regionale: si era prima cristiani, poi lombardi (o bretoni o tirolesi), e solo in terzo luogo italiani (o francesi o tedeschi).
Il principio che lo Stato dovesse coincidere con una nazione era poi sostanzialmente estraneo alla cultura dell'ancien régime, anche se Stati a base nazionale, come la Francia, la Spagna, la Gran Bretagna, si erano costituiti già in età medievale.
L'idea moderna di nazione nacque con Rousseau e con la sua concezione dello Stato come espressione di un popolo, di una comunità di cittadini, di un «corpo morale e collettivo» capace di esprimere una volontà comune: concezione che la Rivoluzione francese avrebbe per la prima volta cercato di tradurre in realtà e che le guerre napoleoniche avrebbero diffuso in tutta Europa determinando un doppio processo di imitazione e di reazione.
Ma fu soprattutto la cultura romantica tedesca del '700-800 a scoprire la nazione, a esaltarla in quanto comunità «naturale» – unita da legami indissolubili di lingua, di cultura e di sangue – e a vedere in essa il fondamento di ogni organizzazione sociale e politica.
Le due componenti che stavano alla base dell'idea di nazione – quella democratica di origine rousseauiana e quella naturalistica dei romantici tedeschi – erano molto diverse fra loro e furono alla base di tradizioni profondamente distinte.

Il nazionalismo conservatore

In Germania, il movimento nazionale cresciuto negli anni delle guerre napoleoniche assunse spesso un carattere esclusivista e conservatore. Un carattere ben visibile, per esempio, nei celebri Discorsi alla nazione tedesca (1807- 8) del filosofo Johann Gottlieb Fichte – in cui si proclamava la superiorità intellettuale e morale dei tedeschi sugli altri popoli e si delineava il progetto di uno Stato nazionale dai tratti fortemente autoritari –, o nelle stesse opere del grande filosofo Friedrich Hegel, che concepiva lo Stato come un'entità organica e gerarchica, espressione degli interessi generali della società al di là e al di sopra dei diritti individuali.
Anche in altri paesi, particolarmente in quelli che avevano alle spalle una lunga storia unitaria, l'idea di nazione poteva esprimersi in forme tradizionaliste o reazionarie: nella stessa Francia, accanto al nazionalismo democratico, erede della Rivoluzione, ne esisteva uno cattolico e legittimista (che rivendicava la "legittimità" del potere dinastico dei sovrani spodestati in seguito alla Rivoluzione.

Il nazionalismo democratico

In realtà, soprattutto nei movimenti nazionali di quei paesi in cui l'indipendenza andava conquistata o riconquistata – la Polonia, la Grecia, l'Ungheria e l'Italia –, il sentimento patriottico assumeva quasi automaticamente una connotazione rivoluzionaria, tendeva a collegarsi con le ideologie liberali e democratiche e acquistava spesso un respiro sovranazionale. Tanto che nella storia delle rivoluzioni ottocentesche si incontra spesso la figura del patriota che combatte per la libertà di altri popoli.
La stessa distinzione fra i due principali filoni dell'idea nazionale finiva con l'annullarsi nel pensiero e nell'opera dei grandi interpreti ottocenteschi della nazionalità – il polacco Adam Mickiewicz, l'ungherese Lajos Kossuth, e soprattutto l'italiano Giuseppe Mazzini –, che coniugavano la fede nella democrazia col richiamo alle tradizioni nazionali e con la concezione, tutta romantica, della nazione come comunità di sangue e di cultura.
Quasi tutti i paesi europei coltivarono e talora inventarono una propria idea di nazione, coniugandola con l'idea di un primato nazionale particolare – talora una vera e propria missione – destinato a confrontarsi e ad affermarsi sugli altri popoli. Questo elemento contribuirà agli aspri conflitti nazionalistici di fine '800.

 

Le grandi ideologie dell'800: liberalismo e democrazia

[ Introduzione audio ]

Le differenze tra liberalismo e democrazia

C'è da chiedersi in che cosa differissero liberalismo e democrazia.
Il liberalismo era fondato sull'idea di libertà quale si era venuta definendo nella cultura illuministica – che si rifaceva a Locke e Montesquieu – e nelle concrete esperienze politiche e costituzionali del '600-700: il parlamentarismo britannico, la Rivoluzione americana, il 1789 francese.
I suoi fondamenti – la tolleranza e la libertà di opinione, il principio rappresentativo e la divisione dei poteri, la difesa dell'individuo contro gli abusi dell'autorità – coincidevano per gran parte con i valori e gli interessi materiali della borghesia, ma anche con quelli di ampi settori della nobiltà aperta alle nuove concezioni intellettuali e allo sviluppo delle attività produttive. I privilegi di ceto e le monarchie assolute stavano evidentemente agli antipodi del liberalismo.
Il modello istituzionale del liberalismo europeo si ispirava a quello britannico. Un regime in cui i diritti fondamentali del cittadino – libertà di pensiero, di stampa, di associazione – fossero rispettati, in cui la proprietà, l'iniziativa privata e il libero commercio fossero tutelati e incoraggiati, in cui l'autorità del potere centrale fosse limitata e controllata da organismi rappresentativi espressi da una élite più o meno ristretta di cittadini: coloro che, per posizione sociale, per ricchezza o per istruzione, si supponeva fossero i soli realmente interessati al buon andamento della cosa pubblica.
In questo senso il pensiero liberale si distaccava nettamente da quello democratico, che ne rappresentava per molti aspetti uno sviluppo.
La democrazia aveva come cardine l'idea di sovranità popolare, intesa come governo di tutto il popolo, e che si riallacciava al pensiero di Rousseau e all'esperienza della Rivoluzione francese. Per i democratici la forma di governo ideale era la repubblica e il canale legittimo di espressione della volontà popolare era l'assemblea eletta a suffragio universale maschile.
Mentre i liberali si preoccupavano soprattutto di costituire meccanismi giuridici e istituzionali atti a garantire i diritti individuali, e dunque a limitare i pericoli insiti in qualsiasi forma di esercizio del potere, i democratici, legati per lo più a una visione utopistica, insistevano sulla libertà «in positivo» e vedevano nella politica il mezzo per l'attuazione del «bene comune».
In parte coincidente ma per molti aspetti diversa era la base sociale dei democratici: ai borghesi, nelle varie gradazioni di reddito e di cultura, si aggiungevano ceti artigianali e anche popolari alfabetizzati e/o dotati di una cultura di base.

Gli obiettivi comuni

La linea divisoria fra liberali e democratici, molto netta sul piano teorico, era però assai più sfumata nella pratica della lotta contro i regimi assolutisti.
La costituzione, il parlamento elettivo, la garanzia delle libertà fondamentali erano obiettivi validi per gli uni come per gli altri.
Questi obiettivi – che si possono genericamente definire "liberali" – costituirono il programma minimo e il terreno comune di lotta per tutte le forze politiche che si battevano contro quanti intendevano restaurare l'antico regime sconfitto dalla Rivoluzione francese e da Napoleone.

John Stuart Mill

Il rapporto fra liberalismo e democrazia fu al centro della riflessione di due fra i pensatori politici più importanti e originali del loro secolo: l'inglese John Stuart Mill e il francese Alexis de Tocqueville.
Economista, filosofo e politico impegnato, Mill partì dalle premesse teoriche comuni al liberalismo inglese del primo '800 ma, nelle sue opere politiche più importanti, uscite negli anni attorno alla metà del secolo, contestò l'ottimismo implicito nelle tesi liberiste, sostenne la necessità di un intervento dei pubblici poteri per risolvere i problemi delle classi più disagiate, si batté per tutte le riforme politiche e sociali (ampliamento del suffragio esteso anche alle donne, libertà sindacale, istruzione obbligatoria, tasse sulla proprietà fondiaria) che consentissero una più equa distribuzione della ricchezza e una più ampia partecipazione popolare al governo della cosa pubblica.

Alexis de Tocqueville

Diversamente da Mill, Alexis de Tocqueville non fu un teorico della politica in senso stretto, né un riformatore impegnato sul terreno sociale. Fu piuttosto un attentissimo osservatore della realtà del suo tempo e un lucido indagatore di alcune tendenze di fondo della società moderna.
La sua opera più celebre, La democrazia in America – uscita fra il 1835 e il 1840 e ispiratagli da un viaggio negli Stati Uniti – contiene, oltre che una vivace descrizione della società nordamericana, una acuta riflessione sulla democrazia, considerata come il frutto di un processo inarrestabile.
Per Tocqueville, aristocratico di orientamento liberai-moderato, il prevalere delle tendenze democratiche ed egualitarie rischiava però di risolversi in un appiattimento delle diversità, in una distruzione delle autonomie della società civile, ponendo le premesse per nuove forme di autoritarismo. A questi pericoli, segnalati anche da Mill, non si poteva reagire, a suo avviso, bloccando lo sviluppo della democrazia, impresa del resto impossibile, ma incanalandola negli istituti del pluralismo liberale: separazione dei poteri, libertà di stampa, autonomie locali.

 

Il cattolicesimo liberale e il cattolicesimo sociale

[ Introduzione audio ]

La chiusura della Chiesa nell'età delle rivoluzioni

Di fronte ai grandi rivolgimenti politici e ideologici dall'Illuminismo in poi, la Chiesa cattolica e il cattolicesimo reagirono sia sul piano teorico che su quello organizzativo.
Ma ci vorrà ben più di un secolo perché la più grande organizzazione del cristianesimo cominciasse a venire a patti col mondo moderno. Agli inizi buona parte del mondo cattolico si attestò su posizioni di radicale rottura con la tradizione illuminista e con gli ideali liberali e democratici, dando vita, in alcuni casi, a vere e proprie utopie reazionarie: come quella a sfondo teocratico del savoiardo Joseph de Maistre, sostenitore di un assolutismo monarchico fondato sul diritto divino dei re. De Maistre giunse a invocare, in una celebre opera del 1819 intitolata Du Pape (Sul Papa), la sottomissione dei sovrani all'autorità suprema del pontefice di Roma.

Il progressismo dei cattolici liberali

Non mancavano nemmeno allora tuttavia cattolici schierati su posizioni progressiste o addirittura rivoluzionarie: in realtà le prime formulazioni di un cattolicesimo liberale, che sosteneva la possibilità e l'opportunità di affermare i valori della religione nel quadro delle libertà costituzionali, si ebbero in Francia nei tardi anni '20, a opera di un gruppo di intellettuali raccolti attorno all'abate Félicité de Lamennais, protagonista di una singolare evoluzione che lo avrebbe fatto schierare su posizioni democratiche.
Nel 1830 Lamennais fondò una rivista intitolata «L'Avenir» («L'Avvenire»), che si proponeva di suscitare un moto di riforma all'interno della Chiesa per indurla ad abbandonare i progetti teocratici.
Intanto il cattolicesimo liberale si era diffuso in altri paesi europei: soprattutto in Belgio – dove l'alleanza fra liberali e cattolici fu una delle chiavi del successo della lotta per l'indipendenza – ma anche in Italia, in Germania e in Irlanda. Il programma dei cattolici liberali era generalmente improntato a notevole moderazione.
Il loro principale obiettivo era quello di salvare la Chiesa dai pericoli derivanti da una troppo stretta identificazione con il passato prerivoluzionario. Il loro laicismo non si spingeva al punto di invocare la separazione fra Chiesa e Stato, teorizzata invece da ampi settori del mondo protestante.
Per i cattolici liberali lo Stato doveva non solo rispettare i diritti della Chiesa, ma anche mantenere un carattere cristiano alla sua legislazione (in materia, per esempio, di matrimonio e di istruzione), pur assicurando piena libertà alle altre confessioni religiose.
Queste idee, per quanto moderate, non potevano però essere accettate dai vertici ecclesiastici: in un'epoca caratterizzata da grandi mutamenti sociali e dalla crescente diffusione delle ideologie laiche, la Chiesa cattolica era infatti preoccupata soprattutto di riaffermare la sua autorità e il suo magistero sulle masse popolari, in particolare su quelle contadine.

Il cattolicesimo sociale

Una parte dei cattolici liberali preferì trasferire il proprio impegno sul terreno sociale: un impegno per certi aspetti nuovo – e reso attuale dall'esplodere della questione operaia – ma per altri versi in linea con la tradizione caritativa della Chiesa cattolica e, comunque, tale da evitare problemi di ordine dottrinario o teologico.
Pioniere di questa nuova forma di impegno fu ancora una volta un francese, Frédéric Antoine Ozanam, fondatore nel 1833 della Società di San Vincenzo de' Paoli che riuniva, con fini assistenziali e caritativi, numerosi esponenti dell'aristocrazia e dell'alta borghesia.
Richiamando le classi agiate ai doveri della solidarietà, ma incoraggiando anche la formazione di associazioni di mestiere sul modello delle corporazioni medievali, Ozanam inaugurò una corrente – quella del cattolicesimo sociale – destinata a notevoli sviluppi in molti paesi cattolici nella seconda metà dell'800.

 

Il socialismo

[ Introduzione audio ]

Il socialismo utopistico

La diffusione in Europa delle ideologie socialiste rappresentò una risposta al diffondersi dell'industrializzazione, alla crescita del proletariato e alle nuove dimensioni assunte dalla questione sociale.
Il nucleo centrale del pensiero socialista consisteva nella convinzione che, per superare i mali e le ingiustizie del capitalismo industriale (in particolare quelli inerenti alla condizione operaia), non era sufficiente la pratica delle riforme dall'alto né tantomeno il ricorso alla carità e alle iniziative filantropiche. Era invece necessario colpire alla radice i principi informatori della società capitalistico-borghese – l'individualismo, la concorrenza, il profitto – e sostituirli con i valori della solidarietà e dell'uguaglianza: costruire insomma una società completamente nuova, non solo nelle istituzioni politiche, ma anche e soprattutto nelle strutture economiche.
Per questa sua carica utopica, il pensiero socialista del primo '800 si collegava a progetti ed esperienze maturati nell'ambito della società preindustriale, in particolare alle correnti radicali ed egualitarie che si erano manifestate nel corso della prima Rivoluzione inglese e della Rivoluzione francese, in parte confluite nelle società segrete del periodo successivo.
Rispetto a tali esperienze il socialismo ottocentesco si distingueva proprio per il suo costante riferirsi alla nuova realtà dell'industrializzazione.
Questo legame con i problemi della rivoluzione industriale è particolarmente evidente nell'esperienza dei due principali antesignani del socialismo moderno: il gallese Robert Owen e il francese Claude-Henri de Saint-Simon.
Imbevuto di ideali illuministi e umanitari, l'industriale cotoniero Robert Owen tentò dapprima (1800-25) di mettere in pratica le proprie idee nel suo stabilimento modello di New Lanark, in Scozia, poi si dedicò prevalentemente alla formazione delle prime organizzazioni operaie, le Trade Unions, cercando di promuoverne l'unificazione a livello nazionale. In una fase successiva, si fece promotore e organizzatore di cooperative di consumo fra i lavoratori, dando vita a un movimento che avrebbe conosciuto notevoli sviluppi soprattutto a partire dagli anni '50.
Per queste sue iniziative nel campo dell'associazionismo, Owen ebbe un ruolo di fondamentale importanza nella storia del movimento operaio inglese e mondiale.
Completamente diversa fu l'esperienza intellettuale di Saint-Simon. Aristocratico formatosi nell'ancien régime (era nato nel 1760), Saint-Simon fu uno dei primi a capire la novità dell'industrialismo e a esaltarne le potenzialità di progresso. Negli ultimi anni della sua vita; fra il 1820 e il 1825, teorizzò l'avvento di una nuova società governata dai tecnici (personale altamente specializzato nelle diverse discipline) e dai produttori – espressione con cui erano accomunati industriali e operai – nell'interesse dell'intera collettività.
Le teorie di Saint-Simon, che non si possono definire socialiste in senso stretto, furono sviluppate dai suoi numerosi seguaci in direzioni diverse e contrastanti. Alcuni ne colsero gli aspetti capitalistici e tecnocratici e si impegnarono nelle attività bancarie e affaristiche. Altri le interpretarono in senso socialistico e – riferendosi soprattutto all'ultima opera di Saint-Simon, intitolata Il nuovo cristianesimo – cercarono di fondare su di esse una vera e propria religione laica.
In questa seconda versione, il sansimonismo esercitò una notevole influenza sul pensiero socialista successivo, ma anche su alcuni settori della sinistra democratica, come per esempio i mazziniani in Italia.

Gli sviluppi teorici in Francia

Fu nella Francia degli anni '30 e '40 dell'800 che il socialismo conobbe i suoi più ampi sviluppi teorici: anche se, in assenza di un movimento operaio già organizzato come quello che stava crescendo in Gran Bretagna, questi sviluppi assunsero o una connotazione utopistica o una declinazione marcatamente rivoluzionaria.
Auguste Blanqui (1805-1881) fu instancabile organizzatore di trame rivoluzionarie per oltre un quarantennio. Blanqui si dedicò non tanto a descrivere la futura società socialista, quanto a studiare i mezzi per abbattere il sistema borghese tramite l'insurrezione che avrebbe consegnato il potere nelle mani del popolo: fu lui a elaborare per primo il concetto di dittatura del proletariato, che sarebbe poi stato ripreso da Karl Marx e Friedrich Engels. Blanqui si definiva comunista.
Un altro francese, Louis Blanc (1811-1882), può essere considerato sotto molti aspetti il capostipite del socialismo riformista. Blanc era infatti convinto che la soluzione dei mali del capitalismo poteva venire solo da un intervento dello Stato come regolatore, e al limite come gestore in proprio, dei processi produttivi.
Il primo e più importante intervento doveva consistere nella creazione di ateliers sociaux ('officine sociali') che avrebbero avuto il doppio scopo di combattere la disoccupazione e di soppiantare progressivamente le imprese private.
Un posto a parte nel panorama del primo socialismo francese è occupato infine da Pierre-Joseph Proudhon, che divenne celebre nel 1840 per un saggio intitolato Che cos'è la proprietà?; la risposta, provocatoria, era: «la proprietà è un furto». Successivamente Proudhon sviluppò il suo pensiero in direzione di un cooperativismo a sfondo anarchico più che socialista destinato a esercitare una forte influenza su strati consistenti del movimento operaio europeo.
In particolare le idee proudhoniane influenzarono in modo significativo le elaborazioni dei primi teorici socialisti italiani, soprattutto Carlo Pisacane e Giuseppe Ferrari.

 

Marx ed Engels

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Il socialismo tedesco

Negli anni '30 e '40, le idee socialiste conobbero una certa diffusione anche in Germania, dove trovarono sostenitori non tanto nell'ancora scarso proletariato industriale locale, quanto fra le comunità abbastanza numerose di lavoratori tedeschi che operavano in Belgio, in Gran Bretagna e soprattutto in Francia.
Nel 1847 uno di questi gruppi, la Lega dei comunisti, affidò l'incarico di stendere il suo manifesto programmatico a due intellettuali non ancora trentenni: Karl Marx e Friedrich Engels. Engels, nato nel 1820, era figlio di un ricco industriale, aveva soggiornato a lungo in Gran Bretagna, aveva studiato le opere degli economisti «classici» ed era noto soprattutto come autore di un saggio sulle Condizioni della classe operaia in Inghilterra, uscito nel 1845.
Marx, più anziano di due anni, aveva una formazione essenzialmente filosofica ma era insoddisfatto di un'attività puramente speculativa: era convinto che compito degli intellettuali fosse non tanto «interpretare il mondo», come fino allora avevano fatto i filosofi, quanto «cambiarlo».

Il Manifesto del Partito comunista

Nel Manifesto del Partito comunista, uscito a Londra in lingua tedesca all'inizio del 1848, Marx ed Engels si fecero assertori di un nuovo socialismo – da loro definito scientifico in contrapposizione a quello utopistico – che univa una fortissima carica rivoluzionaria a un solido fondamento economico e filosofico.
Il nucleo fondamentale del «socialismo scientifico» sta in una concezione materialistica e dialettica della storia, vista essenzialmente come un susseguirsi di lotte di classe, di scontri fra interessi economici. I rapporti economici costituiscono, per gli autori del Manifesto, la base portante, la «struttura» di ogni società. Le ideologie e le istituzioni politiche, a cominciare dallo Stato, sono solo «sovrastrutture» che servono a organizzare e a legittimare il dominio di una classe sulle altre.
Anche i regimi liberali e democratici sono l'espressione di un dominio di classe, quello della borghesia giunta alla fase matura della sua ascesa rivoluzionaria. Infatti, dando vita al capitalismo industriale, la borghesia ha accresciuto enormemente le capacità produttive dell'umanità e ha abbattuto le disuguaglianze giuridiche della società feudale.
Ma, al tempo stesso, ha suscitato contraddizioni che non riesce più a risolvere e ha prodotto il suo antagonista storico, il nuovo soggetto sociale destinato a soppiantarla: il proletariato. È infatti la logica stessa del sistema capitalistico-industriale che fa crescere continuamente il numero dei proletari e, contemporaneamente, li riduce a una massa indifferenziata, dequalificata, e fatalmente destinata a diventare sempre più misera e pronta alla rivoluzione.

La rivoluzione proletaria

Secondo Marx ed Engels, ribellandosi al sistema capitalistico, il proletariato non ha da perdere nulla «se non le proprie catene»: è dunque una classe naturalmente rivoluzionaria, in quanto rappresenta, al contrario della borghesia, gli interessi dell'enorme maggioranza della popolazione.
Per far valere i suoi interessi, il proletariato deve organizzarsi non solo all'interno dei singoli Stati, ma anche su scala sovranazionale, rifiutando la logica dei nazionalismi: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!» è il celebre appello con cui si conclude il Manifesto.
Una volta organizzata, la classe operaia profitterà dell'inevitabile crisi del capitalismo – che colpirà per primi i paesi più industrializzati – e assumerà il potere. In una prima fase, questo potere prenderà le forme della dittatura, necessaria per contrastare i prevedibili tentativi di reazione della borghesia e per assicurare il passaggio alla vera società comunista: la società senza privilegi, senza classi, senza proprietà privata e senza Stato, in cui le enormi potenzialità produttive di cui la tecnica umana è capace saranno messe al servizio dell'intera collettività.
Queste proposte e queste indicazioni non trovarono un seguito ampio e immediato in un movimento operaio europeo che era ancora disorganizzato e frammentato: mantennero quindi un inevitabile carattere utopistico seppure sostenuto dalla forza argomentativa derivante dalla filosofia dialettica tedesca.
Le rivoluzioni del 1848 – scoppiate in coincidenza con l'uscita del Manifesto – se da un lato avrebbero portato in primo piano, soprattutto in Francia, le istanze di una classe operaia sempre meno disposta a subordinare i suoi obiettivi a quelli della borghesia, dall'altro avrebbero rivelato quanto questa classe operaia fosse debole e isolata e quanto la stessa borghesia fosse ancora lontana dall'aver compiutamente realizzato i suoi progetti politici.

 

La questione operaia

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Borghesi e proletari

Lo sviluppo e la diffusione dell'industria moderna provocarono in tutti i paesi coinvolti in questo processo profonde trasformazioni anche nella struttura sociale.
Al concetto di ceto, legato alla posizione occupata per nascita o al godimento di particolari diritti, si venne sostituendo quello di classe, definito soprattutto in rapporto al ruolo svolto nel processo produttivo in una società che, almeno dal punto di vista formale, tendeva ad assicurare l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
L'antagonismo fondamentale che si veniva profilando non era più quello fra l'aristocrazia e il popolo, ma quello fra il borghese, proprietario dei mezzi di produzione, e il proletario, lavoratore salariato, dotato soltanto della forza delle sue braccia e della sua capacità di riprodursi.

Il confronto sociale in Gran Bretagna

Nei paesi dell'Europa continentale questo dualismo, fino alla metà dell'800, aveva aspetti marginali. Imprenditori e salariati erano invece protagonisti del confronto sociale in Gran Bretagna. Qui la borghesia svolgeva, già negli anni '30 e '40, un ruolo politico di primo piano e una parte della stessa aristocrazia tendeva a farsi imprenditrice; lo sviluppo della grande fabbrica stava concentrando in alcune città industriali una massa operaia sempre più consistente e agguerrita.
Nel 1850, i lavoratori impiegati nelle manifatture e nelle fabbriche inglesi erano 3.250.000. Il solo settore tessile impiegava oltre un milione di operai.
Per la gran massa dei lavoratori dell'industria le condizioni di vita rimanevano estremamente difficili. E il fatto che il lavoro in fabbrica rappresentasse per molti un'alternativa alla fame o alla pubblica carità e che il livello medio delle retribuzioni nell'industria risultasse, nonostante tutto, superiore a quello dei lavoratori agricoli non toglieva nulla alla drammaticità di una condizione tanto dura da apparire inumana anche a molti osservatori contemporanei.

Le Trade Unions

Da questa realtà derivava da un lato l'impulso delle classi dirigenti a farsi carico in qualche misura – seppur in forme sostanzialmente paternalistiche – degli aspetti più gravi della questione operaia, dall'altro la spinta degli operai stessi ad associarsi fra loro e a ribellarsi alla propria condizione. Quest'ultima era una tendenza favorita dal lavoro in fabbrica e dal fatto di vivere a stretto, continuo contatto gli uni con gli altri.
I primi episodi di ribellione contro il sistema di fabbrica avevano assunto la forma del luddismo. Negli anni '20 gli operai inglesi, guidati per lo più da leader democratico-radicali, avevano cominciato a sperimentare forme di agitazione pacifica – manifestazioni, comizi, scioperi –, in cui le rivendicazioni economiche si mescolavano a quelle politiche, e avevano lottato per ottenere l'abrogazione di quelle leggi che – in Gran Bretagna come in altri paesi – dichiaravano illegali le associazioni fra i lavoratori e proibivano il ricorso allo sciopero.
Da queste lotte – in parte coronate da successo grazie alla legge del 1824 che legalizzava le associazioni operaie – nacquero le prime Trade Unions, nucleo originario di un movimento sindacale destinato a grandi sviluppi.
Nei paesi dell'Europa continentale, il processo di formazione del proletariato di fabbrica e di crescita delle organizzazioni operaie fu naturalmente molto più lento. In Francia e in Germania, attorno alla metà del secolo, gli occupati nell'industria erano circa un quarto della popolazione attiva – mentre già raggiungevano il 50% in Gran Bretagna. E in questa percentuale era compresa una quota consistente di addetti alle tradizionali attività artigiane.

La questione operaia

Tuttavia, anche nei paesi "secondi arrivati" sulla via dell'industrializzazione, la questione operaia si venne sempre più imponendo all'attenzione dell'opinione pubblica e delle classi dirigenti.
L'addensarsi di masse proletarie numerose e compatte in alcuni fra i maggiori centri urbani, soprattutto nelle capitali, suscitava ovunque diffuse preoccupazioni di ordine igienico-sanitario, crescenti timori per l'ordine pubblico, ma anche reazioni di tipo moralistico. Nelle periferie operaie dilagavano infatti l'alcolismo e la prostituzione, aumentavano le nascite illegittime, salivano gli indici della criminalità.
Si diffondeva fra i ceti urbani benestanti l'equazione fra classi lavoratrici e «classi pericolose». D'altro canto, cresceva il numero di coloro che individuavano nella classe operaia non solo la principale vittima di un ordine sociale ingiusto, ma anche la maggiore protagonista di un processo rivoluzionario destinato a dar vita a un nuovo assetto economico e politico.

 

 

RESTAURAZIONE E RIVOLUZIONE IN EUROPA

 

 

[ Introduzione audio ]

La Restaurazione e il nuovo assetto europeo

Dopo la definitiva sconfitta di Napoleone, le potenze europee si accordarono per la ricostituzione del vecchio ordine, infranto prima dall'ondata rivoluzionaria poi dalle conquiste delle armate francesi: iniziava l'età della Restaurazione.
Restaurazione in primo luogo dei sovrani spodestati, ma anche delle gerarchie sociali tradizionali, degli ordinamenti prerivoluzionari, dei modi di governare tipici dell'ancien régime.
Il progetto ottenne alcuni iniziali successi politici, ma ben presto mobilitazioni rivoluzionarie e indipendentiste avrebbero preso il sopravvento.

Un programma irrealizzabile

I cambiamenti intervenuti nelle istituzioni e le nuove spinte di una società in mutamento avrebbero dimostrato che si trattava di un progetto velleitario.
Impossibili da rimuovere erano i risultati ottenuti sul piano della certezza del diritto e dell'uguaglianza formale fra i cittadini, ma anche su quello dell'organizzazione burocratica e della razionalizzazione delle attività economiche.
Tutto ciò rispondeva alle aspirazioni e ai bisogni di una borghesia — della proprietà terriera e delle professioni, del commercio e dell'industria — che aveva acquisito una nuova consapevolezza del suo ruolo nella società.

Il congresso di Vienna

Il terreno su cui la volontà restauratrice si manifestò con maggior decisione e con risultati più evidenti fu certamente quello dei rapporti internazionali definiti dal congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815), il più affollato consesso di sovrani e governanti che mai si fosse visto in Europa.
Le decisioni più importanti, tuttavia, vennero prese tra i delegati delle quattro maggiori potenze vincitrici: Gran Bretagna, Russia, Prussia, Austria. Il ministro degli Esteri austriaco Metternich fu l'autentico regista dei lavori.
Ma in questo gruppo riuscì a inserirsi anche il rappresentante della Francia sconfitta, Talleyrand, già ministro degli Esteri negli anni della Rivoluzione e dell'Impero. Uomo di grande abilità, Talleyrand riuscì a far valere a vantaggio del suo paese il principio di legittimità: il principio, cioè, in base al quale dovevano essere anzitutto restaurati i diritti «legittimi» violati dalla Rivoluzione e, dunque, anche quelli dei Borbone di Francia.

L'Europa nel 1815

Il nuovo assetto europeo

Era del resto interesse delle stesse potenze vincitrici fare della Francia monarchica un pilastro del nuovo equilibrio conservatore piuttosto che rischiare, umiliandola, di creare il terreno propizio per nuovi esperimenti rivoluzionari. Per questo motivo la Francia non subì alcuna amputazione rispetto alle frontiere del 1791.
Il nuovo assetto territoriale fu realizzato senza il minimo riguardo per i principi di nazionalità, ma comportò ugualmente una certa razionalizzazione della geografia politica europea in relazione ai rapporti di forza che si erano consolidati nelle guerre antinapoleoniche.
Fu confermata l'abolizione del Sacro romano impero, che era stato cancellato da Napoleone nel 1806, mentre i mutamenti più importanti rispetto alla situazione prerivoluzionaria si verificarono nel Centro e nel Nord dell'Europa.
La Russia si espanse verso occidente, occupando la Finlandia e buona parte della Polonia.
Anche la Prussia si ingrandì a ovest, annettendo una serie di territori nella zona del Reno che si sarebbero poi rivelati di decisiva importanza economica.
Gli Stati tedeschi si ridussero drasticamente di numero e furono riuniti in una Confederazione germanica, la cui presidenza era tenuta dall'imperatore d'Austria.
L'Impero asburgico, sotto l'abile guida di Metternich, si affermò come il fulcro dell'equilibrio continentale ed ebbe riconosciuto un ruolo egemone sull'intera Penisola italiana.
Il Belgio e il Lussemburgo, uniti all'Olanda, formarono il Regno dei Paesi Bassi.
Nessun mutamento di rilievo si ebbe nella Penisola iberica, né nei Balcani.
La Gran Bretagna non accampò pretese territoriali sul continente, ma si preoccupò di assicurare in Europa un equilibrio tale da impedire l'emergere di nuove ambizioni egemoniche.

L'Italia

Quanto all'Italia, essa fu riportata, con poche varianti, alla situazione precedente alle guerre napoleoniche.
La maggiore novità fu il rafforzamento dell'egemonia austriaca, ottenuta non solo con la sovranità sul L'Italia nel 1815 Lombardo-Veneto, ma anche attraverso una serie di legami militari e dinastici con gli altri Stati della penisola, fra cui il Regno di Napoli, ricostituito sotto la dinastia dei Borbone e ribattezzato Regno delle Due Sicilie.
L'unico tra gli Stati italiani a mantenere una certa autonomia rispetto all'Impero asburgico fu il Regno di Sardegna, ingranditosi con l'acquisto di alcuni territori della Savoia e soprattutto di una regione ricca e popolosa come la Liguria.

L'Italia nel 1815

Le nuove alleanze

A presidio di questi assetti furono varate due alleanze: la prima fu la Santa alleanza, nata nel settembre 1815 da un'iniziativa dello zar Alessandro I, cui aderirono anche l'imperatore d'Austria e il re di Prussia. Si trattava di una sorta di alleanza personale fra i tre sovrani, il cui testo era ricco di riferimenti alla religione cristiana.
Alla Santa alleanza aderirono successivamente molti altri Stati europei, fra cui la Francia.
Non vi aderì invece la Gran Bretagna che, nel novembre dello stesso anno, propose un secondo accordo alle potenze vincitrici (Austria, Russia e Prussia), la cosiddetta Quadruplice alleanza: i quattro contraenti si impegnavano a vigilare contro possibili tentativi di rivincita da parte della Francia e a intervenire contro ogni minaccia all'equilibrio europeo.
Questo sistema di alleanze dava vita a una sorta di direttorio che aveva il compito di risolvere pacificamente eventuali contrasti fra Stato e Stato. Nasceva così quello che fu chiamato il concerto europeo, ossia un dialogo costante fra le grandi potenze che contribuì a ridurre le tensioni sul continente e ad assicurare all'Europa un quarantennio di pace.

 

Il ritorno all'ordine

Dopo la gran ventata rivoluzionaria e napoleonica si ebbe, quasi ovunque in Europa, un assestamento degli equilibri interni in senso conservatore, sostenuto anche dall'alleanza tra i sovrani e il potere religioso delle Chiese.

In Gran Bretagna

Persino in Gran Bretagna, il paese in cui le istituzioni parlamentari erano nate, gli anni successivi al 1815 videro il prevalere dell'ala destra del partito conservatore: quella che aveva la sua base nell'aristocrazia terriera e nell'alto clero anglicano.
Il dominio della destra tory si tradusse in una politica volta a favorire gli interessi della grande proprietà terriera, attraverso l'imposizione di un forte dazio di importazione sul grano, che proteggeva la produzione interna e manteneva elevati i prezzi al consumo. Questa politica sacrificava gli interessi dell'industria esportatrice — che costituiva da tempo la vera base della potenza economica britannica — e inaspriva le tensioni sociali, alzando il costo della vita.
Si ebbero infatti in questi anni numerose agitazioni operaie, sempre duramente represse, come nel caso del «massacro di Peterloo» a Manchester nel 1819.

In Spagna e nell'Europa del Nord

La Restaurazione assunse forme particolarmente dure in Spagna, dove il re Ferdinando VII si affrettò ad abrogare la «Costituzione di Cadice» del 1812 e mise in atto una durissima repressione nei confronti delle correnti liberali.
Regimi a base parzialmente rappresentativa (con parlamenti eletti a suffragio ristretto e dotati di poteri assai limitati) furono invece mantenuti nel Regno dei Paesi Bassi e in alcuni Stati della Confederazione germanica, oltre che in Svezia, Danimarca e Svizzera.

In Francia

Il caso più interessante per i legami col passato e per gli sviluppi futuri fu quello della Francia.
Appena insediato sul trono, nel giugno 1814, il nuovo re Luigi XVIII aveva concesso una Costituzione, ma si preferì chiamarla col nome generico di «Carta», che proclamava l'uguaglianza di tutti i francesi davanti alla legge, garantiva le libertà fondamentali (di opinione, di stampa e di culto) e prevedeva un Parlamento bicamerale, composto da una Camera dei pari di nomina regia e da una Camera dei deputati elettiva.
Il limitato contenuto liberale della Carta era ulteriormente diminuito sia dagli scarsi poteri di cui godeva la Camera dei deputati, sia dal carattere restrittivo della legge elettorale, che legava il diritto di voto all'età (30 anni) e al livello di reddito: in pratica godevano di tale diritto non più di 100 mila cittadini.
Nonostante ciò, la Francia «restaurata» era pur sempre uno dei pochi regimi costituzionali esistenti in Europa.
Vi furono inoltre mantenute molte delle più importanti innovazioni del periodo napoleonico — dal Codice civile all'ordinamento amministrativo, al sistema scolastico statale — e soprattutto fu garantita l'inviolabilità di tutte le proprietà vecchie e nuove, comprese dunque quelle derivate dall'acquisto di terre confiscate alla nobiltà e al clero.
La moderazione del re scontentava naturalmente i legittimisti più intransigenti, soprattutto quei nobili emigrati che, rientrati in patria, si aspettavano di tornare interamente in possesso dei loro beni e di riprendere gli antichi usi feudali.

In Italia

In Italia, la restaurazione dei vecchi Stati e delle vecchie dinastie comportò un arresto del processo di sviluppo civile e politico che si era avviato durante il periodo francese.
Nel Regno sabaudo
Il re Vittorio Emanuele I abrogò in blocco la legislazione napoleonica, epurò drasticamente la pubblica amministrazione, ristabilì il controllo della Chiesa sull'istruzione e riportò in vigore le discriminazioni contro le minoranze religiose (ebrei e valdesi).
Nello Stato della Chiesa
La relativa moderazione del papa Pio VII fu presto sconfitta dalla linea di pura restaurazione teocratica sostenuta dall'ala intransigente del collegio cardinalizio e dalla Compagnia di Gesù (ricostituita nel 1814).
Nel Regno delle Due Sicilie
Nel Regno di Napoli la legislazione antifeudale fu mantenuta ed estesa anche alla Sicilia. Lo Stato fu unificato dal punto di vista amministrativo, quando assunse nel 1816 il nuovo nome di Regno delle Due Sicilie: un'opera di cauta razionalizzazione, che però, oltre a suscitare la protesta autonomi stica della nobiltà siciliana, non comportò alcuna liberalizzazione in campo politico e culturale né alcun inizio di modernizzazione economica.
In Toscana e nei Ducati
Da questo punto di vista, le cose andavano meglio nei territori direttamente amministrati dall'Austria e negli Stati minori del Centro-nord – Granducato di Toscana, Ducati di Parma e Modena – da essa controllati. In Toscana, il governo del granduca Ferdinando III si riallacciò alla miglior tradizione dell'assolutismo illuminato. Particolari cure furono dedicate al progresso dell'agricoltura, sempre caratterizzata dalla prevalenza della mezzadria. Qualche segno di apertura politicoculturale poté svilupparsi in un clima di relativa tolleranza: la rivista «L'Antologia», fondata nel 1821 da Gian Pietro Vieusseux e Gino Capponi, sarebbe rimasta per oltre un decennio il principale punto di riferimento per gli intellettuali liberali di tutta Italia.
Nel Lombardo-Veneto
Autoritarismo e buona amministrazione caratterizzarono il dominio austriaco nel Lombardo-Veneto. La Lombardia continuò a essere la regione economicamente più avanzata d'Italia, nonostante fosse sottoposta a un regime fiscale e doganale che ne penalizzava lo sviluppo. Inoltre, lo stretto controllo esercitato dalle autorità austriache sulla vita politica e intellettuale non impediva il manifestarsi di una vivace attività culturale, che aveva le sue radici nella tradizione dell'Illuminismo settecentesco. Dall'incontro fra questa tradizione e i nuovi fermenti della cultura romantica ebbe origine l'esperienza, breve ma significativa, della rivista «Il Conciliatore». Nata nel settembre 1818 e soppressa un anno dopo per l'intervento della censura, la rivista svolse un ruolo importante, come espressione delle correnti liberali e patriottiche, ma anche per l'attenzione alle tendenze più avanzate della cultura europea.

 

Aristocrazia e borghesia nell'Europa restaurata

La borghesia e la proprietà terriera

Nei decenni della Restaurazione in Europa, al sistema di dominio politico ed economico dell'aristocrazia, prevalentemente terriera, faceva ormai riscontro l'ascesa della borghesia: una borghesia che, pur connotata da una vocazione professionale, commerciale e imprenditoriale, cercava in molti casi di imitare gli stili di vita e la propensione alla proprietà terriera tipica dei ceti nobiliari.
Questa commistione avrebbe caratterizzato gran parte della storia sociale dei ceti superiori nell'800.

Gli effetti della defeudalizzazione

Il periodo dagli anni '20 agli anni '40 del secolo rappresenta una fase importante di questo processo perché vede il definitivo smantellamento del sistema dei privilegi e vincoli feudali che ostacolavano la circolazione delle proprietà.
Zone estese dominate da rapporti ancora feudali rimarranno ancora nell'Europa orientale fino al 1848 e in Russia (dove la servitù della gleba costituiva ancora il fulcro dell'ordine sociale delle campagne) fino al 1861, ma nel resto del continente la defeudalizzazione era ormai molto avanzata.
In Francia e nei paesi vicini passati attraverso la dominazione napoleonica come le regioni occidentali della Germania, i Paesi Bassi, l'Italia settentrionale la rivoluzione antifeudale si era compiuta in modo irreversibile e la borghesia aveva aumentato considerevolmente la sua quota di partecipazione alla proprietà della terra. Ma ciò non si era tradotto sempre in una generale modernizzazione delle tecniche agricole né in un apprezzabile miglioramento delle condizioni di vita delle masse rurali.
La vendita delle terre già appartenenti al clero e alla nobiltà non aveva in genere avvantaggiato i piccoli coltivatori e i contadini senza terra, ma era servita soprattutto a incrementare la grande proprietà borghese.
Nell'Europa del Sud (Penisola iberica, Italia meridionale e insulare) la defeudalizzazione fu più rapida, ma non intaccò se non in minima parte le tradizionali gerarchie sociali né modificò la struttura della proprietà terriera, caratterizzata dalla persistenza del latifondo e della grande proprietà ecclesiastica.

I tempi diversi della modernità

Queste trasformazioni confermavano il permanente sovrapporsi di tradizione e modernità nel mondo rurale, tanto nei rapporti economici che in quelli tra proprietari e contadini: una considerazione che vale, in diversi gradi, per tutta l'Europa se teniamo presenti i diversi livelli dei punti di partenza.
In ogni caso la modernità politica non abitava le campagne, ma rimaneva espressione prevalentemente urbana: è dalle città e dai ceti urbani, infatti, che si sarebbero mosse tutte le iniziative rivoluzionarie degli anni successivi.

 

I moti rivoluzionari del 1820-21

[ Introduzione audio ]

A partire dall'inizio degli anni '20 l'ordine imposto all'Europa dalla Restaurazione contrastato da tre successive ondate rivoluzionarie: nel 1820-21, nel 1830 e nel 1848-49.
Limitate inizialmente ad alcuni paesi, soprattutto dell'Europa meridionale, più estese nel 1830, culminarono nella "rivoluzione dei popoli" del 1848-49.

Le sette nell'Europa restaurata

Come governi e regnanti erano uniti dalla trama delle alleanze, così quanti lottavano contro l'ordine costituito, per l'affermazione degli ideali liberali, democratici e nazionali, facevano inizialmente capo a organizzazioni clandestine che, nate per lo più nel '700 o in età napoleonica, si diffusero in questo periodo con grande rapidità: sette e società segrete divennero nell'età della Restaurazione il principale strumento di lotta politica. più numerose e importanti erano le sètte di tendenza democratica o liberale.
Alcune di esse traevano origine e ispirazione dalla Massoneria: a essa era collegata la più importante e la più diffusa fra quelle attive nell'età della Restaurazione, la Carboneria, presente soprattutto in Italia e in Spagna.
I carbonari – che riprendevano i loro simboli e i loro rituali dal lavoro, appunto, dei carbonai (come i massoni da quello dei muratori) – ispiravano per lo più la loro azione a ideali di costituzionalismo e di liberalismo moderato.

I moti del '20-'21

Ma i confini fra le società segrete erano spesso abbastanza incerti: sia perché le diverse associazioni erano unite tra loro da molti legami, sia perché la struttura verticistica e rigorosamente clandestina delle organizzazioni – i cui aderenti erano per lo più tenuti all'oscuro sia del contenuto completo del programma sia dell'identità dei capi – favoriva la coesistenza nella stessa setta di diversi progetti politici, corrispondenti ai diversi gradi di iniziazione.
A prescindere dai fini che si proponevano, queste associazioni poggiavano tutte su una base piuttosto ristretta: pochissimi artigiani e popolani, qualche membro dell'aristocrazia liberale, qualche esponente della borghesia del commercio e delle professioni, ma soprattutto intellettuali, studenti e militari.
Furono i militari, in particolare gli ufficiali e i sottufficiali formatisi nel periodo napoleonico, a fornire alle sètte i nuclei più preparati e intraprendenti: i soli che, potendo disporre di una «forza armata», fossero in grado di minacciare seriamente la stabilità di troni e governi.

Le rivoluzioni del '20-'21

Furono i militari a dare inizio alla prima ondata rivoluzionaria che scosse l'Europa all'inizio degli anni '20.
Il moto parti dalla Spagna, dove era cresciuta la tensione per la rivolta delle colonie latino-americane, che il re Ferdinando VII cercò di soffocare inviando oltreoceano forti contingenti di truppe. Il 1° gennaio 1820, alcuni reparti concentrati nel porto di Cadice in attesa di essere imbarcati per l'America si ammutinarono. In pochi giorni la rivolta si estese ad altri reparti, rendendo vani i tentativi di repressione e costringendo il re a richiamare in vigore la Costituzione del 1812 e a indire le elezioni per le Cortes (ossia la Camera elettiva).
In Spagna si costituiva così un regime liberal-democratico, reso però fragile dall'ostilità del re e, soprattutto, dallo scarso consenso di cui godeva presso le masse contadine, influenzate dalla Chiesa.
Gli avvenimenti di Spagna ebbero come immediata conseguenza una generale ripresa dell'attività rivoluzionaria. Nell'estate del 1820, moti insurrezionali, sempre iniziati da militari, scoppiarono a poche settimane di distanza nel Regno delle Due Sicilie e in Portogallo. Nel marzo 1821 una rivolta scoppiò in Piemonte.

L'intervento delle potenze e la repressione

Le rivoluzioni costituzionali di Spagna e d'Italia rappresentavano una grave minaccia per l'equilibrio uscito dal congresso di Vienna. Le potenze aderenti alla Santa alleanza decisero così di intervenire militarmente.
Mentre l'Austria restaurava il potere assoluto di Ferdinando I nel Regno delle Due Sicilie e aiutava i Savoia a sconfiggere i rivoluzionari in Piemonte, la Francia si assumeva il compito di restaurare l'ordine in Spagna sia per ragioni di politica interna, sia per equilibrare il peso della presenza austriaca in Italia.
Il fronte conservatore usciva rinsaldato dalla crisi, mentre le forze liberali avevano dato prova di scarsa unità, di carenze sul piano dell'organizzazione e soprattutto di un'assoluta mancanza di legami con le masse popolari.

 

L'indipendenza della Grecia

Patria e religione

L'insurrezione dei greci contro il dominio turco, cominciata nel 1821 e protrattasi per quasi un decennio, fu l'unica tra le rivoluzioni degli anni '20 a concludersi con un sostanziale successo. Fu anche la sola che, pur essendo nata dall'iniziativa delle società segrete, finì con l'assumere il carattere di una guerra di popolo, nazionale a fondamento religioso ortodosso ancor prima che politica.
Ma il successo della lotta per l'indipendenza greca si dovette anche e soprattutto a fattori di carattere internazionale.
Se l'Impero ottomano era considerato ancora da Austria e Gran Bretagna un prezioso elemento di equilibrio continentale, altre potenze, come la Russia e la Francia, erano attratte dalle possibilità di espansione che il suo indebolimento avrebbe aperto nell'area mediterranea e nei Balcani.

La debolezza dell'Impero ottomano

In realtà l'antico Impero ottomano faticava sempre più a tenere uniti i suoi vastissimi possedimenti. Sempre più problematico per il governo turco era poi il controllo dei popoli balcanici (greci, serbi, macedoni, albanesi, bulgari, romeni): qui mancava anche il legame religioso, dal momento che la maggior parte della popolazione era formata da cristiani ortodossi. Nei confronti di questi ultimi l'Impero aveva sempre praticato una politica tollerante sul piano religioso, ma discriminatoria su quello politico e sociale.
In tutta la Penisola balcanica i cristiani si trovavano nella condizione di popolo soggetto: non potendo accedere alla proprietà terriera, detenuta a titolo feudale dai signori turchi, erano nella grande maggioranza servi della gleba, contadini poveri, pastori nomadi dediti non di rado al brigantaggio, ma formavano anche, coi loro strati superiori, la maggioranza del ceto mercantile e una parte importante della burocrazia imperiale.

La rivolta

Nel 1815 già i serbi erano riusciti a conquistarsi un'ampia autonomia.
Nel 1821 insorsero i greci che svolgevano un ruolo chiave nella vita economica dell'Impero ottomano, grazie a una forte borghesia mercantile che si era sviluppata nelle isole dell'Egeo, a Smirne, a Salonicco e nella stessa Istanbul. La setta patriottica greca Etería ('associazione, fratellanza'), che organizzò l'insurrezione, contava numerosi aderenti tra le file di questa borghesia e trovò immediato sostegno anche fra le masse popolari.
Per fermare la guerriglia, i turchi ricorsero a una serie di durissime repressioni che suscitarono condanna e riprovazione in tutta Europa. Si creò allora in favore degli insorti una forte corrente di opinione pubblica internazionale, in cui confluivano motivazioni politico-ideologiche (la solidarietà con chi combatteva per la libertà), religiose (la difesa dei cristiani) e anche culturali, fondate sul mito della Grecia classica.
Da tutta Europa accorsero volontari per unirsi alla guerra contro i turchi: fra gli altri il poeta inglese Byron e l'italiano Santorre di Santarosa, che trovarono entrambi la morte in Grecia.
La spinta dell'opinione pubblica impose una svolta nella politica delle potenze. La Russia, che si atteggiava a protettrice dei cristiani ortodossi, ruppe nel '22 le relazioni diplomatiche con la Turchia. La Gran Bretagna riconobbe nello stesso anno la Grecia come paese belligerante.

L'indipendenza

Fu proprio l'intervento delle potenze europee – che nel luglio '27 distrussero a Navarino una flotta turco-egiziana – a imporre all'Impero ottomano la firma della pace di Adrianopoli (1829), con cui si riconosceva l'indipendenza greca.
Al nuovo Stato – che nasceva con una estensione limitata a poco più del Peloponneso e dell'Attica – le grandi potenze imposero un regime monarchico costituzionale e come sovrano un principe della casa di Baviera.
La soluzione della questione greca rappresentò un precedente di grande importanza per le lotte di indipendenza nazionale dell'800 e un colpo letale per l'equilibrio conservatore europeo. Per l'Impero ottomano – ulteriormente indebolito, nell'estate del 1830, dall'occupazione di Algeri da parte della Francia – la sconfitta fu la conferma di una lunga crisi, in atto ormai da oltre un secolo e destinata a protrarsi per altri cent'anni fino agli inizi del '900.

 

I moti rivoluzionari del 1830-31

[ Introduzione audio ]

Nel 1830, una nuova ondata rivoluzionaria partita dalla Francia portò a trasformazioni profonde e durature negli assetti politici europei: la cacciata della dinastia dei Borbone in Francia e l'indipendenza del Belgio.

La rivoluzione in Francia

La rivoluzione che scoppiò a Parigi nel luglio 1830 fu la diretta conseguenza del tentativo messo in atto dal re Carlo X (salito al trono nel 1824) e dagli ambienti ultrarealisti («ultras») di restringere il più possibile le libertà costituzionali garantite dalla Carta del '14.
Contro la politica di Carlo X si schierarono non solo i democratici e gli intellettuali liberalmoderati, ma anche la grande borghesia degli affari e della finanza e un'ala consistente della stessa aristocrazia.
Nelle elezioni del 1827, le forze di opposizione ottennero una netta maggioranza alla Camera. Il re scelse allora la strada dello scontro col potere legislativo e contemporaneamente cercò un diversivo in politica estera inviando, all'inizio di luglio, un corpo di spedizione in Algeria.
L'occupazione di Algeri, che costituì la premessa per la successiva espansione francese in Nord Africa, non ottenne però i risultati sperati. Nelle elezioni che si tennero subito dopo, l'opposizione fece ulteriori progressi. A questo punto Carlo X diede avvio a un vero e proprio colpo di Stato, emanando quattro ordinanze che sospendevano la libertà di stampa, scioglievano la Camera appena eletta, modificavano la legge elettorale rendendola ancora più restrittiva e convocavano nuove elezioni.
Subito dopo la pubblicazione delle ordinanze, il popolo di Parigi scese in piazza, come non accadeva più dai tempi della grande Rivoluzione e, dopo tre giorni di duri scontri con le truppe regie (27, 28 e 29 luglio), costrinse Carlo X ad abbandonare la capitale.
Il 29 luglio le Camere riunite in seduta comune dichiaravano la decadenza della dinastia borbonica e nominavano luogotenente del regno Luigi Filippo d'Orléans, cugino del re appena deposto.
La scelta di Luigi Filippo – che era stato, negli anni della Restaurazione, uno dei punti di riferimento dell'aristocrazia «illuminata» e, in genere, dei gruppi liberal-moderati – andava incontro in qualche modo alle richieste della piazza, che chiedeva prima di tutto la cacciata dei Borbone. Ma d'altra parte aveva lo scopo di bloccare un processo rivoluzionario di cui erano in molti a temere gli sviluppi: protagoniste delle tre gloriose giornate di luglio erano state infatti le masse popolari, soprattutto artigiane, guidate dai club repubblicani e giacobini.
Il 9 agosto, Luigi Filippo fu proclamato dal Parlamento «re dei francesi per volontà della nazione»: una formula che conciliava il principio monarchico con quello della sovranità popolare. Il tricolore della Francia rivoluzionaria – blu, bianco e rosso – tornò a essere la bandiera nazionale.
Fu varata una nuova Costituzione che accresceva il controllo del Parlamento sul potere esecutivo, allargava il diritto di voto, in misura peraltro modesta, e realizzava una più netta separazione fra Stato e Chiesa.

I moti in Belgio, Italia e Polonia

Il successo dell'insurrezione di luglio aprì nuovi spazi all'iniziativa delle forze liberali e democratiche europee: in agosto insorse il Belgio annesso, per decisione del congresso di Vienna, al Reno dei Paesi Bassi.
L'Olanda chiese l'aiuto delle grandi potenze, ma Francia e Gran Bretagna si opposero e riconobbero l'indipendenza del Belgio.
Era una decisione di portata storica perché segnava, col delinearsi dell'intesa franco-inglese, la fine del sistema di rapporti disegnato nel 1815.
Esito diverso ebbero i moti rivoluzionari scoppiati in Italia centrosettentrionale e in Polonia. Essi furono schiacciati dall'intervento militare rispettivamente di Austria e Russia.

Moti del '30-'31

 

Liberalismo e autoritarismo

La scelta conservatrice della monarchia di luglio in Francia

Pur essendo nato da un'insurrezione popolare, il regime orleanista si resse su una base di consenso piuttosto ristretta e precaria: la monarchia di luglio finì per identificarsi gradatamente con i valori e con gli interessi dell'alta borghesia degli affari, che vide costantemente crescere il suo peso economico e la sua influenza politica.
L'alta borghesia e l'aristocrazia liberale a essa alleata – che in pratica detenevano il monopolio della rappresentanza politica, dato il carattere ristretto del suffragio – costituivano però uno strato esiguo della società francese ed erano privi, peraltro, dell'appoggio del clero.
Sul fronte dell'opposizione, particolarmente attivi furono i gruppi democratico-repubblicani che erano stati i protagonisti dell'insurrezione parigina del '30 e che erano collegati ai primi nuclei socialisti già attivi nei grandi centri urbani. Organizzati in una fitta rete di associazioni più o meno clandestine, repubblicani e socialisti costituirono un costante pericolo per la stabilità del regime orleanista, costretto a fronteggiare una lunga serie di agitazioni e di veri e propri tentativi insurrezionali.
La ricorrente minaccia rivoluzionaria provocò per contraccolpo un'involuzione conservatrice della monarchia di luglio, che si tradusse in alcune misure limitative della libertà di stampa e di associazione. Questa involuzione si accentuò a partire dal 1840, quando François Guizot divenne la figura dominante della scena politica francese.
Guizot attuò una politica sostanzialmente conservatrice, tutta centrata sulla ricerca dell'ordine e della stabilità, volta a favorire le velleità speculative della borghesia degli affari. Ciò finì con l'accentuare i caratteri oligarchici del regime, scavando un fossato sempre più profondo fra il paese e la classe dirigente.

Il liberalismo in Gran Bretagna

Una svolta liberale si era aperta invece in Gran Bretagna fin dalla metà degli anni '20, quando nelle file del partito conservatore (tory) si affermò la figura di Robert Peel.
Fino alla metà dell'800 il paese fu guidato dal partito whig e da quello conservatore alternativamente, sebbene il primo avesse governato per ben 16 anni e il secondo per 5.

Il diritto di unirsi in libere associazioni

Con Peel furono attuate alcune importanti riforme interne, prima fra tutte quella del 1824, che riconosceva ai lavoratori il diritto di unirsi in libere associazioni. Sorsero così numerose unioni di mestiere, Trade Unions, organizzate su base di classe, formate cioè dai soli operai per la tutela dei loro diritti e per il sostegno alle loro rivendicazioni economiche.

La riforma elettorale e le misure per le classi disagiate

Il nodo principale da sciogliere era tuttavia quello dell'ampliamento del diritto di voto, allora limitato a una ristretta minoranza della popolazione (poco più del 3%). Un problema a sé era poi quello delle circoscrizioni elettorali, che non tenevano ancora conto degli sviluppi dell'urbanizzazione legati alla rivoluzione industriale. Accadeva così che le circoscrizioni urbane fossero gravemente sacrificate nella distribuzione dei seggi a vantaggio di quelle rurali: vi erano minuscoli collegi rurali, i cosiddetti "borghi putridi" (rotten boroughs), in cui bastavano poche decine di voti per mandare in Parlamento un deputato, con evidente vantaggio per gli esponenti della grande proprietà terriera, visto che l'eletto era spesso il signore del luogo.
La legge, approvata dal Parlamento nel giugno 1832 con un governo a guida whig, allargava il corpo elettorale di oltre il 50% e, cosa ancora più importante, ridisegnava le circoscrizioni, aumentando il numero di quelle urbane. Il sistema restava censitario, ma era pur sempre il più aperto nell'Europa di allora.
Alla riforma elettorale si accompagnarono, negli anni '30, misure legislative per migliorare le condizioni delle classi più disagiate. La legge sul lavoro nelle fabbriche, del 1833, fissava in dieci ore l'orario massimo per i ragazzi sotto i diciotto anni e in otto per i bambini sotto i dodici. La legge sui poveri, del 1834, affidava a istituzioni ed enti locali l'assistenza ai bisognosi.

Il movimento cartista

Tentativi di modificare ulteriormente il sistema politico britannico furono avanzati dall'opposizione democratica, che faceva capo agli intellettuali radicali e agli operai organizzati nelle Trade Unions. Proprio dai leader delle Trade Unions partì l'iniziativa di una grande mobilitazione popolare per imporre alla classe dirigente l'adozione del suffragio universale, il solo mezzo per far valere gli interessi dei lavoratori nella Camera e nel governo.
Nel 1838 la Carta del popolo chiedeva, tra l'altro, il suffragio universale maschile, la garanzia della segretezza del voto e una nuova riforma dei collegi elettorali. Il movimento cartista (così chiamato appunto dalla Carta del popolo) non riuscì a ottenere tuttavia alcuno dei suoi obiettivi e, dopo un decennio di lotte, finì con l'esaurirsi, anche perché i leader delle Trade Unions abbandonarono progressivamente il terreno della mobilitazione politica per concentrarsi su quello delle rivendicazioni economiche.

L'abolizione del dazio sul grano

Tra la fine degli anni '30 e l'inizio degli anni '40, il centro dell'impegno dei progressisti, appoggiati questa volta dai Whigs, fu quello per la riforma doganale, e in particolare per l'abolizione del dazio sul grano (cioè delle Corn Laws). Questa rivendicazione chiamava in causa i bisogni delle classi popolari, poiché il dazio protettivo manteneva elevato il prezzo dei cereali – che sarebbe sceso detassando le importazioni – a esclusivo vantaggio dei produttori interni e a scapito dei consumatori. Essa esprimeva inoltre gli interessi del mondo industriale, desideroso di veder rimossi tutti gli ostacoli che si opponevano all'affermazione dei propri prodotti sui mercati stranieri.
Il dazio sul grano era certamente uno di questi ostacoli, in quanto provocava l'imposizione, da parte dei paesi esportatori di cereali, di analoghe tariffe sui prodotti industriali inglesi. Non a caso il movimento per la riforma doganale ebbe il suo centro a Manchester, capitale dell'industria tessile, e il suo principale portavoce in Richard Cobden, industriale cotoniero e deputato liberale, leader dal 1838 della Lega contro il dazio sul grano (Anti-Corn Law League), divenuto in questi anni il più autorevole e popolare assertore delle teorie liberiste.
La battaglia antiprotezionista fu vinta nel 1846 quando il governo, allora guidato da Peel, sotto la pressione della grave carestia che stava imperversando in Irlanda, prese la storica decisione di abolire il dazio di importazione sui cereali.

Immobilismo e autoritarismo nelle monarchie dell'Europa centro-orientale

Al dinamismo politico e sociale manifestato dalla Gran Bretagna e, in minor misura, dalla Francia negli anni 1830-48, faceva riscontro l'immobilismo politico delle monarchie autoritarie dell'Europa centro-orientale, in particolare dell'Austria e della Russia.
La chiusura a ogni fermento innovativo, lo strapotere delle aristocrazie, il rifiuto di introdurre qualsiasi istituto rappresentativo, la conservazione dei vecchi e arretrati ordinamenti agrari – caratterizzati in Russia, ma anche in molte zone dell'Impero asburgico e della Prussia orientale, dalla permanenza della servitù della gleba – bloccavano il progresso civile e inasprivano le tensioni economiche e sociali.
Se per la Russia il problema maggiore era costituito dalle continue rivolte contadine (a carattere spontaneo e prive di qualsiasi direzione politica), l'Impero asburgico cominciava a soffrire in questi anni delle tensioni che lo avrebbero accompagnato sino alla sua dissoluzione: le spinte autonomistiche delle diverse componenti nazionali – cechi e polacchi, italiani e ungheresi, croati e sloveni – tutte divise fra loro, ma unite nell'avversione al centralismo di Vienna.

L'Unione doganale tedesca

Elemento di crisi per la monarchia asburgica, il nazionalismo costituì invece un fattore di coesione per la Prussia e per gli Stati della Confederazione germanica.
Deluse le speranze di unificazione coltivate negli anni delle guerre napoleoniche, le aspirazioni della borghesia tedesca si concentrarono soprattutto sull'attuazione di un'Unione doganale, Zollverein, fra tutti gli Stati della Confederazione.
L'abolizione dei dazi doganali, avviata nel 1818, accelerata dopo il 1830 e in gran parte compiuta nel 1834, rappresentò non solo una tappa importante sulla via dell'unità politica degli Stati tedeschi.
Fu anche un potente fattore di sviluppo economico, che avrebbe favorito il loro decollo industriale su un ampio mercato nazionale, collegato da una fitta rete di vie di comunicazione stradali e fluviali.

 

Le rivoluzioni del 1848-49

[ Introduzione audio ]

Le premesse e i caratteri comuni delle rivoluzioni

Nel 1848 l'Europa fu sconvolta da una crisi rivoluzionaria di ampiezza e intensità straordinarie. Non a caso l'espressione "quarantotto" è diventata da allora sinonimo di "disordine, sconvolgimento improvviso". Straordinaria fu innanzitutto l'estensione dell'area geografica interessata dalle agitazioni. Ma straordinaria fu anche la rapidità con cui il moto rivoluzionario si diffuse in tutta l'Europa continentale, dalla Francia all'Italia, all'Impero asburgico e alla Confederazione germanica.
Un moto così ampio non sarebbe stato possibile se non fosse stato favorito da alcune premesse comuni, presenti nell'intera società europea.
Un primo elemento comune era dato dalla situazione economica: nel biennio 1846-47, l'Europa aveva attraversato una fase di crisi, che aveva investito prima il settore agricolo, poi quello industriale e commerciale, provocando carestie, miseria, disoccupazione.
Il disagio economico e l'inquietudine sociale non sarebbero bastati di per sé a provocare una crisi di così vaste proporzioni, se su di essi non si fosse inserita l'azione svolta dai democratici di tutta Europa, in particolare dagli intellettuali, depositari di una tradizione comune che affondava le sue origini nella Rivoluzione francese.

Rivoluzioni del '45-'48

Simile fu il contenuto dominante delle insurrezioni: la richiesta di libertà politiche e di democrazia, variamente intrecciata – in Italia, in Germania e nell'Impero asburgico – alla spinta verso l'emancipazione nazionale.
Simile fu anche la dinamica dei moti, che si svilupparono tutti secondo lo schema delle «giornate rivoluzionarie»: iniziarono cioè con grandi dimostrazioni popolari nelle capitali, sfociate poi in scontri armati.

I moti del 1848-49

Il protagonismo delle masse popolari urbane

A Parigi come a Vienna, a Berlino come a Milano, furono gli artigiani e gli operai a svolgere il ruolo principale nelle sommosse.
A Parigi la componente popolare e operaia si mosse in relativa autonomia e, spesso in contrasto con le forze democratico-borghesi, cercò di imporre propri specifici obiettivi di lotta. Nel gennaio del '48, poche settimane prima dello scoppio dei moti, era stato scritto il Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels, destinato a diventare in seguito il testo-base della rivoluzione proletaria. Questa convergenza di date spiega come mai il 1848 sia stato spesso considerato l'anno ufficiale di nascita del movimento operaio.

Le cause della sconfitta democratica

Le rivoluzioni del 1848-49 si chiusero tutte con una sconfitta: la causa principale di questo generale fallimento va individuata nelle profonde fratture ideologiche e programmatiche che attraversavano al loro interno le forze del cambiamento e della rivoluzione, dividendo sempre più le correnti democratico-radicali dai gruppi liberai-moderati.
Questi ultimi, spaventati dalla minaccia della rivoluzione sociale, si riaccostarono alle vecchie classi dirigenti.
I democratici, lasciati soli a sostenere lo scontro politico e militare con i governi e privi di una consistente base di massa, erano inevitabilmente destinati a essere sconfitti.
Paradossalmente in Francia l'esito fu, come vedremo nel paragrafo seguente, la nascita di un sistema politico autoritario fondato su un ampio consenso popolare legato alla tradizione rivoluzionaria di matrice napoleonica.
Altrove la sconfitta dell'ipotesi rivoluzionaria non cancellò però quanto di nuovo era emerso dall'esperienza del '48-49. Le aspirazioni verso una più ampia partecipazione al potere politico e gli ideali di unificazione e di indipendenza nazionale costituivano ormai un passaggio obbligato per alcuni paesi europei, come la Germania e l'Italia.

 

Il '48 in Francia. Dalla Seconda Repubblica al Secondo Impero

La caduta della monarchia liberale

In Francia, la rivoluzione prese avvio ancora una volta da Parigi.
I limiti della monarchia borghese apparivano ormai intollerabili a un vasto fronte di opposizione che andava dai liberali progressisti ai democratici, dai bonapartisti ai socialisti. Per i democratici, in particolare, l'obiettivo da raggiungere era il suffragio universale, ossia la concessione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi senza distinzione di reddito o di condizione sociale.
Nettamente minoritari in Parlamento, i democratici cercarono di trasferire la loro protesta nel «paese reale». Lo strumento scelto fu la cosiddetta campagna dei banchetti: grandi riunioni svolte in forma privata che aggiravano i divieti governativi di riunione e consentivano ai capi dell'opposizione e ai loro seguaci di tenersi in contatto e di far propaganda per la riforma elettorale.

L'insurrezione di febbraio

Fu proprio la proibizione di un banchetto, previsto per il 22 febbraio 1848 a Parigi, a innescare la crisi rivoluzionaria.
Lavoratori e studenti parigini organizzarono una grande manifestazione di protesta. Per impedirla, il governo ricorse alla Guardia nazionale.
Espressione della borghesia cittadina, la Guardia nazionale era stata impiegata più volte per reprimere agitazioni o sommosse operaie. Ma questa volta, chiamata a difendere un governo largamente impopolare, finì col fare causa comune con i dimostranti.
Dopo due giorni di barricate e di violenti scontri, che provocarono più di 350 morti, gli insorti erano padroni della città. Il 24 febbraio Luigi Filippo abbandonò Parigi. La sera stessa veniva costituito un governo che si pronunciava decisamente a favore della repubblica — la cosiddetta Seconda Repubblica, dopo quella rivoluzionaria del 1792 – e annunciava la convocazione di un'Assemblea costituente da eleggere a suffragio universale maschile.
Nel governo figuravano tutti i capi dell'opposizione democratico-repubblicana ed erano presenti anche due socialisti: Louis Blanc e l'operaio Alexandre Martin, detto Albert. L'inclusione di due rappresentanti dei lavoratori nel governo – una novità assoluta nella storia europea – rifletteva la forza del popolo parigino, protagonista delle giornate di febbraio, e sottolineava il carattere "sociale" della nuova Repubblica.

Il diritto al lavoro

Già alla fine di febbraio il governo provvisorio aveva fissato in undici ore la durata massima della giornata lavorativa e – cosa ancora più importante – aveva stabilito il principio del diritto al lavoro: una decisione di portata rivoluzionaria, che affrontava per la prima volta un nodo fondamentale dell'economia capitalistica, quello del pieno impiego.
Per dare attuazione al diritto al lavoro, furono istituiti degli ateliers nationaux (alla lettera: 'officine nazionali'). Il nome faceva pensare a quegli ateliers sociaux che Louis Blanc aveva teorizzato, come vere e proprie cooperative di produzione, capaci di sostituirsi all'impresa privata. Ma la realtà era più modesta, legata com'era alla necessità immediata di aiutare i disoccupati.
Gli operai degli ateliers furono infatti impiegati in lavori di pubblica utilità (scavo di canali, riparazione di strade) e posti alle dipendenze del ministero dei Lavori pubblici.
Anche entro questi limiti, l'esperimento poneva gravi problemi alle finanze statali e introduceva un motivo di profondo contrasto in seno allo schieramento repubblicano, la cui ala moderata considerava incompatibile con i principi del liberismo economico un intervento diretto dello Stato nel mercato del lavoro.

Il governo dei moderati e l'insurrezione di giugno

Una prima netta sconfitta per le correnti di estrema sinistra venne dalle elezioni per l'Assemblea costituente, che si tennero in aprile, a suffragio universale. I vincitori furono i repubblicani moderati, che costituirono l'ossatura del nuovo governo dal quale vennero esclusi i socialisti Blanc e Albert.
Il governo emanò subito un decreto con cui si stabiliva la chiusura degli ateliers nationaux. La reazione dei lavoratori di Parigi fu immediata e spontanea. Il 23 giugno, oltre 50 mila popolani (fra cui molti lavoratori degli ateliers) scesero in piazza. Nei quartieri popolari ricomparvero le barricate. In risposta, l'Assemblea costituente concesse pieni poteri all'esercito per procedere alla repressione, che fu condotta nei giorni successivi con spietata durezza.
Migliaia di insorti trovarono la morte sulle barricate o nelle esecuzioni sommarie che seguirono gli scontri.
Le tragiche giornate di giugno segnarono una svolta decisiva nella breve storia della Seconda Repubblica. Agli occhi della borghesia di tutta Europa, la rivolta dei lavoratori parigini dava corpo all'incubo della rivoluzione sociale, allo «spettro del comunismo».
Gran parte della società francese – dalla borghesia urbana al clero, ai contadini irritati per l'aumento delle tasse – fu attraversata da un'ondata di riflusso conservatore.

L'ascesa di Luigi Napoleone Bonaparte

In novembre l'Assemblea costituente approvò a stragrande maggioranza la nuova Costituzione: una costituzione democratica, ispirata al modello statunitense, che prevedeva un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo per la durata di quattro anni e un'unica Assemblea legislativa eletta anch'essa a suffragio universale.
Ma alle elezioni presidenziali (10 dicembre) i repubblicani si presentarono divisi, mentre i conservatori fecero blocco sulla candidatura di Luigi Napoleone Bonaparte, figlio di un fratello dell'imperatore (quel Luigi Bonaparte che aveva occupato il trono olandese).
Nonostante avesse un passato da cospiratore, l'allora quarantenne Luigi Napoleone seppe offrire ampie assicurazioni alla destra conservatrice e clericale mentre garantiva, per la sola forza del suo nome, una sicura presa su vasti strati di elettorato popolare.
Il calcolo si rivelò esatto: una vera e propria valanga di voti si riversò su Bonaparte. Si chiudeva così definitivamente la fase democratica della Seconda Repubblica.

La nascita del Secondo Impero di Napoleone III

Nel giro dei successivi tre anni le conquiste democratiche furono spazzate via.
Intorno alla figura del presidente della Repubblica si raccolse un consenso che poggiava sugli elementi conservatori, sui clericali e sulla mai sopita tradizione napoleonica che recluta va aderenti in tutta la Francia urbana e rurale.
Nel dicembre 1851, con un colpo d Stato sostenuto dall'esercito, la Camera fu sciolta e diecimila oppositori arrestati deportati. Secondo la prassi napoleonica un plebiscito a suffragio universale convalidi l'operato di Bonaparte.
La Seconda Repubblica era ormai tale solo di nome. E la finzione fu abolita, nel dicembre 1852, da un nuovo plebiscito che approvava, con una maggioranza ancor più schiacciante di quella dell'anno precedente, la restaurazione dell'Impero.
Luigi Napoleone assumeva così il nome di Napoleone III (veniva dunque incluso nella serie anche il figlio di Napoleone I, morto nel 1832 a Vienna) col diritto di trasmettere il titolo imperiale ai suoi eredi.

 

Il '48 nell'Europa centrale

La rivolta nell'impero asburgico

Il moto rivoluzionario iniziato a Parigi alla fine di febbraio si propagò in poche settimane a gran parte dell'Europa.
Ma, diversamente da quanto era accaduto in Francia, la componente «sociale» rimase in secondo piano e lo scontro principale fu combattuto fra le borghesie liberali – con l'appoggio di consistenti settori delle classi popolari – e le strutture politiche tradizionali.
Il primo importante episodio insurrezionale ebbe luogo a Vienna, il 13 marzo. L'occasione della rivolta fu una grande manifestazione di studenti e lavoratori duramente repressa dall'esercito. Dopo due giorni di combattimenti, la corte fu costretta ad allontanare il cancelliere Metternich: l'uomo-simbolo dell'età della Restaurazione dovette rifugiarsi all'estero.
Le notizie dell'insurrezione di Vienna e della fuga di Metternich fecero precipitare la situazione nelle irrequiete province dell'Impero asburgico e nella vicina Confederazione germanica.
Il 15 marzo vi furono tumulti a Budapest. Il 17 e il 18 si sollevavano Venezia e Milano. Negli stessi giorni una violenta sommossa scoppiava a Berlino, capitale della Prussia. Il 19 marzo i cittadini di Praga inviavano una petizione all'imperatore chiedendo autonomia e libertà politiche per i cechi.
In maggio l'imperatore dovette abbandonare la capitale e promettere la convocazione di un Parlamento dell'Impero, il Reichstag, eletto a suffragio universale.

La rivoluzione a Budapest e a Praga

In Ungheria le promesse del governo imperiale di concedere una costituzione e un Parlamento non riuscirono a fermare l'agitazione autonomista.
Sotto la spinta dell'ala democratico-radicale, che faceva capo a Lajos Kossuth, i patrioti ungheresi profittarono della crisi per creare a Budapest un governo nazionale e per agire in totale autonomia da Vienna.
Fu decretata la fine dei rapporti feudali nelle campagne, una misura che contribuì a ottenere l'appoggio dei contadini. Fu eletto un nuovo Parlamento a suffragio universale. In luglio, infine, Kossuth cominciò a organizzare un esercito nazionale, primo passo verso la piena indipendenza, che costituiva ormai l'obiettivo finale degli insorti.
Anche a Praga, in aprile, venne formato un governo provvisorio. I patrioti cechi, per lo più di orientamento liberale, non mettevano in discussione i legami con la monarchia asburgica e si limitavano a chiedere più ampie autonomie. Ma alcuni incidenti scoppiati fra la popolazione e i militari fornirono all'esercito il pretesto per una dura repressione: Praga fu assediata e bombardata e il governo ceco fu sciolto d'autorità.

La riscossa dell'Austria

La sottomissione di Praga segnò l'inizio della riscossa per il potere imperiale. Essa mostrava che l'efficienza e la fedeltà dell'esercito non erano state intaccate dagli ultimi rivolgimenti politici. Nel corso dell'estate la svolta si consolidò.
Mentre il Reichstag, riunitosi per la prima volta in luglio, era paralizzato dai contrasti fra le diverse nazionalità – l'unica decisione di portata storica fu l'abolizione della servitù della gleba in tutti i territori dell'Impero in cui era ancora in vigore –, il governo centrale riprendeva gradualmente il controllo della situazione.
In agosto, sotto la protezione dell'esercito, l'imperatore rientrava a Vienna. Ma ai primi di ottobre nella capitale scoppiava una nuova insurrezione di studenti e lavoratori per impedire la partenza di nuove truppe per il fronte ungherese. Alla fine del mese Vienna fu cinta d'assedio e occupata dopo tre giorni di durissimi combattimenti.
La rivoluzione nell'Impero asburgico veniva così stroncata nella sua punta più avanzata. Poche settimane dopo, l'imperatore Ferdinando I abdicava in favore del nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe.
Nel marzo 1849 il nuovo imperatore sciolse d'autorità il Reichstag e promulgò una Costituzione che prevedeva un Parlamento eletto a suffragio ristretto e dotato di poteri molto limitati, e ribadiva al tempo stesso la struttura centralistica dell'Impero.

L'insurrezione di Berlino e l'Assemblea di Francoforte

Un corso simile ebbero gli avvenimenti in Germania.
A Berlino, il 18 marzo del 1848, imponenti manifestazioni popolari costrinsero il re Federico Guglielmo IV a convocare un Parlamento prussiano (Landtag).
Intanto agitazioni e sommosse erano scoppiate nella Confederazione germanica. Ne era scaturita, quasi spontaneamente, la richiesta di un'Assemblea costituente dove fossero rappresentati tutti gli Stati tedeschi, Austria compresa.
A metà maggio l'Assemblea aprì i suoi lavori a Francoforte in un clima di generale entusiasmo. Ben presto fu chiaro però che la Costituente di Francoforte non aveva i poteri necessari per imporre le proprie decisioni ai sovrani degli Stati tedeschi e per avviare un processo di unificazione nazionale. Le sue sorti non potevano che dipendere da quanto accadeva nello Stato più importante, la Prussia. Ma proprio in Prussia il movimento liberaidemocratico rientrò rapidamente, anche perché la borghesia era spaventata dalle agitazioni sociali che nel frattempo si andavano intensificando (in estate vi furono sommosse di lavoratori a Berlino, in Slesia e a Francoforte).
Ai primi di dicembre Federico Guglielmo sciolse il Parlamento prussiano ed emanò una Costituzione assai poco liberale.
Frattanto, i lavori dell'Assemblea di Francoforte erano quasi completamente assorbiti dalle dispute sulla questione nazionale e dalla contrapposizione fra «grandi tedeschi» e «piccoli tedeschi»: i primi miravano a un'unione di tutti gli Stati germanici intorno all'Austria imperiale, i secondi sostenevano invece uno Stato nazionale più compatto, da costruirsi intorno al nucleo principale del Regno di Prussia.
A prevalere, dopo lunghe discussioni, fu alla fine la tesi «piccolo-tedesca».
Ma quando, nell'aprile 1849, una delegazione offrì al re di Prussia la corona imperiale, questi la rifiutò in quanto gli veniva offerta da un'assemblea popolare, nata da un moto rivoluzionario.
Il rifiuto di Federico Guglielmo segnò in pratica la fine della Costituente, che fu sciolta nel giugno 1849.

La repressione finale e la sconfitta dei democratici

Si andavano frattanto spegnendo gli ultimi fuochi della rivoluzione che, a partire dal marzo 1848, aveva attraversato l'intero Impero asburgico compresa l'Italia.
In marzo gli austriaci sconfiggevano definitivamente i piemontesi, in luglio si concludeva, grazie all'intervento francese, l'esperienza della Repubblica romana, in agosto le truppe imperiali schiacciavano l'ultima resistenza di Venezia e dell'Ungheria.
Per aver ragione degli indipendentisti magiari, che avevano ripreso il controllo del paese profittando anche dell'impegno austriaco in Italia, il governo di Vienna dovette chiedere l'aiuto militare della Russia.
La sconfitta dei democratici era a questo punto completa.

 

 

IL RISORGIMENTO ITALIANO

 

 

L'Italia e la questione nazionale

[ Introduzione audio ]

Il Risorgimento

Nella prima metà dell'800 prende avvio in Italia un processo di riscoperta e di sempre più decisa rivendicazione della propria identità nazionale.
Questo processo, che avrebbe portato in pochi decenni alla conquista dell'indipendenza, fu definito dai contemporanei, e poi dagli storici, col nome di "Risorgimento": una definizione che ne sottolineava il carattere di rinascita culturale e politica, di riscatto morale da una lunga condizione di servitù e di decadenza, di ritorno a un passato glorioso e a un'unità dalle antichissime origini.
Per la verità l'Italia era stata unita politicamente solo ai tempi dell'Impero romano, ma all'interno di un'entità statale sovranazionale. In seguito, era sempre rimasta divisa e, almeno in parte, subordinata a sovranità straniere (Francia, Spagna, Austria).

La nazione italiana

Tuttavia, se uno Stato italiano non era mai esistito, una nazione italiana, in quanto comunità linguistica, culturale, religiosa e in qualche parte anche economica, esisteva almeno fin dall'età dei comuni. E l'idea di Italia come entità unitaria, dai confini geografici ben definiti, era sempre stata viva nel pensiero di molti autorevoli intellettuali italiani, da Petrarca a Machiavelli ad Alfieri. Alla fine del '700, in alcune componenti della cultura illuminista, questa consapevolezza si era fatta più viva e si era accentuata soprattutto all'interno delle correnti più radicali del movimento giacobino.
Ma questi intenti erano rimasti soffocati dalla contraddizione tipica di tutto il giacobinismo italiano: quella di dover legare la realizzazione delle proprie idee alle sorti della potenza francese, alla politica nazionalista e assolutista di Napoleone.

Ideali di libertà e questione nazionale

Con la Restaurazione, per i patrioti italiani la scelta diventava più semplice: la lotta per gli ideali liberali e democratici poteva coincidere con quella per la liberazione dal dominio straniero. Questo, però, non significava ancora battersi per l'indipendenza e per l'unità italiana.
Nei primi moti rivoluzionari, nel 1820-21, la questione nazionale fu infatti pressoché assente, o comunque subordinata alle rivendicazioni di ordine costituzionale, alle spinte per un mutamento politico all'interno dei singoli Stati.

 

I primi moti rivoluzionari

L'insurrezione nel Napoletano e in Sicilia

Nella prima ondata rivoluzionaria che scosse l'Europa all'inizio degli anni '20 furono coinvolti, come abbiamo visto, il Regno delle Due Sicilie e il Regno di Sardegna.
Il 1° luglio 1820, infatti, pochi mesi dopo l'insurrezione spagnola, la rivolta scoppiò a Nola, nel Napoletano, ed ebbe subito l'adesione di numerosi alti ufficiali ex murattiani, fra cui il generale Guglielmo Pepe. Il re Ferdinando I fu costretto a concedere una Costituzione simile a quella spagnola del 1812.
Questa rivoluzione segui un corso analogo a quella di Spagna e si trovò ad affrontare problemi molto simili: le divisioni fra democratici e moderati; il comportamento ambiguo del re, profondamente ostile alla Costituzione; la inevitabile opposizione del governo austriaco a un esperimento che sembrava minacciare l'intero assetto politico della penisola.
A questi problemi si aggiunse la questione siciliana. Il 15 luglio, infatti, anche Palermo diede vita a una violenta ribellione che, al contrario di quella del Napoletano, registrò un'ampia partecipazione di popolo. Agli operai e agli artigiani si unirono anche gli esponenti dell'aristocrazia locale, delusi dalla politica accentratrice della monarchia napoletana che aveva fatto perdere a Palermo il rango di capitale, e la rivolta assunse subito un chiaro carattere separatista.
A queste velleità indipendentiste dei palermitani il governo di Napoli reagì inviando in Sicilia un corpo di spedizione e la rivolta palermitana fu domata in pochi giorni, alla fine di ottobre.

In Piemonte e nel Lombardo-Veneto

Il successo della rivoluzione napoletana accese le speranze dei liberali italiani, attivi soprattutto in Piemonte e in Lombardia.
Questi avevano l'obiettivo di una costituzione e soprattutto della cacciata degli austriaci dal Lombardo-Veneto per la formazione di un regno costituzionale indipendente nell'Italia settentrionale.
In Lombardia ogni ipotesi insurrezionale fu però stroncata dalla scoperta, nell'ottobre 1820, di un'organizzazione carbonara e dal conseguente arresto dei suoi capi, Silvio Pellico e Pietro Maroncelli, condannati poi a pesanti pene detentive. Dopo molte esitazioni dovute soprattutto ai contrasti fra i democratici e i moderati, il moto scoppiò nel marzo 1821, quando alcuni reparti dell'esercito si ammutinarono, costringendo il re Vittorio Emanuele I ad abdicare in favore del fratello Carlo Felice. Dato che il nuovo re si trovava lontano dal regno, la reggenza fu affidata al nipote Carlo Alberto, che aveva manifestato qualche simpatia per la causa liberale. Carlo Alberto si impegnò dapprima a concedere una costituzione simile a quella spagnola ma poi, sconfessato e richiamato all'ordine da Carlo Felice, si unì alle truppe lealiste che, all'inizio di aprile, con l'aiuto di contingenti austriaci, sconfissero a Novara i rivoluzionari guidati dal conte Santorre di Santarosa.

La repressione militare

La fine dell'esperienza liberale piemontese si inquadrava nella generale sconfitta delle correnti costituzionali e patriottiche, delineatasi già alla fine del marzo 1821 con la conclusione della rivoluzione napoletana.
Era stato il cancelliere austriaco Metternich a decidere un intervento armato: l'Austria, infatti, egemone nella penisola, aveva imposto una serie di legami militari e politici anche al Regno delle Due Sicilie. Così gli austriaci entrarono a Napoli e restaurarono il potere assoluto di Ferdinando I, che mise in atto una dura repressione contro i protagonisti della rivoluzione. Anche in Piemonte la fine del moto costituzionale fu seguita da una serie di condanne contro i militari ribelli e da un massiccio esodo all'estero di patrioti.

Le rivolte del 1831

Anche la seconda fase delle insurrezioni italiane fini rapidamente con la repressione militare ad opera degli austriaci e con la condanna dei principali promotori.
Questa volta la cospirazione prese avvio nel Ducato di Modena dove lo stesso duca Francesco IV sembrava appoggiare i cospiratori: il duca sperava infatti di profittare di un eventuale sommovimento politico per diventare sovrano di un Regno dell'Italia centro-settentrionale. Per questo entrò in contatto con alcuni esponenti delle società segrete, fra cui Ciro Menotti, imprenditore e industriale, che lavorò per allargare allo Stato pontificio e alla Toscana la trama di una cospirazione destinata a porre le premesse per un'Italia unita sotto una monarchia costituzionale. Francesco IV non era però l'uomo più adatto per realizzare progetti di questo genere.
Quando si rese conto che l'Austria si sarebbe opposta con le armi a qualsiasi mutamento politico in Italia, abbandonò rapidamente ogni idea di cospirazione e fece arrestare, nel febbraio 1831, i capi della congiura riuniti in casa di Menotti. La rivolta tuttavia si era ormai estesa a Bologna e a tutti i centri principali delle Legazioni pontificie, ossia la Romagna con Pesaro e Urbino, oltre alle attuali province di Bologna e Ferrara (territori amministrati dai rappresentanti del pontefice, i «cardinali legati»): dalle Legazioni il moto dilagò nel Ducato di Parma e in quello di Modena.

Tentativi unitari e repressione

Rispetto ai moti del '20-21, le insurrezioni dell'Italia centro-settentrionale del '31 presentarono alcuni caratteri di novità.
Questa volta a muoversi non furono tanto i militari, quanto i ceti borghesi appoggiati dall'aristocrazia liberale e sostenuti in qualche caso da una non trascurabile mobilitazione popolare, soprattutto nelle Legazioni, dove molto forte e diffuso era lo scontento nei confronti del malgoverno pontificio. Sia a Bologna sia nei Ducati, questa mobilitazione fu sufficiente per aver ragione di un potere debole e poco preparato a una repressione militare.
Nonostante i tentativi di dare alla rivolta un carattere unitario, le persistenti divisioni municipali e il contrasto tra democratici e moderati indebolirono le iniziative insurrezionali.
L'ipotesi di un intervento della Francia orleanista in favore dei ribelli si rivelò un'illusione, mentre l'esercito austriaco sconfisse a Rimini le forze degli insorti (marzo 1831).
Il ritorno al vecchio ordine fu accompagnato dall'inevitabile repressione. Ciro Menotti fu condannato a morte e impiccato. Anche gli insorti emiliani e romagnoli furono condannati a lunghissime pene detentive, quando non riuscirono a riparare all'estero per ingrossare le file dell'ormai numerosa emigrazione politica italiana.

 

Immobilismo politico e arretratezza economica degli Stati italiani

[ Introduzione audio ]

I quasi due decenni successivi ai moti insurrezionali furono caratterizzati ovunque da un ritorno a forme di assolutismo autoritario, non solo in Piemonte o nello Stato della Chiesa, ma anche nella più illuminata Toscana.

L'economia e le infrastrutture

Qualche novità si registrò invece nel settore economico che, nonostante una tendenza alla crescita produttiva, continuava comunque a essere caratterizzato da una condizione di notevole arretratezza rispetto alle zone più progredite d'Europa.
Il settore agricolo, infatti, restava per lo più legato alle tecniche e ai sistemi di conduzione tradizionali: solo in alcune zone della Lombardia e, in minor misura, del Piemonte si erano realizzati progressi consistenti nella cerealicoltura e nell'allevamento. L'industria, poi, era rimasta sostanzialmente estranea alla tecnologia delle macchine: il settore tessile, in particolare, si fondava ancora sulla manifattura tradizionale e sul lavoro a domicilio. Anche le ferrovie ebbero un inizio assai lento e ritardato: solo nel corso degli anni '40 la costruzione di strade ferrate assunse un carattere sistematico, limitatamente al Piemonte, al Lombardo-Veneto e alla Toscana.
Questo avvio delle costruzioni ferroviarie fu comunque uno degli elementi che contribuirono a dare nuovo slancio all'economia degli Stati italiani. Altri fattori furono i progressi del sistema bancario (soprattutto in Toscana e in Piemonte), lo sviluppo dei porti e della marina mercantile, il generale incremento del commercio internazionale che ebbe ricadute positive anche sull'Italia.

La mancanza di un mercato nazionale

Si trattava, nel complesso, di progressi limitati, non tali da permettere agli Stati italiani di ridurre il ritardo che stavano accumulando nei confronti dell'Europa in via di industrializzazione.
Ma furono sufficienti a far riflettere la parte più avvertita dell'opinione pubblica sui danni derivanti all'economia dalla mancanza di un mercato nazionale e di un efficiente sistema di comunicazioni: venne così riproposto il progetto di una unione doganale italiana da realizzare sul modello dello Zollverein tedesco e divennero argomenti centrali di discussione il confronto con gli altri paesi europei e la necessità di elaborare un nuovo e più razionale assetto politico di tutta la penisola.

 

Il progetto mazziniano

Una nuova strategia

L'esito negativo delle insurrezioni nell'Italia centro-settentrionale segnò la crisi irreversibile della Carboneria e, più in generale, mise in evidenza i limiti della strategia che aveva fin allora guidato le rivoluzioni italiane: la necessità di affidarsi all'appoggio di sovrani rivelatisi poi inaffidabili; la segretezza delle trame settarie che ostacolava una più ampia partecipazione; e soprattutto l'assenza di una direzione unitaria, capace di agire in una prospettiva autenticamente nazionale.
Progetti unitari e repubblicani si erano affacciati negli ambienti dell'emigrazione italiana già nel decennio 1820-30, ma solo all'inizio degli anni '30 l'ideale dell'unità italiana da conseguirsi attraverso un'autentica lotta di popolo si diffuse fra i patrioti di orientamento democratico e si tradusse in concreto programma d'azione, grazie soprattutto all'opera di Giuseppe Mazzini.

Il giovane Mazzini

Mazzini era nato a Genova nel 1805 da una famiglia della borghesia medio-alta.
Si era accostato fin dagli anni giovanili alle idee democratiche e patriottiche e aveva aderito alla Carboneria. Arrestato nel 1830, era stato costretto a emigrare a Marsiglia. Nell'esilio francese, Mazzini entrò in contatto con i maggiori esponenti dell'emigrazione democratica, in particolare con Buonarroti, ma subì anche l'influenza di molte fra le voci più importanti della cultura politica dell'epoca, da Lamennais ai sansimoniani.
Venne così prendendo corpo, fin dai primi anni '30, una concezione politica in cui all'originaria ispirazione democratica si univa una forte componente mistico-religiosa.

Una religione politica

Quella di Mazzini era una religiosità tipicamente romantica, dove Dio si identificava con lo spirito insito nella storia e, in ultima analisi, con la stessa umanità.
La fede nella libertà e nel progresso umano doveva dunque essere vissuta come una fede religiosa. La rivendicazione dei diritti degli individui e delle nazioni non poteva essere separata dalla consapevolezza dei doveri dell'uomo e dalla coscienza di una missione spettante ai popoli quali strumenti di un disegno divino: di qui la celebre formula mazziniana «Dio e popolo».
Nemico dell'individualismo settecentesco, Mazzini credeva invece fermamente nel principio di associazione. Al di sopra dell'individuo c'era la famiglia, al di sopra della famiglia la nazione, al di sopra di tutto l'umanità. Così come gli individui, anche le nazioni dovevano associarsi per cooperare al bene comune.

L'idea di nazione e la missione dell'Italia

L'idea di nazione aveva, nel pensiero di Mazzini, un posto fondamentale.
La nazione – intesa come entità culturale e spirituale, prima ancora che naturale e geografica – era la cellula fondamentale attraverso cui si sarebbe realizzato il sogno di un'umanità libera e affratellata.
All'Italia, in particolare, spettava il compito di porsi alla testa delle nazioni oppresse, di abbattere i fondamenti principali del vecchio ordine – l'Impero asburgico e lo Stato della Chiesa – e di farsi iniziatrice di un generale movimento di emancipazione. Se la Roma dei Cesari aveva unificato politicamente l'Europa, se la Roma dei papi l'aveva assoggettata a un'unica autorità religiosa, la Terza Roma sarebbe stata il centro di una nuova e più alta unità morale e sociale di tutti i popoli della terra.
Come si può notare c'era molto di utopistico (e anche di velleitario) in queste posizioni.

La questione sociale

Nelle idee di Mazzini non c'era posto né per le teorie materialistiche (fondate sull'idea che la realtà derivi unicamente dalla materia e che dunque non possa spiegarsi con l'intervento divino) né per le tematiche legate alla lotta di classe (il contrasto permanente fra borghesia e proletariato, secondo Marx ed Engels). Mazzini non ignorava certo i problemi sociali ed era favorevole a riforme anche audaci (tra cui la divisione tra i contadini delle terre incolte), ma difendeva il diritto di proprietà come base dell'ordine sociale, considerando pericolosa qualsiasi teoria che tendesse a dividere la collettività nazionale e a incrinare l'unità spirituale del popolo.
Per lui anche la questione sociale si sarebbe dovuta risolvere attraverso il principio di associazione: lui stesso, infatti, si impegnò nella promozione di cooperative e società di mutuo soccorso fra gli operai.

Indipendenza, unità, repubblica

Se queste formulazioni ideologiche potevano apparire poco concrete, il programma politico era invece di un'estrema chiarezza.
L'Italia doveva rendersi indipendente e darsi una forma di governo unitaria e repubblicana. Erede della tradizione giacobina, Mazzini non ammetteva alcun compromesso con il principio monarchico e rifiutava ogni soluzione di tipo federalistico, pur prevedendo ampie autonomie per i comuni.
La via per giungere all'unità e all'indipendenza era solo una: l'insurrezione di popolo, di tutto il popolo senza distinzioni di classe.

La Giovine Italia

Lo strumento per realizzare l'insurrezione di popolo era una nuova organizzazione che, anziché nascondere agli affiliati i suoi scopi ultimi, li rendesse subito evidenti e propagandasse apertamente i suoi principi fondamentali svolgendo così, accanto all'azione cospirativa, un'opera di continua educazione politica.
La nuova organizzazione nacque a Marsiglia, nell'estate del '31, si chiamò Giovine Italia, adottò la bandiera tricolore – bianca, rossa e verde – e riunì attorno a Mazzini numerosi emigrati politici dell'ultima generazione e molti giovani democratici che operavano in Italia.

I tentativi insurrezionali

Convinti della necessità di un legame strettissimo tra «pensiero e azione» (la famosa formula mazziniana), Mazzini e i suoi seguaci non aspettarono il maturare di condizioni internazionali favorevoli per mettere in atto i loro progetti e organizzarono, negli anni '30-40, una serie di tentativi insurrezionali in Italia.
Nell'aprile del 1833 fu scoperta una congiura in Piemonte, dove la Giovine Italia aveva numerosi seguaci tra le file dell'esercito: vi furono decine di arresti e 12 fucilati, mentre oltre 200 patrioti furono costretti a fuggire all'estero.
Nel febbraio 1834, invece, fu bloccato sul nascere un progetto rivoluzionario basato su una spedizione di un corpo di volontari che sarebbe dovuto penetrare in Savoia dalla Svizzera e su una contemporanea insurrezione da organizzare a Genova. In questo piano ebbe una parte attiva anche Giuseppe Garibaldi, allora venticinquenne marinaio di Nizza che, sfuggito miracolosamente alla cattura e condannato a morte in contumacia, dovette riparare in Sud America.

La crisi della Giovine Italia e i dubbi di Mazzini

L'esito fallimentare della spedizione in Savoia rappresentò un duro colpo per il prestigio di Mazzini e per l'attività della Giovine Italia.
Privato, nel giro di pochi mesi, di molti dei suoi migliori collaboratori, Mazzini dovette affrontare in questi anni una vera e propria crisi di coscienza e notevoli difficoltà personali (espulso prima dalla Francia e poi dalla Svizzera, si trasferì a Londra).
La «tempesta del dubbio» (così la chiamò Mazzini stesso) fu in breve superata. Come i grandi rivoluzionari di ogni tempo, Mazzini era convinto che la «santità» della causa per cui lottava giustificasse anche i sacrifici più dolorosi.
Nell'aprile del '34, poco dopo il fallimento della spedizione in Savoia, aveva dato vita, assieme a esuli di altre nazionalità, alla Giovine Europa: un'iniziativa che aveva però un valore soprattutto simbolico e che ebbe scarsi effetti sul piano operativo.

La spedizione dei fratelli Bandiera

Nella prima metà degli anni '40 ci furono altri tentativi di insurrezione.
Nel 1843 e nel 1845 furono soffocati due moti nelle Legazioni pontificie.
Nel giugno-luglio 1844, invece, falli una spedizione in Calabria organizzata da due giovani veneziani, i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, ufficiali della marina austriaca aderenti alla Giovine Italia, che avevano sperato di far sollevare i contadini contro il governo borbonico: la popolazione locale rimase indifferente e i due fratelli vennero catturati e fucilati insieme con altri sei compagni.
In realtà, né i moti nelle Legazioni né la spedizione dei Bandiera erano stati organizzati da Mazzini, che anzi aveva espresso un parere negativo sulla opportunità di queste iniziative.
Ma il ripetersi di episodi insurrezionali ispirati dai repubblicani e immancabilmente destinati al fallimento contribuì ad alimentare le critiche nei confronti dei metodi mazziniani e fornì nuovi argomenti alle polemiche dei moderati contro le strategie rivoluzionarie.

 

Moderati, cattolici e federalisti

[ Introduzione audio ]

I moderati e il cattolicesimo liberale

Negli anni '40, il dibattito politico italiano si ampliò e si arricchì di nuove voci.
La principale novità fu l'emergere di un orientamento moderato, che si differenziava nettamente sia dal conservatorismo tradizionale e legittimista sia, ovviamente, dal radicalismo repubblicano di Mazzini.
Per il problema italiano i moderati miravano a soluzioni gradualistiche, tali da non comportare l'uso della violenza e lo scontro con le autorità costituite. La base principale del pensiero moderato stava nel tentativo di conciliare la causa liberale e patriottica con la religione cattolica – considerata il più importante fattore di unità della nazione italiana – e con la Chiesa di Roma.
Una corrente cattolico-liberale esisteva in Italia fin dagli anni della Restaurazione e aveva i suoi esponenti più illustri in Alessandro Manzoni e nel filosofo Antonio Rosmini, fautore di una riforma interna alla Chiesa, nel solco dell'ortodossia cattolica. Su posizioni analoghe erano quegli intellettuali toscani – come Gino Capponi e Bettino Ricasoli – che si erano formati attorno all'«Antologia» di Vieusseux.
La condanna papale del 1832 del cattolicesimo liberale, per quanto fosse rivolta soprattutto contro il gruppo francese dell'«Avenir», si ripercosse anche sul movimento italiano, limitandone gli spunti più apertamente riformatori. Ma non impedì al pensiero cattolico-moderato di esprimersi per altre vie: come i romanzi, per lo più di ambiente medievale, di Cesare Cantù; o come le opere storiche del piemontese Cesare Balbo, che rivalutavano il ruolo della Chiesa e del papato nella storia nazionale e ne esaltavano il ruolo di difensori delle «libertà d'Italia».
Definiti "neoguelfi", con un termine tratto dalla storia medievale, suscitarono, per reazione, la nascita dei "neoghibellini", tra cui emerse uno scrittore toscano di orientamento repubblicano e anticlericale come Francesco Domenico Guerrazzi.

Gioberti

Il neoguelfismo conobbe il suo momento di maggior popolarità dopo il 1843, con la pubblicazione del Primato morale e civile degli italiani, un libro dell'abate torinese Vincenzo Gioberti. Riprendendo da Mazzini il concetto di una speciale «missione» spettante al popolo italiano, Gioberti ne capovolse il significato, identificando questa missione col ruolo della Chiesa.
Il "primato" era quello che veniva all'Italia dall'essere sede del papato e dall'averne condiviso nel corso dei secoli la missione di civiltà. Gioberti era convinto che, per tornare alle glorie passate, l'Italia avesse bisogno di ampie riforme politiche e amministrative. Ma riteneva che per raggiungere questo scopo non fosse necessario puntare all'unità politica: la soluzione da lui proposta era una confederazione fra gli Stati italiani, fondata sull'autorità superiore del papa (che ne avrebbe assunto la presidenza) e sulla forza militare del Regno di Sardegna.
Era un'ipotesi non meno utopistica di quella mazziniana, anche perché puntava su un'evoluzione liberale e nazionale della Chiesa al momento inimmaginabile. Ma presentava all'opinione pubblica moderata un progetto che non prevedeva rivoluzioni, si accordava con il sentimento cattolico dominante e soddisfaceva al tempo stesso gli ideali patriottici, poiché rivendicava all'Italia un «primato morale e civile» fra le nazioni europee.

Balbo e d'Azeglio

L'opera di Gioberti apri un intenso dibattito politico e fu seguita da una serie di altre proposte che ne riecheggiavano, pur con notevoli varianti, i temi fondamentali.
Nel 1844 uscì Le speranze d'Italia di Cesare Balbo, che auspicava anch'esso la formazione di una lega – doganale e militare – fra gli Stati italiani.
A differenza di Gioberti, però, Balbo si poneva il problema della presenza dell'Austria, principale ostacolo per qualsiasi ipotesi indipendentista, e proponeva di risolvere la questione con mezzi diplomatici, assecondando la tendenza dell'Impero asburgico a spostare il centro dei suoi interessi verso l'Europa centro-orientale.
Un altro esponente del liberalismo moderato piemontese, Massimo d'Azeglio, prendendo spunto dal fallimento dei moti del '45 nelle Legazioni pontificie, espresse in un opuscolo uscito all'inizio del 1846, Gli ultimi casi di Romagna, una dura critica sia del malgoverno pontificio sia delle iniziative insurrezionali, giudicate inutili e persino dannose per la causa nazionale.
In alternativa, indicava la via delle riforme graduali, senza escludere, in prospettiva, una soluzione militare affidata alle armi del Regno sabaudo.

Il federalismo di Cattaneo

La scelta a favore delle riforme e la tendenza alle soluzioni federalistiche non erano patrimonio esclusivo dei moderati.
Negli stessi anni in cui il neoguelfismo conosceva i suoi maggiori successi e i moderati piemontesi proponevano la candidatura del Regno sardo al ruolo di guida del Risorgimento nazionale, una corrente federalista, democratica e repubblicana si sviluppava in Lombardia.
Principale esponente di questa tendenza era il milanese Carlo Cattaneo, direttore dal '39 al '45 della rivista «Il Politecnico», erede della tradizione di pragmatismo e di riformismo tipica della cultura illuminista dei Verri e di Beccaria.
Cattaneo aveva interessi culturali vastissimi, orientati soprattutto verso il campo economico e sociale. Da una parte la sua formazione laica e illuminista lo portava a diffidare della mistica romantica di Mazzini, dall'altra la profonda avversione che nutriva per il dominio austriaco non gli impediva di considerare con ostilità la prospettiva di un assorbimento del Lombardo-Veneto da parte di un Piemonte assolutista e clericale.
La via da lui indicata per la soluzione del problema italiano non si discostava nella sostanza da quella dei moderati, in quanto puntava sulle riforme politiche e sullo sviluppo economico all'interno dei singoli Stati, con particolare insistenza sui temi del liberismo doganale, delle vie di comunicazione e dell'istruzione pubblica. Ma molto diverso era l'obiettivo finale, che consisteva in una confederazione repubblicana, sul modello degli Stati Uniti o della Svizzera, che lasciasse ampi spazi di autonomia a tutte le istanze della vita locale e fosse la premessa per la costituzione degli Stati Uniti d'Europa.
Un altro esponente del federalismo repubblicano fu Giuseppe Ferrari.
Milanese, emigrato a Parigi alla fine degli anni '30, Ferrari criticò sia il moderatismo cattolico dei neoguelfi sia il nazionalismo unitario dei mazziniani, sostenendo la necessità di inserire la soluzione del caso italiano nel quadro di una rivoluzione europea che avrebbe dovuto avere il suo centro in Francia.
Nell'esilio parigino Ferrari si accostò anche alle teorie socialiste (soprattutto quelle di Proudhon) e fu tra i primi a collegare strettamente la questione nazionale ai temi della questione sociale.

 

Pio IX e il movimento per le riforme

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Le riforme di Pio IX

Tra il 1846 e il 1847 l'opinione pubblica italiana visse un periodo di intensa mobilitazione e di febbrile attesa di grandi mutamenti.
L'evento decisivo fu l'elezione, nel giugno 1846, di papa Pio IX, l'arcivescovo di Imola Giovanni Maria Mastai Ferretti (sul soglio pontificio fino al 1878).
Il nuovo papa era noto soprattutto come un pastore di anime, dalla religiosità sincera e profonda. Aveva un tratto umano bonario che lo aveva reso popolare nella sua diocesi, ma non sembrava avere una personalità politica molto spiccata, né gli si riconoscevano simpatie liberali.
I primi atti del suo pontificato – in particolare la concessione di un'ampia amnistia per i detenuti politici – suscitarono però un vero e proprio entusiasmo. Liberali e moderati di tutta Italia credettero di aver trovato in Pio IX il loro eroe, l'uomo capace di dar corpo al programma neoguelfo. Anche da parte democratica vennero al nuovo papa aperture e riconoscimenti.
Le piazze delle principali città italiane si riempirono di manifestazioni inneggianti al pontefice. Questo clima di entusiasmo finì per coinvolgere lo stesso Pio IX e spingerlo a una serie di concessioni che probabilmente non rientravano nei suoi programmi iniziali. Nella primavera-estate del '47, fu convocata una Consulta di Stato, formata da rappresentanti delle province scelti dall'autorità centrale, venne istituita una Guardia civica e fu attenuata la censura sulla stampa.
Questi provvedimenti, tutt'altro che rivoluzionari, ebbero un effetto superiore al loro valore reale, dando ulteriore stimolo alla mobilitazione per le riforme e alla propaganda patriottica in tutti gli Stati italiani e nello stesso Lombardo-Veneto.

Negli altri Stati italiani

Fra l'estate e l'autunno del '47, il movimento per le riforme dilagò in tutta Italia, accompagnato da una mobilitazione popolare a sfondo sociale, legata alle conseguenze della crisi economica europea che, in questo periodo, fece salire anche in Italia i prezzi dei generi alimentari. Sovrani e governanti — preoccupati dal rischio di una svolta democratica — furono indotti a prudenti concessioni.
In ottobre, Carlo Alberto varò un nuovo ordinamento amministrativo, che rendeva elettivi i consigli comunali e provinciali, e allentò i controlli sulla stampa. In novembre, Piemonte, Toscana e Stato della Chiesa sottoscrissero gli accordi preliminari per una Lega doganale italiana.
Estraneo al progetto di Lega — e a tutto il moto riformatore — rimase il Regno delle Due Sicilie, che godeva dell'appoggio dell'Austria ma doveva fare i conti con la crescente ostilità dell'opinione pubblica nazionale e internazionale. Proprio nel Regno borbonico sarebbe iniziata l'ondata insurrezionale che avrebbe coinvolto l'Italia intera, nel più ampio quadro delle rivoluzioni europee del 1848.

 

Il '48 italiano. La guerra contro l'Austria

L'inizio dalle sollevazioni

In Italia la rivoluzione del '48 ebbe, nella sua fase iniziale, uno sviluppo autonomo rispetto agli altri paesi europei.
Già all'inizio dell'anno, tutti gli Stati italiani apparivano percorsi da un generale fermento. Primo e fondamentale obiettivo comune a tutte le correnti politiche era la concessione di costituzioni o statuti fondati sul sistema rappresentativo.
Fu la sollevazione di Palermo del 12 gennaio 1848 (legata soprattutto alle rivendicazioni autonomistiche dei siciliani) a determinare il primo successo in questa direzione, inducendo Ferdinando II di Borbone — il più retrogrado di tutti i regnanti della penisola — ad annunciare la concessione di una Costituzione nel Regno delle Due Sicilie.
La mossa inattesa di Ferdinando II non bastò a spegnere l'autonomismo siciliano ed ebbe inoltre l'effetto di rafforzare la mobilitazione per le costituzioni in tutta Italia.

Le costituzioni

Spinti dalla pressione dell'opinione pubblica e dalle continue dimostrazioni di piazza, prima Carlo Alberto di Savoia, poi Leopoldo II di Toscana, infine lo stesso Pio IX decisero di concedere la Costituzione.
Annunciate — salvo quella di Pio IX — prima dello scoppio della rivoluzione di febbraio in Francia, le costituzioni del '48 avevano tutte un carattere moderato ed erano ispirate al modello di quella francese del 1830.
La più importante di tutte, lo Statuto albertino, promulgato da Carlo Alberto il 4 marzo 1848, sarebbe poi diventato la legge fondamentale del Regno d'Italia, rimasta in vigore per un secolo fino alla costituzione repubblicana del 1° gennaio 1948. Prevedeva una Camera dei deputati — le cui modalità di elezione, definite da apposita legge, legavano il diritto di voto a un censo piuttosto elevato —, un Senato nominato dal re e una stretta dipendenza del governo dal sovrano.
Una soluzione costituzionale-moderata si andava dunque delineando nei maggiori Stati italiani, quando lo scoppio della rivoluzione in Francia e nell'Impero asburgico giunse a mutare i termini del problema, dando nuovo spazio all'iniziativa dei democratici e riportando in primo piano la questione nazionale, fin allora rimasta in ombra.

Le rivolte di Venezia e Milano

Nei giorni immediatamente successivi alla rivolta di Vienna, si sollevarono anche Venezia e Milano.
A Venezia, il 17 marzo, una grande manifestazione popolare aveva imposto al governatore austriaco la liberazione dei detenuti politici, fra cui era il capo dei democratici, l'avvocato Daniele Manin. Pochi giorni dopo, una rivolta degli operai dell'Arsenale militare cui si unirono numerosi marinai e ufficiali (la marina asburgica era composta in larga parte da veneti) costringeva i reparti austriaci a capitolare. Il 23 marzo un governo provvisorio presieduto da Manin proclamava la Costituzione della Repubblica veneta.
A Milano l'insurrezione iniziò il 18 marzo, con un assalto al palazzo del governo, e si protrasse per cinque giorni, le celebri «cinque giornate» milanesi. Borghesi e popolani combatterono, fianco a fianco, sulle barricate contro i soldati austriaci del maresciallo Joseph Radetzky. Ma furono soprattutto gli operai e gli artigiani a sostenere il peso degli scontri, che costarono agli insorti circa 400 vittime. La direzione delle operazioni fu assunta da un consiglio di guerra composto prevalentemente da democratici e guidato da Carlo Cattaneo. Anche gli esponenti dell'aristocrazia liberale finirono, dopo molte esitazioni, per appoggiare la causa degli insorti e formarono, il 22 marzo, un governo provvisorio.
Il giorno stesso Radetzky, preoccupato per l'eventualità di un intervento del Piemonte, decise di ritirare le sue truppe all'interno del cosiddetto quadrilatero, l'area definita dal perimetro delle fortezze di Verona, Legnago, Mantova e Peschiera.

La prima guerra d'indipendenza

Il 23 marzo, all'indomani della cacciata degli austriaci da Venezia e da Milano, il Piemonte dichiarava guerra all'Austria.
Diverse furono le ragioni che spinsero Carlo Alberto a questa decisione: la pressione congiunta dei liberali e dei democratici, che vedevano nella crisi dell'Impero asburgico l'occasione per liberare l'Italia dagli austriaci; la tradizionale aspirazione della monarchia dei Savoia ad ampliare verso est i confini del Regno; infine il timore che il Lombardo-Veneto diventasse un centro di propaganda repubblicana.
Anche in questo caso, com'era avvenuto per la concessione degli statuti, l'esempio di un sovrano finì col condizionare le decisioni degli altri.
Preoccupati dal diffondersi dell'agitazione democratica e patriottica che minacciava la stabilità dei loro troni, Ferdinando II di Napoli, Leopoldo II di Toscana e Pio IX decisero di unirsi alla guerra antiaustriaca e inviarono truppe regolari che partirono, in un'atmosfera di grande entusiasmo popolare, affiancate da numerosi contingenti di volontari.
La guerra piemontese si trasformava così nella prima guerra di indipendenza nazionale, benedetta dal papa e combattuta da tutte le forze patriottiche.

La crisi dell'alleanza e la sconfitta

Ma l'illusione durò poco. Carlo Alberto mostrò scarsa risolutezza nel condurre le operazioni militari e si preoccupò soprattutto di preparare l'annessione del Lombardo-Veneto al Piemonte, suscitando l'irritazione dei democratici e la diffidenza degli altri sovrani, già poco entusiasti della partecipazione al conflitto.
Particolarmente imbarazzante era la posizione di Pio IX, che si trovava in guerra contro una grande potenza cattolica.
Il 29 aprile il papa annunciò il ritiro delle sue truppe. Pochi giorni dopo lo imitava il granduca di Toscana. A metà maggio Ferdinando di Borbone richiamò il suo esercito. Rimasero a combattere contro l'Austria, disobbedendo agli ordini dei sovrani, molti fra i componenti dei corpi di spedizione regolari. Rimasero i volontari toscani, guidati da Giuseppe Montanelli, che furono protagonisti, in maggio, di un glorioso scontro a Curtatone e Montanara.
Accorse dal Sud America Giuseppe Garibaldi, che si mise a disposizione del governo provvisorio lombardo.
Ma il contributo dei volontari fu poco e male utilizzato da Carlo Alberto, deciso a combattere la «sua guerra» e a non lasciare spazio all'azione dei democratici. Dopo alcuni modesti successi iniziali dei piemontesi, l'iniziativa tornò nelle mani dell'esercito asburgico.
Il 23-25 luglio, nella prima grande battaglia campale che si combatté a Custoza, presso Verona, le truppe di Carlo Alberto furono nettamente sconfitte e si ritirarono oltre il Ticino. Il 9 agosto fu firmato l'armistizio con gli austriaci.

 

La sconfitta dei democratici

Gli obiettivi dei democratici

Dopo la sconfitta del Piemonte, a combattere contro gli austriaci restavano solo i democratici italiani e ungheresi.
Mentre in Ungheria lo scontro assunse il carattere di una vera e propria guerra nazionale, in Italia i patrioti democratici dovettero combattere una serie di battaglie locali – a Roma e a Venezia, in Toscana e in Sicilia – geograficamente divisi e senza poter dare alla loro lotta una dimensione autenticamente popolare.
L'ideale di una guerra di popolo che unisse la prospettiva della liberazione nazionale a quella dell'emancipazione politica e sociale contrastava con la ristrettezza della loro base sociale formata dalla piccola e media borghesia urbana, soprattutto quella intellettuale, e dai ceti artigiani delle città. Le masse contadine, ossia la stragrande maggioranza della popolazione italiana, rimasero invece estranee, e spesso apertamente ostili alle loro battaglie.

La fase democratica della rivoluzione italiana

Tuttavia, nell'autunno del '48, la situazione in Italia rimaneva incerta.
La Sicilia era sotto il controllo dei separatisti, che si erano dati un proprio governo e una propria costituzione democratica.
A Venezia, in mano degli insorti anche dopo la sconfitta di Custoza, Manin aveva nuovamente proclamato la Repubblica.
In Toscana, alla fine di ottobre, il granduca fu costretto dalla pressione popolare a formare un ministero democratico, capeggiato da Giuseppe Montanelli e da Francesco Domenico Guerrazzi, leader dei repubblicani livornesi.
A Roma, in novembre, l'uccisione in un attentato del primo ministro pontificio, il liberale moderato Pellegrino Rossi, aveva indotto il papa ad abbandonare la città e a rifugiarsi a Gaeta sotto la protezione dei Borbone. Nella capitale, rimasta senza governo, presero il sopravvento i gruppi democratici. Nel gennaio del 1849, in tutti i territori dell'ex Stato della Chiesa, si tennero le elezioni a suffragio universale per l'Assemblea costituente. Fra gli eletti, in maggioranza democratici, c'erano anche Mazzini e Garibaldi. A febbraio l'Assemblea proclamò la decadenza del potere temporale dei papi e annunciò che lo Stato avrebbe assunto «il nome glorioso di Repubblica romana», avrebbe adottato come forma di governo «la democrazia pura» e avrebbe stabilito col resto d'Italia «le relazioni che esige la nazionalità comune», in vista dell'unità nazionale, da realizzare su basi democratiche e non dinastiche.
Gli sviluppi della situazione nello Stato della Chiesa ebbero immediate ripercussioni in Toscana.
A febbraio il granduca Leopoldo II abbandonò il paese e venne convocata un'Assemblea costituente: i poteri, intanto, passarono a un triumvirato composto da Montanelli, Guerrazzi e Mazzini.

La sconfitta di Novara e la restaurazione dell'ordine

Anche in Piemonte i democratici ripresero l'iniziativa.
Il 20 marzo 1849 Carlo Alberto, schiacciato tra la pressione di questi ultimi e l'intransigenza degli austriaci che ponevano condizioni molto pesanti per la firma della pace, decise di entrare di nuovo in guerra. Ma le truppe di Radetzky, penetrate in territorio piemontese, affrontarono l'esercito sabaudo il 22-23 marzo nei pressi di Novara e gli inflissero una gravissima sconfitta.
La stessa sera del 23 marzo, Carlo Alberto, per non mettere in pericolo le sorti della dinastia, abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Il giorno dopo, il nuovo re firmò un nuovo armistizio con gli austriaci.
Una rivolta democratica scoppiata a Genova fu duramente repressa dall'esercito.
Sconfitto il Regno sabaudo, gli austriaci potevano ora procedere alla restaurazione dell'ordine in tutta la penisola.
Alla fine di marzo, un'insurrezione a Brescia fu schiacciata dopo durissimi combattimenti, le «dieci giornate» di Brescia. In aprile, le truppe imperiali strinsero d'assedio Venezia, che avrebbe resistito eroicamente per quasi cinque mesi e si sarebbe arresa per fame solo alla fine di agosto. In maggio, mentre Ferdinando di Borbone riusciva finalmente a riconquistare la Sicilia, gli austriaci occuparono il territorio delle Legazioni pontificie e contemporaneamente posero fine all'esperienza della Repubblica toscana.

La resistenza della Repubblica romana

Più lunga e gloriosa fu la resistenza della Repubblica romana, dove erano affluiti esuli e patrioti da tutta Italia: da Mazzini e Garibaldi al romagnolo Aurelio Saffi, al genovese Mameli (che scrisse l'inno Fratelli d'Italia), al napoletano Pisacane, ai milanesi Cernuschi e Manara, eroi delle «cinque gíornate».
Fin dai suoi primi atti, il governo repubblicano romano, sotto la guida di Mazzini, si qualificò per l'energia con cui cercò di portare avanti l'opera di laicizzazione dello Stato e di rinnovamento politico e sociale.
Furono aboliti i tribunali ecclesiastici e venne decretata la confisca dei beni del clero.
Fu varato – caso unico nella storia delle rivoluzioni italiane dell'800 – un progetto di riforma agraria che prevedeva la concessione in affitto perpetuo alle famiglie più povere di parte delle terre confiscate al clero.
Frattanto però, dal suo esilio di Gaeta, Pio IX si era rivolto alle potenze cattoliche per essere ristabilito nei suoi territori. A questo appello avevano risposto non solo l'Austria, la Spagna e il Regno di Napoli, ma anche la Repubblica francese, ormai dominata dalle forze cattoliche e conservatrici.

La fine degli esperimenti democratici

Il presidente Bonaparte si riservò il ruolo principale nella restaurazione pontificia, inviando nel Lazio un corpo di spedizione che all'inizio di giugno attaccò la capitale.
I repubblicani – che avevano affidato i pieni poteri a un triumvirato composto da Mazzini, Saffi e dal romano Carlo Armellini – organizzarono una difesa efficace ma destinata inevitabilmente a soccombere.
Il 4 luglio, subito prima della capitolazione, fu promulgata la Costituzione della Repubblica romana che, sebbene rimasta come pura enunciazione, divenne il documento-simbolo degli ideali democratici e un modello alternativo rispetto alle costituzioni liberali e moderate.
Mentre i francesi entravano a Roma, Garibaldi lasciò la città con qualche centinaio di volontari, nel tentativo di raggiungere Venezia. Ma il 26 agosto gli austriaci, dopo aver soffocato la rivolta in Ungheria riuscirono a spegnere anche la resistenza della città veneta.
Si concludeva così, con la duplice sconfitta sia dell'ipotesi liberali e moderata, sia di quella democratica, la stagione rivoluzionaria del 1848-49.

 

Il patriottismo risorgimentale

Chi erano i patrioti

Le insurrezioni, le lotte rivoluzionarie e la guerra contro l'Austria avevano visto all'opera, accanto agli eserciti regolari, un numero sempre maggiore di patrioti disposti a mettere in gioco la propria vita nella lotta per l'indipendenza dallo straniero e insieme per la nascita di nuovi organismi politici.
Per gran parte giovani o nella prima età matura si erano formati, i più anziani, nelle organizzazioni segrete, eredi del giacobinismo, salvo trovare motivi di aggregazione comune nelle nuove ideologie politiche sia sul fronte moderato neoguelfo o liberale, sia, soprattutto i più giovani, nell'adesione al mazzinianesimo.
Queste adesioni e queste militanze erano sostenute da un discorso patriottico nazionale che si era venuto costruendo non solo sul terreno ideologico e politico, ma anche avvalendosi, e talora prevalentemente, di elementi letterari, musicali e delle arti figurative.
Le memorie di Silvio Pellico, I sepolcri di Foscolo, le poesie di Giovanni Berchet, le opere musicali o singoli brani di Giuseppe Verdi, alcuni quadri di Francesco Hayez costituivano un repertorio collettivo di parole, suoni e immagini in grado di diffondere il messaggio nazionale.
In particolare il melodramma, ascoltato e riproposto in chiave patriottica, forniva un terreno comune ad ampi strati sociali, dalla nobiltà ai ceti popolari urbani, come principale mezzo di comunicazione, veicolo degli ideali risorgimentali e di formazione politica e civile.

La nascita di una tradizione

Privo di riferimenti consolidati a un comune passato nazionale, se non a quello "inventato" della continuità con l'antica Roma o con l'Italia dei comuni, il patriottismo italiano riprendeva singoli episodi di rivalsa contro lo straniero dove si era manifestato vincente l'orgoglio ferito degli italiani: la battaglia di Legnano (tra i comuni italiani e l'imperatore Federico Barbarossa, 1176), i Vespri siciliani (la rivolta scoppiata a Palermo contro gli Angiò che determinò la cacciata dei francesi dall'isola, 1282), la disfida di Barletta (il duello tra cavalieri italiani e francesi in terra di Puglia, 1503).
Si veniva costruendo nel suo farsi, proprio lungo il filo degli avvenimenti, una tradizione patriottica con i suoi martiri da celebrare — i fratelli Bandiera, i volontari di Curtatone e Montanara, i caduti nella difesa della Repubblica romana — e da portare come esempio.
Una tradizione che esaltava gli elementi di fratellanza e di valore guerresco — come nelle esplicite strofe dell'inno Fratelli d'Italia di Goffredo Mameli (1827-1849) — per rovesciare l'immagine diffusa in Europa, lo stereotipo degli italiani «che non sanno battersi».
Una tradizione che aveva dei riferimenti obbligati in alcune figure carismatiche: Mazzini e in seguito soprattutto Garibaldi.

 

 

IL PROCESSO DI UNIFICAZIONE

 

 

Preliminari

[ Introduzione audio ]

L'Italia unita e l'Europa

Dopo le sconfitte del 1848-49 l'Italia rimaneva divisa in sei Stati: il Regno di Sardegna, il Ducato di Parma e Piacenza, quello di Modena, lo Stato pontificio, il Granducato di Toscana, il Regno delle Due Sicilie.
Inoltre Lombardia e Veneto fino a Trieste erano sotto il diretto dominio dell'Austria, principale ostacolo all'unificazione e all'indipendenza dell'Italia.
Nel giro di un ventennio questo assetto risultò profondamente modificato.
Nel 1861, dopo la seconda guerra d'indipendenza e la spedizione dei Mille di Garibaldi, il nuovo Parlamento poteva proclamare l'unità d'Italia sotto la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II.
Dopo la conquista del Veneto del 1866, nel 1870 la presa di Roma suggellava il processo di unificazione nazionale.
L'unità d'Italia modificava profondamente il quadro europeo inserendo un nuovo organismo statale in un assetto politico-geografico consolidato da secoli. Salvo il breve periodo della dominazione napoleonica — che aveva contribuito a far germogliare le ipotesi unitarie —, l'Italia era rimasta divisa dai tempi della caduta dell'Impero romano. Anche se il ceto colto aveva continuato a immaginare un'unità culturale, linguistica e geografica dell'Italia, dalle Alpi alla Sicilia, e tutto il movimento nazionale — e in particolare quello democratico guidato da Mazzini — aveva raccolto e rafforzato questa visione dando corpo a una risorta identità italiana.
La presenza del nuovo Stato alterava gli equilibri tra le potenze e nei sistemi di alleanze presenti sulla scena europea e insieme suscitava, grazie alla sconfitta dell'Austria, nuove aspettative tra i movimenti nazionali dell'Impero asburgico, già attivi nel rivendicare la propria autonomia.

L'Italia nel 1861

I fattori dell'unificazione

Molti fattori avevano concorso a realizzare lo straordinario successo politico dell'unificazione:
 - una dinastia come quella sabauda, orientata da secoli a un'espansione dei propri territori verso la Pianura padana da conseguire per via diplomatica e militare;
 - un ceto politico liberale sostenuto nei suoi progetti da un sistema istituzionale rappresentativo sancito, in Piemonte, dallo Statuto del 1848;
 - la presenza di un abile e determinato leader politico come il conte di Cavour, in grado di guidare un processo di riforme economiche e politiche che trasformarono il Piemonte in una piccola potenza regionale;
 - la sistematica sconfitta delle iniziative mazziniane e lo spostamento di larga parte del movimento nazionale al fianco del Regno di Sardegna;
 - l'alleanza con la Francia cercata e trovata da Cavour facendo leva sulle ambizioni egemoniche sull'Italia di Napoleone III;
 - le vittorie sull'Austria del 1859 durante la seconda guerra d'indipendenza e le sollevazioni in Emilia-Romagna e in Toscana, seguite dalle rapide annessioni al Piemonte;
 - infine i successi di Garibaldi in Sicilia e nel Meridione.
L'abilità e determinazione di Cavour, il rilancio dell'iniziativa democratica e l'audacia unita al carisma di Garibaldi fecero sì che questi fattori si disponessero in una sequenza tutta positiva ottenendo, tra il '59 e il '60, un risultato inizialmente impensabile e insperato. Tanto più insperato date le difficoltà di conciliare l'iniziativa politica e militare dall'alto del Regno di Sardegna con l'iniziativa dal basso dei democratici e dei garibaldini.
Decisiva era stata nel 1859 l'alleanza con la Francia nella guerra contro l'Austria, come decisiva fu quella con la Prussia nel 1866. Ed egualmente determinante fu la vittoria della Prussia sulla Francia nel 1870 che diede via libera alla conquista di Roma.
L'unificazione italiana non è separabile quindi dal contributo che le due grandi potenze europee diedero al movimento nazionale a conferma della capacità di Cavour e dei suoi successori di cogliere tutte le opportunità che la situazione europea era in grado di offrire.

I risultati dell'unificazione

Con l'unità prendeva avvio un processo di modernizzazione complessiva del paese legato strettamente alle istituzioni rappresentative e alla connotazione laica e liberale del nuovo Stato.
Aveva anche inizio la graduale formazione di un mercato nazionale, premessa indispensabile dello sviluppo economico, mentre cospicui investimenti venivano compiuti – col sostegno di un duro prelievo fiscale – nelle grandi infrastrutture (ferrovie e strade) e nell'alfabetizzazione dei cittadini. L'unificazione italiana e la quasi coeva unificazione tedesca (1871) rappresentarono la maggiore novità politica europea della seconda metà dell'800.
Consapevole del suo nuovo ruolo, l'Italia, dopo una prima fase di prudente realismo, avrebbe cercato di trovare una sua collocazione tra le potenze ponendosi obiettivi spesso superiori alle sue forze e con risultati inferiori alle sue ambizioni, come si sarebbe visto nella politica di espansione coloniale di fine secolo.

Il ritardo italiano e il divario tra Nord e Sud

Al momento dell'unificazione, l'Italia nel suo insieme appariva, nel confronto con l'Europa più sviluppata, un paese arretrato dal punto di vista economico e civile: questa distanza era anche il frutto di secoli di sudditanza straniera e della presenza dello Stato della Chiesa che sanciva la divisione della penisola.
Una presenza tutelata dalle potenze cattoliche e dal ruolo cosmopolita di Roma capitale religiosa del cattolicesimo e sede dei pontefici.
Questo ritardo e questa diversità sembravano riscattarsi nella contemplazione di un passato glorioso e nelle tante testimonianze di questo passato disseminate nelle città e nel paesaggio italiano. Proprio questa dimensione costituiva l'immagine prediletta dagli stranieri che accorrevano in Italia nei loro viaggi di formazione artistica e culturale, di scoperta dell'antico e del bello, ma anche del caratteristico e del diverso, e che ora si mostravano delusi di fronte alla inedita modernità italiana.
Ben più significativa era la spaccatura che l'unificazione aveva creato in larga parte del paese tra i settori politicamente e culturalmente più avanzati e i difensori della tradizione e degli antichi sistemi di potere. Tra questi primeggiavano le gerarchie ecclesiastiche e i cattolici fedeli al pontefice cui era stato fatto divieto di partecipare alle elezioni politiche con la formula del non expedit ('non giova') che Pio IX pronunciò nel 1874.
Consapevole dell'incompiutezza dell'unificazione e del ritardo italiano, la classe politica avviò la costruzione del nuovo Stato seguendo i principi di una forte centralizzazione amministrativa da applicare in maniera uniforme a tutto il paese, soprattutto nel tentativo di colmare il divario Nord e Sud, che si palesava non solo in termini di diverso sviluppo economico ma anche come opposizione politica. Il brigantaggio meridionale e la guerriglia contadina degli anni 1861-65, a sfondo sociale e filoborbonico, ne furono l'esempio più evidente.
Il Risorgimento aveva visto come protagonisti del successo lo Stato più moderno del paese – il Piemonte sabaudo – e un'élite politica, liberale e democratica, certamente ristretta ma sufficientemente ampia, diffusa nei ceti medi e negli strati popolari urbani, in grado di dare un contributo decisivo politico e anche militare, come nel volontariato garibaldino, al raggiungimento dell'unità e dell'indipendenza.
Da molti punti di vista l'unificazione rappresentava una soluzione troppo avanzata per le condizioni civili, sociali ed economiche del paese. Si trattava ora di coinvolgere la maggioranza degli italiani nei valori di libertà e di modernità a cui si era ispirato il Risorgimento e di colmare le molte distanze e diversità che erano presenti nel nuovo Stato nazionale: un'impresa difficile da compiere in tempi brevi e che avrebbe lasciato, in parte fino ad oggi, molti problemi irrisolti.

 

Il Piemonte liberale del conte di Cavour

[ Introduzione audio ]

Nel marzo 1861 fu proclamata a Torino l'unità d'Italia.
Questo risultato, imprevedibile dopo le sconfitte delle rivoluzioni del '48-49, fu dovuto al successo dell'iniziativa diplomatica e militare del Piemonte guidata dal conte di Cavour e alle vittorie sul Regno borbonico della spedizione dei Mille comandata da Garibaldi.

Il governo d'Azeglio e le leggi Siccardi

In Piemonte, dopo la sconfitta di Novara del '49, il re Vittorio Emanuele II mantenne l'ordinamento costituzionale e il sistema parlamentare definito dallo Statuto del 1848 mentre il governo liberale moderato, presieduto da Massimo d'Azeglio, continuò lungo la linea di ammodernamento delle istituzioni avviata negli ultimi anni di regno di Carlo Alberto.
Una decisione di grande rilievo fu quella di porre fine agli anacronistici privilegi di cui il clero ancora godeva – tribunali riservati, diritto d'asilo per le chiese e i conventi, censura sui libri –, adeguando la legislazione ecclesiastica del Piemonte a quella degli altri Stati cattolici europei.
Nella battaglia parlamentare per l'approvazione di queste norme, note come "leggi Siccardi" dal nome del ministro della Giustizia, emerse nelle file della maggioranza liberai-moderata la figura di un nuovo e dinamico leader: il conte Camillo Benso di Cavour, aristocratico e uomo d'affari, proprietario terriero e giornalista, direttore di un combattivo organo di stampa dal titolo «Il Risorgimento».

Cavaour politico e imprenditore

Liberalismo e intraprendenza borghese furono le due componenti decisive nella formazione di Cavour.
Il suo era un liberalismo moderato dai tratti fortemente pragmatici, molto lontano dai programmi della democrazia ottocentesca.
Cavour era infatti convinto che l'ampliamento della partecipazione politica doveva essere attuato con gradualità nell'ambito di un sistema monarchico-costituzionale promotore di riforme e trasformazioni: l'unico antidoto, a suo giudizio, contro la rivoluzione e il disordine sociale.
Alla concreta esperienza di uomo d'affari e di imprenditore agricolo, Cavour univa una buona conoscenza delle teorie economiche e vedeva nello sviluppo produttivo la premessa indispensabile per il progresso civile e politico: ammiratore del liberalismo britannico, nutriva quella fiducia pressoché illimitata nella libertà economica che era tipica della moderna cultura borghese.

Il «connubio» e il sistema parlamentare

Cavour entrò a far parte del governo d'Azeglio nel 1850, come ministro per l'Agricoltura e il Commercio. Due anni dopo fu incaricato di formare un nuovo governo (novembre 1852).
Prima ancora di diventare presidente del Consiglio dei ministri, Cavour si era reso protagonista di un rovesciamento degli equilibri politici, promuovendo un accordo fra l'ala più progressista della maggioranza moderata, il cosiddetto «centro-destra», di cui egli stesso era il leader, e la componente più moderata della sinistra democratica, il «centro-sinistra» capeggiato da Urbano Rattazzi. Dal «connubio» (come fu allora definito), nacque una nuova maggioranza di centro, che emarginava sia i clericali-conservatori sia i democratici più radicali.
In questo modo Cavour poté ampliare la base parlamentare del suo governo e spostarne l'asse verso sinistra: il che gli consenti non solo di far propria la politica patriottica e antiaustriaca sostenuta fin allora dai democratici, ma anche di rendere più incisiva la sua azione riformatrice in campo politico ed economico.
Negli stessi anni si affermò in Piemonte un sistema di governo di tipo parlamentare (analogo a quello britannico), che modificava nella prassi lo Statuto albertino facendo dipendere il governo non più esclusivamente dalla fiducia accordatagli dal sovrano, ma anche e soprattutto dal sostegno di una maggioranza in Parlamento.

I successi della politica economica

Cavour si adoperò per sviluppare l'economia del suo paese e per integrarla nel più ampio contesto europeo. Premessa essenziale fu l'adozione di una politica decisamente liberoscambista: furono stipulati trattati commerciali con Francia, Belgio, Austria e Gran Bretagna e, fra il '51 e il '54, venne gradualmente abolito il dazio sul grano. Notevoli progressi si registrarono anche nel campo delle opere pubbliche: furono costruiti strade e canali ma soprattutto venne sviluppato il sistema dei trasporti ferroviari, favorendo l'espansione del commercio e dell'industria meccanica.
Alla vigilia dell'unità, dopo dodici anni di regime liberale, il Piemonte poteva vantare un'agricoltura in fase di espansione e di modernizzazione, tanto da reggere il confronto con quella della Lombardia; un'industria che poneva il Piemonte all'avanguardia degli Stati italiani; un sistema creditizio potenziato intorno a una banca centrale, la Banca nazionale; una rete di trasporti efficiente e collegata con l'Europa tramite l'avvio della costruzione del traforo del Fréjus; un volume di scambi commerciali con l'estero che, rapportato alla popolazione, era quasi il doppio di quello medio del resto d'Italia.
Con il progresso economico e politico il Piemonte divenne inevitabilmente il polo di attrazione di moltissimi esuli politici e di intellettuali dal resto d'Italia. Gli emigrati parteciparono alla vita politica del regno, inserendosi nella classe dirigente piemontese che diventava così sempre più rappresentativa dell'intero paese.

 

La sconfitta dei repubblicani

I mazziniani e il Partito d'azione

L'attività cospirativa dei mazziniani, guidati dal loro leader in esilio a Londra, prosegui nonostante le sconfitte del '48-49. Ma la repressione austriaca ebbe la meglio come nel drammatico caso delle nove impiccagioni avvenute nella fortezza di Belfiore, presso Mantova, fra la fine del '52 e l'inizio del '53.
Allora Mazzini, sempre convinto che l'unità d'Italia dovesse ottenersi attraverso l'insurrezione di popolo, ritenne opportuno correggere la sua strategia rafforzando gli aspetti organizzativi e fondando nel 1853, a Ginevra, una nuova formazione politica cui diede il nome di Partito d'azione, quasi a sottolinearne il carattere di puro strumento di battaglia. Nel contempo intensificò i suoi sforzi per crearsi una base fra gli artigiani e gli operai delle città del Nord: molte fra le società operaie di mutuo soccorso nate in questo periodo, soprattutto in Piemonte e in Liguria grazie alla libertà di associazione garantita dallo Statuto, furono infatti controllate dai mazziniani.

L' ipotesi socialista

Nel frattempo tra i democratici si diffondeva il dissenso sulla fallimentare strategia mazziniana: vi era chi riteneva ormai necessario evitare un atteggiamento intransigente e puntare su una più ampia collaborazione con tutte le forze interessate al conseguimento dell'unità e chi pensava che si dovesse mirare invece a un programma socialista aperto ai problemi sociali e alle esigenze delle classi subalterne.
Nel 1851 due libri — La Federazione repubblicana del milanese Giuseppe Ferrari e La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 del napoletano Carlo Pisacane – introdussero il tema del socialismo nel dibattito interno al movimento risorgimentale. Sostenevano entrambi che la lotta per l'indipendenza nazionale avrebbe potuto aver successo solo se avesse saputo legare a sé le classi popolari, identificandosi con la loro lotta per l'emancipazione economica e sociale. In particolare Pisacane pensava che l'Italia meridionale offrisse, per le sue caratteristiche di paese arretrato con una borghesia ancora debole, il terreno più adatto per la rivoluzione. Si trattava in realtà di una visione utopistica e velleitaria, come si vide quando cercò di mettere in atto il suo progetto insurrezionale.

Il fallimento della spedizione di Sapri e la Società nazionale

Nel giugno del 1857 Pisacane si imbarcò a Genova con alcuni compagni su un piroscafo di linea, se ne impadronì e con esso fece rotta verso l'isola di Ponza, sede di un penitenziario borbonico. Accresciuta da circa 300 detenuti liberati dal carcere, la spedizione si diresse verso le coste meridionali della Campania e sbarcò a Sapri, iniziando la marcia verso l'interno. Ma qui i rivoluzionari furono rapidamente sbaragliati dalle truppe borboniche subendo anche la violenza dei contadini che li trattarono come briganti. Pisacane, ferito, si uccise per non cadere prigioniero.
Il fallimento della spedizione di Sapri coincise con la nascita di un movimento indipendentista filopiemontese promosso da Daniele Manin – il capo del governo repubblicano di Venezia nel '48-49 – che puntava all'unione di tutte le correnti, moderate e democratiche, intorno all'unica forza in grado di raggiungere l'obiettivo dell'unità: la monarchia di Vittorio Emanuele II. Alla proposta di Manin, oltre a numerosi esponenti democratici emigrati in Piemonte aderì anche Giuseppe Garibaldi, rientrato in Italia nel '55 dal Sud America.
Nel luglio 1857 il movimento si diede una struttura organizzativa e assunse il nome di Società nazionale. L'associazione dichiarava nel suo manifesto costitutivo di anteporre la causa dell'unità ad ogni altro obiettivo e di ritenere indispensabile il «concorso governativo piemontese»: di appoggiare quindi la monarchia sabauda per l'affermazione della causa italiana.

 

L'alleanza con la Francia e la seconda guerra di indipendenza

[ Introduzione audio ]

La politica estera di Cavour

Inizialmente la politica estera di Cavour rimase legata agli obiettivi tradizionali della monarchia sabauda: ampliare i confini del Piemonte verso l'Italia settentrionale, a scapito dei domini austriaci. Cavour, però, persegui questa strategia con insolita abilità e spregiudicatezza ottenendo risultati imprevedibili, al di là delle sue originarie intenzioni.
Sfruttando al massimo le ambizioni politiche di Napoleone III, riuscì a trascinare la Francia in una guerra contro l'Austria a tutto vantaggio per il Piemonte.
Questo esito fu ottenuto attraverso alcuni passaggi decisivi. Il primo fu quello di inviare un contingente militare in Crimea al fianco della Gran Bretagna e della Francia impegnate a difendere l'Impero ottomano dall'espansionismo russo, che rischiava di alterare l'equilibrio tra le potenze e minacciava gli interessi inglesi e francesi in quella zona.
In questo modo il Piemonte poté partecipare come Stato vincitore al congresso di Parigi del 1856. In quella sede Cavour sollevò la questione italiana, protestando contro la presenza militare austriaca nelle Legazioni pontificie e denunciando il malgoverno dello Stato della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie come causa di tensioni rivoluzionarie e, dunque, come minaccia alla pace.
A questo punto Cavour poté puntare sulle ambizioni egemoniche di Napoleone III, desideroso di riprendere la politica italiana del primo Napoleone, e anche sulla paura suscitata in lui dalle agitazioni mazziniane. Questi timori sarebbero stati confermati, infatti, nel gennaio del 1858 dal fallito attentato contro di lui compiuto dal repubblicano romagnolo, Felice Orsini, reduce dalla difesa di Roma.
A quel punto Napoleone III era già convinto della necessità di una iniziativa francese in Italia per soppiantare l'egemonia austriaca, eliminando al tempo stesso un pericoloso nucleo di tensione rivoluzionaria.

L'alleanza con la Francia

La strada era ormai aperta per la conclusione di un'alleanza franco-piemontese, che fu definita in un incontro segreto fra l'imperatore e Cavour svoltosi nel luglio 1858 nella cittadina termale di Plombières.
Gli accordi ipotizzavano una nuova sistemazione dell'intera Penisola italiana, che avrebbe dovuto essere divisa in tre Stati: un regno dell'Alta Italia comprendente, oltre al Piemonte, il Lombardo-Veneto e l'Emilia-Romagna, sotto la monarchia sabauda, che in cambio avrebbe ceduto alla Francia i territori di Nizza e della Savoia; un regno dell'Italia centrale formato dalla Toscana e dalle province pontificie; un regno meridionale liberato dalla dinastia borbonica.
Al papa, che avrebbe conservato la sovranità su Roma e dintorni, sarebbe stata offerta la presidenza della futura Confederazione italiana.
I guadagni territoriali erano prevalentemente a vantaggio del Piemonte in cambio di un'ipotetica egemonia esercitata dalla Francia sulla nuova sistemazione italiana.
Ma per raggiungere questi obiettivi era indispensabile la guerra contro l'Austria. Anzi, era necessario che la guerra apparisse provocata dall'Impero asburgico perché l'alleanza con la Francia potesse diventare operativa.

La guerra del 1859

Il governo piemontese fece il possibile per far salire la tensione con lo Stato vicino: particolare effetto suscitarono le manovre militari al confine e l'armamento di corpi volontari, i Cacciatori delle Alpi, comandati da Garibaldi.
E il governo asburgico finì col cadere nella provocazione inviando, nell'aprile 1859, un duro ultimatum al Piemonte, respinto da Cavour.
Scoppiata la guerra (la seconda guerra d'indipendenza), le truppe franco-piemontesi sconfissero gli austriaci a Magenta, aprendosi la via per Milano. Un successivo contrattacco austriaco fu respinto, il 24 giugno, nelle due contemporanee, sanguinose battaglie di Solferino e San Martino, dove le vittime francesi furono il doppio di quelle italiane.
A questo punto, nonostante la vittoria, Napoleone III, impressionato dai costi umani della guerra, timoroso delle reazioni ostili dell'opinione pubblica francese e del possibile intervento della Confederazione germanica, offrì un armistizio agli austriaci che fu accettato e firmato a Villafranca, presso Verona, l'11 luglio.
Con questo accordo l'Impero asburgico rinunciava alla Lombardia e la cedeva alla Francia che l'avrebbe poi «girata» al Piemonte, mantenendo il Veneto e le fortezze di Mantova e Peschiera.
Per il resto d'Italia, il trattato prevedeva il ripristino della situazione precedente lo scoppio della guerra: tra aprile e giugno, infatti, una serie di insurrezioni nelle regioni centro-settentrionali della penisola – a Modena, a Bologna, in Romagna e Toscana – aveva costretto alla fuga i vecchi sovrani.
La notizia dell'armistizio suscitò lo sdegno dei democratici italiani e colse di sorpresa lo stesso Cavour, che rassegnò subito le dimissioni.

La campagna del 1859

Le annessioni dell'Italia centro-settentrionale

A differenza di quanto era accaduto nel '48, i moti della prima vera del '59 furono saldamente controllati dai moderati e dagli uomini della Società nazionale, e i governi provvisori che subito si costituirono si pronunciarono per l'annessione al Piemonte.
Di fronte a questa situazione, dopo alcuni mesi Napoleone III decise di accettare il fatto compiuto capendo che la nuova situazione nell'Italia centro-settentrionale vanificava il progetto definito a Plombières.
Cavour, tornato a capo del governo nel gennaio 1860, poté così negoziare la cessione alla Francia di Nizza e della Savoia – cui il Piemonte non era più tenuto dopo Villafranca – in cambio dell'assenso francese alle annessioni del Granducato di Toscana, dei Ducati di Modena e di Parma, delle Legazioni pontificie. Nel marzo dello stesso anno, le popolazioni di Emilia, Romagna e Toscana, chiamate a scegliere, nella forma del plebiscito, fra l'annessione al Piemonte e la creazione di regni separati, si pronunciarono a schiacciante maggioranza per la soluzione unitaria.

 

I Mille e la conquista dei Mezzogiorno

L'organizzazione della spedizione in Sicilia

Con la cessione alla Francia dei suoi territori d'oltralpe – in particolare della Savoia, terra di origine della casa regnante, ma abitata da popolazioni di lingua francese – e dopo le annessioni della Lombardia, dell'Emilia-Romagna e della Toscana, lo Stato sabaudo aveva posto le premesse di uno Stato nazionale italiano. Questi risultati sollecitarono i democratici a rilanciare l'iniziativa rivoluzionaria nel Mezzogiorno e nello Stato della Chiesa.
Esclusa l'opportunità di un'azione nei confronti di Roma, protetta da truppe francesi, si ripropose l'idea di una spedizione di volontari nel Regno delle Due Sicilie dove, nel maggio del '59, era salito al trono il giovane Francesco II.
Furono due mazziniani siciliani esuli in Piemonte, Francesco Crispi e Rosolino Pilo, a concepire il progetto di una spedizione in Sicilia come prima tappa di un movimento insurrezionale che avrebbe dovuto estendersi al continente. I due cercarono da una parte di organizzare una rivolta locale prima dello sbarco dei volontari, dall'altra di assicurarsi un'efficiente guida politica e militare e di garantirsi nel contempo un qualche appoggio del governo piemontese.
Ai primi di aprile del 1860, un'insurrezione popolare scoppiava a Palermo. Mentre Pilo accorreva in Sicilia per assumere la direzione del moto, che fu sanguinosamente represso nel capoluogo ma si estese alle campagne dando luogo a una diffusa guerriglia contadina, Crispi riuscì a convincere un esitante Garibaldi ad assumere la guida della spedizione.

Il ruolo di Garibaldi

Garibaldi era non solo il capo militare più prestigioso di cui disponesse il movimento nazionale, ma anche l'unico leader capace di unificare attorno a sé le diverse componenti dello schieramento unitario, dai democratici intransigenti ai moderati filocavouriani.
Quando accettò di capeggiare la spedizione in Sicilia, Garibaldi era l'unico fra i leader democratici in grado di assicurare qualche possibilità di riuscita all'impresa, ritenuta estremamente rischiosa.
Cavour, che temeva le complicazioni internazionali e vedeva nella spedizione un'occasione di rilancio per i mazziniani, la avversò pur senza far nulla per impedirla.
Vittorio Emanuele II, che guardava invece con favore al tentativo di Garibaldi, non poté intervenire concretamente in suo aiuto.

La spedizione dei Mille

La spedizione fu così preparata in fretta, con scarso equipaggiamento e pessimo armamento.
Nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860, poco più di mille volontari, provenienti da diverse regioni – ma in maggioranza settentrionali – e di varia estrazione sociale (borghese-intellettuale, operaia o artigiana), in larga parte veterani delle campagne del '48 e del '59, partirono da Quarto presso Genova, dopo essersi impadroniti di due navi a vapore, il Piemonte e il Lombardo.
Pochi giorni dopo, eludendo la sorveglianza della flotta borbonica, i volontari sbarcavano a Marsala, nell'estremità occidentale della Sicilia e penetravano nell'interno, accolti con entusiasmo dalla popolazione.
Il 15 maggio, a Calatafimi, le colonne garibaldine, accresciute da poche centinaia di insorti siciliani, nonostante l'inferiorità numerica, riuscirono a battere un contingente borbonico. Galvanizzati dal successo, i volontari puntarono su Palermo e la raggiunsero dopo una difficile marcia fra le montagne.
All'arrivo delle avanguardie garibaldine, la città insorse contro i Borbone.
Alla fine di maggio, dopo tre giorni di combattimenti, le truppe governative furono costrette ad abbandonare la città dove Garibaldi – che appena sbarcato in Sicilia aveva assunto la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II – proclamò la decadenza della monarchia borbonica.
Mentre nell'isola si formava un governo civile provvisorio sotto la guida di Crispi e si tentava di mettere in moto un primo processo di riforma sociale (riduzione del carico fiscale, assegnazione di terre ai contadini combattenti nelle file garibaldine), nell'Italia settentrionale si raccoglievano uomini e mezzi da inviare in Sicilia: fra giugno e luglio sbarcarono a Palermo quasi 15 mila volontari. Col loro apporto, Garibaldi poté muovere all'attacco delle truppe borboniche e sconfiggerle, il 20 luglio, a Milazzo, costringendole a rifugiarsi sul continente.
Nel giro di poche settimane, l'impresa garibaldina aveva assunto le dimensioni di una vera e propria epopea, cui gran parte dell'opinione pubblica europea guardava con simpatia e ammirazione. La rapidità con cui era stato abbattuto il regime borbonico in Sicilia aveva inoltre colto di sorpresa la diplomazia delle grandi potenze e aveva costretto Cavour e i moderati italiani a rivedere la loro strategia e a immaginare un'ulteriore politica di annessioni.

I contrasti con i contadini in Sicilia

Il clima di entusiastica concordia che aveva accolto i garibaldini al loro sbarco in Sicilia si era dissolto quando i contadini avevano intravisto la possibilità di liberarsi non solo dal malgoverno borbonico, ma anche dal secolare sfruttamento cui li condannava una struttura sociale ancora semifeudale: era tosi scoppiata una serie di violente agitazioni. Dal canto loro, Garibaldi e i suoi collaboratori avevano cercato di venire incontro alle esigenze dei contadini, ma senza mettere in discussione il quadro dei rapporti di proprietà.
Nacque così un contrasto insanabile, sfociato in episodi di dura repressione: il più noto si verificò ai primi di agosto nella cittadina di Bronte, ai piedi dell'Etna.
Dopo alcuni giorni di rivolta, incendi e saccheggi, e il massacro di alcuni notabili, i supposti capi dei ribelli furono sommariamente processati e fucilati per ordine di Nino Bixio, braccio destro di Garibaldi.
Intanto i proprietari terrieri, spaventati dalle agitazioni agrarie, guardavano sempre più all'annessione al Piemonte come all'unica efficace garanzia per la tutela dell'ordine sociale.

La conquista di Napoli

Fino a tutta l'estate del 1860, l'iniziativa restò nelle mani di Garibaldi che riuscì a sbarcare in Calabria e poi risali rapidamente la penisola senza che l'esercito borbonico, ormai in via di disgregazione, fosse in grado di opporgli un'efficace resistenza.
Il 6 settembre, Francesco II abbandonò la capitale per rifugiarsi nella fortezza di Gaeta. Il giorno dopo Garibaldi fece il suo ingresso trionfale a Napoli. Cavour si trovò ancora una volta battuto sul tempo.
Napoli liberata rischiava di trasformarsi in un quartier generale dei democratici – dove giunsero anche Mazzini e Cattaneo – e di diventare la base per una spedizione nello Stato della Chiesa. Un'impresa che avrebbe provocato l'intervento francese e che, se avesse avuto successo, avrebbe potuto mettere in discussione l'assetto monarchico e moderato dello stesso Regno sabaudo.

L'intervento militare piemontese e i plebisciti di annessione

Non restava, per il governo piemontese, altra scelta se non quella di prevenire l'iniziativa garibaldina con un intervento militare. In settembre – dopo che Cavour ebbe ottenuto l'assenso di Napoleone III, impegnandosi a non minacciare Roma e il Lazio – le truppe regie invasero l'Umbria e le Marche e sconfissero l'esercito pontificio nella battaglia di Castelfidardo.
Ai primi di ottobre, mentre Garibaldi batteva i borbonici nella grande battaglia campale del Volturno, l'esercito sabaudo iniziò la marcia verso il Sud. Pochi giorni dopo, il Parlamento piemontese approvò quasi all'unanimità una legge proposta da Cavour, che autorizzava il governo a decretare l'annessione, senza condizioni, di altre regioni italiane allo Stato sabaudo, purché le popolazioni interessate esprimessero la loro volontà in tal senso mediante plebisciti.
L'iniziativa tornava così – e questa volta definitivamente – nelle mani di Cavour e dei moderati.
Il 21 ottobre, in tutte le province del Mezzogiorno continentale e in Sicilia – e, due settimane dopo, anche nelle Marche e in Umbria – si tennero plebisciti a suffragio universale maschile nella forma voluta da Cavour: agli elettori non veniva lasciata altra scelta che quella di accettare o respingere «in blocco» l'annessione allo Stato sabaudo con la sua forma di governo, i suoi ordinamenti, le sue leggi.
Molto ampia (75-80%) fu l'affluenza alle urne e addirittura schiacciante – tanto da giustificare qualche sospetto sulla regolarità delle operazioni di voto e di scrutinio – la maggioranza dei «sì».
A Garibaldi non restò che attendere l'arrivo dei piemontesi – l'incontro con Vittorio Emanuele II avvenne a Teano, presso Caserta, il 25 ottobre – per cedere loro ogni responsabilità nel governo delle province liberate.
Mentre Garibaldi si ritirava sull'isola di Caprera in volontario isolamento rinunciando a ogni progetto di liberare Roma e Mazzini partiva per l'ennesimo esilio, l'esercito sabaudo eliminava le ultime resistenze borboniche.

La spedizione dei Mille e l'unità

 

L'unità d'Italia: caratteri e limiti

[ Introduzione audio ]

Il Regno d'Italia

Il 17 marzo 1861, il primo Parlamento proclamava Vittorio Emanuele II re d'Italia «per grazia di Dio e volontà della nazione».
L'Italia era ormai uno Stato unitario, con capitale Torino, ma al suo completamento territoriale mancava tutto il Veneto (il confine con l'Austria correva lungo il lago di Garda e il fiume Mincio) e il Lazio con Roma.
Grazie alle annessioni l'Italia unita si presentava come il risultato dell'ampliamento di uno Stato regionale rivelatosi forte e dinamico al punto da poter assorbire territori di gran lunga più ampi e popolazioni molto più numerose rispetto al suo nucleo originario, imponendo all'intero paese il proprio sovrano e le proprie istituzioni, leggi e ordinamenti. A questo risultato si era arrivati non solo per l'iniziativa militare e diplomatica del Piemonte o per l'azione di un uomo politico geniale come Cavour, ma anche per l'ampia mobilitazione di un'opinione pubblica che coinvolgeva gli strati sociali più attivi e più dinamici d'Italia, seppur minoritari: intellettuali, studenti, ceti popolari urbani politicizzati e soprattutto una borghesia produttiva desiderosa di creare quel mercato nazionale che era considerato una premessa indispensabile allo sviluppo economico.
Per quanto minoritaria nel paese, questa opinione pubblica era largamente disseminata anche per la presenza degli innumerevoli centri urbani, grandi e piccoli, che da secoli caratterizzavano l'Italia e che ospitavano élites illuminate e favorevoli al risorgimento nazionale.

I caratteri dell'unificazione

In Italia, dunque, lo Stato nazionale nacque dalla combinazione di un'iniziativa dall'alto – la politica di Cavour e l'egemonia del Piemonte sabaudo – e di un'iniziativa dal basso – le insurrezioni nell'Italia centrale e la spedizione garibaldina nel Sud.
E l'esito dei plebisciti, per quanto forzati dagli avvenimenti e solo parzialmente rispettosi dei reali orientamenti delle popolazioni coinvolte, rappresentò un omaggio all'idea della sovranità popolare.
Nell'incontro fra la componente democratica e la componente moderata e dinastica, quest'ultima alla fine risultò nettamente vincente: ma senza le rivoluzioni democratiche che l'avevano preceduto, l'esito dell'unità non sarebbe stato possibile.
Un ruolo decisivo ebbero anche i fattori internazionali: in primo luogo l'intervento della Francia di Napoleone III, che combatté nel '59 una guerra a totale beneficio del Piemonte, a cui si aggiunsero l'isolamento del Regno delle Due Sicilie e dello stesso Impero asburgico, e, infine, la sostanziale neutralità della Gran Bretagna.

Vincitori e vinti

Se dunque la mobilitazione risorgimentale aveva riportato un indiscutibile successo proprio in virtù dell'intreccio positivo delle sue due principali componenti, una parte consistente degli italiani aveva subito o si era adattata di malavoglia al nuovo corso.
In primo luogo il cattolicesimo organizzato della Chiesa romana e delle istituzioni ecclesiastiche, che avrebbero visto di lì a poco (1866-67) la requisizione e la vendita delle loro proprietà a vantaggio delle finanze del nuovo Stato. Incombeva inoltre la conquista di Roma, acclamata capitale italiana dal Parlamento già il 27 marzo 1861, il che avrebbe segnato la fine di quel che rimaneva dello Stato pontificio e del secolare potere temporale dei papi.
Tra gli sconfitti vanno ricordati anche tutti i nostalgici degli antichi regimi assolutisti e i difensori delle dinastie abbattute: tra questi si contavano molti nobili, ufficiali e funzionari, ma anche strati di popolo minuto e di contadini, legati alla monarchia borbonica.
Le campagne erano rimaste in tutta Italia, come sappiamo, sostanzialmente estranee al movimento nazionale. Quando le agitazioni contadine, spesso violente, esplosero in Sicilia alimentate dalle speranze che il cambiamento legato alla spedizione garibaldina favorisse il recupero delle terre comuni usurpate dalla nobiltà e dalla borghesia, la repressione apparve giustificata e inevitabile, non solo a Bronte, come abbiamo visto, ma anche in altre località del catanese. Del resto persisteva un'estraneità incolmabile tra le agitazioni sociali ed economiche di quella parte del mondo contadino — così diversa dal resto d'Italia — e il programma politico di moderati e democratici volti a realizzare l'obiettivo primario della loro azione, l'unità e l'indipendenza. A ciò si aggiungeva il timore del possibile ripetersi di rivolte sociali nelle campagne (come era già accaduto in Sicilia nel 1820 e nel 1848) col rischio di una loro evoluzione reazionaria e filoborbonica, mentre andava evitata accuratamente una cesura con le classi dirigenti locali.

L'Italia in Europa

Per l'Italia unita cominciava allora a porsi il problema di un confronto con il resto d'Europa, innanzitutto per garantire la continuità del nuovo Stato unitario, per trovare un proprio ruolo tra le potenze e per ottenere senza troppi contrasti il completamento dell'unità.
Rispondere alle ambizioni, spesso dense di retorica nazionale, di un paese politicamente giovane si sarebbe rivelato meno agevole del previsto, mentre duratura e spesso radicale rimase la divisione tra i vincitori e gli sconfitti del Risorgimento.
L'unità rappresentò in ogni caso una decisiva svolta modernizzatrice per l'Italia, tanto sul piano delle istituzioni politiche quanto su quello delle prospettive economiche, anche se la costruzione del nuovo Stato avrebbe richiesto scelte difficili e altri momenti conflittuali.

 

 

I PRIMI ANNI DELL'ITALIA UNITA

 

[ Introduzione audio ]

Demografia, economia e società

Popolazione e alfabetizzazione

Al momento dell'unità gli italiani erano circa 22 milioni (arrivavano a poco più di 25 calcolando anche il Veneto e il Lazio). La percentuale degli analfabeti, di quanti cioè non sapevano né leggere né scrivere, era del 72%: nei decenni successivi diminuì costantemente.
L'analfabetismo era inoltre molto più diffuso tra le donne.
Solo il 10% degli italiani era da considerare «italofono», ossia parlante lingua italiana, mentre tutti gli altri comunicavano attraverso i dialetti, di cui la stessa minoranza colta si serviva nella comunicazione familiare e nei rapporti con la gente del popolo (pratica largamente diffusa fino a tempi recenti). Inoltre, nonostante da tempo l'italiano fosse impiegato dalla Chiesa nella predicazione, i dialetti si sarebbero mantenuti a lungo, affiancando la lingua colta, nelle scuole elementari. Nell'insieme la grande maggioranza degli italiani non possedeva ancora una lingua comune. Misurata sul terreno delle conoscenze di base, l'Italia era dunque molto meno istruita di paesi come la Prussia e la Francia dove gli alfabetizzati erano rispettivamente il 70% e il 50% della popolazione.

Città e campagne

Intorno al 1860 l'Italia era, come già in passato, uno dei paesi europei con il maggior numero di città. Una decina erano i centri con più di 100 mila abitanti – il più grande era Napoli con 450 mila, seguivano Torino, Palermo, Milano e Roma con circa 200 mila – e la popolazione urbana propriamente detta (quella che viveva in comuni con oltre 20 mila abitanti) era pari al 20% del totale. La grande maggioranza degli italiani viveva nelle campagne e nei piccoli centri rurali e traeva i suoi mezzi di sostentamento dalle attività agricole: era quindi costituita prevalentemente da contadini. L'agricoltura occupava infatti il 70% della popolazione attiva (cioè di quelli in età lavorativa) contro il 18% dell'industria e dell'artigianato e il 12% del settore terziario (che comprende commercio e servizi), contribuendo per il 58% al prodotto interno lordo di tutto il paese, mentre industria e terziario vi contribuivano ciascuno per il 20% circa. E le attività agricole fornivano i principali prodotti di esportazione: seta grezza dalle regioni settentrionali, e i prodotti delle colture specializzate come agrumi, frutta secca, vino e olio (per fini industriali) da quelle meridionali.
Contrariamente a quanto una tradizione, prevalentemente letteraria, aveva tramandato, l'agricoltura italiana nel suo complesso non era affatto favorita dalle condizioni naturali. Le zone pianeggianti, le più adatte all'agricoltura intensiva, costituivano poco più del 20%, mentre tutto il resto era terreno collinare o montagnoso. Inoltre il 20% della superficie del paese era occupato da terre incolte o da terreni paludosi infestati dalla malaria. Anche nelle zone coltivabili di pianura e di collina, quella italiana era prevalentemente un'agricoltura povera, caratterizzata da una grande varietà di colture e di assetti produttivi.

Aziende moderne, mezzadria e latifondo

Solo nella zona irrigua della Pianura padana si erano ormai sviluppate numerose aziende agricole moderne che univano l'agricoltura all'allevamento bovino, erano condotte con criteri capitalistici, producevano per il mercato e impiegavano soprattutto manodopera salariata.
Accanto a esse coesistevano, nelle regioni del Nord, le grandi proprietà coltivate a cereali e le piccole unità produttive in affitto a conduzione familiare, diffuse queste ultime soprattutto nelle zone collinari del Piemonte, della Lombardia e del Veneto.
Nell'Appennino e in tutta l'Italia centrale, in particolare in Toscana, Marche e Umbria, dominava invece la mezzadria. La terra era divisa in poderi, prevalentemente di piccole e medie dimensioni, dove le colture cerealicole si mescolavano agli olivi, alle viti e agli alberi da frutta.
Ciascun podere produceva quanto era necessario per il mantenimento della famiglia che viveva sul fondo e per il pagamento del canone in natura, pari alla metà del prodotto, dovuto al padrone. Il mezzadro era tenuto inoltre a concorrere alle spese di manutenzione e a quelle per gli attrezzi agricoli e il bestiame. Il contratto di mezzadria, con la sua rigida ripartizione delle spese, non favoriva gli investimenti e le innovazioni tecniche in funzione dello sviluppo di un'agricoltura moderna, orientata verso il mercato. In compenso consentiva una relativa pace sociale – per questo era apprezzato da molti conservatori – e assicurava un certo grado di tutela del territorio: ne è testimonianza il tipico paesaggio vario e ordinato, che ancora oggi sopravvive in buona parte dell'Italia centrale. In molte zone dell'Italia meridionale, oltre che nella vasta campagna intorno a Roma, la coltivazione prevalente era il latifondo: grandi distese, per lo più seminate a grano o lasciate alla pastorizia, con la popolazione concentrata in pochi e grossi borghi rurali. Le tracce dell'ordinamento feudale si facevano sentire pesantemente negli arcaici contratti agrari – basati spesso su compensi di quota parte del raccolto – e nei rapporti fra i signori e i contadini, caratterizzati da forme di dipendenza personale, ma anche dai ricorrenti contrasti derivanti dall'irrisolto problema della utilizzazione contadina delle terre soggette agli usi civici. Non mancavano tuttavia nel Mezzogiorno zone fertili e pianeggianti, in Campania, in Puglia e in Sicilia dove era diffusa la produzione specializzata destinata all'esportazione.
Una parte molto estesa dell'Italia, soprattutto nelle zone altocollinari o montane, continuava a praticare un'agricoltura di pura sussistenza, dove l'autoconsumo era la regola. L'alimentazione era spesso insufficiente, limitata al pane e a pochi legumi. Lo scarso apporto di vitamine determinava poi, in alcune zone del Nord, dove la polenta di mais era l'alimento prevalente, la diffusione di gravi malattie come la pellagra.

Nord e Sud

Il quadro complessivo dell'agricoltura italiana, principale attività economica del paese, al di là delle zone di alta produttività, era quello di una diffusa arretratezza: una realtà poco nota alla classe dirigente del paese, così come per gran parte sconosciute erano le condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno. Lo stesso Cavour non si era mai spinto a sud di Firenze. Il romagnolo Farini, quando, nell'autunno del 1860, fu inviato nelle province meridionali in qualità di luogotenente generale, non seppe nascondere il proprio stupore e il proprio disprezzo: «Che barbarie! – scriveva in una lettera a Cavour – Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civili». Queste impressioni segnalavano pregiudizi e incomprensioni destinati a durare nel tempo, ma anche la distanza culturale e la diversità di comportamenti e di mentalità che peraltro poggiavano su un reale divario tra Nord e Sud del paese.
Al momento dell'unità questo divario si misurava sul piano della disponibilità di infrastrutture, della produttività agricola e dell'istruzione di base.
Se al Nord, nella Pianura padana e in particolare in Piemonte esisteva già una rete ferroviaria sviluppata, al Sud, salvo qualche breve tratto intorno a Napoli, le ferrovie erano inesistenti. Il valore della produzione agricola per ettaro era al Sud pari a un terzo di quello della Lombardia e a metà di quello del Piemonte. Molto significativo risultava inoltre il differenziale di alfabetizzazione: in Piemonte e in Lombardia gli analfabeti erano intorno al 54%, in Puglia salivano all'86% e in Sicilia all'89%.
Il divario tra Nord e Sud segnalava già l'emergere di un problema nazionale che sarebbe stato definito in seguito come «questione meridionale»: tuttavia allora nel confronto con l'Europa le differenze tra le "due Italie" risultavano appiattite e accomunate da una generale arretratezza rispetto ai paesi più sviluppati del continente.

 

Governare l'Italia unita

Tutt'altro che agevole fu governare l'Italia dopo la sua unificazione. L'improvvisa e precoce morte di Cavour (giugno 1861) lasciava priva di guida la classe dirigente moderata, anche se i successori di Cavour si attennero sostanzialmente alla politica da lui già impostata nelle grandi linee: una politica rispettosa delle libertà costituzionali e insieme accentratrice, liberista in campo economico, laica in materia di rapporti fra Stato e Chiesa.

La Destra storica

Il gruppo dirigente che governò ininterrottamente il paese nel primo quindicennio non era molto diverso da quello che si era venuto formando dopo il '49 nel Piemonte costituzionale. Il nucleo centrale era costituito da piemontesi, cioè dalla vecchia maggioranza subalpina. A essa si erano uniti i gruppi moderati lombardi, emiliani e toscani. Meno numerosa era la rappresentanza delle regioni meridionali, che pure contava personalità di tutto rilievo. Diversi per provenienza geografica, per formazione culturale e per esperienze politiche, questi uomini formavano tuttavia un gruppo abbastanza omogeneo, sia dal punto di vista sociale – appartenevano prevalentemente ai ceti superiori – sia sotto il profilo politico. Nei primi parlamenti dell'Italia unita, la maggioranza si collocava a destra e come Destra essa venne definita nel linguaggio politico corrente (l'aggettivo «storica» fu aggiunto più tardi, per sottolineare la funzione decisiva svolta da quella classe dirigente nella storia d'Italia). In realtà, più che una forza di destra, essa costituiva un gruppo di centro moderato: la vera destra – quella dei clericali e dei nostalgici dei vecchi regimi – si era infatti autoesclusa dalle istituzioni in quanto non riconosceva la legittimità del nuovo Stato.

La Sinistra

Anche i mazziniani di stretta osservanza e, in genere, i repubblicani intransigenti rifiutarono di partecipare all'attività politica ufficiale. Tuttavia, sui banchi dell'opposizione in Parlamento sedette, assieme agli esponenti della vecchia sinistra piemontese, un numero sempre crescente di patrioti mazziniani o garibaldini decisi a inserirsi nelle istituzioni monarchiche. Rispetto alla Destra, la Sinistra si appoggiava su una base sociale più ampia e composita, formata essenzialmente dai gruppi borghesi delle città – professionisti e intellettuali, ma anche commercianti e imprenditori – e comprendeva anche gruppi di operai e artigiani del Nord, esclusi dall'elettorato. Nei primi anni dopo l'unità, la Sinistra si contrappose nettamente alla maggioranza moderata facendo proprie le rivendicazioni democratiche risorgimentali: il suffragio universale, il decentramento amministrativo (che comportava la concessione di margini di autonomia alle comunità locali) e soprattutto il completamento dell'unità, da raggiungersi tramite la ripresa dell'iniziativa popolare.

Il sistema elettorale

Destra e Sinistra erano entrambe espressione di una classe dirigente molto ristretta, di un «paese legale» assai poco rappresentativo del «paese reale». La legge elettorale piemontese, estesa a tutto il Regno, concedeva infatti il diritto di voto solo a quei cittadini che avessero compiuto i 25 anni, sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte all'anno. Nelle prime elezioni dell'Italia unita gli iscritti nelle liste elettorali erano circa 400 mila, meno del 2% della popolazione totale e del 7% dei maschi adulti. Se poi si calcola che la percentuale di coloro che si astenevano era molto elevata – sfiorando spesso il 50% – si capirà come, grazie anche al sistema del collegio uninominale, bastassero poche centinaia o addirittura poche decine di voti per eleggere un deputato. La vita politica assumeva così un carattere oligarchico e personalistico e, nell'assenza di partiti organizzati nel senso moderno del termine, era dominata da pochi notabili in grado di sfruttare la propria influenza e le proprie relazioni per ottenere i suffragi necessari all'elezione. Il potere esecutivo poteva poi facilmente a favorire la riuscita dei candidati «governativi», indirizzando il voto dei militari e degli impiegati nella pubblica amministrazione.

La scelta dell'accentramento

Per quanto ristretta, la classe dirigente era tuttavia convinta di rappresentare la parte migliore del paese: e, in effetti, gli uomini della Destra storica si distinsero per onestà e per rigore, tanto da costituire, da questo punto di vista, un esempio mai più superato nella storia dell'Italia unita. Essi furono però portati a identificare le sorti del proprio gruppo politico con quelle delle istituzioni statali, sottoposte alla duplice minaccia dei «neri» e dei «rossi», ossia dei clericali reazionari e dei repubblicani rivoluzionari, e a considerare i fermenti e le inquietudini della società come attentati al bene supremo dell'unità appena raggiunta. Per questi motivi furono spinti a stabilire un controllo il più possibile stretto e capillare su tutto il paese e dunque a scegliere un modello di Stato accentrato molto vicino a quello napoleonico: basato cioè su ordinamenti uniformi per tutto il regno e su una rigida gerarchia di funzionari dipendenti dal centro.
L'accentramento era anche il risultato inevitabile delle successive annessioni al Regno di Sardegna con la relativa adesione al suo impianto istituzionale e alle sue leggi. Inoltre, tra il giugno '59 e il gennaio '60, grazie ai poteri straordinari conferiti al governo dallo stato di guerra con l'Austria, erano state varate senza alcun controllo parlamentare numerose leggi riguardanti i settori chiave della vita del paese. In aggiunta all'estensione delle leggi piemontesi alle province appena annesse (così fu, ad esempio, per la legge elettorale) furono emanate leggi nuove: come la legge Casati sull'istruzione, che creava un sistema scolastico nazionale e stabiliva il principio dell'istruzione elementare obbligatoria (demandandone però l'attuazione ai comuni); o come la legge Rattazzi sull'ordinamento comunale e provinciale, che affidava il governo dei comuni a un consiglio eletto a suffragio ristretto e a un sindaco di nomina regia e faceva delle province le circoscrizioni amministrative più importanti, ponendole sotto lo stretto controllo dei prefetti, rappresentanti del potere esecutivo. Anche questa legge fu successivamente estesa, con poche modifiche, a tutto il regno.

 

Le rivolte contro l'unità e il brigantaggio

L'ostilità dei contadini meridionali

Tra i motivi che spinsero la classe politica a scegliere l'accentramento e ad accantonare ogni progetto di decentramento amministrativo, il principale fu costituito certamente dalla situazione che si era venuta a creare nel Mezzogiorno. Nelle province meridionali liberate dal regime borbonico, il malessere antico delle masse contadine si sommò a una diffusa ostilità verso il nuovo ordine politico, che non aveva portato alcun mutamento radicale nella sfera dei rapporti sociali, anzi aveva visto la borghesia rurale schierarsi dalla parte dei «conquistatori».
E a questo si erano aggiunte la nuova pesante fiscalità e la leva militare obbligatoria osteggiate duramente dal mondo contadino. Già nell'ultima fase dell'impresa garibaldina erano scoppiate, soprattutto in Campania, rivolte contadine di una certa gravità: rapidamente i disordini si fecero più estesi e più frequenti, fino a trasformarsi in una generale insorgenza, incoraggiata da una parte del clero e finanziata dalla corte borbonica in esilio a Roma.

Il brigantaggio

Dall'estate del 1861, tutte le regioni del Mezzogiorno continentale erano percorse da bande di irregolari, dove i banditi veri e propri si mescolavano ai contadini insorti, agli ex militari borbonici (per i quali la fine del Regno delle due Sicilie si era trasformata in una catastrofe personale), ai cospiratori legittimisti italiani e stranieri. Le bande assalivano di preferenza i piccoli centri e li occupavano per giorni, massacrando i notabili liberali e incendiando gli archivi comunali: quindi si ritiravano sulle montagne per attaccare subito dopo altrove. A queste aggressioni, che parevano mettere in gioco il controllo territoriale di intere regioni, il governo reagì con spietata energia, rafforzando in primo luogo la presenza militare nel Sud. Fin dai primi tempi di queste sollevazioni si registrarono, in risposta agli eccidi delle bande, rappresaglie indiscriminate compiute dall'esercito: come quella di Pontelandolfo, nei pressi di Benevento, dove nell'agosto 1861 furono uccisi 400 civili e incendiato il paese.
Nel 1863 il Parlamento approvò una legge che istituiva, nelle province dichiarate «in stato di brigantaggio», un vero e proprio regime di guerra: tribunali militari per giudicare i ribelli e fucilazione immediata per chi avesse opposto resistenza con le armi. Sia per l'efficacia delle misure repressive, sia per la stanchezza della popolazione, il «grande brigantaggio» fu sconfitto nel giro di qualche anno, e nel 1865 le bande più importanti erano state isolate e distrutte.

Il problema della terra

Tra le principali cause della mobilitazione contadina rimaneva irrisolta la questione della proprietà della terra e in particolare quella della divisione dei terreni demaniali – ossia delle terre pubbliche di origine feudale – e di quelle soggette agli usi civici, passate di fatto nelle mani della nobiltà e della borghesia terriera. Neppure la liquidazione dei beni ecclesiastici, avviata fra il 1866 e il 1867, riuscì a migliorare la condizione dei piccoli proprietari e dei contadini senza terra, impediti dalla mancanza di capitali a concorrere all'acquisto dei fondi messi all'asta.
L'operazione si risolse (non solo nel Mezzogiorno, ma in tutta Italia) in un rafforzamento della grande proprietà.

 

L'economia e la politica fiscale

L'unificazione economica

Parallelamente all'unificazione amministrativa e legislativa, i governi della Destra dovettero affrontare il complesso problema dell'unificazione economica del paese. Vennero uniformati a quelli del Piemonte i sistemi monetari e fiscali ed estesa a tutta l'Italia la legislazione doganale liberista vigente nel Regno sardo, penalizzando il Mezzogiorno fino allora inserito in un sistema protezionistico. Molto rapido fu lo sviluppo delle vie di comunicazione: in particolare della rete ferroviaria che nel primo decennio unitario passò da poco più di 2000 a circa 6000 chilometri, collegando il Nord al Sud, premessa indispensabile per la formazione di un mercato nazionale.
Anche se la nuova rete ferroviaria, per gli alti costi, rimase inizialmente poco utilizzata: per le lunghe distanze si continuò a preferire il trasporto delle merci via mare.

L'industria e l'agricoltura

Nei primi decenni dopo l'unità il settore agricolo conobbe un significativo incremento di produttività di cui si avvantaggiarono soprattutto le colture specializzate del Mezzogiorno e la produzione di bozzoli da seta, principali voci dell'esportazione italiana. Invece il settore industriale fu nel complesso penalizzato dall'accresciuta concorrenza internazionale favorita dalla politica liberista (basata su dazi di entrata molto bassi). Declinarono la produzione laniera e, cosa ancora più grave, i settori siderurgico e meccanico, ancora lontanissimi dal potersi giovare dell'occasione che in altri paesi era stata offerta dallo sviluppo delle ferrovie, la cui costruzione si avvalse di materiali d'importazione e di imprese prevalentemente straniere. Gli effetti negativi della scelta liberista colpirono soprattutto i pochi nuclei industriali del Mezzogiorno, inesorabilmente cancellati dalla caduta dei dazi protettivi che ne avevano sostenuto lo sviluppo.
Le attività industriali non erano del resto al centro dell'attenzione degli uomini politici italiani, tanto della Destra quanto della Sinistra, convinti che la vocazione dell'Italia risiedesse nell'agricoltura, base del suo sviluppo economico, mentre lo sviluppo industriale sarebbe venuto semmai più tardi. L'espansione dell'agricoltura degli anni '60 e '70, derivante da queste scelte, consentì un'accumulazione di capitali che, grazie anche al prelievo fiscale, rese possibile un potenziamento delle infrastrutture (strade, ferrovie), indispensabile per il futuro industriale del paese. Ma nel complesso, dopo un ventennio di vita unitaria, l'Italia aveva perso terreno nei confronti dei paesi più progrediti e il tenore di vita della maggioranza dei suoi abitanti non aveva registrato mutamenti di rilievo: anzi, in alcuni casi, era addirittura peggiorato.

Una pesante fiscalità

Responsabile principale di questa situazione fu la durissima politica fiscale, legata alla necessità di coprire i costi dell'unificazione. La costruzione del nuovo Stato aveva infatti comportato spese altissime, sia nel campo delle comunicazioni sia in quelli dell'amministrazione pubblica, dell'istruzione e dell'esercito. Per far fronte a queste spese, i governi della Destra dovettero ricorrere a una serie di inasprimenti fiscali, che colpivano sia i redditi e i patrimoni sia i consumi (tasse su sali e tabacchi, dazi locali sui generi alimentari). La situazione si aggravò ulteriormente dopo il 1866, in conseguenza delle spese sostenute per la guerra contro l'Austria (la terza guerra d'indipendenza, di cui si dirà nel paragrafo successivo).
Nell'estate del 1868 fu introdotta infatti una tassa sulla macinazione dei cereali, meglio nota come tassa sul macinato: si trattava in pratica di una tassa sul pane, cioè sul consumo popolare per eccellenza, che colpiva duramente le classi più povere, tanto da scatenare all'inizio del 1869 le prime agitazioni sociali su scala nazionale della storia dell'Italia unita. Scoppiati spontaneamente un po' in tutto il paese, i moti contro la tassa sul macinato assunsero dimensioni preoccupanti soprattutto nelle campagne padane. La repressione fu anche in questo caso durissima.

 

La conquista del Veneto e la presa di Roma

A pochi anni dalla proclamazione dell'Italia unita la Destra e la Sinistra avevano il comune obiettivo di completare il processo di unificazione annettendo il Veneto e soprattutto il Lazio con Roma. Ma, mentre i leader della Destra si affidavano ai tempi lunghi delle vie diplomatiche, la Sinistra restava fedele all'idea della guerra popolare e vedeva nella lotta per la liberazione di Roma l'occasione per un rilancio dell'iniziativa democratica.
Le acquisizioni del Veneto e di Roma, che pure avvennero rispettivamente nel 1866 e nel 1870, sarebbero state però fortemente condizionate dal mutare degli equilibri europei sui quali pesò il rinnovato dinamismo politico e militare della Prussia.

La questione romana

Il nodo più difficile da sciogliere era rappresentato dalla questione di Roma, proclamata capitale del nuovo Stato già nel marzo 1861, ma sede di un pontificato ostile all'unità e difesa dalle truppe francesi. La questione romana andava risolta con prudenza perché da un lato la Francia rimaneva l'alleato più sicuro e il principale partner economico dell'Italia, dall'altro il paese era cattolico al 99% e il clero continuava a svolgere un ruolo decisivo nel controllo sociale e culturale delle campagne. Lo stesso Cavour era stato dell'avviso di muoversi con cautela: fedele al principio «libera Chiesa in libero Stato», aveva cercato una soluzione che assicurasse al papa e al clero piena libertà di esercitare il proprio magistero spirituale. Su questa stessa linea si mossero i governi italiani anche in seguito, registrando tuttavia l'impraticabilità di una conciliazione osteggiata fermamente da Pio IX.

Il fallimento dei tentativi garibaldini

Di fronte a questa situazione di stallo apparve possibile una ripresa della mobilitazione patriottica democratica guidata ancora una volta da Garibaldi. Ma i due tentativi del 1862 e del 1867 si rivelarono male organizzati, in larga misura velleitari e destinati all'insuccesso. Nel 1862 Garibaldi raccolse in Sicilia qualche migliaio di volontari, varcò lo stretto di Messina ma fu fermato (e ferito) sull'Aspromonte dalle truppe regie intervenute ad arrestare la spedizione che minacciava di provocare un intervento militare della Francia di Napoleone III.
Due anni dopo, nel 1864, fu trovato un accordo con la Francia – la cosiddetta Convenzione di settembre – in base al quale l'Italia si impegnava a garantire il rispetto dei confini dello Stato della Chiesa, ottenendo in cambio il ritiro delle truppe francesi dal Lazio. A garanzia del suo impegno, il governo decideva di trasferire la capitale da Torino a Firenze (suscitando nella città piemontese violenti disordini popolari) in quella che sembrava una rinuncia a Roma.
Nel 1867 prese avvio una nuova iniziativa garibaldina, che avrebbe dovuto appoggiarsi su un'insurrezione preparata dai patrioti romani. Si sperava in tal modo di giustificare il colpo di mano, presentandolo come un atto di volontà popolare, e di evitare l'intervento francese.
Napoleone III inviò invece un corpo di spedizione nel Lazio, mentre l'insurrezione a Roma falliva per la sorveglianza della polizia e per la scarsa partecipazione popolare. Il 3 novembre 1867, le truppe francesi da poco sbarcate a Civitavecchia si scontrarono presso Mentana, alle porte di Roma, con i volontari garibaldini e li sconfissero dopo un duro combattimento.

La terza guerra d'indipendenza e la conquista del Veneto

L'anno precedente alla sconfitta di Mentana l'Italia era riuscita ad assicurarsi il possesso del Veneto. Nel 1866 il governo italiano aveva infatti accettato l'alleanza militare con la Prussia che si apprestava allora ad affrontare la guerra con l'Impero asburgico. La partecipazione italiana fu decisiva per l'esito del conflitto, in quanto impegnò una parte dell'esercito austriaco agevolando la vittoria prussiana. Ma, per le forze armate nazionali chiamate alla loro prima prova impegnativa, la guerra si risolse in un clamoroso insuccesso. Gli italiani, infatti, furono sconfitti sia per terra, a Custoza, sia per mare, presso l'isola di Lissa, nonostante le forze austriache fossero inferiori di numero: gravi errori di valutazione dei comandi trasformarono in dure sconfitte quelli che in realtà erano stati degli scontri brevi e confusi, con perdite limitate da ambo le parti. Solo Garibaldi, con i suoi volontari, era riuscito ad aprirsi la via verso Trento, ma aveva dovuto fermarsi perché i prussiani, raggiunti i loro obiettivi, avevano stipulato l'armistizio con gli austriaci. Dalla successiva pace di Vienna (ottobre 1866) l'Italia ottenne, non direttamente ma con la mediazione della Francia, solo il Veneto e i territori del Friuli fino a Udine.
L'ultima delle guerre di indipendenza si concludeva così con un bilancio deludente: rimanevano sotto l'Austria il Trentino e la Venezia Giulia. Ciò avrebbe costituito, ancora per mezzo secolo, un ricorrente motivo di agitazione patriottica. La sconfitta, poi, non solo aveva chiaramente dimostrato l'impreparazione militare italiana, ma aveva diffuso in larga parte dell'opinione pubblica l'amara convinzione che il nuovo Stato non era ancora pronto a inserirsi fra le potenze europee su un piano di parità.

Roma capitale

Anche la presa di Roma dipese direttamente dai successi militari della Prussia. Questa volta fu la Francia a essere sconfitta. Nel settembre 1870, subito dopo la battaglia di Sedan, il governo italiano, non sentendosi più vincolato ai patti sottoscritti con Napoleone III, decise di inviare un corpo di spedizione nel Lazio. Contemporaneamente cercò un accordo col pontefice, ma Pio IX respinse ogni proposta, deciso a mostrare al mondo intero di essere stato costretto a cedere alla violenza. Il 20 settembre le truppe italiane, dopo aver aperto con l'artiglieria una breccia nelle mura presso Porta Pia e dopo un breve combattimento, entravano in città accolte festosamente dalla popolazione. Pochi giorni dopo, un plebiscito confermava a schiacciante maggioranza l'annessione di Roma e del Lazio.
Il 20 settembre 1870 rappresenta una data epocale non solo per l'Italia unita che otteneva la sua capitale, ma soprattutto per la Chiesa cattolica. Quel giorno poneva fine al potere temporale dei papi durato oltre un millennio – dal 752 – e dava inizio a una nuova storia per il cattolicesimo romano.

Il trasferimento della capitale e il non expedit

Nell'estate del 1871 la capitale con tutte le sue strutture politiche e amministrative – Parlamento, governo, ministeri – fu trasferita da Firenze a Roma. Nel frattempo era stata approvata una legge detta delle Guarentigie, cioè delle garanzie, in quanto con essa il Regno d'Italia si impegnava unilateralmente a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero spirituale, secondo le linee del progetto cavouriano. Al papa venivano riconosciute prerogative simili a quelle di un capo di Stato: onori sovrani, facoltà di tenere un corpo di guardie armate, diritto di rappresentanza diplomatica, extraterritorialità per i palazzi del Vaticano e del Laterano, libertà di comunicazioni postali e telegrafiche col resto del mondo. Pur rifiutando la legge e con essa la somma annuale che lo Stato italiano aveva previsto di corrispondere alla Santa Sede, Pio IX di fatto si avvalse delle prerogative assicurate dalle Guarentigie.
Non per questo si ridusse l'ostilità di Pio IX nei confronti del Regno d'Italia. Anzi, l'invito ad astenersi da ogni partecipazione alla vita politica dello Stato si trasformò, nel 1874, in un esplicito divieto con la formula del non
expedit, 'non giova', che significava 'non è opportuno' che i cattolici partecipino alle elezioni politiche. L'acquisto di Roma, nel momento stesso in cui coronava il processo di unificazione nazionale, lasciava aperto un conflitto con la Chiesa che sarebbe stato sanato solo nel 1929 con i Patti lateranensi.

 

 

LE GRANDI POTENZE EUROPEE

 

L'età degli imperi

Nell'ultimo volume della trilogia dedicata al «lungo '800», lo storico inglese Eric J. Hobsbawm definisce «età degli imperi» il periodo dal 1875 al 1914: un'epoca in cui l'espansione imperialista e coloniale raggiunse il suo apice, mentre si registravano molte altre significative trasformazioni politiche e sociali destinate a produrre effetti duraturi lungo tutto il corso del '900.
Le conquiste coloniali europee avevano caratterizzato tutta l'età moderna, in tempi diversi e con diversi protagonisti. Agli spagnoli e ai portoghesi, spintisi nelle Americhe nel '500, si erano aggiunti in seguito olandesi, inglesi e francesi, muovendosi sia verso l'America centrale e settentrionale, sia verso l'India e i grandi arcipelaghi asiatici. Il '700 aveva visto il grande scontro tra Gran Bretagna e Francia per il dominio dei mari e per i nuovi possedimenti in America settentrionale e in India, scontro terminato con il trionfo britannico nel 1763.
Alla fine dell'800, Francia e Gran Bretagna trovarono un accordo di fatto nella loro espansione imperialistica di fine '800 sia per il consolidamento dei possessi asiatici — in Indocina la Francia, in India e in Birmania il Regno Unito —, sia per la spartizione dell'Africa che si concluse col protettorato francese sul Marocco nel 1911 e con la successiva conquista italiana della Libia nel 1912. Nel frattempo anche gli Stati Uniti e il Giappone si erano inseriti nella contesa imperialistica. Se i primi estesero la propria egemonia nei Caraibi, con il controllo di Cuba e del Canale di Panama, e si spinsero nel Pacifico annettendo le Hawaii e sottraendo alla Spagna le Filippine, l'impero giapponese — che aveva avviato il suo processo di modernizzazione nel 1868 — diede avvio a un'espansione territoriale a spese della Cina in Manciuria, Corea e nell'isola di Formosa.

Gli imperi continentali

Il quadro geopolitico vedeva profilarsi, accanto ai grandi imperi coloniali dei relativamente piccoli Stati europei, la presenza di due grandi entità, la Russia e gli Stati Uniti, estese su un intero continente, forti demograficamente e dotate di grandi riserve di materie prime. La Russia attraversava una fase di crisi profonda legata alla struttura agricola arretrata, al ritardo nell'industrializzazione e a un sistema politico autocratico: elementi di debolezza confermati, sul fronte interno, dalla rivoluzione del 1905 e, su quello esterno, dalla drammatica sconfitta ad opera del Giappone nello stesso anno. Gli Stati Uniti, invece, superata la difficile prova della guerra civile (1861-65), si erano subito imposti sulla ribalta mondiale. I primi segni di questa ascesa erano allora appena percepiti ma via via avrebbero portato la potenza americana a dominare il mondo nel '900 e nei primi anni del secolo successivo: un dominio che proprio l'Unione Sovietica, l'erede della Russia imperiale, avrebbe cercato invano di contrastare.

La pacificazione europea

Una delle principali ragioni che consentirono, accanto allo sviluppo economico e industriale, la rinnovata espansione coloniale di fine '800 fu la pacificazione europea seguita alla vittoria della Prussia sulla Francia nel 1870. La guerra franco-prussiana chiudeva il conflitto secolare per l'egemonia nell'Europa continentale: dalla pace di Vestfalia (1648) infatti la frammentazione degli Stati tedeschi ai confini orientali del grande Stato unitario francese aveva garantito alla Francia un primato politico e geopolitico sul continente. La sconfitta ad opera dei prussiani e la nascita dell'Impero tedesco rovesciò i rapporti di forza affidando all'abile e determinato cancelliere tedesco Bismarck il ruolo di arbitro della politica europea. Bismarck esercitò questo ruolo stemperando gli attriti tra Austria e Russia nei Balcani, e contribuendo alla definizione di nuove regole per la spartizione dell'Africa, un continente nel quale anche i tedeschi ottennero le loro colonie negli anni '80 e '90.

Le guerre coloniali

Se per più di quarant'anni il continente europeo fu risparmiato dai conflitti tra le grandi potenze e conobbe solo le brevi guerre balcaniche del 1912-13, l'espansione coloniale fu accompagnata dall'indispensabile sostegno militare non solo nelle operazioni di conquista ma nella repressione delle numerose sollevazioni dei popoli colonizzati. Scontri e vere proprie guerre si ebbero in Asia: in India, nella Penisola indocinese, nelle Filippine e, a più riprese, in Cina. Qui le grandi potenze europee con gli Stati Uniti e il Giappone non si limitarono a intervenire per garantirsi il controllo degli scali marittimi e commerciali, ma cercarono anche di evitare il rafforzamento statale e militare del grande Impero cinese.
Un obiettivo solo parzialmente raggiunto perché, con la rivoluzione del 1911 e la nascita della repubblica, la Cina avviò un lungo processo di liberazione dal controllo europeo e americano salvo rimanere, per tutta la prima metà del '900, sotto la costante minaccia del Giappone, divenuto la maggiore potenza militare e navale tra Manciuria, Corea e Nord-est cinese.
In Africa si possono contare, accanto a una miriade di episodi minori, tre momenti di forte conflittualità bellica.
A sud le guerre boere (1880-81 e 1899-1902) che consentirono alla Gran Bretagna di ottenere il dominio del Sudafrica a spese degli antichi coloni olandesi; a est la dura sconfitta degli italiani ad Adua (1896) nella guerra contro l'Abissinia (l'Etiopia), l'unico Stato rimasto indipendente in Africa; infine la conquista italiana della Libia sottratta ai turchi nel 1912.

L'imperialismo e il "secolo europeo"

Quasi l'intera Africa, una parte rilevante dell'Asia – eccetto la Cina e il Giappone – e tutta l'Oceania erano, agli inizi del '900, sotto il controllo di quella parte d'Europa che rappresentava il nucleo più sviluppato dell'economia mondiale e disponeva anche di una larga supremazia tecnologica e culturale. In nessun altro momento della sua storia millenaria l'Europa aveva esercitato un dominio così esteso sul resto del mondo.
Le ideologie imperialiste trovavano un largo sostegno tra i diversi ceti sociali nella diffusa convinzione di una superiorità culturale e razziale sui popoli di colore da sottomettere alla missione civilizzatrice europea. Da tutti i punti di vista si può parlare di quegli anni come del culmine del "secolo europeo" per eccellenza.

Elementi di crisi

Tuttavia, questi successi e il diffuso consenso che li accompagnava nell'opinione pubblica, non riuscivano ad occultare molti elementi di crisi. Non solo sul piano della politica internazionale europea, con le permanenti tensioni nei Balcani e quelle tra le diverse nazionalità della duplice monarchia d'Austria-Ungheria, ma anche nella politica interna, nelle contrapposizioni ideologiche e nei rapporti tra le classi rivali della nascente società di massa.
Come ha ricordato Hobsbawm nell'Età degli imperi, «fu un'èra di profonda crisi d'identità e di trasformazione profonda per una borghesia i cui tradizionali fondamenti morali si sgretolavano sotto il peso stesso della ricchezza e del benessere da essa accumulati». Il liberalismo borghese imboccò la via di un drammatico declino proprio quando raggiunse il suo apogeo «e a causa proprio delle contraddizioni insite in questa sua avanzata».

Un'Italia simile e diversa

L'Italia, la più recente e la più piccola delle potenze europee, attraversò negli anni dal 1870 al 1914 una fase per molti aspetti simile a quella degli altri grandi Stati dell'Europa continentale. Simile fu la tendenza alla democratizzazione e all'estensione del suffragio, simile la vocazione imperialista accompagnata dal sorgere delle correnti nazionaliste, e simili furono i contrasti politici interni con il rischio di derive autoritarie (come in Francia e in Germania). Diverse erano in realtà le basi economiche di partenza – con un reddito pro capite degli italiani che nel 1870 era la metà di quello britannico e l'80% di quello francese e tedesco –, con una profonda diversità nello sviluppo tra Nord e Sud e con tardivo avvio del processo di industrializzazione anche se in significativo recupero dalla fine dell'800.
Più alta degli altri paesi occidentali rimase la conflittualità sociale soprattutto nelle campagne mentre tardava ancora a trovare soluzione il conflitto tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica anche se, negli anni iniziali del nuovo secolo, fu avviato l'incontro – in chiave antisocialista – tra i liberali moderati e gli esponenti cattolici.
Anche l'Italia partecipava al diffondersi delle tendenze antidemocratiche e antiparlamentari presenti nei grandi paesi dell'Europa continentale, ma non conosceva le derive antisemite presenti in Francia, Germania e Austria.
L'Italia era ormai inserita a pieno titolo nella politica europea all'avvio del nuovo secolo e soprattutto alla vigilia di una guerra mondiale che avrebbe cancellato molte certezze e molte illusioni decretando il declino dell'Europa nel contesto internazionale e nei rapporti di forza mondiali.

 

Le potenze continentali

[ Introduzione audio ]

Il ventennio 1850-70 fu caratterizzato da un elevato tasso di conflittualità e di instabilità: instabilità originata soprattutto dal tentativo della Francia di Napoleone III di riaffermare la sua posizione di massima potenza continentale (sullo scacchiere mondiale la superiorità britannica era fuori discussione), rovesciando il sistema uscito dal congresso di Vienna e contrapponendosi all'Impero asburgico, che di quel sistema era il cardine principale. Ma l'indebolimento dell'Austria, derivato da un sostanziale immobilismo politico e sociale, favorì l'ascesa della potenza prussiana. La crescita della Prussia e la sua aspirazione a riunire attorno a sé un grande Stato nazionale tedesco costituivano una minaccia intollerabile per la Francia, che dalla pace di Vestfalia del 1648 aveva fondato la sua egemonia continentale proprio sulla debolezza e sulla frammentazione politica della Germania: la strada dell'unità tedesca passava quindi inevitabilmente attraverso lo scontro con la Francia.

La Francia di Napoleone III

Nell'Europa di metà '800 la Francia di Napoleone III rappresentava un caso anomalo. Per molti aspetti, il nuovo regime (instaurato nel 1852) – che pure ricalcava le forme istituzionali del primo Impero napoleonico – inaugurò un modello politico di nuovo genere, che da allora fu detto "bonapartismo". Nel bonapartismo l'omaggio formale al principio della sovranità popolare – espressa attraverso i plebisciti – legittimava un potere fondato in realtà sulla forza delle armi, il centralismo autoritario si univa a una certa dose di riformismo sociale e il conservatorismo si mescolava con la demagogia: tutti elementi che ritroveremo in molti regimi autoritari tipici delle moderne società di massa. L'autoritarismo e il centralismo di Napoleone III si fondavano su un vasto consenso popolare, fondato anche sulla tradizione napoleonica che si manteneva viva in tutta la Francia. Oltre al sostegno delle campagne l'imperatore cercò e ottenne quello della borghesia urbana, del mondo degli affari, della finanza e dell'industria. Questa borghesia fu, negli anni del Secondo Impero, attiva e influente come non era mai stata prima.
Le costruzioni ferroviarie e le grandi opere pubbliche promosse dal regime svolsero la funzione di motore dello sviluppo, sia per l'edilizia sia per i settori di punta come il siderurgico e il meccanico.
Ma la tradizione bonapartista portava inevitabilmente la Francia a intraprendere una politica estera ambiziosa e aggressiva. La prima occasione fu la guerra di Crimea, quando Gran Bretagna e Francia si impegnarono a difendere l'Impero ottomano dall'espansionismo russo.
Nell'estate del 1854 una flotta anglo-francese penetrò nel Mar Nero: gli eserciti alleati sbarcarono nella penisola di Crimea e posero l'assedio alla piazzaforte russa di Sebastopoli.

La spedizione in Crimea

La guerra, alla quale partecipò anche il Piemonte con un corpo di spedizione, si risolse nel lunghissimo assedio di Sebastopoli, durato circa un anno e conclusosi nel settembre 1855 con la caduta della città. Il successivo congresso di Parigi confermò la neutralizzazione del Mar Nero, stabilendo che restasse chiuso alle navi da guerra di tutti i paesi, compresa la Russia. L'Impero ottomano vide garantita la sua integrità e confermata la sua sovranità nominale sui Principati autonomi di Serbia, Moldavia e Valacchia: questi ultimi due si sarebbero uniti nel 1859 per formare il nuovo Stato di Romania.
Una seconda occasione fu quella della vittoriosa guerra all'Austria al fianco del Piemonte cavouriano nel 1859.
Ma il risultato principale della guerra – la formazione di uno Stato nazionale italiano sotto la guida del Piemonte – fu ben lontano dai progetti di Napoleone III, che mirava a subentrare all'Austria come potenza egemone in un'Italia che doveva rimanere divisa.

La debolezza dell'Impero d'Austria

Dopo le rivoluzioni del '48-49, l'Impero asburgico si riorganizzò sulla base del vecchio sistema assolutistico.
Del resto, nonostante il persistere dei contrasti di nazionalità – che erano stati aggravati dalle vicende del '48 – il potere imperiale poteva contare sul sostegno della maggioranza dei contadini, favoriti dall'abolizione della servitù della gleba, e su quello della Chiesa cattolica.
Appoggiandosi su queste forze, lo Stato sacrificò le esigenze dei settori industriali (soprattutto quelli delle zone più progredite, come la Boemia e la Lombardia), chiamati a pagare i costi di un imponente apparato amministrativo e militare, e mancò in sostanza l'appuntamento con lo sviluppo economico degli anni '50 e '60 senza peraltro mantenere, anche a causa delle ripetute sconfitte militari, il ruolo da protagonista della scena europea che aveva prima del '48.

La forza della Prussia

La Prussia si era sviluppata, a partire dagli anni '50, a un ritmo che non aveva uguali in Europa. Questa espansione industriale e la crescita di una forte borghesia si concentrarono soprattutto nella parte occidentale dello Stato prussiano (cioè nella Renania-Vestfalia). Lo sviluppo economico non era stato accompagnato, però, da un'evoluzione delle istituzioni in senso liberaiparlamentare: al contrario i vertici dello Stato continuavano a essere occupati dagli esponenti degli Junker, gli aristocratici proprietari terrieri. Proprio il conservatorismo sociale si rivelò una componente essenziale di quella "via prussiana" allo sviluppo, guidato dall'alto e legato al potenziamento militare, che avrebbe finito col costituire una sorta di modello alternativo a quello britannico. Inoltre, elementi di modernità come un efficiente sistema di comunicazioni interne (strade, canali), una rete ferroviaria relativamente sviluppata e un'alta diffusione dell'istruzione rappresentarono un fattore decisivo per i successi della Prussia nel campo economico come in quello militare. Così il tradizionalismo degli Junker e le aspirazioni nazionali della borghesia finirono col trovare un terreno di convergenza nella politica di potenza dello Stato prussiano e nel suo necessario complemento, ossia lo sviluppo di un'adeguata forza militare.
L'artefice principale di questa politica fu Otto von Bismarck, un tipico rappresentante degli Junker che non aveva mai fatto mistero della sua avversione alla democrazia e al liberalismo. Nominato primo ministro nel 1862 dal re Guglielmo I, Bismarck si impegnò nel rafforzamento dell'esercito, anche contro le riserve del Parlamento, in funzione dell'obiettivo dell'unificazione.
Per raggiungere questo obiettivo la Prussia doveva sconfiggere sul campo di battaglia Austria e Francia, i due nemici di un'unità tedesca a guida prussiana. Del resto il programma politico di Bismarck era stato chiaramente enunciato quando aveva sostenuto che le grandi questioni si sarebbero risolte «non con discorsi né con deliberazioni della maggioranza – questo era stato l'errore del '48-49 – bensì col ferro e col sangue».

Gli esiti del conflitto fra Austria e Prussia

Gli attriti tra Austria e Prussia relativi all'amministrazione dei ducati di Schleswig, Holstein e Lauenburg, sottratti dalle due potenze alla Danimarca nel 1864, costituirono il pretesto della guerra agli austriaci nel 1866. Garantitasi la neutralità della Russia e della Francia, e alleatasi con l'Italia, la Prussia sconfisse l'Austria nella grande battaglia campale di Sadowa in Boemia (3 luglio). A conferma della preponderante superiorità militare prussiana, la guerra era durata solo tre settimane. Nella successiva pace di Praga l'Austria non subì mutilazioni territoriali, salvo quella del Veneto ceduto all'Italia. Ma dovette accettare lo scioglimento della vecchia Confederazione germanica, e dunque la fine di ogni sua influenza nell'Europa centrosettentrionale, dove a nord del fiume Meno si formò la nuova Confederazione della Germania del Nord a guida prussiana.
I nuovi equilibri spinsero l'Impero asburgico a spostare il centro dei suoi interessi verso l'area danubiano-balcanica e a cercare una nuova soluzione per il problema delle nazionalità che convivevano al suo interno. Nel 1867 l'Impero fu diviso in due Stati, l'uno austriaco, l'altro ungherese (da ora in poi si parlerà infatti di Impero austro-ungarico), uniti fra loro nella persona del sovrano, ma ciascuno con un proprio Parlamento e un proprio governo, salvo che per i ministeri preposti agli affari di interesse comune (Esteri, Guerra e Finanze). Col "compromesso" del '67, la dinastia asburgica si accordava col gruppo nazionale più forte e compatto, ma scontentava soprattutto gli slavi che avrebbero rappresentato da allora il pericolo più grave per l'unità dell'Impero.

 

La sconfitta della Francia e l'unità tedesca

La guerra franco-prussiana

Il cammino verso l'unificazione tedesca procedeva secondo un programma di politica di potenza che la borghesia liberale era costretta ormai a subire e che era fuori dal controllo del Parlamento, nel quale le posizioni liberali erano state sconfitte dal rapporto diretto del cancelliere con il sovrano: sulle spese militari Bismarck decise infatti di scavalcare il Parlamento e di farle approvare per decreto reale. L'ultimo ostacolo sulla via dell'unità era rappresentato dalla Francia di Napoleone III, deciso a non consentire ulteriori ingrandimenti alla Prussia.
L'occasione per il conflitto fu offerta da una questione dinastica. Nel 1868 il trono di Spagna era rimasto vacante e la corona era stata offerta a un parente del re di Prussia.
La prospettiva di un principe tedesco sul trono di Spagna spaventava ovviamente la Francia, che si sentiva minacciata di accerchiamento. L'opinione pubblica francese insorse compatta e la reazione del governo fu fermissima. Bismarck esasperò abilmente queste tendenze bellicose rilasciando, all'indomani di un incontro fra Guglielmo I e l'ambasciatore francese, un comunicato stampa formulato in modo volutamente provocatorio: vi si lasciava intendere che l'ambasciatore era stato messo alla porta dal re. Quel comunicato provocò in Francia, e soprattutto a Parigi, un'ondata di furore nazionalistico. Il governo e lo stesso imperatore, fin allora esitante, si lasciarono trascinare dalla spinta dell'opinione pubblica e, il 19 luglio 1870, dichiararono guerra alla Prussia.
La Francia affrontò il conflitto in un clima di grande entusiasmo, ma con scarsa preparazione militare.
L'esercito, che pure poteva contare su un armamento moderno ed efficiente, era nettamente inferiore a quello prussiano sia per il numero degli effettivi sia per l'organizzazione. Come nella guerra contro l'Austria del '66, le truppe comandate dal generale von Moltke si mossero con grande rapidità: il 1° settembre, mentre metà dell'esercito francese non riusciva ad arretrare sotto l'attacco tedesco in Lorena, l'altra metà venne accerchiata a Sedan, presso il confine col Belgio, e costretta ad arrendersi. Lo stesso imperatore fu preso prigioniero dai tedeschi.
Pochi giorni dopo, nella capitale ormai minacciata dai prussiani, abbattuto l'impero e proclamata la repubblica, si formava un governo provvisorio. Invano il ministro della Guerra Léon Gambetta, fuggito con un pallone aerostatico da Parigi assediata, tentò di rianimare la resistenza organizzando la leva in massa nelle province e mobilitando il popolo contro gli invasori (in questa occasione intervenne in difesa della nuova Francia repubblicana anche un corpo di volontari italiano comandato da Garibaldi). Dopo una serie di sconfitte il governo fu costretto a chiedere l'armistizio nel gennaio 1871.

L'unificazione tedesca e il desiderio di rivincita francese

Nel frattempo, il 9 dicembre 1870, era stato proclamato l'Impero tedesco (il Reich) che nasceva dalla fusione della Prussia e degli Stati della Confederazione del Nord con gli Stati della Germania meridionale tra cui il regno di Baviera. Il 18 gennaio 1871 nella reggia di Versailles, luogo-simbolo della potenza dei re di Francia, Guglielmo I fu incoronato imperatore tedesco (Deutscher Kaiser).
L'unità tedesca era compiuta: un'unità calata dall'alto, attuata, in seguito a una guerra combattuta contro il nemico tradizionale, soprattutto per l'iniziativa di uno statista abile e autoritario, mai ratificata da un plebiscito o da una qualsiasi forma di consultazione popolare.
Con la successiva pace di Francoforte non solo la Francia fu costretta a corrispondere una pesante indennità di guerra. ma dovette cedere al Reich l'Alsazia e la Lorena.
due regioni di confine di notevole importanza economica e strategica. La disfatta di Sedan, l'invasione del paese, la caduta di Parigi e la perdita dell'Alsazia-Lorena rappresentarono per la Francia molto più che una sconfitta militare. Si trattò di una vera e propria umiliazione nazionale. li desiderio di riparare a questa umiliazione – il cosiddetto "revanscismo", dal francese revanche, 'rivincita' – avrebbe condizionato per quasi mezzo secolo la politica francese determinando un'insanabile rivalità.

 

La Comune di Parigi

[ Introduzione audio ]

Lo scontro tra la capitale e la Francia rurale

Dopo la battaglia di Sedan che sancì la vittoria prussiana, era stato il popolo della capitale francese a insorgere, a costituire una Guardia nazionale e a decretare la fine del regime napoleonico. Parigi aveva vissuto la caduta dell'Impero come una nuova occasione rivoluzionaria e al tempo stesso come l'inizio di una riscossa nazionale.
Molto diverso era l'orientamento nelle campagne e nei centri minori, dove prevalevano le tendenze conservatrici.
La frattura si delineò con chiarezza dopo le elezioni della nuova Assemblea nazionale, che si tennero nel febbraio 1871. Grazie al voto delle campagne l'Assemblea, che tenne le sue prime riunioni a Bordeaux, risultò composta in stragrande maggioranza da moderati e conservatori. A presiedere il governo fu chiamato Adolphe Thiers, un esponente della Francia moderata, già ministro di Luigi Filippo d'Orléans. Appena entrato in carica, il nuovo governo si affrettò ad aprire trattative di pace.
Ma, quando furono note le durissime condizioni imposte da Bismarck (che prevedevano fra l'altro l'ingresso delle truppe tedesche nella capitale), il popolo di Parigi protestò in massa e decise di difendere la città. Lo scontro fra la Parigi rivoluzionaria e la Francia rurale e conservatrice diventava inevitabile, né Thiers fece nulla per evitarlo.
Quando, a metà marzo, il governo ordinò la consegna delle armi raccolte per la difesa della capitale, il comando della Guardia nazionale rifiutò di obbedire e indisse le elezioni per il Consiglio della Comune.

L'esperienza rivoluzionaria della Comune

In queste elezioni, tenutesi in marzo, l'elettorato conservatore si astenne in gran parte dalle urne — anche perché i ricchi avevano abbandonato in massa la capitale — e il potere restò nelle mani dei gruppi di estrema sinistra, democratico-giacobini ma anche socialisti e anarchici. Per quanto divisi da seri contrasti, i dirigenti della Comune diedero vita nel giro di poche settimane a un esperimento radicale di democrazia diretta.
Fu abolita la distinzione fra potere esecutivo e legislativo, tutti i funzionari furono resi elettivi e continuamente revocabili, l'esercito venne sostituito da milizie popolari armate. Queste misure provocarono l'allarme dei conservatori e dei moderati e suscitarono l'entusiasmo dei rivoluzionari di tutta Europa. Marx e Bakunin videro nella Comune il primo esempio di gestione diretta del potere da parte delle masse, quasi un modello per la futura società socialista.
Racchiusa entro i confini di una sola città, isolata dal resto del paese, occupato per giunta da truppe straniere, la Comune non riuscì a coinvolgere anche i piccoli centri e le campagne. Gli appelli lanciati da Parigi agli altri comuni di Francia perché si associassero alla capitale in una libera federazione caddero nel vuoto. E l'esperienza della Comune durò non più di due mesi: il tempo necessario a Thiers per raccogliere, con l'assenso degli occupanti tedeschi, un esercito abbastanza forte per muovere alla conquista della capitale. Fra il 21 e il 28 maggio le truppe governative procedettero all'assalto di Parigi, che fu difesa strada per strada dalle milizie popolari. La battaglia fu condotta da ambo le parti con estrema determinazione. Alle esecuzioni sommarie – circa 20 mila uomini furono passati per le armi senza processo durante la "settimana di sangue" – i difensori della Comune risposero con sanguinose rappresaglie, che contribuirono ad accentuare nell'opinione pubblica moderata i sentimenti di paura e odio per i rivoluzionari.
Per la seconda volta in poco più di vent'anni, il movimento rivoluzionario francese si ritrovava alla fine sconfitto e decimato.

 

L'Impero tedesco e la politica di Bismarck

Istituzioni politiche e blocco sociale dominante

Con 40 milioni di abitanti, una vasta disponibilità di materie prime, un'economia in continua crescita, un esercito di provata efficienza e un sistema di istruzione altrettanto qualificato, il nuovo Stato tedesco nato dalla vittoria sulla Francia si presentava come la maggiore potenza continentale europea. Dal punto di vista istituzionale, il Reich ereditava la struttura della vecchia Confederazione germanica: era infatti diviso in venticinque Stati – alcuni vastissimi, come la Prussia, altri piccoli o piccolissimi – con propri governi e parlamenti (che avevano però funzioni prevalentemente amministrative) e in qualche caso un proprio esercito, come la Baviera.

La formazione del Reich

La grande politica era di competenza del governo centrale, presieduto da un cancelliere responsabile di fronte all'imperatore. Il potere legislativo era esercitato dal Parlamento, diviso in due camere, una camera elettiva, il Reichstag, eletta a suffragio universale e un Consiglio federale, il Bundesrat, composto da rappresentanti dei singoli Stati. Come nella Prussia preunitaria, il Parlamento aveva limitate possibilità di condizionare il potere esecutivo, concentrato nelle mani dell'imperatore e del cancelliere. Come in Prussia, il blocco sociale dominante era costituito da una solida alleanza fra il mondo industriale e bancario e l'aristocrazia terriera e militare: un blocco che fu rinsaldato dalla politica protezionista adottata da Bismarck, a vantaggio soprattutto dell'industria pesante e della cerealicoltura.

I partiti politici

Una vivace dialettica politica caratterizzò la Germania con la nascita di nuovi e forti movimenti politici di massa.
Alle tradizionali formazioni liberali e conservatrici che avevano dominato la scena parlamentare in Prussia negli anni '60 – il Partito conservatore, espressione degli Junker, il Partito nazional-liberale, che rappresentava la borghesia industriale e commerciale, e il piccolo raggruppamento degli intellettuali liberai-progressisti –si aggiunse, nel 1871, il partito cattolico del Centro. Nel 1875, dall'accordo fra la corrente marxista e quella che si ispirava a Lassalle, nacque il Partito socialdemocratico tedesco (Spd). Mentre la socialdemocrazia traeva la sua forza dalla massiccia adesione operaia delle regioni e città industriali, il Centro poggiava su una base sociale formata per lo più da agricoltori e ceti medi urbani presenti in Renania e in Baviera.

Bismarck contro i cattolici e i socialdemocratici

Nei primi anni '70 Bismarck iniziò una politica duramente anticattolica — il Kulturkampf, la 'battaglia per la civiltà' — emanando una serie di misure volte non solo ad affermare il carattere laico dello Stato (obbligo del matrimonio civile, abolizione di ogni controllo religioso sull'insegnamento), ma anche a porre sotto sorveglianza l'attività del clero cattolico. La lotta scatenata da Bismarck ebbe però l'effetto di stimolare l'orgoglio e la compattezza dei cattolici tedeschi, che riuscirono nel giro di pochi anni a raddoppiare la loro rappresentanza parlamentare.
Bismarck fu costretto, così, ad attenuare le misure anticattoliche e a varare una nuova legislazione ecclesiastica, molto più moderata della precedente.
L'abbandono del Kulturkampf fu imposto al cancelliere anche dalla necessità di fronteggiare la minaccia che veniva dall'ascesa della socialdemocrazia. Già nel 1878, traendo pretesto da due attentati falliti contro l'imperatore, il governo varò una serie di leggi eccezionali specificamente rivolte contro il movimento socialdemocratico. Le «leggi contro le tendenze sovvertitrici» ponevano gravi limitazioni alla libertà di stampa e di riunione e dichiaravano illegali tutte le associazioni «aventi lo scopo di provocare il rovesciamento dell'ordinamento statale o sociale esistente», costringendo così la socialdemocrazia a una condizione di semiclandestinità.
Nel tentativo di soffocare sul nascere lo sviluppo del movimento operaio, Bismarck non si limitò però alle misure repressive. Fra il 1883 e il 1889 il Parlamento approvò, su proposta del governo, alcune importanti leggi di tutela delle classi lavoratrici, che istituivano assicurazioni obbligatorie per gli infortuni sul lavoro, le malattie e la vecchiaia, facendone gravare il peso in parte sugli imprenditori, in parte sullo Stato, in parte sui lavoratori stessi. In un'epoca in cui le attività previdenziali e assistenziali erano affidate all'iniziativa dei privati o delle istituzioni religiose, la legislazione sociale varata da Bismarck era obiettivamente molto avanzata. Dando soddisfazione ad alcune delle esigenze più sentite dalla classe operaia e al tempo stesso rifiutando di riconoscere legittimità alla sua rappresentanza organizzata, Bismarck mirava a integrare le masse lavoratrici nello Stato in una posizione subalterna.

I successi della socialdemocrazia

Questa operazione andò però incontro a un insuccesso politico analogo a quello subito nella lotta contro i cattolici. Il varo della legislazione sociale non impedì la nascita, alla fine degli anni '80, di un forte movimento sindacale guidato dai socialdemocratici. D'altra parte le leggi eccezionali, prorogate periodicamente fino al 1890, non riuscirono a bloccare la crescita elettorale della socialdemocrazia, che passò dai circa 500 mila voti del 1878 a quasi 1 milione e mezzo (il 18% dei suffragi, con 35 deputati al Reichstag) nel 1890. L'affermazione socialdemocratica sancì il fallimento della politica bismarckiana nei confronti del movimento operaio e contribuì a provocare, nel 1890, l'allontanamento dal governo dell'onnipotente cancelliere.

La politica estera e il sistema bismarckiano

Nel ventennio in cui rimase al potere Bismarck fu l'arbitro dell'equilibrio europeo. Dopo la vittoria sulla Francia, infatti, il cancelliere tedesco costruì un sistema di alleanze che aveva come scopo principale quello di impedire che la Francia potesse uscire dal suo isolamento politicodiplomatico.
A questo fine si alleò con l'Austria-Ungheria, con la Russia e con l'Italia, contando sul fatto che la Gran Bretagna non si sarebbe mai avvicinata alla Francia, sia per la sua riluttanza a impegnarsi sul continente europeo, sia per la rivalità che opponeva le due potenze nell'espansione coloniale in Africa.
Fulcro iniziale del sistema bismarckiano fu il patto dei tre imperatori, stipulato nel 1873 fra Germania, Austria- Ungheria e Russia: un patto difensivo che si fondava soprattutto sulla solidarietà fra le tre monarchie autoritarie e aveva per obiettivo palese la tutela degli equilibri conservatori all'interno dei singoli Stati. L'alleanza aveva però un punto debole: la vecchia rivalità fra Austria e Russia nella Penisola balcanica, dove le popolazioni slave erano in perenne ribellione contro il dominio ottomano.
Fra il 1875 e il 1876 il governo turco represse con grande spargimento di sangue una serie di rivolte scoppiate in Bosnia, in Erzegovina e in Bulgaria. Nella primavera del '77 la Russia, grande protettrice dei popoli slavi, dichiarò guerra alla Turchia ottomana e la sconfisse, imponendole una pace quanto mai onerosa, che in pratica avrebbe sancito l'egemonia russa nei Balcani. Come era avvenuto nel 1854, questa prospettiva allarmò le altre potenze europee. Austria-Ungheria e Gran Bretagna, in particolare, minacciarono di intervenire contro la Russia.

Dal congresso di Berlino alla Triplice alleanza

A questo punto fu Bismarck a prendere l'iniziativa, nel ruolo del mediatore. Un congresso delle potenze europee fu convocato a Berlino nell'estate del '78 dove si giunse a un accordo che limitava notevolmente i vantaggi ottenuti dalla Russia, pur ridisegnando radicalmente gli equilibri della Penisola balcanica. La Bulgaria ottenne l'indipendenza, ma entro confini assai più ristretti rispetto a quelli determinati dall'esito del conflitto russo-turco dell'anno precedente. La Bosnia e l'Erzegovina furono dichiarate autonome, ma affidate in "amministrazione temporanea" all'Austria. La Gran Bretagna ottenne l'isola di Cipro, in posizione strategica per il controllo del canale di Suez che collega ancora oggi il Mediterraneo al Mar Rosso. La Francia ebbe mano libera per una eventuale espansione in Tunisia nel Nord Africa. In questo modo Bismarck non solo indirizzava verso obiettivi extraeuropei le velleità espansionistiche della Francia, ma creava le premesse per un contrasto con l'Italia.
Scongiurato il pericolo di un conflitto, Bismarck cercò di ricucire l'alleanza con l'Austria e la Russia. Ci riuscì nel 1881, quando fu rinnovato il patto dei tre imperatori. Un anno dopo l'edificio fu completato con la stipulazione della Triplice alleanza, che inseriva nel sistema bismarckiano anche l'Italia come alleata della Germania e dell'Austria.

 

La Repubblica in Francia

[ Introduzione audio ]

Dopo i traumi della sconfitta e la "settimana di sangue" con cui si chiuse l'esperienza della Comune, la Francia non tardò a rivelare segni di ripresa. Nel luglio del '72, quasi a dimostrare la volontà di rivincita del paese, l'Assemblea nazionale decise l'introduzione del servizio militare obbligatorio. Nel settembre '73 fu ultimato il pagamento dell'indennità di guerra dovuta ai tedeschi.
Alla fine degli anni '70 la Francia aveva già recuperato buona parte del suo prestigio internazionale, disponeva di un forte esercito e cominciava a incamminarsi con decisione sulla strada delle conquiste coloniali.

La Terza Repubblica

Più travagliato fu il processo di stabilizzazione politica.
La stessa forma repubblicana di governo fu a lungo in forse, dato che i membri dell'Assemblea nazionale, incaricata di redigere la nuova costituzione, erano in maggioranza favorevoli alla restaurazione della monarchia. Solo le fratture interne allo schieramento monarchico – diviso fra i legittimisti, fautori di un ritorno dei Borbone, e gli orleanisti, che volevano sul trono gli eredi di Luigi Filippo – e un accordo raggiunto in extremis fra orleanisti e repubblicani moderati consentirono il varo di una costituzione repubblicana. La Costituzione della Terza Repubblica del 1875 prevedeva che il potere legislativo fosse esercitato da una Camera eletta a suffragio universale maschile e da un Senato composto da membri in parte vitalizi e in parte elettivi.
Un elemento di stabilità era costituito dalla figura del presidente della Repubblica, capo dell'esecutivo, che veniva eletto dalle Camere riunite e godeva in teoria di poteri molto ampi. La carta costituzionale, così concepita, rappresentava un compromesso fra una soluzione di tipo presidenziale, all'americana, preferita dai moderati, e una di stampo parlamentare, sostenuta dai democratici: la prima avrebbe conferito amplissimi poteri al presidente della Repubblica, la seconda maggiori poteri al Parlamento. La Costituzione del 1875 rappresentò un indubbio successo per i repubblicani francesi che, nelle elezioni del 1876, riuscirono a capovolgere la tendenza conservatrice fin allora prevalente nell'elettorato e ad assicurarsi una solida maggioranza.

Opportunisti e radicali

A dominare la scena politica furono i repubblicani dell'ala moderata, i cosiddetti opportunisti, la cui forza stava essenzialmente in un solido legame con l'elettorato "medio", quello dei commercianti, degli impiegati e soprattutto dei piccoli agricoltori. Di questo elettorato essi seppero interpretare la generica aspirazione al progresso, ma anche le tendenze conservatrici in materia di rapporti sociali. Di qui le critiche dei repubblicani più avanzati – o radicali, come allora si definirono in contrapposizione agli opportunisti – che costituirono un forte raggruppamento autonomo capeggiato da Georges Clemenceau.

L'operato dei governi repubblicani

Fu comunque sotto la guida dei governi repubblicanomoderati che la Francia poté consolidare le sue istituzioni democratiche e superare gradualmente le fratture provocate dalla Comune del '71. Nel 1880 fu approvata un'amnistia per i comunardi incarcerati o deportati, che permise al movimento operaio francese di ricostituire lentamente le sue file. Nel 1884 il Senato divenne completamente elettivo. Sempre nel 1884, furono approvate tre leggi di notevole importanza: quella che garantiva la libertà di associazione sindacale, quella che ampliava le autonomie locali, stabilendo fra l'altro l'elettività dei sindaci, e quella che introduceva il divorzio.
L'azione dei governi repubblicani fu incisiva soprattutto nell'affermazione della laicità dello Stato, in particolare nel settore della scuola, tradizionale terreno di scontro fra cattolici e laici, fra democratici e conservatori. Con una serie di leggi approvate fra 1'80 e 1'85, l'istruzione elementare fu resa obbligatoria e gratuita e posta sotto il controllo statale, mentre le università e gli istituti superiori gestiti dal clero furono privati del diritto di rilasciare titoli legali di studio.

Corruzione politica e speculazione finanziaria

L'indebolimento dei poteri del presidente della Repubblica e l'instaurarsi di una prassi parlamentare di governo ebbero come conseguenza negativa un'altissima instabilità degli esecutivi, aggravata dalla mancanza di schieramenti politici compatti. Un altro male storico della Terza Repubblica fu la corruzione diffusa nelle alte sfere del potere. Una corruzione che – come già nella monarchia di Luigi Filippo e nel Secondo Impero – affondava le sue radici nello stretto legame tra il mondo politico e gli ambienti della speculazione finanziaria, e che trovava nuovo alimento nelle rapide possibilità di guadagno offerte dall'espansione coloniale. Il susseguirsi di scandali politico-finanziari mise spesso a dura prova la solidità delle istituzioni e seminò disagio e sfiducia in larghi settori dell'opinione pubblica.

 

L'imperialismo in Gran Bretagna

La Gran Bretagna a metà '800

La Gran Bretagna rimaneva, alla metà dell'800, la più progredita fra le grandi potenze europee. Produceva i due terzi del carbone e la metà del ferro di tutto il mondo.
Aveva la rete ferroviaria più sviluppata in relazione al territorio e una flotta mercantile pari alla metà di quella di tutti gli altri paesi europei messi insieme. Era il centro commerciale e finanziario cui facevano capo i traffici di tutti i continenti. Possedeva un impero coloniale già vasto e, come vedremo, in via di ulteriore espansione. Aveva un tasso di analfabetismo fra i più bassi del mondo. Aveva infine le istituzioni politiche più libere d'Europa.
Il ventennio '46-66, caratterizzato dalla presenza quasi ininterrotta dei liberali al governo, segnò un ulteriore consolidamento del sistema parlamentare, cioè di quel sistema, nato proprio in Gran Bretagna, che subordinava la vita di un governo alla fiducia del Parlamento e faceva di quest'ultimo l'arbitro indiscusso della vita politica. Alla Corona era invece affidato un ruolo essenzialmente simbolico di personificazione dell'identità nazionale, ruolo che si manifestò pienamente nel corso del lunghissimo regno della regina Vittoria (dal 1837 al 1901).
Il sistema parlamentare non era però sinonimo di democrazia. In Gran Bretagna molti poteri spettavano ancora alla Camera alta, ossia alla Camera dei Lords, alla quale si accedeva per diritto ereditario o per nomina regia.
La stessa Camera elettiva, la Camera dei Comuni, era espressione di uno strato piuttosto ristretto della popolazione: in base alla legge elettorale del 1832, avevano diritto al voto negli anni '60 circa 1.300.000 persone, ossia il 15% del totale dei maschi adulti. Inoltre la pratica del voto palese, che sarebbe stata abolita solo nel 1872, rappresentava, soprattutto nelle zone rurali, un potente mezzo di condizionamento a vantaggio dell'aristocrazia terriera.

Riforma elettorale e alternanza al governo di liberali e conservatori

Nel 1865 il leader dei liberali William Gladstone, facendosi interprete della parte più dinamica della società britannica – la borghesia industriale alleata con le frange più qualificate della classe operaia –, presentò un progetto di legge che prevedeva una limitata estensione del diritto di voto. La proposta provocò però, nel 1866, la caduta del governo liberale e il ritorno al potere dei conservatori. Ma furono proprio i conservatori, sotto la spinta di un nuovo e dinamico leader, Benjamin Disraeli (un ebreo di origine veneziana convertito adolescente all'anglicanesimo), ad assumere l'iniziativa di una riforma elettorale più avanzata di quella proposta da Gladstone. La nuova legge, o Reform Act, varata nel 1867, aumentava di quasi un milione la consistenza del corpo elettorale, ammettendo al voto i lavoratori urbani a reddito più elevato. Spingendo i conservatori a farsi promotori della riforma, Disraeli mostrava di riconoscere il peso che i lavoratori dell'industria avevano assunto nella società britannica e cercava di allargare in quella direzione la base di consenso del suo partito.
Fino alla fine degli anni '70 Gladstone e Disraeli si alternarono al governo, distinguendosi soprattutto per lo stile politico e per la diversa impostazione della politica estera: più legato Gladstone agli ideali del liberalismo, più proiettato Disraeli sugli obiettivi imperiali della politica britannica, cui cercò di assicurare un solido consenso popolare, promuovendo importanti riforme sociali in tema di salute pubblica e di edilizia popolare. A partire dal 1880 i liberali tornarono a dominare la scena politica promuovendo, nel 1884, una nuova riforma elettorale che allargava ulteriormente il diritto di voto estendendolo alla maggioranza dei lavoratori agricoli.

Il problema irlandese

In questa fase, però, il governo liberale fu costretto a dedicare buona parte delle sue energie alla "questione irlandese". Negli irlandesi convivevano infatti fedeltà al cattolicesimo (e alla Chiesa di Roma) e tendenze indipendentiste di marca nazionalista, entrambi fattori che mettevano in discussione l'appartenenza al Regno Unito.
Alla fine degli anni '70, inoltre, l'Irlanda aveva visto aggravare le sue già disagiate condizioni economiche a causa della grave crisi che aveva colpito l'agricoltura europea. Alla pressione del movimento indipendentista – che si esprimeva sia con le lotte parlamentari sia con gli atti terroristici – Gladstone rispose presentando in Parlamento un progetto che prevedeva la concessione di ampie autonomie all'isola seppure nella cornice istituzionale del Regno Unito. Questo progetto (Home Rule) provocò una forte opposizione nello stesso partito liberale e la secessione degli esponenti unionisti, cioè contrari alla autonomia dell'Irlanda, guidati da Joseph Chamberlain, leader della corrente di sinistra, che vantava forti legami con l'elettorato operaio. La scelta degli unionisti di confluire nelle fila dei conservatori consentì a questi ultimi di affermarsi nelle elezioni del 1886 e di mantenere a lungo il potere rinnovando il tentativo, che era stato già di Disraeli, di coniugare la politica imperialistica con una certa dose di riformismo sociale.

 

L'autocrazia russa

Nella seconda metà dell'800, la Russia conservava, fra le grandi potenze europee, il primato dell'arretratezza politica e civile. Era ancora uno Stato autocratico, il cui controllo supremo era riposto nelle mani dello zar. Inoltre, all'inizio degli anni '50 più del 90% della popolazione era occupato nell'agricoltura e oltre 20 milioni di contadini (su un totale di circa 60 milioni di abitanti) erano soggetti alla servitù della gleba: erano cioè legati alla terra che coltivavano – dunque comprati e venduti assieme a essa – e subordinati personalmente ai proprietari. Un'aristocrazia terriera assenteista, propensa a consumare le proprie rendite in spese di prestigio più che a investirle in impieghi produttivi, dominava ancora incontrastata come nell'Europa dell'ancien régime. All'immobilismo delle strutture politiche e sociali faceva singolare riscontro l'eccezionale livello della vita intellettuale. L'800 fu il secolo d'oro della letteratura russa: grandi scrittori come Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij, Cechov ci offrono un quadro vivissimo di una società diversa in ogni suo aspetto da quella dell'Europa occidentale e ci restituiscono gli echi di un dibattito ideologico quanto mai vivace.

Lo zar Alessandro II

Nel 1855 salì sul trono imperiale Alessandro II. Il nuovo zar iniziò il suo regno concedendo un'amnistia ai detenuti politici e varando una serie di riforme che avevano lo scopo di introdurre elementi di modernizzazione nella burocrazia, nella scuola, nel sistema giudiziario e nell'esercito. Ma la riforma di gran lunga più importante cui Alessandro II legò il suo nome fu l'abolizione della servitù della gleba. Grazie a una serie di decreti imperiali emanati nel febbraio 1861, i servi acquistarono la libertà personale e la parità giuridica con gli altri cittadini e, contemporaneamente, ebbero la possibilità di riscattare le terre che coltivavano e di trasformarsi così in piccoli proprietari. L'assegnazione delle terre agli ex servi, tuttavia, avvenne con criteri non uniformi, e comunque tali da salvaguardare le grandi proprietà. Agli entusiasmi che avevano accompagnato l'inizio della riforma subentrò ben presto nelle campagne un clima di delusione e di malcontento, rivolto soprattutto contro i signori accusati (a torto) di aver deliberatamente travisato e tradito l'autentica volontà dello zar. Vi furono proteste e vere e proprie ribellioni, represse con l'intervento dell'esercito.

I populisti

Con le travagliate vicende legate all'emancipazione dei servi si chiuse la breve stagione liberalizzante del regno di Alessandro II. Dopo il 1861 si assisté, infatti, a un appesantimento del clima politico e a un nuovo inasprimento dei controlli polizieschi, che accentuarono la frattura fra il potere statale e la borghesia colta. Fra le giovani generazioni andò diffondendosi un atteggiamento di rifiuto totale dell'ordine costituito, unito a uno sforzo sincero di avvicinarsi ai problemi delle classi subalterne.
Fu questo il senso della parola d'ordine «andare al popolo» che ebbe ampia eco fra i giovani negli anni '60 e '70: da questo slogan derivò il nome di populisti (narodniki, da narod, 'popolo') col quale vennero designati gli intellettuali rivoluzionari che in questo periodo tentarono, senza troppa fortuna, di compiere opera di educazione culturale e di proselitismo politico fra le masse. Base fondamentale del loro programma era l'utopia di un socialismo agrario che facesse leva sul proletariato delle campagne e si inserisse nella tradizione comunitaria della società rurale russa. L'incomprensione delle masse contadine e la durezza della repressione poliziesca finirono però con l'isolare sempre più i narodniki e con lo spingerli verso la pratica cospiratoria.
Quando, nel 1881, Alessandro II fu ucciso da un attentatore anarchico, le speranze che avevano accompagnato i suoi primi anni di regno non erano ormai che un lontano ricordo.

 

 

STATI UNITI E GIAPPONE

 

 

Quanto avvenne oltreoceano, negli Stati Uniti e in Giappone, nella seconda metà dell'800 rivestì un'importanza pari alle trasformazioni dell'Europa continentale descritte nel capitolo precedente, soprattutto in relazione agli sviluppi successivi dei rapporti internazionali, alle guerre e alle alleanze. Dopo una durissima guerra civile gli Stati Uniti approdarono, alla fine del secolo – ormai esaurita la spinta verso la conquista della nuova frontiera continentale –, al ruolo di grande potenza proiettata sui mari, nei Caraibi e nel Pacifico. Il Giappone iniziò nel 1868 una fase di modernizzazione uscendo da un regime feudale e approdando anch'esso al ruolo di grande potenza economica e militare sul finire del secolo.

 

Gli Stati Uniti a metà '800

Lo sviluppo economico

Alla metà dell'800, gli Stati Uniti d'America erano un paese in crescente espansione con una popolazione in costante aumento (23 milioni nel 1850, oltre 30 dieci anni dopo), grazie soprattutto all'ininterrotto flusso migratorio proveniente dall'Europa. I confini dell'Unione continuavano a spostarsi verso ovest, includendo vasti territori ben presto attraversati da strade e linee ferroviarie. La produzione agricola progrediva con ritmi molto elevati, sia per la messa a coltura di nuove terre nelle regioni di recente colonizzazione, sia per lo sviluppo di una moderna agricoltura negli Stati del Vicino Ovest (Midwest), di più antica colonizzazione. Contemporaneamente, la regione del Nord-Est – in particolare la zona della costa atlantica – conosceva un rapido sviluppo industriale. Ma a questa straordinaria espansione dell'economia facevano riscontro profonde fratture interne. Negli Stati Uniti coesistevano infatti tre diverse società, corrispondenti alle diverse zone del paese, ciascuna col suo sistema economico, i suoi valori, le sue tradizioni culturali.
 - Il Nord-est C'erano innanzitutto gli Stati del Nord-Est, sede delle prime colonie britanniche e nucleo originario dell'Unione. Era la zona più progredita, più ricca e più industrializzata, dove sorgevano i maggiori centri urbani (New York, Boston, Philadelphia), dove si concentravano i commerci con l'Europa e dove principalmente si indirizzava l'ondata migratoria proveniente dal Vecchio Continente. Un ambiente in continua trasformazione, profondamente influenzato dai valori del capitalismo imprenditoriale, dominato dai gruppi industriali, commerciali e bancari, e dalla presenza di un numeroso proletariato urbano.
 - Il Sud delle piantagioni Quella degli Stati del Sud era invece una società agricola e profondamente tradizionalista, che fondava la sua economia e la sua organizzazione sociale sulle grandi piantagioni di cotone e, in minor misura, di tabacco e canna da zucchero. La manodopera che vi lavorava era costituita in gran parte da schiavi neri, discendenti da quelli che erano stati forzatamente trapiantati in America nel '700 (la tratta era stata ufficialmente vietata negli Stati Uniti solo nel 1808). Nel 1860 vivevano negli Stati del Sud quasi 4 milioni di schiavi neri, contro circa 6 milioni di bianchi, in maggioranza piccoli e medi coltivatori. Il ceto dei grandi proprietari – che impiegavano il grosso della manodopera servile – contava non più di 2000 famiglie: una ristretta minoranza, che però dominava la vita politica e sociale, forniva i migliori ufficiali all'esercito federale e svolgeva, in un paese in cui non era mai esistita una vera nobiltà, una funzione sociale simile a quella di un'aristocrazia. I grandi proprietari vivevano in case ampie e lussuose, avevano il culto della tradizione e il gusto delle buone maniere, si ispiravano a un'etica patriarcale e paternalistica. La stessa istituzione della schiavitù veniva giustificata in questo contesto: anzi, la vita nella piantagione, dove allo schiavo erano assicurati l'abitazione, il vitto giornaliero e l'istruzione religiosa, era polemicamente contrapposta – trascurando di ricordarne il durissimo sfruttamento e il diffuso abuso sessuale delle donne – alla venalità e all'insicurezza che caratterizzavano i rapporti di lavoro delle realtà industriali.
 - Il West dei contadini e degli allevatori A queste due società così diverse fra loro se ne contrapponeva una terza: quella dei liberi agricoltori e allevatori di bestiame che popolavano gli Stati dell'Ovest. Era una società in rapida evoluzione: man mano che la frontiera si spostava verso il West, le aziende stabili si sostituivano agli insediamenti isolati dei pionieri introducendo un'agricoltura mercantile che forniva derrate alimentari, carne e cereali, alle città del Nord-Est. Nonostante tutto ciò, la società agricola dell'Ovest restava legata all'etica e ai valori della frontiera: l'iniziativa individuale, l'indipendenza, l'uguaglianza delle opportunità.

Lo scontro sulla schiavitù

Le differenze tra Nord e Sud erano profonde e destinate inevitabilmente ad accentuarsi fino a divenire insanabile contrasto. L'idea stessa della schiavitù non si conciliava con la mentalità democratica diffusa fra le popolazioni del Nord dove era attivo da tempo un vivace movimento abolizionista, ma era anche incompatibile con la filosofia di un capitalismo moderno e con la sua esigenza di disporre di una manodopera mobile per un mercato interno in espansione.
Quando, negli anni '40 e '50, lo sviluppo industriale si allargò a nuovi settori, in particolare quello meccanico, nel complesso dell'economia americana diminuì l'importanza della produzione cotoniera, cruciale per il Sud, e si fecero più strette le relazioni fra il Nord-est industriale e l'Ovest agricolo: quest'ultimo trovava infatti nelle aree urbane in continua espansione ampi sbocchi per i suoi prodotti e costituiva a sua volta un largo mercato per l'industria meccanica, che vi collocava soprattutto macchine agricole. Su queste premesse si acutizzò lo scontro sulla schiavitù. L'estensione dell'economia delle piantagioni – e dunque del lavoro servile – ai nuovi territori era richiesta dai piantatori del Sud, che volevano portare la coltura del cotone nelle terre vergini, ma incontrava forti opposizioni nell'opinione pubblica del Nord e fra i coloni dell'Ovest, che chiedevano terre a buon mercato, o addirittura in uso gratuito, per diffondervi la coltivazione dei cereali.

Il Partito repubblicano e Lincoln

Alle divisioni della società si aggiunsero i contrasti fra le forze politiche. Con l'inizio degli anni '50 i partiti tradizionali – democratici e Whigs (liberali) – entrarono in una profonda crisi. I democratici si identificarono sempre più con la causa dei grandi proprietari schiavisti, mentre dall'ala progressista del partito whig nacque nel 1854 una nuova formazione politica, il Partito repubblicano, che assunse una posizione decisamente antischiavista e accolse nella sua piattaforma politica sia le rivendicazioni della borghesia del Nord (dazi doganali più alti, che avrebbero favorito la produzione industriale, ma danneggiato le esportazioni di cotone dal Sud), sia quelle dei coloni dell'Ovest (distribuzione gratuita dei terreni demaniali). Il nuovo partito conquistò un seguito sempre crescente finché, nelle elezioni del 1860, riuscì a portare alla presidenza un tipico uomo dell'Ovest, Abraham Lincoln, un avvocato di salde convinzioni democratiche, proveniente da una famiglia di modesti agricoltori del Kentucky.
Nonostante fosse un convinto avversario della schiavitù, Lincoln non era un abolizionista radicale. Nella sua campagna elettorale aveva anzi negato qualsiasi intenzione di abolire la schiavitù dove esisteva. Tuttavia, la vittoria repubblicana nelle elezioni del '60 fu sentita da una parte dell'opinione pubblica del Sud come l'inizio di un processo irreversibile che avrebbe portato alla vittoria degli interessi industriali, al rafforzamento del potere centrale, alla progressiva emarginazione degli Stati schiavisti.

 

La guerra civile americana

Dalla nascita della Confederazione del Sud al conflitto

Tra il dicembre '60 e il febbraio '61 dieci Stati del Sud decisero di staccarsi dall'Unione e di costituirsi in una Confederazione indipendente. Questa scelta secessionista, imposta da una minoranza intransigente a una popolazione incerta e divisa, non poteva non suscitare la reazione del potere federale: non vi era dunque alternativa alla guerra civile, che ebbe inizio nell'aprile 1861. Scegliendo la strada dello scontro, i confederati facevano assegnamento sulla migliore qualità delle loro forze armate. Ma speravano anche in un intervento a loro favore della Gran Bretagna, che era la principale importatrice del cotone del Sud e osteggiava i programmi protezionisti dei repubblicani. Gli Stati del Nord confidavano invece nella schiacciante superiorità numerica della loro popolazione e sul loro maggior potenziale economico.
Nelle fasi iniziali della guerra, il miglior addestramento delle forze sudiste e le notevoli capacità del loro comandante, il generale Robert Lee, diedero ai confederati una netta prevalenza. Ma, quando fu chiaro che gli Stati del Sud avrebbero dovuto contare solo sulle loro forze - la Gran Bretagna e le altre potenze europee si astennero infatti da ogni intervento – e che la guerra sarebbe stata lunga e logorante, il fattore numerico e quello economico si rivelarono decisivi. La guerra si concluse infatti nell'aprile del 1865 con la resa dei confederati al generale Ulysses Grant, comandante delle forze del Nord. Pochi giorni dopo, il presidente Lincoln cadeva vittima di un attentato per mano di un fanatico sudista.

Le conseguenze della guerra

La guerra era durata ben quattro anni, aveva visto impegnati nelle operazioni belliche circa 3 milioni di uomini, era costata oltre 600 mila morti e aveva conosciuto battaglie durissime come quella di Gettysburg vinta dai nordisti (luglio 1863). Era stata senza dubbio la prima guerra totale dei nostri tempi: la prima che avesse coinvolto così a lungo la società civile di un grande paese moderno, la prima in cui fossero stati utilizzati sistematicamente i nuovi mezzi offerti dallo sviluppo tecnologico e industriale, a cominciare dalla ferrovia e dal telegrafo. Per vincerla, i nordisti dovettero non solo fare appello a tutte le loro risorse economiche, ma anche a spingersi oltre i programmi iniziali del presidente Lincoln. Nel 1862 fu approvata una legge che assegnava gratuitamente quote di terre del demanio statale ai cittadini che ne facessero richiesta. Lo stesso anno fu decretata a partire dal 1° gennaio del 1863 la liberazione degli schiavi in tutti gli Stati del Sud, anche per consentirne l'arruolamento nell'esercito dell'Unione.

Una rivoluzione sociale mancata

In realtà, la rivoluzione sociale implicita nell'esito della guerra di secessione fu ben lontana dal compiersi interamente. La legge del '62 sulla distribuzione delle terre libere fu revocata pochi anni dopo la fine della guerra. Gli schiavi acquistarono la libertà, ma le loro condizioni economiche non migliorarono. La vittoria nordista e le innovazioni legislative non valsero a colmare le disuguaglianze sociali, né poterono cancellare i pregiudizi razziali profondamente radicati nella società del Sud. Certo non giovarono alla causa della democrazia e dell'integrazione razziale i metodi sbrigativi e lo spirito talvolta vendicativo con cui i vincitori condussero l'opera di riunificazione del paese. Negli anni successivi alla fine della guerra, il Sud fu sottoposto a un regime di vera e propria occupazione militare. Il risultato fu una reazione di rigetto, che prima si espresse in forma di lotta clandestina – fu creata allora l'organizzazione paramilitare e razzista del Ku Klux Klan – e che più tardi determinò la riscossa del Partito democratico negli Stati del Sud. Il ritorno alla normalità nel Sud, che poté considerarsi compiuto solo alla fine degli anni '70, significò anche il ritorno all'indiscussa supremazia dei bianchi e ad un regime di segregazione razziale di fatto, destinato a protrarsi, in molti Stati, per buona parte del '900.

 

La formazione di una potenza mondiale

La colonizzazione dell'Ovest

All'indomani della guerra di secessione e della ricostruzione post-bellica, riprese con rinnovato slancio la colonizzazione dei territori dell'Ovest, ora favorita dallo sviluppo della rete ferroviaria che nel 1869 raggiunse le coste della California. Intorno al 1890 la conquista del West poteva considerarsi compiuta: la frontiera coincideva ormai col Pacifico e gli Stati Uniti avevano raggiunto l'estensione attuale.
Vittime principali della corsa all'Ovest furono le tribù dei pellerossa, che videro restringersi progressivamente gli spazi, un tempo sconfinati, in cui potevano muoversi in libertà. I pellerossa cercarono di resistere alla conquista bianca e riuscirono anche a riportare qualche isolato successo, ma dopo il 1890, decimati dalle guerre (il loro numero alla fine del secolo non superava i 250 mila individui), furono confinati nelle riserve e ridotti a un corpo estraneo e marginale in una società che stava attraversando una fase di impetuoso sviluppo capitalistico.

Le grandi concentrazioni industriali e finanziarie

La crescita più imponente si verificò nell'industria, in particolare in alcuni settori-guida come il siderurgico, il meccanico, l'elettrico e il petrolifero, dove dominavano le grandi concentrazioni (corporations) industriali e finanziarie: come la Generai Electric, la American Telephon Company, la Standard Oil nel settore petrolifero, la DuPont in quello chimico e degli esplosivi o come il gigantesco trust dell'acciaio, la United Steel, costituitosi nel 1901. Alla fine dell'800, gli Stati Uniti non solo avevano superato Gran Bretagna e Germania nel volume della produzione industriale (raggiungendo quindi il primato mondiale), ma erano anche diventati un paese esportatore di capitali e di prodotti industriali.

Immigrazione e tensioni sociali

Questo sviluppo fu reso possibile, oltre che dall'abbondanza di risorse naturali, anche dall'esistenza di un mercato interno in continua espansione, grazie all'afflusso di immigrati provenienti dall'Europa. Tale era il bisogno di manodopera che, nel 1882, il governo federale spalancò le porte all'immigrazione rendendo l'ingresso negli Stati Uniti libero a tutti, con le sole eccezioni dei criminali comuni e dei malati di mente. La società americana diventò così un immenso crogiolo, un melting pot, dove andarono a fondersi culture, tradizioni ed energie di tutti i paesi del vecchio continente.
Il grande sviluppo materiale degli ultimi anni del secolo non fu privo di tensioni sociali. Lo strapotere delle corporations e il rigido protezionismo alimentarono il malcontento dei contadini del Midwest, danneggiati dagli alti prezzi dei manufatti. Notevole sviluppo ebbero in questo periodo anche le organizzazioni operaie: nel 1886 venne fondata l'American Federation of Labor, una grande confederazione di sindacati autonomi priva di una precisa caratterizzazione politica. Ma né la maggioranza delle organizzazioni sindacali né il movimento dei contadini adottarono la strategia di classe dei movimenti socialisti europei o si posero come obiettivo il rovesciamento del sistema capitalistico.

L'espansionismo nei Caraibi e nel Pacifico

È in questo contesto che va considerata la nuova politica espansionistica messa in atto dagli Stati Uniti a partire dalla fine dell'800. La prima importante manifestazione di questa politica si ebbe con l'intervento a Cuba dove, dal 1895, era in corso una violenta rivolta contro i dominatori spagnoli. Questi ultimi avevano avviato una dura repressione che aveva suscitato vivaci reazioni nell'opinione pubblica americana, ma anche notevoli preoccupazioni per la sorte dei cospicui interessi economici che gli Stati Uniti avevano nelle piantagioni di canna da zucchero dell'isola. Così, nel febbraio 1898, l'affondamento di una nave da guerra americana nel porto dell'Avana portò alla guerra con la Spagna, che fu rapidamente sconfitta sia nelle Antille sia nel Pacifico. Cuba divenne una repubblica indipendente, sottoposta tuttavia al controllo politico ed economico degli Stati Uniti. La Spagna fu inoltre costretta a cedere Portorico e l'intero arcipelago delle Filippine. In questo modo gli Stati Uniti si assicurarono, oltre all'egemonia nei Caraibi, anche un vasto dominio in Asia orientale. Sempre nel '98 la presenza americana nel Pacifico fu rafforzata dall'annessione delle isole Hawaii, da tempo un importante punto di appoggio nelle rotte oceaniche. Nel giro di pochi mesi gli Stati Uniti avevano compiuto un salto decisivo nella loro posizione internazionale, assumendo a tutti gli effetti il ruolo di potenza mondiale.

 

La via giapponese alla modernità

La fine dell'isolamento

Il Giappone, alla metà dell'800, conservava la struttura politica di tipo feudale che si era consolidata con l'ascesa al potere degli shogun Tokugawa all'inizio del '600. E dal 1639 aveva scelto l'isolamento commerciale dai paesi occidentali, salvo mantenere una linea di scambi con la Cina. L'isolamento fu rotto, verso la metà dell'800, dall'iniziativa degli Stati Uniti che, nel 1854, inviarono una squadra navale nelle acque giapponesi e chiesero formalmente allo shogun il libero accesso nei porti e l'apertura di relazioni commerciali.
L'iniziativa americana – cui subito si unirono Gran Bretagna, Francia e Russia – trovò il Giappone del tutto impreparato. Lo shogun fu costretto a firmare nel 1858 una serie di accordi commerciali che assicuravano alle potenze occidentali ampie possibilità di penetrazione economica. La firma dei "trattati ineguali" del '58 suscitò in tutto il paese un'ondata di risentimento nazionalistico, che fu guidata dai grandi feudatari (daimyo) e da una parte dei samurai, e si indirizzò contro lo shogun, principale responsabile della capitolazione. A esso fu contrapposta la figura dell'imperatore, che in teoria rappresentava ancora la vera fonte del potere.

La restaurazione Meiji e la modernizzazione

I daimyo si resero sempre più indipendenti dal governo centrale e, nel gennaio del 1868, dichiararono decaduto lo shogun. dando vita a un governo che aveva sede a Tokyo e si richiamava all'autorità dell'imperatore, un ragazzo di quindici anni, Mutsuhito, salito da poco al trono. Ma la cosiddetta "restaurazione Meiji", dal nome dato all'imperatore dopo la sua morte nel 1912, non si limitò a sostituire il potere dello shogun con quello dell'imperatore o a rafforzare l'autorità dei daimyo. La nuova élite dirigente – intellettuali, militari, funzionari provenienti dal ceto dei samurai – era ben consapevole del legame esistente fra l'inferiorità politica e militare del Giappone rispetto alle potenze occidentali e l'arretratezza delle sue strutture economico-sociali: era dunque decisa a colmare il dislivello in tempi il più possibile rapidi, senza paura di ricalcare i modelli degli Stati europei più avanzati.
L'operazione fu condotta con risolutezza eccezionale. Nel giro di pochi anni, senza violenti sommovimenti sociali, il Giappone compì quella transizione dal sistema feudale allo Stato moderno, che nella maggior parte dei paesi europei si era realizzata in tempi lunghissimi, accelerati solo da traumatiche svolte rivoluzionarie. Nel 1871 furono proclamate l'uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, l'abolizione dei diritti feudali e la trasformazione dei feudi in circoscrizioni amministrative. I feudatari vennero indennizzati, mentre ai samurai fu assegnata una pensione vitalizia. Negli anni seguenti fu introdotto l'obbligo dell'istruzione elementare, venne unificata la moneta, fu creato un sistema fiscale moderno in luogo dei vecchi tributi in natura, venne organizzato un esercito nazionale basato sulla coscrizione obbligatoria. Eccezionale fu la crescita dell'industria, che si sviluppò praticamente da zero grazie al massiccio investimento di capitali statali – ricavati in parte dalla vendita delle terre sequestrate allo shogun – e alla rapidissima importazione di tecnologia straniera (acquisto di brevetti, assunzione di esperti occidentali, invio di giovani all'estero per soggiorni di studio). Non meno rapida fu la crescita delle infrastrutture: dalle ferrovie – la prima linea fu aperta nel '71 – alle comunicazioni telegrafiche, all'organizzazione bancaria. Nell'ultimo ventennio del secolo il Giappone vantava un tasso di crescita del prodotto interno lordo fra i più alti del mondo e, pur restando ancora distante dai paesi occidentali più avanzati, aveva sviluppato un suo consistente nucleo di industrie moderne, soprattutto nei settori tessile e meccanico.

Il modello giapponese

Quella che si compì in Giappone dopo il 1868 fu una vera e propria "rivoluzione dall'alto", realizzata senza alcuna partecipazione attiva delle classi inferiori, non preparata, com'era avvenuto in Occidente, da un'autonoma crescita della borghesia e non seguita da uno sviluppo delle istituzioni liberali e della democrazia politica: solo nel 1889 il Giappone ebbe un suo Parlamento, eletto a suffragio ristretto e con poteri molto limitati. Furono le classi dirigenti tradizionali a guidare la trasformazione e a gestirla in prima persona, spogliandosi spontaneamente dei loro antichi diritti, senza per questo perdere la loro posizione privilegiata nella società, investendo le loro rendite nella terra, nelle banche o nell'industria protetta, convertendosi insomma da oligarchia feudale in oligarchia industriale e finanziaria. Il processo di rapida modernizzazione sul piano delle strutture economiche e politiche risultò tanto più straordinario in quanto si accompagnò alla conservazione dei tradizionali valori culturali e religiosi.
Per alcuni aspetti l'esperienza giapponese è stata accostata a quella della Germania bismarckiana, dove il passaggio dalle strutture tradizionali a quelle della società industriale si effettuò senza che fosse messo in pericolo il potere dell'aristocrazia terriera e militare. Ma, per quante analogie si possano istituire, l'esperienza del Giappone dopo la "restaurazione Meiji" resta un caso assolutamente unico. Non era mai accaduto che un paese passasse, in pochi decenni, da una condizione di estrema debolezza e di assoluta emarginazione a una realtà di grande potenza, quale il Giappone si sarebbe rivelato già alla fine dell'800.

 

 

L'IMPERIALISMO EUROPEO

 

 

Il nuovo colonialismo

Fin dai tempi delle grandi scoperte geografiche, l'Europa si era lanciata alla conquista del mondo, disseminando in tutti i continenti soldati e missionari, commercianti e coloni. Ma, negli ultimi decenni dell'800, questo processo raggiunse il suo apice, con dimensioni nuove e diverse. I territori ancora controllati dalle compagnie mercantili furono trasformati in domini diretti degli Stati coloniali mentre estesi territori in Asia e soprattutto in Africa vennero assoggettati alle potenze europee.
Nel giro di pochi decenni, tra il 1876 e il 1914 la Gran Bretagna aggiunse al suo già vastissimo impero 11 milioni di km2 (con 142 milioni di abitanti), raggiungendo così un'estensione complessiva di circa 30 milioni di km2, quasi cento volte la superficie del Regno Unito. Nello stesso periodo la Francia acquistò nuovi possedimenti per 10 milioni di km2 (con 50 milioni di abitanti). Alla competizione coloniale si unirono anche Stati privi di una tradizione imperiale o con una storia unitaria molto recente: la Germania, malgrado l'iniziale scetticismo di Bismarck sull'utilità delle colonie, il Belgio, l'Italia – fra le potenze europee, l'unica assente di rilievo fu l'Austria-Ungheria – e, negli ultimi anni del secolo, anche il Giappone e gli Stati Uniti.

Interessi economici e motivazioni politico ideologiche

Le ragioni di questo fenomeno erano numerose e complesse. Gli interessi economici giocarono senza dubbio un ruolo notevole. C'era la spinta all'accaparramento di materie prime a basso costo. C'era la ricerca di sbocchi commerciali, che era sempre stata uno dei moventi principali della politica coloniale e che venne assumendo un nuovo peso in coincidenza con la svolta protezionistica adottata dai paesi europei. Più recente era la spinta proveniente dall'accumulazione di capitali finanziari disponibili per investimenti ad alto profitto nei territori d'oltremare. Questi aspetti non devono però essere sopravvalutati: alla vigilia della prima guerra mondiale (1914-18), la Gran Bretagna indirizzava verso le nuove colonie conquistate dopo il 1870 appena il 3% dei suoi investimenti all'estero, la Francia il 9%. Inoltre, anche nell'età dell'imperialismo, gran parte del commercio mondiale si svolse tra i paesi industrializzati. Ciò non toglie nulla al fatto che proprio la prospettiva dei benefici economici ottenibili dalle colonie – teorizzati nelle opere di illustri economisti e al centro delle discussioni politiche e dell'opinione pubblica – finì con l'influenzare in modo decisivo le scelte dei governanti europei.
Le motivazioni politico-ideologiche ebbero spesso un'importanza pari a quelle economiche. Esse affondavano le loro radici in una mescolanza di nazionalismo e di politica di potenza, di razzismo e di spirito missionario. In Gran Bretagna, per esempio, l'idea di appartenere a una nazione eletta, a quella che il premier conservatore Disraeli chiamava «una razza dominatrice, destinata dalle sue virtù a spargersi per il mondo», fu comune a scrittori come Thomas Carlyle e Rudyard Kipling e a uomini politici anche di estrazione liberale, come Joseph Chamberlain. Questo mito di una vocazione imperiale delle singole nazioni si legò a quello di una missione nel mondo della civiltà europea nel suo complesso. Kipling, per esempio, parlava di un «fardello dell'uomo bianco», ovvero del dovere dei bianchi europei di redimere le "popolazioni selvagge". Così, il paternalismo si univa a un razzismo di matrice positivistica.
Spesso l'azione coloniale era determinata dall'intento di prevenire e controbattere le iniziative di potenze concorrenti, senza che ciò rispondesse a un piano di conquista prestabilito. Il risultato fu comunque che, alla fine del processo di espansione, il mondo intero risultò spartito in imperi e zone di influenza fra le maggiori potenze.

L'esplorazione dell'Africa

L'interesse dell'opinione pubblica europea nei confronti delle colonie – già sollecitato dall'opera, per molti versi anticipatrice, dei missionari, da tempo impegnati nell'evangelizzazione dei popoli non cristiani – fu inoltre fortemente alimentato dall'eco delle grandi esplorazioni che, a partire dalla metà del secolo, ebbero per teatro soprattutto l'Africa. In questo interesse confluivano la prospettiva di grandi ricchezze nascoste nei territori da esplorare, la curiosità scientifico-geografica tipica della cultura del positivismo, la moda dell'esotismo presente in molta letteratura della seconda metà dell'800, l'alone romantico da cui erano circondate – grazie anche all'amplificazione che la stampa faceva delle loro imprese – le figure dei grandi esploratori: come il missionario scozzese David Livingstone che, già all'inizio degli anni '50, esplorò per primo la zona del fiume Zambesi, nel cuore dell'Africa meridionale, e, nei vent'anni successivi, attraversò tutta l'Africa centro-meridionale, da un oceano all'altro; e come il giornalista americano di origine britannica Henry Morton Stanley che negli anni '70 esplorò, per incarico del re del Belgio, il bacino del fiume Congo e pose le basi per la successiva conquista belga della regione, di cui divenne governatore.

 

La conquista dell'Africa

Gli sviluppi più spettacolari dell'espansione coloniale di fine '800 si ebbero nel continente africano. Nel 1870 i paesi europei ne controllavano appena un decimo: i francesi occupavano l'Algeria e il Senegal, i portoghesi l'Angola e il Mozambico, i britannici la Colonia del Capo, ossia la parte meridionale dell'odierna Repubblica Sudafricana. Meno di quarant'anni dopo, i possedimenti europei comprendevano più dei nove decimi del continente.

L'Africa settentrionale: Tunisia ed Egitto

I primi atti della nuova espansione, che contribuirono in buona parte a innescare la gara di conquista che seguì, furono l'occupazione francese della Tunisia, nel 1881, e quella britannica dell'Egitto, nell'anno successivo. In entrambi i paesi, che nominalmente dipendevano ancora dall'Impero ottomano, anche se i loro governanti (il bey di Tunisi e il khedivè d'Egitto) avevano da tempo acquisito un'indipendenza di fatto, le potenze europee avevano consistenti interessi economici e strategici. La Tunisia era rivendicata dalla Francia, già padrona della vicina Algeria, nonostante la presenza di consistenti interessi italiani. L'Egitto era anch'esso oggetto delle mire francesi, che risalivano al periodo napoleonico, ma aveva acquistato un'importanza fondamentale per la Gran Bretagna dopo che, nel 1869, era stato aperto il Canale di Suez tra il Mediterraneo e il Mar Rosso. Negli anni '70 sia l'Egitto sia la Tunisia si erano lanciati in ambiziosi programmi di modernizzazione che però avevano finito per provocare il dissesto delle finanze dei due paesi costringendo i governi, tra le proteste popolari, ad aumentare la pressione fiscale per far fronte ai debiti contratti con le banche europee.
Proprio per tutelarsi contro il rischio di una bancarotta, Francia e Gran Bretagna, principali paesi creditori, scelsero la strada dell'intervento militare. La prima a muoversi fu la Francia che, avendo avuto mano libera dalle altre grandi potenze nel congresso di Berlino del 1878, trasse pretesto da un incidente avvenuto nel 1881 alla frontiera con l'Algeria per inviare un contingente militare a Tunisi e imporre al bey un regime di protettorato.
Gli avvenimenti tunisini ebbero immediate ripercussioni in Egitto, dove la nascita di un forte movimento nazionalista sembrò mettere in pericolo non solo il recupero dei crediti esteri, ma anche il controllo internazionale sul Canale di Suez. Nell'estate 1882, in seguito allo scoppio di moti anti-europei ad Alessandria, il governo britannico inviò in Egitto un corpo di spedizione che sconfisse gli egiziani e assunse il controllo del paese. Da allora l'Egitto, pur conservando la sua indipendenza formale, divenne di fatto una sorta di colonia britannica.

Il Sudan

Ben presto la Gran Bretagna si trovò impegnata nel Sudan, un vastissimo territorio sotto il controllo egiziano, dove era scoppiata una rivolta capeggiata dal Mahdi (profeta) Mohammed Ahmed, un carismatico leader islamico, fautore di una teocrazia musulmana che mirava ad allargare a tutto il mondo arabo. Il Mandi lanciò le truppe sudanesi in una guerra santa contro le forze anglo-egiziane sconfiggendole a più riprese, conquistando la città di Khartum nel 1885 e fondando un proprio Stato che i britannici sarebbero riusciti a rovesciare solo nel 1898.

La conquista belga del Congo

L'azione unilaterale della Gran Bretagna in Egitto provocò il risentimento della Francia, suscitando tra le due potenze una rivalità destinata a durare per quasi un ventennio, e contribuì a scatenare la corsa alla conquista dell'Africa nera. 1 primi contrasti tra i conquistatori europei si delinearono nel bacino del Congo. Qui re Leopoldo II del Belgio, dietro la copertura di una Associazione internazionale africana fondata nel 1876 con scopi apparentemente umanitari (evangelizzazione e lotta contro la tratta degli schiavi), si era costruito una sorta di impero personale. Dopo la scoperta di importanti giacimenti minerari nella regione del Katanga, il sovrano belga cercò di consolidare il suo dominio attraverso uno sbocco sull'Atlantico ma suscitò l'opposizione del Portogallo, che rivendicava la foce del Congo per la contiguità con la sua antica colonia dell'Angola.

La spartizione dell'Africa

La questione del Congo fu oggetto di una conferenza internazionale convocata a Berlino, per iniziativa di Bismarck, nel 1884-85. Questa conferenza, oltre a dare una prima sanzione alla spartizione dell'Africa, codificò le norme che avrebbero dovuto regolarla anche nell'avvenire. Il principio adottato fu quello dell'effettiva occupazione, ufficialmente notificata agli altri Stati, come unico titolo valido per legittimare il possesso di un territorio. Questo principio, in realtà, lasciava larghi margini di incertezza – allora le occupazioni "effettive" si limitavano spesso a pochi scali commerciali posti nelle zone costiere – e stimolò anche un'accelerazione della corsa all'occupazione di territori ritenuti di qualche interesse economico o strategico. In concreto, la conferenza di Berlino riconobbe la sovranità personale di re Leopoldo sull'immenso territorio che poi sarebbe stato denominato Congo belga (dopo l'indipendenza Zaire e nel 1996 Repubblica democratica del Congo), ma che allora venne chiamato Stato libero del Congo – un paradossale eufemismo per indicare quella che fu, per il trattamento delle popolazioni e lo sfruttamento delle risorse, una delle forme più rapaci e disumane di dominio coloniale – e gli assegnò un piccolo sbocco sull'Atlantico. Alla Francia andarono i territori sulla riva destra del fiume (l'attuale Repubblica del Congo). In Africa occidentale, la Germania, ultima arrivata nella corsa alle colonie, si vide riconosciuto il protettorato sul Togo e sul Camerun. La Gran Bretagna ebbe il controllo del basso Niger (l'attuale Nigeria), mentre la Francia si assicurò il possesso dell'alto corso del fiume. Partendo da questa regione, in dieci anni di sanguinose guerre di conquista contro gli Stati musulmani del Sahara, i francesi riuscirono ad assicurarsi il possesso di territori immensi, anche se in gran parte desertici, che si estendevano dall'Atlantico al Sudan, dal bacino del Congo al Mediterraneo.
La Gran Bretagna non si oppose alle conquiste francesi, che considerava di scarso interesse, e concentrò invece le sue mire sull'Africa sud-orientale, importante per il controllo dell' Oceano Indiano – e dunque per la sicurezza dei traffici con l'India. Fra il 1885 e il 1895, partendo dalla Colonia del Capo e muovendosi per lo più in appoggio alle iniziative delle grandi compagnie private, i britannici risalirono il continente fino al bacino dello Zambesi e al lago Niassa, mentre più a nord si impadronivano del Kenya e dell'Uganda, ossia dei territori compresi fra le sorgenti del Nilo, il lago Vittoria e l'Oceano Indiano. La tendenza era quella di saldare i possedimenti britannici a sud dell'equatore con quelli della regione del Nilo, assicurandosi un dominio ininterrotto dall'estremità meridionale a quella settentrionale del continente. Questo disegno, però, si scontrava con la presenza della Germania che dal 1885 si era assicurata il controllo dell'area a est del lago Tanganika e a sud del lago Vittoria. Il contrasto fu regolato da un accordo nel 1890: la Gran Bretagna riconobbe l'Africa orientale tedesca, rinunciando al sogno del dominio «dal Capo al Cairo», ricevendo in compenso l'isola di Zanzibar, nodo importantissimo delle rotte commerciali nell'Oceano Indiano, e ottenendo di tener lontana la Germania dalla regione dell'alto Nilo, considerata essenziale per il controllo dell'Egitto.

Tensioni tra Francia e Gran Bretagna

Proprio in questa regione i britannici si trovarono in rotta di collisione con i francesi che, nella loro marcia dalla costa atlantica verso l'interno dell'Africa, si erano spinti fino al Sudan. Nel settembre del 1898 un contingente dell'esercito britannico, allora impegnato nella riconquista del Sudan, si incontrò con una colonna francese che aveva occupato la fortezza di Fashoda sul Nilo. L'incontro rischiò di trasformarsi in un conflitto dalle conseguenze imprevedibili. Ma il governo francese, che non era preparato a una guerra, ritirò le sue truppe e rinunciò alle sue mire sulla regione. Ne seguì una distensione nei rapporti franco-britannici, che avrebbe poi aperto la strada a una più stretta intesa fra le due potenze.

L'Africa nel 1914

All'inizio del '900 la spartizione dell'Africa era pressoché completa. Oltre alla piccola repubblica di Liberia (fondata nel 1822 da ex schiavi neri degli Stati Uniti, restavano indipendenti solo l'Impero etiopico e, ancora per non molto, la Libia (sotto il dominio ottomano), il Marocco e le repubbliche boere del Sud Africa. Tutto il resto del continente era diviso in colonie e in protettorati di nome o di fatto, separati da confini spesso arbitrari, tracciati sulla carta geografica – a volte in corrispondenza di meridiani e paralleli – senza tenere alcun conto delle divisioni tribali e delle preesistenti realtà etnico-linguistiche.

 

Le guerre boere

In Africa australe (o meridionale) l'imperialismo della Gran Bretagna si scontrò con un nazionalismo locale anch'esso di origine europea, quello boero, scatenando un inedito conflitto coloniale tra due popoli bianchi e cristiani.

L'interesse britannico per le repubbliche boere

I boeri, discendenti dagli agricoltori olandesi che nel '600 avevano colonizzato la regione del Capo di Buona Speranza, e ai quali si erano aggiunti immigrati ugonotti francesi, erano caduti sotto la sovranità della Gran Bretagna quando questa aveva ottenuto la colonia al tempo delle guerre napoleoniche. Per sfuggire alla sottomissione, molti di loro avevano dato vita a un massiccio esodo verso nord – il cosiddetto Grande Trek, ossia grande marcia –, dove avevano fondato le due repubbliche dell'Orange (1845) e del Transvaal (1852).

L'Africa del sud nel 1899

Alla fine degli anni '60 la scoperta di importanti giacimenti di diamanti nel Transvaal risvegliò l'interesse della Gran Bretagna, che lasciò mano libera alla politica aggressiva della classe dirigente della Colonia del Capo, minacciata dalla crescita economica delle due repubbliche. Nella prima guerra boera (1880-81) i britannici vennero sconfitti e il Transvaal riuscì a mantenere una propria autonomia.
Protagonista e promotore principale della fase successiva di aggressione alle repubbliche boere fu Cecil Rhodes, politico e uomo d'affari, presidente e padrone della British South Africa Company, primo ministro della Colonia del Capo fra il 1890 e il 1898. Rhodes mise una colossale fortuna personale, accumulata con il quasi monopolio della produzione diamantifera, al servizio di un disegno imperiale: sua fu l'idea di estendere la sovranità britannica «dal Capo al Cairo». Proprio grazie alla sua frenetica attività, la Gran Bretagna poté espandere i suoi domini in buona parte dell'Africa meridionale, fino alla zona dello Zambesi – che appunto da Rhodes avrebbe avuto il nome di Rhodesia –, circondando completamente le due repubbliche boere. Un ulteriore elemento di tensione fu costituito dalla scoperta, nel 1885-86, di nuovi giacimenti auriferi nell'Orango e nel Transvaal, che attirò nelle due repubbliche un gran numero di immigrati (uitlanders), soprattutto di origine britannica. In questo afflusso di forestieri i boeri videro l'inizio di un processo che minacciava di stravolgere il carattere patriarcale e contadino della loro società: una società che coltivava il mito della propria indipendenza e superiorità, che si ispirava a un calvinismo rigidamente conservatore e si fondava sull'imposizione agli indigeni di un regime di semischiavitù, avversato invece dai britannici. Gli uitlanders furono duramente discriminati e Rhodes ne appoggiò la protesta.

La sconfitta dei boeri

La tensione crebbe ulteriormente finché, nell'ottobre del 1899, il presidente del Transvaal, Paul Krüger, dichiarò guerra alla Gran Bretagna. La seconda guerra boera fu lunga e sanguinosa. I boeri combatterono con grande tenacia, riportando all'inizio notevoli successi e suscitando un'ondata di simpatie nell'opinione pubblica europea, soprattutto in quella tedesca. Anche dopo la sconfitta – che si consumò nel maggio 1902 e fu seguita dall'annessione del Transvaal e dell'Orango all'Impero britannico – i boeri condussero un'accanita lotta di resistenza che durò vari anni e fu piegata dai britannici solo con una serie di spietate azioni antiguerriglia. In seguito l'Orango e il Transvaal ottennero uno statuto di autonomia simile a quello della Colonia del Capo, alla quale vennero uniti nel 1910, dando vita all'Unione Sudafricana. Britannici e boeri avrebbero poi trovato un terreno concreto di collaborazione nello sfruttamento delle immense risorse del paese e nella politica di dura segregazione praticata ai danni della popolazione nera.

 

La conquista dell'Asia

A differenza di quanto accadeva in Africa, agli inizi dell'età dell'imperialismo gli europei avevano già messo radici profonde nel continente asiatico. I britannici, oltre all'India, possedevano Ceylon (attuale Sri-Lanka), Hong Kong, Singapore e numerose basi nell'Oceano Indiano e nel Sud-est asiatico. Gli olandesi dominavano l'arcipelago indonesiano. I portoghesi controllavano Macao in Cina, Goa in India e una parte dell'isola di Timor. La Spagna possedeva le Filippine (che passarono agli Stati Uniti nel 1898). La Russia aveva avviato da oltre un secolo la sua espansione verso la Siberia e l'Asia centrale. La Francia, ultima a giungere sul continente, aveva gettato negli anni '50 le basi di un vasto dominio nella Penisola indocinese. A dare nuovo impulso alla corsa verso oriente contribuì potentemente l'inaugurazione del Canale di Suez, avvenuta nel novembre 1869 dopo dieci anni di lavori: questo canale artificiale, che tagliò l'istmo di Suez, mise in comunicazione il Mediterraneo con il Mar Rosso, abbreviando di parecchie settimane i collegamenti marittimi fra l'Europa e l'Asia. La nuova via d'acqua, gestita da una compagnia internazionale controllata da Francia e Gran Bretagna, sanzionava e simboleggiava la supremazia tecnica e commerciale dell'Europa e ne facilitava l'espansione verso il continente asiatico.

L'India britannica

L'India fu a lungo amministrata dalla Compagnia delle Indie orientali, che agiva come un rappresentante del governo britannico. A metà '800 il territorio controllato era vastissimo – si estendeva su buona parte dell'area oggi occupata da India, Pakistan e Bangladesh – e, con una popolazione in continua crescita (130 milioni nel 1845, oltre 200 nel 1881), offriva ampi sbocchi di mercato per i manufatti provenienti dalla Gran Bretagna, verso la quale venivano invece esportati grandi quantità di tè e di cotone. Cent'anni di dominazione britannica non avevano mutato di molto i caratteri della società indiana. L'effetto principale della presenza britannica era stato quello di distruggere, con l'importazione di tessuti dal Regno Unito, l'industria cotoniera locale, abbastanza estesa anche se a livello artigianale. Il potere statale era carente o addirittura assente: il senso dell'appartenenza alla casta o alla comunità locale prevaleva su qualsiasi legame con l'autorità centrale.
I colonizzatori britannici si erano appoggiati sulle gerarchie sociali preesistenti – i signori locali, i sacerdoti induisti (brahmini) – per assicurare il mantenimento dell'ordine e la riscossione delle imposte. I loro tentativi di avviare un prudente processo di modernizzazione, diffondendo la cultura occidentale e combattendo alcune delle pratiche più crudeli della tradizione induista – come l'usanza di bruciare le vedove insieme con i cadaveri dei mariti –, provocarono reazioni di stampo tradizionalistico-religioso. La più importante fu la cosiddetta rivolta dei Sepoys, scatenata nel 1857 da un ammutinamento dei reparti indigeni dell'esercito (chiamati appunto Sepoys). Questa rivolta, che richiese una lunga e sanguinosa repressione, indusse il governo britannico a riorganizzare la propria presenza in India. Nel 1858 la Compagnia delle Indie fu soppressa e il paese passò sotto la diretta amministrazione della Corona, rappresentata da un viceré. L'esercito e la burocrazia vennero ristrutturati: furono promossi gli elementi indigeni e i notabili fedeli al Regno Unito, affiancandoli a elementi britannici. La costruzione di nuove ferrovie consentì non solo un incremento degli scambi, ma anche un più stretto controllo militare su tutto il territorio indiano. Nel 1876, a coronamento di quest'opera di riorganizzazione, la regina Vittoria fu proclamata imperatrice delle Indie.

La Francia in Indocina

Negli anni '50 i francesi, spinti dalla concorrenza con i britannici, cominciarono ad avanzare in Indocina. La Penisola indocinese, abitata da popolazioni di religione buddista, era divisa in una serie di regni dipendenti dall'Impero cinese: i più importanti erano quello dell'Annam (oggi Vietnam), quello del Siam (oggi Thailandia) e quello della Cambogia. All'inizio i francesi si limitarono a costruire qualche stazione commerciale accanto alle numerose missioni cattoliche già da tempo presenti nella regione. Furono proprio le persecuzioni contro i missionari a fornire alla Francia il pretesto per un intervento militare: nel 1862 venne occupata la Cocincina, ossia la parte meridionale del Regno dell'Annam e, l'anno dopo, fu imposto il protettorato alla Cambogia.
Una seconda fase dell'espansione francese in Indocina si aprì all'inizio degli anni '80. Dopo una guerra con la Cina (1883-85), la Francia riuscì a estendere il suo protettorato a tutto l'Annam. Dal canto suo la Gran Bretagna, per evitare che i possedimenti francesi giungessero a ridosso dell'India, procedette all'occupazione del Regno di Birmania tra il 1885 e il 1887. La Francia rispose, nel 1893, assicurandosi il controllo del Laos. Quanto al Siam, Gran Bretagna e Francia si accordarono per mantenerlo indipendente come Stato-cuscinetto.

L'Asia nel 1914

La colonizzazione russa e la spartizione degli arcipelaghi del Pacifico

Intanto l'Impero russo seguiva in Asia due direttrici di espansione: la prima verso la Siberia e l'Estremo Oriente, la seconda verso l'Asia centrale. La colonizzazione della Siberia, che ebbe un decisivo impulso già a partire dagli anni '30, fu realizzata soprattutto sotto la spinta e il controllo dell'autorità statale, contrariamente a quanto avveniva negli Stati Uniti, dove l'espansione verso ovest era dovuta alla libera iniziativa individuale. I risultati furono comunque notevoli: nella prima metà dell'800 la Siberia vide più che raddoppiata la sua popolazione e notevolmente incrementate le attività produttive e commerciali. La Russia cercò anche di consolidare le proprie posizioni strategiche verso la Cina e il Pacifico: nel 1860 impose alla Cina la cessione di due distretti – Ussuri e Amur – e avviò la costruzione del porto di Vladivostok sul Mar del Giappone. Il governo zarista ritenne invece opportuno rinunciare all'Alaska, dove fin dal 1799 operava una compagnia privata russa: il territorio, il cui controllo fu giudicato troppo costoso dal punto di vista economico e militare, venne venduto agli Stati Uniti nel 1867 per 7 milioni di dollari. Nel 1891, quasi a sancire il completamento di uno sterminato impero che si estendeva senza soluzione di continuità dal Baltico al Pacifico, fu avviata la costruzione della ferrovia Transiberiana, la più lunga del mondo che, una volta completata nel 1904, collegò Mosca a Vladivostok con un percorso di oltre 9000 km. In Asia centrale l'Impero zarista riuscì a incamerare, fra 1876 e 1885, l'intera regione del Turchestan: una zona importante in quanto forte produttrice di cotone, ma pericolosamente vicina alle frontiere dell'India. Proprio in questa area, tra Turchestan, Afghanistan e Pakistan, Russia e Gran Bretagna si fronteggiarono a lungo, in una sorta di guerra per procura combattuta dalle tribù locali. Nel 1885 le due potenze giunsero a un accordo per definire le frontiere tra il Turchestan e il Regno dell'Afghanistan. Quest'ultimo venne mantenuto indipendente, ma assegnato alla sfera di influenza britannica.
Mentre si compiva la spartizione dell'Asia, anche gli arcipelaghi del Pacifico vennero inglobati negli imperi coloniali, soprattutto in quelli britannico e tedesco. La Gran Bretagna, che già dominava su Australia e Nuova Zelanda, occupò le isole Fiji, le Salomone e le Marianne, mentre la Nuova Guinea fu divisa fra tedeschi e britannici. Inoltre alla colonizzazione nell'area del Pacifico parteciparono anche gli Stati Uniti e il Giappone.

 

Gli europei in Cina

L'isolamento cinese

L'isolamento cinese Dall'inizio dell'800 l'Impero cinese era rimasto pressoché inaccessibile ai viaggiatori e ai commercianti occidentali. Non aveva neanche relazioni diplomatiche con l'esterno, in omaggio all'idea che l'imperatore fosse l'unica fonte di potere sulla Terra e che gli altri sovrani potessero avere con lui solo rapporti di vassallaggio. Agli stranieri era consentito di operare solo nel porto di Canton, nella Cina meridionale. Questo orgoglioso isolamento mascherava in realtà una profonda debolezza. Da tempo ormai la società cinese, irrigidita e chiusa in sé stessa, aveva perso quel primato scientifico e tecnologico di cui aveva goduto fino al '700. Il ceto burocratico dei mandarini, profondamente tradizionalista e legato alla propria formazione filosofico-letteraria, ostacolava ogni mutamento nelle tecniche produttive e nei sistemi di governo. Il risultato fu che, al primo traumatico scontro con l'Occidente, la Cina imperiale entrò in una crisi irreversibile.

Le guerre dell'oppio

Occasione dello scontro fu il contrasto scoppiato alla fine degli anni '30 fra il governo imperiale e la Gran Bretagna a proposito del commercio dell'oppio. La droga, prodotta in grandi quantità nelle piantagioni indiane, veniva esportata clandestinamente in Cina, dove il suo consumo era largamente diffuso, benché ufficialmente proibito da oltre un secolo. Era nata così un'acuta tensione tra la Cina e la Gran Bretagna, la principale responsabile e beneficiaria del traffico. Quando, alla fine del 1839, un funzionario cinese fece sequestrare il carico di tutte le navi straniere nel porto di Canton, il governo britannico decise di intervenire militarmente.
Dopo una guerra durata più di due anni, i britannici ebbero partita vinta, conquistando tutti gli accessi agli estuari dei grandi fiumi e dei porti cinesi. Con il trattato di Nanchino del 1842, la Cina dovette cedere alla Gran Bretagna la città di Hong Kong, situata su un'isola prospiciente il porto di Canton, e aprire al commercio straniero altri quattro porti, fra cui Shangai. Questa prima guerra dell'oppio, mettendo a nudo la debolezza militare della Cina e aprendola alla penetrazione commerciale europea, ebbe il duplice effetto di sconvolgere gli equilibri sociali su cui si reggeva l'Impero e di far convergere su di esso le mire espansionistiche di altre potenze.
Così, nel decennio 1850-60, la Cina si trovò ad affrontare contemporaneamente una gravissima crisi interna – culminata nella lunga e sanguinosissima ribellione contadina nota come rivolta dei Taiping – e un nuovo sfortunato scontro con la Gran Bretagna, coadiuvata questa volta dalla Francia. Il conflitto, chiamato impropriamente seconda guerra dell'oppio, cominciò nel 1856 in seguito all'attacco a una nave britannica nel porto di Canton e si concluse quattro anni dopo con una nuova capitolazione della Cina, costretta ad aprire al commercio straniero anche le vie fluviali interne e a stabilire normali rapporti diplomatici con gli Stati occidentali.

Il conflitto con il Giappone e la rivolta dei boxers

Alla fine dell'800 la Cina subì anche l'aggressione del Giappone, divenuto uno dei protagonisti sulla scena della competizione imperialistica in Asia. Nel 1894, in seguito a contrasti sul controllo della Corea, fino ad allora Stato vassallo della Cina, i giapponesi attaccarono l'Impero cinese e rapidamente lo sconfissero per terra e per mare. La Cina dovette rinunciare a ogni influenza sulla Corea e cedere al Giappone vari territori, fra cui l'isola di Formosa (poi Taiwan). Le potenze occidentali da un lato cercarono di contenere i successi del Giappone, dall'altro profittarono dell'ennesima sconfitta della Cina per ritagliarsi nel paese nuove zone di influenza economica.
La prospettiva di uno sgretolamento dell'Impero celeste provocò per reazione la nascita di un movimento conservatore, nazionalista e xenofobo (cioè indiscriminatamente ostile verso lo straniero) che si proponeva la restaurazione integrale delle antiche tradizioni imperiali. Questo movimento trovò il suo braccio armato in una società segreta a carattere paramilitare, nota in Occidente come movimento dei boxers, ossia pugili, dal nome di un'antica società ginnica chiamata «Pugni della giustizia e dell'armonia». Nel 1900, dopo una serie di violenze compiute dai boxers contro i simboli e gli stessi rappresentanti della presenza straniera, le grandi potenze europee (tra cui l'Italia), gli Stati Uniti e il Giappone si accordarono per un intervento militare congiunto. In due settimane la rivolta fu sedata e Pechino venne occupata dalle truppe alleate. Le potenze, compresa l'Italia, ottennero in seguito nella città di Tientsin (oggi Tianjin) – la città portuale di Pechino – concessioni territoriali e autonomie amministrative dove vennero costruiti quartieri separati attribuiti ai singoli paesi, con edifici pubblici, caserme e una costante presenza militare.
La rivolta dei boxers non rimase senza effetti. Da un lato, essa mostrò la persistenza di un nazionalismo cinese che rendeva impraticabile una spartizione politica dell'Impero. Dall'altro, la sconfitta del nazionalismo tradizionalista diede l'avvio a un periodo di riforme e preparò il terreno alla nascita di un movimento di ispirazione democratica e "occidentalizzante", che avrebbe cercato di collegare la lotta contro gli stranieri a quella per la modernizzazione del paese.

 

Il dominio coloniale

I caratteri della conquista

Nel corso della sua espansione coloniale, l'Europa portò in tutto il mondo l'impronta della sua tecnica, della sua economia e, più in generale, della sua civiltà. Di solito non ne portò la faccia migliore. Quasi tutte le conquiste coloniali furono segnate dall'uso sistematico e indiscriminato della violenza contro le popolazioni indigene, da un campionario di crudeltà sconosciuto agli ultimi conflitti combattuti sul vecchio continente. Soprattutto nell'Africa nera, dove più schiacciante era la superiorità tecnologica degli europei, le frequenti rivolte delle popolazioni locali contro i nuovi dominatori si concludevano spesso con veri e propri massacri: fu terribile, per esempio, quello perpetrato dai tedeschi nell'Africa del Sud-ovest ai danni della tribù bantu degli Herero, che venne quasi completamente sterminata.

Sviluppo e sfruttamento

Dal punto di vista economico, l'esperienza coloniale ebbe alcuni effetti positivi sui paesi che ne furono investiti: vennero messe a coltura nuove terre, introdotte nuove tecniche agricole, costruite infrastrutture, avviate attività industriali e commerciali, esportati migliori ordinamenti amministrativi e finanziari. Ma tutto ciò avveniva a prezzo di un continuo impoverimento di risorse materiali e umane, ovvero di un vero e proprio sfruttamento coloniale: i lavoratori indigeni, infatti, venivano pagati per lo più con salari irrisori, quando non erano costretti a forme di lavoro forzato. La trasformazione delle economie dei paesi sottomessi, che furono generalmente orientate verso l'esportazione, portò in molti casi alla rottura di sistemi economici di pura sussistenza, basati sul circolo vizioso dell'autoconsumo e della povertà. In altri casi, invece, il cambiamento stravolse un meccanismo produttivo modellato in funzione del mercato interno. Fu comunque messo in moto un processo di sviluppo, in funzione però degli interessi dei colonizzatori. Nuovi paesi entrarono in un più vasto mercato mondiale, ma vi entrarono in una posizione dipendente: passarono cioè dalla povertà al sottosviluppo.

Politica della razza e stratificazioni sociali

Il razzismo condizionò la politica degli Stati europei nelle colonie. Ovunque furono "censite le razze" e accentuate le divisioni all'interno delle società indigene anche allo scopo di controllare meglio i colonizzati. Le nuove città coloniali furono spesso caratterizzate da quartieri separati e dalla creazione di "confini" che dividevano la vita degli indigeni da quella degli europei: anche in alcuni centri fondati dagli italiani in Eritrea e Libia, per esempio, furono tracciate "linee" per separare gli spazi destinati agli africani da quelli destinati ai bianchi. In generale, dunque, il razzismo era largamente diffuso nelle società coloniali.
Non bisogna però immaginare i rapporti tra colonizzatori e colonizzati dominati esclusivamente da pregiudizi razzisti. Nelle colonie, a volte, si instaurarono legami di solidarietà trai funzionari europei e i notabili locali proprio in virtù della comune appartenenza agli strati superiori delle rispettive società. Accadde così, per esempio, nell'India britannica di fine'800, dove gli aristocratici inglesi inviati dalla Corona ad amministrare la colonia non esitavano a considerare i notabili indiani "superiori" agli inglesi di basso ceto. Per molti aspetti, infatti, i governatori britannici cercarono di riprodurre in India la stessa rigida struttura di distinzione di classe presente nel Regno Unito, preoccupandosi di trattare con riguardo gli indigeni che consideravano loro pari rango.

L'impatto sociale e culturale della Colonizzazione

Gli effetti della colonizzazione sulle culture dei paesi afro-asiatici furono drammatici, pur variando a seconda delle diverse realtà locali e delle diverse politiche attuate dai paesi colonizzatori: quella britannica, per esempio, fu più rispettosa degli usi locali, mentre quella francese risultò più oppressiva nel tentativo di introdurre elementi di modernizzazione forzata. I sistemi culturali legati a strutture politico-sociali e religiose bene organizzate e con una solida tradizione alle spalle – come quelli dell'Asia e del Nord Africa – si difesero meglio, opponendo una resistenza più consapevole e assimilando in qualche misura gli apporti esterni. Ben diverso, invece, fu il caso dell'Africa più arcaica e animista. Qui l'effetto dell'incontro con la civiltà del colonizzatore fu dirompente: le trasformazioni economiche, tecnologiche, sociali, religiose e linguistiche prodotte dalla presenza degli europei alterarono dalle fondamenta non solo gli equilibri secolari delle comunità di tribù e di villaggio, ma gli stessi universi culturali che ne erano espressione. Interi sistemi di vita, di riti e di credenze, di costumi e di valori entrarono rapidamente in crisi. Nei molti casi in cui mancava una tradizione, scritta rimasero a malapena tracce delle culture "cancellate". Sul piano politico, però, l'espansione coloniale finì per favorire, in tempi più o meno lunghi, la formazione o il risveglio di nazionalismi locali a opera soprattutto di nuovi dirigenti formatisi proprio nelle scuole europee, dove avevano avuto la possibilità di assorbire gli ideali democratici e i principi del nazionalismo. L'Europa si trovò così a esportare quello che meno avrebbe desiderato: il bisogno di autogovernarsi e di decidere il proprio destino.

 

 

L'EUROPA E IL MONDO AGLI INIZI DEL '900

 

 

I contrasti in Europa e il risveglio dell'Estremo Oriente

I due blocchi europei

Dopo il 1890, con le dimissioni di Bismarck i rapporti fra le grandi potenze che dominavano la politica europea e mondiale subirono radicali mutamenti. Si ruppero infatti gli equilibri internazionali, che nei vent'anni precedenti erano rimasti inseriti in una rete di alleanze che faceva perno sulla Germania bismarckiana, e si formò un nuovo assetto bipolare fondato sulla contrapposizione fra due blocchi di potenze europee: la Germania, l'Impero austro-ungarico con l'Italia da una parte, la Francia, la Russia e la Gran Bretagna dall'altra. A mettere in crisi il vecchio sistema di alleanze furono soprattutto due fattori: la scelta del nuovo imperatore tedesco Guglielmo II in favore di una politica più dinamica e aggressiva di quella praticata da Bismarck dopo il 1870, e la crescente, obiettiva difficoltà per la Germania di tenere uniti i suoi due maggiori alleati, gli Imperi austro-ungarico e russo, in perenne contrasto nel settore balcanico.

Gli inizi del declino europeo

Inoltre, nel primo quindicennio del '900 si cominciarono ad avvertire i sintomi di un ridimensionamento della posizione del vecchio continente in rapporto al resto del mondo. L'idea di una minaccia portata alla supremazia europea dall'emergere di nuovi popoli e nuove nazioni cominciò a farsi strada nell'opinione pubblica. A suggerire questi timori non era tanto l'ascesa degli Stati Uniti, visti pur sempre come un'appendice dell'Europa, quanto il risveglio dei popoli dell'Estremo Oriente: il Giappone innanzitutto, ormai lanciato in una politica imperiale che lo avrebbe portato a scontrarsi con la Russia; ma anche la Cina, sempre più insofferente dello stato di subordinazione impostole dalle grandi potenze.
Alle preoccupazioni di ordine politico-militare si aggiungevano quelle indotte dalle tendenze dello sviluppo demografico. La popolazione europea continuava a crescere, ma non al punto da ridurre significativamente il divario con i popolosissimi paesi asiatici: la crescita di questi ultimi fu sentita da molti come una minaccia demografica all'egemonia europea e, più in generale, alla supremazia dei popoli "bianchi". Fu allora che in Europa si cominciò a parlare sempre più insistentemente di un «pericolo giallo»: un'espressione coniata dall'imperatore di Germania Guglielmo II ai tempi della rivolta cinese dei boxers e diventata d'attualità soprattutto dopo la guerra russo-giapponese del 1904-5.

 

Nuove alleanze e nuovi conflitti

La Triplice intesa

I successori di Bismarck scelsero di privilegiare l'alleanza con l'Austria e non rinnovarono quella con i russi, nella convinzione che l'Impero zarista non si sarebbe mai alleato con la Francia repubblicana. Accadde invece che la necessità per Francia e Russia di uscire dall'isolamento portò nel 1894 a una alleanza militare fra i due paesi. Dal canto suo anche la Gran Bretagna, sistemate le vertenze coloniali sia con la Francia in Africa sia con la Russia in Asia centrale, stipulò accordi con entrambe: nel 1904 con la Francia – l'Intesa cordiale – e nel 1907 con la Russia. Nasceva così, in contrapposizione al blocco austro-tedesco con l'appendice dell'Italia – la Triplice alleanza –, un accordo fra Gran Bretagna, Francia e Russia, che fu poi chiamato Triplice intesa, determinato dalla preoccupazione comune per la crescente potenza tedesca.

La contesa tra Francia e Germania per il Marocco

Due furono in questo periodo i più pericolosi punti di frizione. Il primo e il più importante riguardava l'assetto dei Balcani. Il secondo era costituito dal Marocco, uno degli ultimi Stati africani indipendenti (da secoli governato senza interruzione da dinastie islamiche), oggetto da tempo delle mire francesi e proprio per questo scelto dalla Germania come ultimo possibile terreno di scontro per contrastare lo strapotere delle potenze rivali in campo coloniale. Per due volte, nel 1905 e nel 1911, il contrasto franco-tedesco sul Marocco sembrò portare l'Europa sull'orlo della guerra. Alla fine la Francia riuscì a spuntarla, grazie alla solidarietà dei suoi alleati, e si vide riconosciuto un formale protettorato sul territorio conteso.

La rivoluzione in Turchia

Tuttavia i pericoli maggiori per la pace sul continente vennero in questo periodo dalla zona balcanica. A mettere in movimento una situazione già precaria fu, nel 1908, una profonda trasformazione interna dell'Impero ottomano: la cosiddetta rivoluzione dei "Giovani turchi", un movimento composto in prevalenza da intellettuali e da ufficiali che si proponevano la trasformazione dell'Impero, retto da istituzioni autocratiche e arretratissimo sul piano economico, in una moderna monarchia costituzionale. Nell'estate del 1908, un gruppo di ufficiali marciò con le proprie truppe sulla capitale, costringendo il sultano Abdul Hamid a concedere una costituzione e, l'anno successivo, a lasciare il trono al fratello Maometto V. Il nuovo regime tentò di realizzare, con qualche successo, un'opera di modernizzazione dello Stato. Ma non seppe avviare a soluzione il problema dei rapporti con i popoli europei ancora soggetti all'Impero, in stato di endemica rivolta. Al contrario, i "Giovani turchi" cercarono di attuare un ordinamento amministrativo più centralistico di quello, largamente inefficiente, del vecchio regime; ma ottennero l'effetto di accentuare le spinte indipendentiste e di accelerare la dissoluzione di quanto restava della presenza turca in Europa.

Le guerre balcaniche

Della crisi interna all'Impero ottomano profittò subito l'Austria-Ungheria per procedere, nell'ottobre 1908, all'annessione della Bosnia e dell'Erzegovina, che le erano state affidate in amministrazione temporanea al congresso di Berlino del 1878: ciò provocò un immediato inasprimento dei rapporti con la Serbia — che mirava a unificare sotto il suo regno gli slavi del Sud — e con la stessa Russia, che della Serbia era la grande protettrice. Pochi anni dopo (1912), l'occupazione italiana della Tripolitania (Libia) in Nord Africa provocò una guerra fra l'Italia e la Turchia, che subì l'ennesima sconfitta. La sconfitta turca favorì a sua volta le mire degli Stati balcanici (Grecia, Serbia, Montenegro, Bulgaria e Romania), che prima si coalizzarono per strappare alla Turchia i residui territori europei nella prima guerra balcanica (1912), poi si scontrarono fra loro per la divisione del bottino nella seconda guerra balcanica (1913).

I Balcani nel 1913

Nello stesso periodo, sulla costa meridionale dell'Adriatico nasceva un nuovo piccolo Stato, il principato di Albania, voluto dall'Austria e dall'Italia per impedire alla Serbia lo sbocco al mare.
Le rivalità fra gli Stati minori del Sud-est europeo si intrecciavano pericolosamente col confronto fra i due blocchi contrapposti delle grandi potenze, in particolare col tradizionale attrito fra Austria e Russia.

 

La belle époque e le sue contraddizioni

Negli anni a cavallo fra i due secoli, i nuovi orientamenti dell'alta cultura e la critica di molti intellettuali al positivismo progressista ottocentesco non scalfirono, se non in parte, il sostanziale ottimismo della borghesia europea: un ottimismo giustificato dal rinnovato slancio dell'economia e da un progresso materiale che mai come allora era parso alla portata di tutti.
Per questo, gli anni che precedettero la prima guerra mondiale (1914-18) sarebbero stati ricordati in seguito, dopo i disastri di questo conflitto, come la belle époque, l'epoca bella per eccellenza. Si trattava, anche in questo caso, di un'immagine eccessivamente semplificata, fondata anche sul primato che, nella vita mondana e nelle arti, esercitava Parigi, la capitale francese. La belle époque fu in realtà un periodo di crescita complessiva della società europea, ma anche di forti contrasti politici e di grandi conflitti sociali. Le spinte alla democratizzazione incontrarono dappertutto la resistenza ostinata dei gruppi conservatori e in alcuni casi furono duramente represse, come in Russia, o bloccate entro le vecchie strutture autoritarie, come in Germania e nell'Impero asburgico. Né si possono sottovalutare le tensioni sociali e internazionali originate in quegli anni dalla gara degli imperialismi e dalla corsa agli armamenti.

La Francia dal "caso Dreyfus" all'alleanza tra radicali e socialisti

Negli ultimi decenni dell'800 la Francia aveva compiuto pro-gressi sostanziali sulla strada della democrazia. Eppure le istituzioni repubblicane continuavano a essere oggetto di una insidiosa contestazione, che ora prendeva le forme di un esasperato nazionalismo, ora quelle della reazione clericale, ora quelle di un demagogico antisemitismo. Alla fine dell'800 queste correnti, facendo blocco con una parte delle forze moderate, misero a serio repentaglio la vita stessa della Terza Repubblica.
L'alleanza tra nazionalisti, clericali e antisemiti fu evidente in occasione di un clamoroso caso giudiziario: quello di Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo ingiustamente condannato ai lavori forzati nel 1894 sotto l'accusa di aver fornito documenti riservati all'ambasciata tedesca. Quando cominciarono a emergere i primi dubbi sulla colpevolezza del condannato, le alte sfere militari si rifiutarono di procedere a una revisione del processo. Socialisti, radicali e una parte dei repubblicani moderati, sotto l'impulso del famoso scrittore Émile Zola, si batterono perché venisse riconosciuta l'innocenza dell'ufficiale. Clericali, monarchici, nazionalisti di destra e non pochi repubblicani moderati insistettero sulla tesi della colpevolezza. Il contrasto superò ben presto i confini del caso giudiziario per trasformarsi in uno scontro politico che aveva per oggetto le stesse istituzioni repubblicane. Dreyfus fu infine graziato dal presidente della Repubblica e poi ufficialmente riabilitato nel 1906. I sostenitori di Dreyfus ebbero partita vinta anche sul terreno politico. L'esito delle elezioni del 1899 fu favorevole alle forze progressiste e consentì la formazione di un governo di coalizione repubblicana appoggiato anche dai socialisti. Alcune associazioni di estrema destra vennero sciolte e i loro capi arrestati. Fu avviata un'epurazione negli alti gradi dell'esercito e, soprattutto, riprese con rinnovato vigore (e non senza qualche eccesso) la battaglia contro le posizioni di potere ancora detenute dal clero cattolico.
I governi a direzione radicale che si succedettero fra il 1906 e il 1910, sotto la guida di Georges Clemenceau e del socialista Aristide Briand, condussero in porto alcune importanti riforme sociali, come la limitazione dell'orario di lavoro, la legge sul riposo settimanale e le pensioni di vecchiaia. Tuttavia l'impossibilità di condurre a compimento alcune riforme e lo spostamento a sinistra del movimento sindacale provocarono la rottura dell'alleanza fra socialisti e radicali e, alla lunga, ridiedero spazio alle correnti repubblicano-moderate che riuscirono a tornare al potere fra il 1912 e il 1914 con il loro leader più prestigioso, Raymond Poincaré. Il dibattito politico, accantonati i temi delle riforme, si sarebbe concentrato sul problema delle spese militari e del rafforzamento dell'esercito.

Conservatori e liberali in Gran Bretagna

Negli anni a cavallo fra i due secoli la Gran Bretagna fu governata dalla coalizione fra i conservatori e i liberali unionisti di Joseph Chamberlain. Fra il 1897 e il 1905 furono varate leggi che aumentavano i finanziamenti per le scuole elementari e medie e favorivano il collocamento dei lavoratori disoccupati. A mettere in crisi l'egemonia della coalizione conservatrice fu il progetto, sostenuto da Chamberlain, sotto la pressione di una parte degli industriali, di introdurre anche nell'Impero britannico il protezionismo doganale, sconvolgendo così una tradizione liberoscambista che durava ormai da più di mezzo secolo.
Nelle elezioni del 1906 i liberali conquistarono un'ampia maggioranza, che consentì al loro governo una linea meno aggressiva in campo coloniale e una più energica e organica politica di riforme sociali. Ma l'aspetto più nuovo e coraggioso della loro azione fu la proposta di introdurre una politica fiscale fortemente progressiva, che imponeva cioè una tassazione via via più onerosa in rapporto alle dimensioni della ricchezza e mirava a colpire soprattutto i grandi patrimoni. Il tentativo si scontrò con la reazione della Camera dei Lords, roccaforte dell'aristocrazia, che respinse il bilancio preventivo presentato dal governo liberale. Nel 1911, dopo un braccio di ferro durato due anni e dopo due successive elezioni anticipate vinte (sia pure di stretta misura) dai liberali, i Lords, grazie anche alle pressioni del nuovo re Giorgio V, si piegarono ad accettare la riforma costituzionale che impediva loro di respingere leggi di bilancio. Nello stesso anno, il governo decise di affrontare la questione irlandese e presentò un nuovo progetto di Home Rule (autogoverno), che prevedeva un'Irlanda autonoma, con un proprio governo e un proprio parlamento, ma pur sempre legata alla Corona britannica. Dopo un lungo e tormentato dibattito, il progetto, avversato anche da una parte dei liberali, fu approvato nel maggio 1914, ma la sua applicazione fu subito sospesa a causa dello scoppio della guerra.

 

La Germania guglielmina

La nuova politica della Germania

La fine del lunghissimo cancellierato di Bismarck, nel 1890, parve segnare una svolta anche nella politica interna tedesca. Tuttavia, nonostante le dichiarazioni di Guglielmo II (1888-1918) relative alla volontà di inaugurare un "nuovo corso" una volta divenuto imperatore, di fatto non si registrò nella politica tedesca alcun effettivo mutamento di indirizzi: le speranze di un'evoluzione liberale del sistema, suscitate da talune aperture iniziali, andarono presto deluse, lasciando il posto alla tendenza del nuovo sovrano all'esercizio personale e autoritario del potere. Anche i nuovi orientamenti di politica estera, affermatisi soprattutto a partire dagli ultimi anni dell'800 – quando la Germania imboccò la via della Weltpolitik ('politica mondiale') e diede il via al riarmo navale –, contribuirono a rinsaldare l'alleanza tra il ceto degli Junker e gli ambienti della grande industria. Un'industria che era sempre più dominata dai cartelli o dalle imprese giganti come la Krupp nel settore siderurgico e degli armamenti e che vantava ritmi di sviluppo tecnologico e di crescita produttiva paragonabili solo ai contemporanei progressi dell'industria statunitense.
La coscienza di questa superiorità accentuò nella classe dirigente, ma anche nel popolo, le tendenze nazionaliste e imperialiste. Pur essendo un paese ricco di risorse naturali, la Germania, priva com'era di un grande impero coloniale, non aveva una disponibilità di materie prime paragonabile a quella dell'Impero britannico, degli Stati Uniti o dello stesso Impero russo. Di qui la volontà di modificare a proprio vantaggio la distribuzione mondiale delle risorse e gli equilibri sullo scacchiere planetario: un'ambizione che, essendo ormai compiuta la spartizione dei continenti extraeuropei, portava fatalmente la Germania ad assumere una posizione antagonistica rispetto alle altre potenze imperialiste.

La socialdemocrazia tedesca

La spinta nazionalista e aggressiva insita nella politica estera finì col coinvolgere in varia misura tutte le maggiori forze politiche. L'unica autentica forza di opposizione, la socialdemocrazia, restò per tutta l'età guglielmina in una condizione di assoluto isola- mento che le precludeva qualsiasi influenza sulla condotta degli affari di Stato, anche se non le impediva di aumentare continuamente la massa dei propri iscritti (più di un milione nel 1914), di incrementare il proprio seguito elettorale (nel 1913 la Spd si affermò addirittura come gruppo di maggioranza relativa col 34% dei voti e 110 seggi al Reichstag), di controllare lo sviluppo imponente delle organizzazioni collaterali (sindacati, cooperative, circoli ricreativi e culturali). A lungo andare però – nonostante la riaffermata fedeltà ai principi della dottrina marxista – anche la socialdemocrazia finì con l'ammorbidire i toni e le forme della sua opposizione e col venire tacitamente a patti con le ideologie nazional-imperialistiche cui nemmeno la classe operaia era del tutto insensibile.

 

I conflitti di nazionalità nell'Impero austro-ungarico

Nei decenni che precedettero la prima guerra mondiale, l'Impero asburgico vide aggravarsi il declino delineatosi a partire dal 1848 e dovuto, oltre che al ritardo nello sviluppo dell'economia, ai sempre più forti contrasti fra le diverse nazionalità.

Sviluppo e arretratezza

Dal punto di vista economico, l'Impero era ancora un paese complessivamente più povero della Germania e della Francia e poco più ricco dell'Italia, ma con alcune isole altamente urbanizzate e industrializzate: la regione gravitante attorno alla capitale Vienna, la Boemia (in particolare la zona di Praga), il porto di Trieste, nodo commerciale di primaria importanza fra il Centro Europa e il Mediterraneo. Allo sviluppo economico e civile dei grandi centri, alla eccezionale vitalità culturale che si manifestò in questo periodo a Vienna – una delle maggiori capitali europee della musica, delle arti figurative e della letteratura –, alla crescita dei grandi partiti di massa (socialdemocratici e cristiano-sociali) facevano riscontro il sostanziale immobilismo del sistema politico e la persistenza delle strutture sociali tradizionali nelle provincie contadine, dominate dalla Chiesa e dai grandi proprietari.

I conflitti nazionali

Ma il principale motivo di crisi era costituito dai conflitti nazionali. Mentre l'Impero tedesco trovava nel nazionalismo di una popolazione compattamente tedesca un potentissimo elemento di coesione, in Austria-Ungheria le tensioni fra i diversi gruppi etnici costituivano un fattore di logoramento e di disgregazione per una compagine statale che aveva come principali elementi unificanti la Corona, l'esercito e la burocrazia. Con la soluzione "dualistica" varata nel 1867 (la divisione in due Stati), la monarchia asburgica aveva scelto la strada del compromesso col gruppo nazionale più forte, quello ungherese, che aveva conquistato nella parte sud-occidentale dell'Impero una posizione privilegiata simile a quella detenuta dagli austriaci nella parte nord-occidentale.

Le popolazioni nell'Austria-Ungheria

Fino alla fine del secolo il potere imperiale riuscì a controllare la situazione appoggiandosi agli elementi conservatori e all'aristocrazia agraria delle varie nazionalità, con qualche concessione alle masse contadine. Ma tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 si assisté a una crescita dei movimenti nazionali: tutti in forte contrasto gli uni con gli altri, ma uniti dall'ostilità al centralismo imperiale e dalla tendenza a radicalizzarsi, passando dal piano delle rivendicazioni autonomistiche a quello dell'indipendentismo. I più irrequieti erano naturalmente i popoli slavi, i grandi sacrificati dal compromesso del '67. Fra i cechi della Boemia e della Moravia – che erano inclusi nella zona di competenza austriaca – si affermò, nell'ultimo decennio dell'800, il movimento dei "giovani cechi" che si batteva contro la politica di germanizzazione del governo di Vienna. Tendenze nazionaliste ancora più radicali si cominciarono a manifestare nello stesso periodo fra gli "slavi del Sud", serbi e croati, che erano soggetti al dominio ungherese (più duro di quello austriaco) e subivano l'attrazione del vicino Regno di Serbia. Persino fra gli ungheresi sorse, all'inizio del '900, un movimento che rivendicava totale autonomia dall'Austria anche in materia di tariffe doganali e di organizzazione dell'esercito.

Il progetto trialistico

Una parte della classe dirigente e dei circoli di corte si orientò verso l'idea di trasformare la monarchia da "dualistica" in "trialistica": di staccare cioè gli slavi del Sud dall'Ungheria e di creare così un terzo polo nazionale accanto a quelli tedesco e magiaro. Questo progetto, che aveva il suo sostenitore più autorevole nell'arciduca ereditario Francesco Ferdinando (nipote di Francesco Giuseppe), si scontrava però con l'opposizione degli ungheresi e con quella dei nazionalisti serbi e croati, che miravano con tutti i mezzi – compresi quelli terroristici – alla fondazione di un unico Stato slavo indipendente ed erano palesemente appoggiati dalla Serbia (a sua volta protetta dalla Russia). Da questo pericoloso focolaio di tensione sarebbe scoccata nel 1914 la scintilla che portò allo scoppio della prima guerra mondiale e alla dissoluzione dell'Impero austro-ungarico.

 

La Russia: la rivoluzione del 1905 e la guerra col Giappone

Autocrazia e sviluppo industriale

Fra le grandi potenze europee la Russia era la sola che, alla fine dell'800, si reggesse ancora su un sistema autocratico, nemmeno temperato da forme di limitato costituzionalismo simili a quelle vigenti in Germania e in Austria-Ungheria. Mentre restava immobile o addirittura procedeva a ritroso sul piano delle strutture politiche, all'inizio degli anni '90 l'Impero zarista compiva tuttavia il suo primo tentativo di decollo industriale, affidato all'iniziativa dello Stato e del capitale straniero (soprattutto francese) più che all'autonoma crescita di una borghesia imprenditoriale. In Russia l'industrializzazione risultò come calata dall'alto e fortemente concentrata sia per la dislocazione geografica sia per le dimensioni delle imprese. Pertanto anche la classe operaia russa si concentrò in poche zone – la capitale Pietroburgo, la zona di Mosca, i distretti minerari degli Urali, la regione petrolifera di Baku sul Mar Caspio – e rimase isolata in un contesto sociale ancora dominato dall'agricoltura, che occupava circa il 70% della popolazione attiva e versava ancora in uno stato di estrema arretratezza.

I gruppi rivoluzionari

In queste condizioni era naturale che la tensione politica crescesse pericolosamente e che le manifestazioni di malcontento, anche violente, si moltiplicassero in tutti i settori della società. Del resto, in questi stessi anni si accentuò in modo determinante la penetrazione delle correnti rivoluzionarie fra i ceti popolari. Mentre la classe operaia subiva l'influenza del Partito socialdemocratico, fondato nel 1898 da Georgij Plechanov, fra i contadini riscuoteva qualche successo la propaganda del Partito socialista rivoluzionario, nato nel 1900 dalla confluenza di gruppi anarchici e populisti, dai quali riprendeva il progetto di un socialismo agrario legato alle tradizioni russe. A far precipitare gli eventi contribuì, nel 1904, lo scoppio della guerra col Giappone (per il controllo del Nord-est asiatico) che fece immediatamente salire la tensione sociale nelle città provocando fra l'altro un brusco aumento dei prezzi.

La "domenica di sangue" e la nascita dei soviet

In una domenica di gennaio del 1905, a Pietroburgo, un corteo di 150 mila persone diretto verso il Palazzo d'Inverno, residenza dello zar Nicola II, per presentare al sovrano una petizione – vi si chiedevano maggiori libertà politiche e interventi per alleviare il disagio delle classi popolari – fu accolto a fucilate dall'esercito: i morti furono più di 100 e oltre 2000 i feriti. La brutale repressione scatenò in tutto il paese un'ondata di agitazioni, di vere e proprie sommosse, di ammutinamenti nelle stesse forze armate. Fra la primavera e l'autunno del 1905, la Russia visse in uno stato di semianarchia. Di fronte alla crisi dei poteri costituiti sorsero spontaneamente in molti centri nuovi organismi rivoluzionari, i soviet (consigli), rappresentanze popolari elette sui luoghi di lavoro. Il più importante di questi soviet, quello di Pietroburgo, assunse la guida del movimento rivoluzionario. Fra novembre e dicembre però – dopo che era stata conclusa la pace col Giappone e le truppe erano rientrate dal fronte – la Corona e il governo passarono risolutamente alla controffensiva facendo arrestare quasi tutti i membri del soviet di Pietroburgo e schiacciando con durezza le rivolte successivamente scoppiate nella capitale e a Mosca.

La restaurazione e la riforma agraria

Una volta ristabilito l'ordine, anche l'unico risultato del moto rivoluzionario, ossia l'impegno dello zar di convocare un'assemblea rappresentativa, la Duma, fu sabotato dai poteri costituiti. Nell'estate 1907 il governo modificò la legge elettorale in senso smaccatamente classista: ora il voto di un grande proprietario contava cinquecento volte quello di un operaio. Così il governo poté disporre di un'assemblea più docile, composta in gran parte da aristocratici. Artefice principale della restaurazione fu il conte Pétr Stolypin, diventato primo ministro nel 1906. Stolypin legò il suo nome alla spietata repressione di ogni opposizione politica, ma al tempo stesso si pose il problema di riguadagnare al regime una base di consenso e avviò una riforma agraria, in base alla quale i contadini ebbero la facoltà di divenire proprietari della terra che coltivavano, e di godere di facilitazioni creditizie per l'acquisto di altre terre sottratte al demanio statale o cedute dai latifondisti. Lo scopo, in gran parte mancato poiché i più non trovarono nei loro piccoli appezzamenti la possibilità di condizioni di vita accettabili, era quello di creare un ceto di piccola borghesia rurale che fosse al tempo stesso fattore di modernizzazione economica e di stabilità politica.

La guerra col Giappone e la sconfitta

Nel difficile anno della rivoluzione del 1905, la Russia dovette subire una dura sconfitta militare ad opera del Giappone. Come abbiamo visto, già alla fine dell'800, il Giappone si era affacciato prepotentemente sulla scena della competizione imperialistica in Asia: aveva infatti mosso guerra all'Impero cinese (1894) e lo aveva sconfitto dando una prima prova della sua efficienza bellica. Subito dopo il Giappone entrò in diretta concorrenza con la Russia per il controllo delle regioni del Nord-est asiatico. Nel 1903, le due potenze non trovarono un accordo sulla spartizione della Manciuria. Nel febbraio del 1904, senza alcuna dichiarazione di guerra, la flotta nipponica attaccò quella russa nel Mar Giallo e strinse d'assedio la base di Port Arthur, all'estremità meridionale della Manciuria. All'inizio del 1905, caduta Port Arthur, le forze giapponesi penetrarono in Manciuria e, in marzo, sconfissero l'esercito russo nella battaglia di Mukden. Quando, in maggio, giunse sul teatro di operazioni la flotta russa del Mar Baltico fu anch'essa distrutta in una grande battaglia navale nello stretto di Tsushima, tra il Giappone e la Corea. Alla Russia non restò che accettare la mediazione offerta dagli Stati Uniti e firmare in settembre il trattato di Portsmouth, in base al quale il Giappone otteneva la Manciuria meridionale e una parte dell'isola di Sakhalin, situata di fronte alle coste della Siberia, e si vedeva riconosciuto il protettorato sulla Corea (che già deteneva di fatto dal 1895).
Per l'Europa intera, la secca sconfitta della Russia determinò la distruzione in un solo colpo del mito della supremazia militare e tecnologica del vecchio continente, nonché di una presunta superiorità della "razza bianca". Per l'Impero zarista la sfortunata guerra contro il Giappone significò un ridimensionamento della propria posizione internazionale e, come abbiamo appena visto, un immediato aggravamento delle tensioni interne.

 

La Repubblica in Cina

L'avvio delle riforme e Sun Yat-sen

Dopo la vittoria del Giappone sulla Russia nel 1905, presero vi- gore le lotte nazionali e anticoloniali dei popoli asiatici. Movimenti indipendentisti si svilupparono nell'Indocina francese, nell'Indonesia olandese, nelle Filippine, da poco passate sotto il controllo degli Stati Uniti, e nell'India britannica. Ma fu soprattutto la Cina a subire in maniera determinante l'influsso del vicino Giappone, visto a un tempo come minaccia all'indipendenza nazionale e come modello da imitare sul piano dello sviluppo economico e dell'emancipazione politica. Fallito con la rivolta dei boxers il tentativo di condurre la lotta per l'indipendenza all'insegna del tradizionalismo reazionario, alla fine dell'800 e all'inizio del nuovo secolo importanti riforme, come la libertà di espressione e di stampa, oltre a un limitato diritto di voto, furono introdotte dalla imperatrice vedova Cixi (o Tzu-hsi, che governò il paese fino al 1908). In coincidenza con questo rinnovamento politico e civile, nel 1905 nacque il Tung meng hui (Lega di alleanza giurata), una organizzazione segreta fondata da un medico di Canton, Sun Yat-sen, che aveva soggiornato a lungo in Europa e in Giappone. Il programma era basato sui tre principi del popolo: l'indipendenza nazionale, la democrazia rappresentativa, il benessere del popolo, vale a dire l'essenza della tradizione democratica occidentale. La lega di Sun Yat-sen fece proseliti soprattutto fra gli intellettuali, gli ufficiali dell'esercito e i nuclei di proletariato industriale. Al movimento andarono anche le simpatie di una parte della ancora esigua borghesia imprenditoriale, quella meno legata agli interessi commerciali delle potenze straniere.

La rivoluzione del 1911

Nell'ottobre del 1911 la decisione del governo di affidare a imprese straniere il controllo della rete ferroviaria cinese provocò una serie di sommosse nelle province centro-meridionali e l'ammutinamento di alcuni reparti dell'esercito. Nel gennaio del 1912 un'assemblea rivoluzionaria dichiarò decaduta la dinastia Qing ed elesse Sun Yat-sen alla presidenza della Repubblica. In aprile il generale Yuan Shi-kai, inviato dal governo di Pechino a domare la rivolta, si schierò dalla parte dei repubblicani e ottenne in cambio di essere nominato presidente in luogo di Sun Yat-sen. Il fragile compromesso raggiunto tra le forze democratiche organizzate nel nuovo Partito nazionale – Kuomintang – e i gruppi conservatori che facevano capo a Yuan Shi-kai, ostili a ogni riforma che minacciasse i tradizionali equilibri sociali nelle campagne, si ruppe nel giro di pochi mesi. Nel 1913 il nuovo presidente sciolse il Parlamento appena eletto, mise fuori legge il Kuomintang, costrinse Sun Yat-sen all'esilio e instaurò una dittatura personale appoggiata dalle potenze straniere, i cui privilegi rimasero naturalmente intatti. Cominciava per la Cina una lunga stagione di guerre civili che si sarebbe conclusa solo nel 1949 con la vittoria della rivoluzione comunista.

 

L'imperialismo statunitense

La presidenza Roosevelt

Dopo l'espansione nel Pacifico con la conquista delle Filippine e l'annessione delle Hawaii, fino alla prima guerra mondiale l'imperialismo statunitense si rivolse soprattutto verso l'America centrale. Qui la presenza degli Stati Uniti si fece sentire in forme quanto mai pesanti, soprattutto negli anni della presidenza di Theodore Roosevelt. Esponente dell'ala progressista del Partito repubblicano, salito al potere nel 1901, Roosevelt mostrò grande decisione nella difesa degli interessi americani nel mondo, alternando con disinvoltura la pressione economica alle minacce di interventi armati, la "diplomazia del dollaro" alla politica del "grosso bastone" (big stick), secondo un'eloquente espressione da lui stesso coniata.
Un esempio lampante di questa politica fu la vicenda del Canale di Panama. Nel 1901 gli Stati Uniti avevano ottenuto dal governo della Colombia l'autorizzazione a costruire e a gestire per un periodo di cento anni un canale che tagliasse l'istmo di Panama (allora facente parte della Repubblica colombiana), aprendo un passaggio fra il Pacifico e il Mar dei Caraibi. Quando, nel 1903, la Colombia, in un sussulto di orgoglio nazionale, rifiutò di ratificare l'accordo, gli Stati Uniti organizzarono una sommossa a Panama e minacciarono un intervento armato. Panama, come già Cuba, divenne una repubblica indipendente sotto la tutela americana. Il canale fu realizzato nel giro di dieci anni e la sua apertura, nel 1914, consentì di mettere in comunicazione i due settori – l'Oceano Pacifico e i mari del Centro America – su cui si esercitava allora la spinta espansionistica degli Stati Uniti. Imperialista e aggressiva all'estero, la linea di Roosevelt si caratterizzò in politica interna per un'apertura ai problemi sociali sconosciuta alle precedenti amministrazioni, sia repubblicane sia democratiche. Si dovettero a Roosevelt i primi, limitati provvedimenti del governo federale nel campo della legislazione sociale e le prime energiche affermazioni del diritto di intervento dei pubblici poteri nel mondo dell'economia.

L'elezione di Wilson

Ma, una volta che Roosevelt ebbe lasciato la presidenza, nel 1908, il Partito repubblicano si spaccò in un'ala progressista e una conservatrice. Nelle elezioni del 1912, la divisione tra le file repubblicane favorì il successo del candidato democratico, Woodrow Wilson. Intellettuale di solide convinzioni democratiche, molto lontano da Roosevelt per formazione e per temperamento, Wilson ne riprese l'impegno sociale inserendolo però in un quadro ideologico e poli- tico completamente diverso. Mentre Roosevelt aveva lasciato inalterato il regime doganale protezionistico, Wilson impostò la lotta contro i grandi monopoli sull'abbassamento delle tariffe protettive, che furono considerevolmente ridotte nel 1913. Anche nella politica estera Wilson portò uno stile nuovo, più prudente e rispettoso delle norme della convivenza internazionale, anche se non meno attento alla tutela degli interessi statunitensi nel mondo. Era infatti convinto che il ruolo degli Stati Uniti dovesse fondarsi, più che sulla forza delle armi, sulla capacità espansiva dell'economia e sulla fedeltà ai principi basilari della tradizione democratica. Paradossalmente fu proprio in base a questi principi che, nel 1917, Wilson avrebbe condotto il suo paese a intervenire per la prima volta in un conflitto fra potenze europee, la prima guerra mondiale.

 

L'America latina e la rivoluzione messicana

La dipendenza economica

Nel trentennio che precedette la prima guerra mondiale (1914-18), i paesi dell'America Latina conobbero uno sviluppo economico di notevoli proporzioni, basato principalmente sull'esportazione di materie prime e di prodotti agricoli verso l'Europa industrializzata. Questo sviluppo attirò un consistente flusso migratorio dall'Europa e favorì la crescita di grandi centri urbani come Buenos Aires, Rio de Janeiro e Città del Messico. L'aumento delle esportazioni, però, finì con l'accentuare il carattere di subalternità dell'economia latino-americana, sempre più dipendente dagli investimenti e dai mercati esteri. Fu infatti favorita la tendenza delle agricolture dei singoli paesi a concentrarsi sulle monocolture, scelte in base alla richiesta del mercato internazionale: il caffè in Brasile, il grano in Argentina, la canna da zucchero a Cuba. E, dal momento che l'industria manifatturiera era assente quasi ovunque, mentre il settore estrattivo era in gran parte controllato da compagnie straniere, l'oligarchia terriera riuscì a mantenere una posizione dominante nella vita sociale e politica.

I sistemi politici

Dal punto di vista istituzionale, gli Stati latino-americani erano retti da regimi parlamentari e repubblicani ispirati ai modelli del liberalismo ottocentesco: l'ultima monarchia, quella brasiliana, fu rovesciata da un colpo di Stato nel 1889. La facciata istituzionale liberai-parlamentare, però, copriva una realtà di corruzione e di esclusione delle masse dalla vita politica che, in alcuni casi, degenerò in forme più o meno evidenti di dittatura personale. Negli anni immediatamente precedenti alla prima guerra mondiale, importanti rivolgimenti politici ebbero luogo in due fra gli Stati più vasti e popolosi: l'Argentina e il Messico. Nel caso dell'Argentina si trattò di un rivolgimento pacifico, originato dall'introduzione del suffragio universale, nel 1912, e dalla successiva ascesa al potere dell'Unione radicale, espressione delle classi medie di orientamento progressista. In Messico, invece, la spinta alla democratizzazione politica e sociale sfociò in una lotta rivoluzionaria fra le più lunghe e sanguinose della storia del '900.

La rivoluzione messicana

Nel 1910 scoppiò la rivolta contro il regime semidittatoriale del presidente Porfirio Diaz, un generale che governava dal 1876 appoggiandosi soprattutto sull'oligarchia terriera. Promotori dell'insurrezione furono i gruppi liberai-progressisti guidati da Francisco Madero, subito affiancati però da un vasto moto contadino, organizzato da improvvisati e popolarissimi capi rivoluzionari come Emiliano Zapata e Pancho Villa. Nell'autunno del 1911, Diaz fu costretto ad abbandonare il paese mentre Madero venne eletto presidente. A questo punto però cominciò a manifestarsi in modo drammatico il contrasto fra le due componenti del fronte rivoluzionario: quella borghese e moderata, che mirava soprattutto a una liberalizzazione delle istituzioni politiche, e quella contadina, che aveva come obiettivo fondamentale una radicale riforma agraria. Un tema fortemente sentito, e altrettanto fortemente temuto, in un paese in cui la proprietà della terra era concentrata nelle mani di un migliaio di latifondisti, mentre circa tre quarti della popolazione erano costituiti da braccianti senza terra (peones), quasi tutti analfabeti e poverissimi.
Nel 1913 il presidente Madero fu ucciso durane un colpo di Stato militare che portò al potere il generale Victoriano Huerta e aprì la strada a un regime di spietata reazione. La guerra civile riprese da allora con rinnovata violenza e si protrasse, in un susseguirsi di rivolte e colpi di Stato, fino all'inizio degli anni '20, per concludersi infine con l'assunzione della presidenza (1921) da parte del progressista Alvaro Obregón e con il varo di una Costituzione democratica e laica aperta alle istanze di riforma sociale, la cui attuazione si sarebbe però rivelata lenta e difficile.

 

 

L'ITALIA DAL 1870 AL 1914

 

 

[ Introduzione audio ]

L'Italia liberale

Il periodo che va dal completamento dell'unità nel 1870, con la presa di Roma, al 1914, l'anno dello scoppio della prima guerra mondiale, viene convenzionalmente ricordato come quello dell'«Italia liberale». È una definizione che coglie innanzitutto l'ideologia prevalente della classe dirigente al potere, ma non registra tutte le diverse tendenze e pratiche di governo racchiuse in quel lungo arco di tempo. E soprattutto, nel limitarsi alla dimensione politica, coglie appena la varietà delle trasformazioni che l'Italia conobbe in quasi un cinquantennio.
Sono almeno tre le fasi principali di questa evoluzione politica:
la prima (1870-87) vede dapprima il declino della Destra storica, poi il passaggio del governo alla Sinistra, infine l'avvio della pratica del "trasformismo" che di fatto annulla i tradizionali confini fra maggioranza e opposizione;
la seconda (1887-1901) è quella degli esperimenti autoritari, imposti prima dalla forte personalità di Francesco Crispi, poi tradotti in progetti volti ad accrescere i poteri dell'esecutivo e della Corona a scapito di quelli del Parlamento;
la terza (1901-14) è determinata dalla risposta del liberalismo riformatore di Giovanni Giolitti: una fase – l'età giolittiana – che si chiude, dopo un decennio di progressi economici e civili, con momenti di forte conflittualità sociale, premessa dei contrasti che precedono l'entrata in guerra del 1915.
L'uscita di scena di molti protagonisti del periodo risorgimentale (Mazzini morì nel 1872, Pio 1X e Vittorio Emanuele II nel 1878, Garibaldi nel 1882) portò a un graduale rinnovamento della classe politica, anche se quasi tutti i presidenti del Consiglio dell'Italia liberale erano uomini anziani, talora molto anziani. Non si trattò dunque di un ringiovanimento anagrafico ma dell'apporto che venne dalla nascita di nuovi partiti e movimenti – socialisti, cattolici e nazionalisti – divenuti via via protagonisti tra la fine dell'800 e il primo decennio del '900.
L'Italia si sviluppava lungo un percorso segnato dal progressivo allargamento del suffragio e da una graduale democratizzazione: ma non era un percorso lineare, quanto piuttosto un itinerario intervallato da momenti di crisi profonda tanto nella politica interna – lo scandalo della Banca Romana, i moti del '98 – che in quella internazionale.
Le iniziali ambizioni coloniali vennero duramente sconfitte nel 1896 (nella guerra italo-abissina) salvo rivalersi con la conquista della Libia nel 1912. In questo campo l'Italia tentò a fatica di inserirsi nella dominante politica imperialista, riuscendo a garantirsi alcuni possessi coloniali in Eritrea, in Somalia e, appunto, in Libia.
Anche la politica economica seguì l'esempio degli altri grandi paesi europei con l'adozione del protezionismo volto a tutelare le prime fasi di sviluppo industriale che sarebbe decollato tardivamente a partire dal 1896.
Nel confronto col resto dell'Europa, nonostante i grandi progressi dell'età giolittiana, l'Italia scontava l'antica arretratezza e una permanente conflittualità sociale a cui si aggiungevano gli strascichi dei difficili rapporti con la Chiesa di Roma: contrasti solo parzialmente superati con l'ingresso in Parlamento, nel 1913, di cattolici alleati ai liberali per ostacolare la minaccia dell'ascesa socialista nella prima applicazione del suffragio universale maschile.
Ma già allora il sistema liberale, e in particolare la politica dell'ultimo decennio guidata da Giolitti, vedeva, come in altri paesi europei, l'emergere di forze ostili a quel sistema rappresentativo parlamentare che fino allora, grazie anche al trasformismo, era riuscito a superare molte fasi difficili e a garantire la modernizzazione del paese.

 

Dalla Destra alla Sinistra

La fine del governo della Destra

Nel 1876 il governo passò dalla Destra alla Sinistra.
L'anno precedente, grazie alla severa politica fiscale impostata dal ministro delle Finanze Quintino Sella, era stato raggiunto il pareggio nel bilancio statale. Ma ormai, in Parlamento e nel paese, erano molti a chiedere una politica meno rigida e restrittiva, che lasciasse più ampi margini alla formazione della ricchezza privata.
La Destra appariva divisa mentre buona parte della Sinistra parlamentare si veniva spostando su posizioni più moderate: venne così emergendo una "Sinistra giovane", espressione di una borghesia (soprattutto meridionale) poco sensibile alla tradizione democratico-risorgimentale e attenta piuttosto alla tutela di interessi locali.
Furono comunque le divisioni della Destra ad aprire alla Sinistra la via del governo. Nel marzo 1876 il governo Minghetti, messo in minoranza sul suo progetto di passaggio alla gestione statale delle ferrovie, fino allora affidate ai privati, presentò le dimissioni. Pochi giorni dopo, il re chiamò a formare il nuovo governo Agostino Depretis, che costituì un ministero interamente composto da uomini della Sinistra. Nelle elezioni politiche del novembre di quell'anno, il nettissimo successo della Sinistra fu anche dovuto alle pesanti ingerenze del governo. D'altro canto, il risultato confermò il carattere irreversibile del declino della Destra.

La Sinistra e i governi Depretis

Col 1876 si apriva una nuova fase nella storia politica dell'Italia unita. Giungeva al potere un ceto dirigente quasi del tutto nuovo a esperienze di governo, diverso per formazione e per estrazione sociale da quello che aveva retto il paese nel primo quindicennio di vita unitaria. La Sinistra parlamentare aveva in realtà fortemente attenuato la sua originaria connotazione radicai-democratica e aveva accolto nel suo seno componenti moderate o addirittura conservatrici. Ciononostante, la nuova classe dirigente riuscì a esprimere l'aspettativa di democratizzazione della vita politica diffusa in larga parte della società: tentò infatti, pur con molte incertezze e cautele, di ampliare le basi della politica e seppe venire incontro alle esigenze di una borghesia in crescita.
Il protagonista indiscusso di questa fase, Agostino Depretis, già leader della Sinistra all'opposizione, fu capo del governo, salvo brevi interruzioni, per oltre dieci anni.
Mazziniano in gioventù, approdato poi a posizioni più moderate, parlamentare espertissimo, Depretis riuscì a contemperare con molta abilità le spinte progressiste e le tendenze conservatrici presenti nella nuova maggioranza.
Il programma della Sinistra era basato su pochi punti fondamentali: ampliamento del suffragio elettorale, maggiore sostegno all'istruzione elementare, sgravi fiscali soprattutto nel settore delle imposte indirette, decentramento amministrativo.
Quest'ultimo impegno fu accantonato mentre gli altri ebbero attuazione, anche se a volte tardiva. La prima riforma fu quella dell'istruzione elementare. Una legge del 1877 – nota come legge Coppino dal nome del ministro che la presentò – ribadiva l'obbligo della frequenza scolastica portandolo fino ai nove anni. Tuttavia, a causa delle ristrettezze in cui versava la maggioranza delle famiglie italiane e della scarsa capacità dei comuni di provvedere ai compiti loro spettanti, non ci fu una reale attuazione dell'obbligo scolastico: fino alla fine del secolo la percentuale di analfabeti si mantenne molto elevata, pur diminuendo costantemente.

La riforma elettorale del 1882

Legato al problema dell'istruzione era quello dell'ampliamento del suffragio. La nuova legge elettorale, approvata dalla Camera all'inizio del 1882, introduceva infatti come requisito fondamentale l'istruzione, concedendo il diritto di voto a tutti i cittadini che avessero compiuto il ventunesimo anno d'età – la legge precedente fissava l'età minima a 25 anni – e avessero superato l'esame finale del corso elementare obbligatorio, o dimostrassero comunque di saper leggere e scrivere.
Il requisito del censo era mantenuto, in alternativa a quello dell'istruzione, e abbassato di circa la metà (da 40 a 20 lire di imposte annue pagate). A causa dell'alto tasso di analfabetismo, la consistenza numerica dell'elettorato restava sempre piuttosto esigua: poco più di 2 milioni, pari al 7% della popolazione e a circa un quarto dei maschi maggiorenni. Il corpo elettorale risultava tuttavia più che triplicato rispetto alle ultime consultazioni e, quel che più conta, profondamente modificato nella composizione. Grazie alla nuova legge accedeva alle urne anche una frangia non trascurabile di artigiani e operai del Nord. Per questo, le prime elezioni a suffragio allargato (ottobre 1882) videro l'ingresso alla Camera del primo deputato socialista, il romagnolo Andrea Costa.

Il trasformismo

La riforma elettorale dell'82 segnò il coronamento, ma anche il punto terminale, della breve stagione di riforme della Sinistra. Furono proprio le preoccupazioni suscitate dall'ampliamento del suffragio e dal conseguente prevedibile rafforzamento dell'estrema sinistra a favorire quel processo di convergenza fra le forze moderate di entrambi gli schieramenti, che nacque da un accordo elettorale fra Depretis e il leader della Destra Minghetti e che prese il nome di trasformismo. La sostanza del trasformismo non stava – come sosteneva Depretis – nella "trasformazione" dei moderati in progressisti, ma piuttosto nel venir meno delle tradizionali distinzioni ideologiche fra Destra e Sinistra e nella rinuncia, da parte di quest'ultima, a una precisa caratterizzazione.
La maggioranza non era più definita sulla base di discriminanti programmatiche, ma veniva "costruita" giorno per giorno a forza di compromessi e patteggiamenti: una situazione che provocava un sostanziale rallentamento nell'azione di governo, oltre che un netto scadimento nella qualità della vita politica.
La svolta moderata di Depretis ebbe come conseguenza il definitivo distacco dalla maggioranza dei gruppi democratici più avanzati che, pur avendo accantonato la pregiudiziale repubblicana, continuavano a battersi per il suffragio universale, per una politica estera antiaustriaca, per una politica ecclesiastica più decisamente anticlericale e per un più vasto impegno in favore delle classi disagiate.
Sotto la guida di Agostino Bertani, e poi di Felice Cavallotti, questo gruppo – che, con termine mutuato dalla Francia della Terza Repubblica, fu chiamato radicale – svolse negli anni '80 un ruolo di combattiva opposizione contro le maggioranze trasformiste.

 

La politica economica protezionista

La crisi agraria

La Sinistra allentò la dura politica fiscale fino allora praticata e la contestata tassa sul macinato fu considerevolmente ridotta nel 1880, per essere poi del tutto abolita nell'84. Venne contemporaneamente aumentata la spesa pubblica, sia per coprire le accresciute esigenze militari sia per accontentare le richieste dei vari gruppi di interesse su cui si reggeva la maggioranza.
Questa politica provocò, fin dall'inizio degli anni '80, la ricomparsa di un crescente deficit nel bilancio statale, senza peraltro riuscire a superare le difficoltà economiche dovute in primo luogo all'arretratezza del settore agricolo.
I pochi miglioramenti avevano riguardato soprattutto le zone e i settori già relativamente progrediti: le terre irrigue della pianura lombarda e le colture "specializzate" del Mezzogiorno (olivi, agrumi e soprattutto uva da vino).
Altri mutamenti significativi si erano avuti, fin dall'inizio degli anni '70, in alcune zone della Bassa Padana, in particolare nel Ferrarese: qui grandi lavori di bonifica promossi da imprenditori capitalisti avevano sconvolto la fisionomia del paesaggio agrario e attirato vaste masse di braccianti. In tutto il resto d'Italia, però, la situazione dell'agricoltura non era molto cambiata rispetto ai primi anni dell'unità né erano migliorate le condizioni dei lavoratori delle campagne, oppressi da contratti arcaici, sottopagati, malnutriti, analfabeti nella stragrande maggioranza.
La situazione si aggravò quando, a partire dal 1881, l'Italia cominciò a risentire gli effetti della crisi che investì in quegli anni l'agricoltura europea: un brusco abbassamento dei prezzi colpi in primo luogo i cereali e poi tutto l'insieme dei prodotti agricoli, a eccezione delle colture da esportazione che non subivano la concorrenza d'oltreoceano. Al calo dei prezzi seguì un calo della produzione, con conseguenze gravissime per tutte le categorie produttive legate all'agricoltura. Anche gli effetti sociali della crisi agraria furono analoghi a quelli già osservati per l'insieme dei paesi europei: aumento della conflittualità nelle campagne e rapido incremento dei flussi migratori verso i centri urbani e soprattutto verso l'estero. Fra il 1881 e il 1901 abbandonarono definitivamente l'Italia più di 2 milioni di persone. La crisi non solo distolse capitali dal settore agricolo, indirizzandoli verso altri impieghi, ma fece cadere le illusioni di chi ancora credeva che lo sviluppo economico italiano potesse fondarsi solo sull'agricoltura e sull'esportazione dei prodotti della terra.

Il protezionismo

Gli esponenti della Sinistra erano, come i loro predecessori, avversi in linea di principio all'intervento dello Stato nell'economia. Queste convinzioni liberiste furono però scosse dall'andamento tutt'altro che brillante dell'economia nazionale e dall'esempio che veniva dagli altri Stati europei, soprattutto dalla Germania. Una decisa svolta in senso protezionistico era del resto invocata ormai da quasi tutti gli industriali e dagli stessi proprietari terrieri, un tempo incondizionatamente favorevoli al liberismo ma ora colpiti dalle conseguenze della crisi agraria.
Si giunse così nel 1887 al varo di una nuova tariffa generale che metteva al riparo dalla concorrenza straniera importanti settori dell'industria nazionale (i più favoriti, oltre al siderurgico, furono il laniero, il cotoniero e lo zuccheriero), colpendo le merci di importazione con pesanti dazi di entrata. In campo agricolo, il nuovo regime doganale fu esteso ai cereali: il dazio sul grano fu quasi triplicato fra 1'87 e 1'89. La tariffa dell'87 segnava una rottura definitiva con la prassi liberoscambista seguita negli anni '60 e '70 e poneva le basi di un nuovo blocco di potere economico fondato sull'alleanza fra l'industria protetta e i grandi proprietari terrieri (settentrionali e meridionali) e sull'intreccio non sempre limpido fra i maggiori gruppi di interesse e i poteri statali.

Gli effetti negativi

È ormai opinione comune che la scelta protezionistica costituisse per l'Italia una sorta di passaggio obbligato sulla strada di quel decollo industriale poi realizzatosi a partire dagli ultimi anni dell'800. È certo tuttavia che, almeno nell'immediato, la tariffa dell'87 produsse una serie di conseguenze negative e accentuò gli squilibri fra i vari settori dell'economia e fra le varie zone del paese. 1 dazi doganali non proteggevano in modo uniforme i diversi comparti produttivi. Al forte sostegno accordato alla siderurgia, anche per motivi strategici legati agli armamenti, faceva riscontro la scarsa protezione di cui godeva l'industria meccanica (danneggiata oltretutto dal rialzo dei prezzi dei prodotti siderurgici).
Per quanto riguarda l'agricoltura, l'introduzione del dazio sul grano provocò un immediato rialzo del prezzo dei cereali che, se da un lato rappresentò una boccata d'ossigeno per le aziende in crisi, dall'altro danneggiò i consumatori e contribuì a tenere in vita, soprattutto nel Mezzogiorno, arretrate realtà produttive.
Contemporaneamente l'agricoltura meridionale veniva colpita nel suo settore più moderno: quello delle colture specializzate, che si reggeva soprattutto sulle esportazioni e che vide bruscamente chiudersi il suo principale mercato di sbocco. La tariffa dell'87 ebbe infatti come conseguenza una rottura commerciale, poi degenerata in vera e propria guerra doganale con la Francia, che era stata fino allora il principale partner economico dell'Italia e il maggior acquirente dei prodotti agricoli italiani (soprattutto seta e vino), la cui esportazione diminuì di oltre il 50%.

 

La politica estera e il colonialismo

La Triplice alleanza

Anche per la politica estera italiana gli anni della Sinistra segnarono una svolta decisiva: nel maggio 1882 il governo Depretis stipulò con la Germania e l'Austria-Ungheria il trattato della Triplice alleanza. Questa scelta rappresentava una netta rottura con la tradizione risorgimentale, col prudente equilibrio mantenuto dai governi della Destra e col rapporto preferenziale con la Francia. La motivazione principale di questa decisione fu il desiderio di uscire da una situazione di isolamento diplomatico che appariva insopportabile in un'epoca dominata dalla logica di potenza.
Questo isolamento era apparso chiaramente nel 1881 quando la Francia, col consenso delle altre potenze, aveva occupato la Tunisia e l'Italia – che da tempo nutriva aspirazioni su quel territorio, anche per la presenza di una forte comunità di emigrati italiani – non aveva potuto far nulla per opporsi. Ne era seguito un grave deterioramento dei rapporti italo-francesi, destinato a far sentire i suoi effetti per oltre un quindicennio.
Per uscire dall'isolamento, l'Italia non aveva dunque altra strada se non quella dell'accordo con Germania e Austria, insistentemente sollecitato da Bismarck. La Triplice era un'alleanza di carattere difensivo, che impegnava gli Stati firmatari a garantirsi reciproca assistenza in caso di aggressione da parte di altre potenze. In concreto, l'Italia veniva coinvolta nel sistema di sicurezza bismarckiano senza ottenere dai nuovi alleati alcun vantaggio immediato, anzi rinunciando implicitamente alla rivendicazione storica delle terre irredente, cioè il Trentino e la Venezia Giulia, "non redente" ovvero non liberate dal dominio austriaco. Un problema questo che fu drammaticamente riproposto dal caso di Guglielmo Oberdan, un giovane triestino impiccato nel dicembre 1882 per aver progettato di attentare alla vita dell'imperatore austriaco Francesco Giuseppe.
La Triplice fu rinnovata a più riprese, ma le garanzie ottenute sulla carta dall'Italia nel 1887 – in particolare la clausola secondo cui ogni eventuale espansione austriaca nei Balcani doveva essere bilanciata da adeguati "compensi" per l'Italia – non vennero praticamente mai applicate. Come si sarebbe visto nel 1908 con l'annessione austriaca della Bosnia e dell'Erzegovina.

L'espansione coloniale in Africa orientale

Contemporaneamente alla stipulazione della Triplice, il governo Depretis, spinto da considerazioni di prestigio e dalla pressione di ristretti gruppi di interesse, aveva ritenuto opportuno porre le basi per una piccola iniziativa coloniale in Africa orientale. Il punto di partenza fu costituito dall'acquisto, nel 1882, della Baia di Assab, sulla costa occidenta le del Mar Rosso. Tre anni dopo fu inviato un corpo di spedizione che occupò una striscia di territorio tra la Baia di Assab e la città di Massaua. Questa zona, abitata da popolazioni nomadi, confinava con l'Impero etiopico, il più forte e il più vasto fra gli Stati africani indipendenti.

Presenza italiana in Africa Orientale

L'Etiopia (o Abissinia, come veniva allora chiamata in Italia) era un paese economicamente molto arretrato, con una popolazione di fede cristiana e di confessione copta (secondo la tradizione dell'antica Chiesa cristiana d'Egitto); dedita in prevalenza alla pastorizia, essa aveva un'organizzazione di tipo feudale in cui l'autorità dell'imperatore, il negus, era fortemente limitata da quella dei signori locali, i ras, che disponevano di propri eserciti. In un primo tempo gli italiani cercarono di stabilire buoni rapporti con gli etiopi e di avviare una penetrazione commerciale. Ma, quando tentarono di ampliare il loro controllo territoriale verso l'interno, dovettero scontrarsi con la reazione del negus e dei ras locali. Nel gennaio 1887 una colonna di 500 militari italiani fu sorpresa dalle truppe abissine del ras Alula e sterminata nei pressi di Dogali. La notizia della disfatta suscitò un'ondata di proteste in tutto il paese, in particolare tra i gruppi di estrema sinistra che si erano sempre opposti alla politica coloniale. Prevalse però l'esigenza di tutelare il prestigio nazionale: così la Camera accordò al governo i finanziamenti richiesti per l'invio di rinforzi e per il consolidamento della presenza italiana sulla fascia costiera.

 

Socialisti e cattolici

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Le società di mutuo soccorso

Il ritardo nello sviluppo industriale e la conseguente assenza di un proletariato di fabbrica numericamente consistente rallentarono in Italia la crescita di un movimento operaio organizzato. Del resto gli oltre 3 milioni di addetti all'industria, censiti nel 1871, erano per gran parte lavoranti di botteghe artigiane. Anche nelle unità produttive di maggiori dimensioni (specie nel settore tessile, dove era molto numerosa la manodopera femminile e minorile) accadeva spesso che gli operai alternassero stagionalmente il lavoro in fabbrica con quello nei campi; e molto diffuso, sempre nel settore tessile, restava il lavoro a domicilio.
Fino all'inizio degli anni '70, l'unica organizzazione operaia di una certa consistenza diffusa in tutto il paese fu quella delle società di mutuo soccorso, associazioni in parte controllate dai mazziniani e in parte organizzate da esponenti moderati. Concepite come strumenti di educazione del popolo più che come organismi di lotta, le società operaie avevano essenzialmente scopi di solidarietà, rifiutavano la lotta di classe e lo sciopero. Era dunque naturale che perdessero terreno quando cominciò a diffondersi nel paese l'internazionalismo socialista, che in Italia si ispirò, almeno in un primo tempo, più alle teorie anarchiche di Bakunin che a quelle di Marx.

Anarchici e operaisti

La crescita del movimento internazionalista si dovette soprattutto all'opera di alcuni instancabili agitatori, come Carlo Cafiero, Andrea Costa, Errico Malatesta, che, fedeli a Bakunin, concentrarono i loro sforzi nell'organizzazione di moti insurrezionali, facendo leva soprattutto sul proletariato delle campagne. Il completo fallimento di questi tentativi convinse Andrea Costa che era necessario elaborare un programma concreto, impegnandosi nelle lotte di tutti i giorni e dando vita a un vero e proprio partito. La "svolta" di Costa trovò una prima attuazione con la nascita, nell'estate del 1881, del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, che rese possibile l'elezione di Costa nell'82. In realtà il partito rimase sempre una formazione locale, priva di legami con i nuclei operai più maturi e avanzati che intanto si andavano costituendo soprattutto in Lombardia. Fin dall'inizio degli anni '70, circoli operai, leghe di resistenza (queste ultime esplicitamente finalizzate alla organizzazione degli scioperi) erano venuti sorgendo in numerosi centri industriali e avevano dato un forte impulso all'azione rivendicativa dei lavoratori. Nell'82 alcune associazioni operaie milanesi decisero di dar vita a una formazione politica autonoma che prese il nome di Partito operaio italiano e che si presentò come un organismo rigidamente classista. Fermissimi nel respingere ogni apporto borghese, gli "operaisti" cercarono di stabilire un contatto con quel proletariato rurale della Bassa padana che fu protagonista dei primi grandi scioperi agricoli nella storia dell'Italia unita: particolarmente imponenti quelli che si svolsero nel Mantovano e nel Polesine nel 1884-85.

Filippo Turati

Fra il 1887 e il 1893 sorsero le prime federazioni di mestiere a carattere nazionale, vennero fondate le prime Camere del lavoro (organizzazioni sindacali a base locale), si accelerò anche la penetrazione del socialismo fra i lavoratori della terra grazie al movimento associativo fra i braccianti e i contadini della Valle padana. Per tutto il movimento di classe si poneva a questo punto il problema di una organizzazione politica unitaria capace di guidare e coordinare le lotte a livello nazionale. Il problema non era di facile soluzione a causa della frammentazione organizzativa e ideologica del movimento operaio italiano.
Le opere di Marx, infatti, erano poco conosciute e l'unico autentico e originale teorico marxista allora attivo in Italia era il filosofo napoletano Antonio Labriola, amico e corrispondente di Engels. Ma Labriola era una figura sostanzialmente isolata tra i leader socialisti.
Fu invece un intellettuale milanese, Filippo Turati, il principale protagonista delle vicende che portarono alla fondazione del Partito socialista italiano. Nato nel 1857 da una famiglia dell'alta borghesia lombarda, Turati aveva militato da giovane nelle file della democrazia radicale.
Decisivo per la sua formazione politica era stato l'incontro con Anna Kuliscioff, una giovane esule russa che aveva già alle spalle una notevole esperienza politica e una larga conoscenza del mondo socialista europeo. Ma non meno decisivo fu il contatto con l'ambiente operaio di Milano, già allora indiscussa capitale economica d'Italia e sede degli esperimenti più avanzati di associazionismo fra i lavoratori. La posizione di Turati, meno rigorosa sul piano teorico di quella di Labriola, fu molto chiara nelle scelte politiche di fondo: l'affermazione dell'autonomia del movimento operaio dalla democrazia borghese; il rifiuto dell'insurrezionalismo anarchico; il riconoscimento del carattere prioritario delle lotte economiche; l'esigenza di collegare queste lotte con quelle politiche e di inquadrarle in un progetto generale che aveva come obiettivo finale la socializzazione dei mezzi di produzione.

La fondazione del Partito socialista italiano

Nell'agosto del 1892 si riunirono a Genova i delegati di circa 300 fra società operaie, leghe contadine, circoli politici e associazioni di varia natura. Subito si delineò la frattura tra una maggioranza favorevole all'immediata costituzione di un partito e una minoranza contraria, formata dagli anarchici e da una parte degli aderenti al Partito operaio. Vista l'impossibilità di trovare un accordo, i delegati della maggioranza, guidati da Turati, abbandonarono la sala del congresso e, riunitisi in altra sede, dichiararono costituito il Partito dei lavoratori italiani, approvandone subito il programma e lo statuto. Il programma indicava come fine la «gestione sociale» dei mezzi di produzione e, come mezzo atto a raggiungerlo, «l'azione del proletariato organizzato in partito [ ... ] esplicantesi sotto il doppio aspetto: 1) della lotta di mestieri per i miglioramenti immediati della vita operaia [ ... ]; 2) di una lotta più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici». Divenuto Partito socialista dei lavoratori italiani nel '93, due anni dopo il partito assunse il nome definitivo di Partito socialista italiano.

I cattolici

Se per la classe dirigente liberal-moderata il movimento socialista rappresentava una presenza minacciosa, sull'opposto versante politico non meno preoccupante era l'atteggiamento della massa dei cattolici militanti, fermi nella fedeltà al papa e nel conseguente rifiuto dello Stato uscito dal Risorgimento. I cattolici costituivano dunque una forza eversiva nei confronti delle istituzioni unitarie di cui non riconoscevano la legittimità: una forza tanto più pericolosa in quanto profondamente radicata nel tessuto sociale, in particolare nel mondo delle campagne. Il divieto papale di partecipare alle elezioni, formulato col non expedit del 1874, non si applicava alle elezioni amministrative né significava per il movimento cattolico la rinuncia a una presenza autonoma nella vita del paese.
Proprio nel 1874, in un convegno tenuto a Venezia, un gruppo di autorevoli esponenti del mondo cattolico italiano (ecclesiastici e laici) decise di dar vita a un'organizzazione nazionale che fu chiamata Opera dei congressi: saldamente controllata dal clero, ebbe il compito di convocare periodicamente congressi delle associazioni cattoliche operanti in Italia, assicurando loro un più stretto collegamento. Il suo programma si riduceva a una dichiarazione di ostilità nei confronti del liberalismo laico, della democrazia e del socialismo, a una professione di fedeltà al magistero del pontefice e alla dottrina cattolica.
Qualche segno di apertura si ebbe dopo il 1878, in coincidenza con l'avvento al soglio pontificio di papa Leone XIII. Sotto il suo pontificato il movimento cattolico italiano accentuò il suo impegno sul terreno sociale, cui lo spingeva fatalmente la stessa tendenza a raccogliere una base di massa. Sorsero così, soprattutto in Lombardia e nel Veneto, società di mutuo soccorso, cooperative agricole e artigiane controllate dal clero e ispirate alla dottrina sociale cattolica.

 

Crispi: rafforzamento dello Stato e tentazioni autoritarie

Il primo governo Crispi: riforme e repressione

Alla morte di Depretis, nel 1887, fu nominato presidente del Consiglio Francesco Crispi, la personalità più rilevante della Sinistra. Siciliano, temperamento forte e autoritario, primo meridionale a salire alla presidenza del Consiglio, Crispi poteva contare, in virtù del suo passato mazziniano e garibaldino, su ampie simpatie a sinistra, ma anche sulla fiducia dei gruppi conservatori, attratti dalle sue promesse di uno stile di governo più deciso ed efficiente, di chiara impronta "bismarckiana".
Accentrando nella sua persona per quasi quattro anni, oltre alla presidenza del Consiglio, i ministeri degli Interni e degli Esteri, Crispi impresse in effetti una svolta all'azione di governo: si fece promotore di un'opera di riorganizzazione e di razionalizzazione dell'apparato statale, ma accentuò anche le spinte autoritarie e repressive. Nel 1888 fu approvata una legge comunale e provinciale che ampliava il diritto di voto per le elezioni amministrative e rendeva elettivi i sindaci dei comuni con più di 10 mila abitanti (fino allora di nomina regia). Nel 1889 fu varato un nuovo codice penale — noto come Codice Zanardelli, dal nome dell'allora ministro della Giustizia — che aboliva la pena di morte, ancora in vigore in tutti i maggiori Stati europei, e non negava il diritto di sciopero, riconoscendone implicitamente la legittimità.
Questo riconoscimento fu di fatto contraddetto dalla nuova legge di Pubblica sicurezza che poneva gravi limiti alla libertà sindacale e lasciava alla polizia ampi poteri discrezionali, come quello di inviare al domicilio coatto, senza l'autorizzazione della magistratura, gli elementi ritenuti pericolosi. Di questi poteri Crispi si avvalse con molta frequenza, intervenendo duramente contro il movimento operaio, ma anche contro le organizzazioni cattoliche e contro i circoli irredentisti di ispirazione repubblicana.

I progetti coloniali di Crispi

Crispi fu anche sostenitore dell'ascesa dell'Italia a grande potenza coloniale. Per realizzare il suo programma, puntò sul rafforzamento della Triplice alleanza e, all'interno di essa, sul consolidamento dei legami con l'Impero tedesco.
Nelle intenzioni di Crispi, la Triplice doveva non solo garantire l'Italia da nuove iniziative francesi nel Mediterraneo, ma anche servire da base per una più attiva presenza in Africa. Nel 1890 i possedimenti italiani furono ampliati e riorganizzati col nome di Colonia Eritrea, mentre venivano poste le basi per una nuova espansione sulle coste della vicina Somalia. La politica coloniale di Crispi suscitava, però, perplessità in seno alla stessa maggioranza, in quanto risultava troppo costosa per il bilancio dello Stato. Messo in minoranza, Crispi si dimise all'inizio del 1891.

Il primo governo Giolitti

Nel maggio 1892, la presidenza del Consiglio passò al piemontese Giovanni Giolitti. Figura centrale del successivo trentennio di storia italiana, Giolitti, allora cinquantenne, si presentava con un programma piuttosto avanzato. In politica finanziaria mirava a una più equa ripartizione del carico fiscale, che risparmiasse i ceti disagiati e colpisse con aliquote più alte i redditi maggiori secondo il principio della progressività delle imposte (oggi universalmente accettato). In politica interna aveva idee innovatrici, contrarie all'intervento repressivo contro il movimento operaio e le organizzazioni popolari. Si rifiutò infatti di ricorrere a misure eccezionali contro i Fasci dei lavoratori, associazioni popolari (il termine "fascio" stava per "unione") sviluppatesi in Sicilia, che protestavano contro le tasse troppo pesanti e il malgoverno locale e chiedevano per i contadini terre da coltivare e patti agrari più vantaggiosi. Non si trattava di un movimento rivoluzionario, anche se diede luogo ad alcune manifestazioni violente, né di un movimento socialista in senso stretto, ma suscitò tuttavia forti preoccupazioni fra i conservatori, ai quali non piacque l'atteggiamento, ritenuto debole, del presidente del Consiglio. L'ostilità dei conservatori – contrari anche ai progetti giolittiani di riforma fiscale – contribuì a indebolire il governo e ad accelerarne la caduta, che fu dovuta tuttavia alle conseguenze del grave scandalo della Banca Romana, responsabile dell'emissione fraudolenta di carta moneta e di finanziamento occulto di uomini politici e giornalisti. Giolitti, implicato nello scandalo, cadde e fu sostituito da Crispi, anche lui coinvolto nelle vicende della Banca, ma ritenuto l'uomo forte, capace di rimettere ordine nel paese e di arrestare la crescita delle organizzazioni operaie.

Il ritorno di Crispi e le leggi antisocialiste

Tornato al governo nel dicembre del 1893, Crispi affrontò con risolutezza una situazione che vedeva l'opinione pubblica allarmata dalla crisi economica, sconcertata dagli scandali bancari, spaventata dall'intensificarsi delle agitazioni in Sicilia. In campo economico il nuovo governo avviò una politica di risanamento del bilancio basata su pesanti inasprimenti fiscali e completò la riorganizzazione del dissestato sistema bancario, già iniziata da Giolitti, con una legge che istituiva la Banca d'Italia. Questa, nel 1926, avrebbe ottenuto il monopolio della emissione di carta moneta (e, a partire dal 1947, avrebbe svolto compiti di controllo sull'intero sistema bancario). In materia di ordine pubblico Crispi non esitò a ricorrere a misure eccezionali, convinto com'era che le agitazioni sociali costituissero un pericolo non solo per l'ordine costituito, ma per la stessa sicurezza dello Stato uscito dal Risorgimento.
Ai primi di gennaio del 1894 lo stato d'assedio fu proclamato in Sicilia e successivamente esteso alla Lunigiana, tra Toscana e Liguria, dove si era verificato, senza alcun nesso con gli avvenimenti siciliani, un tentativo di insurrezione anarchica. La repressione militare fu dura e sanguinosa e venne accompagnata da una più generale repressione poliziesca estesa a tutto il paese e rivolta soprattutto contro circoli, leghe e giornali facenti capo al Partito socialista, che pure non aveva responsabilità dirette nel moto siciliano. Nel luglio 1894 il governo volle dare alla sua azione repressiva un carattere organico, facendo approvare dal Parlamento un complesso di leggi limitative della libertà di stampa, di riunione e di associazione. Queste leggi, definite "antianarchiche", avevano in realtà come obiettivo principale il Partito socialista, che nell'ottobre fu dichiarato fuori legge: un provvedimento simile a quello varato da Bismarck nel 1878. Gli effetti non furono però quelli sperati da Crispi.
Le persecuzioni, infatti, non riuscirono a distruggere la già solida rete organizzativa del partito e accrebbero i favori di cui i socialisti godevano nella sinistra democratica e soprattutto negli ambienti intellettuali.

Adua e la caduta di Crispi

Ma il colpo definitivo per Crispi venne dal fallimento della sua politica coloniale. Già durante il suo primo governo, Crispi aveva cercato di stabilire una qualche forma di protettorato sull'Etiopia, intavolando col nuovo negus Menelik trattative che portarono, nel 1889, alla firma del trattato di Uccialli. Ma questo trattato, considerato dagli italiani come un implicito riconoscimento del loro protettorato, fu interpretato diversamente dagli etiopi, che reagirono energicamente ai tentativi italiani di penetrazione ripresi dopo il ritorno al potere di Crispi. Fra Italia ed Etiopia si giunse così allo scontro armato, culminato nel disastro di Adua del 1° marzo 1896, quando un contingente italiano di 20 mila uomini (comprese le truppe coloniali) venne praticamente annientato dalle forze etiopiche. La sconfitta ebbe immediate ripercussioni in Italia: violente manifestazioni contro la guerra d'Africa scoppiarono a Roma, a Milano e in molte altre città, mentre Crispi fu costretto a dimettersi e uscì dalla scena politica.
L'episodio di Adua e le reazioni che ne erano seguite avevano dimostrato quanto la guerra coloniale fosse poco sentita dalle masse popolari e da larghi strati della stessa classe dirigente e quanto illusorio fosse stato il tentativo di Crispi di cogliere successi di prestigio, per sé e per il paese, in un'avventura imperialistica a cui mancavano le indispensabili premesse ideologiche, politiche ed economiche.

 

La crisi di fine secolo e la nuova politica liberale

[ Introduzione audio ]

I moti dei '98

La caduta di Crispi non pose fine ai tentativi di risolvere le tensioni politiche e sociali con una restrizione delle libertà. Al contrario, negli anni che seguirono le dimissioni di Crispi si delineò tra le forze conservatrici – già divise sulla politica estera e sulle questioni coloniali – la tendenza a ricomporre un fronte comune contro le vere o supposte minacce portate all'ordine costituito dai «nemici delle istituzioni», socialisti, repubblicani o clericali che fossero. Questa tendenza si esprimeva anche nel tentativo di tornare a una interpretazione restrittiva dello Statuto che, rovesciando la prassi "parlamentare" affermatasi con Cavour, rendesse il governo responsabile di fronte al sovrano, lasciando alle Camere i soli compiti legislativi.
La tensione esplose nella primavera del 1898, quando un improvviso aumento del prezzo del pane – provocato da un cattivo raccolto e dal contemporaneo blocco delle importazioni di cereali dagli Stati Uniti – fece scoppiare in tutto il paese una serie di manifestazioni popolari. La risposta del governo guidato dal conservatore Antonio Starabba di Rudinì fu durissima, come se si dovesse fronteggiare un complotto rivoluzionario: prima massicci interventi delle forze di polizia, quindi proclamazione dello stato d'assedio, con conseguente passaggio dei poteri alle autorità militari, a Milano, a Napoli e nell'intera Toscana. La repressione fu particolarmente violenta a Milano dove le truppe, guidate dal generale Bava Beccaris, spararono sulla folla inerme anche con colpi a mitraglia dell'artiglieria provocando un centinaio di morti. Capi socialisti, radicali, repubblicani e anche esponenti del movimento cattolico intransigente furono incarcerati.

L'ostruzionismo dell'estrema sinistra

Dimessosi il presidente del Consiglio, Rudinì (giugno '98), il suo successore, il generale piemontese Luigi Pelloux, presentò alla Camera nel '99 un pacchetto di provvedimenti che limitavano gravemente il diritto di sciopero e la libertà di associazione. I gruppi di estrema sinistra risposero con l'ostruzionismo, consistente nel prolungare all'infinito la discussione parlamentare. Allora Pelloux sciolse la Camera ma, dopo il risultato sfavorevole delle elezioni del giugno 1900, decise di dimettersi. Accettando le sue dimissioni e affidando la successione al senatore Giuseppe Saracco, un moderato ritenuto al di sopra delle parti, Umberto I mostrava di prendere atto del fallimento della politica repressiva che lo aveva visto fra i suoi più attivi sostenitori. Un mese dopo, il 29 luglio 1900, il re cadeva vittima di un attentato per mano di un anarchico, Gaetano Bresci, venuto appositamente dagli Stati Uniti per vendicare le vittime del '98.

Il governo Zanardelli-Giolitti

Rinunciando a ripresentare i provvedimenti repressivi proposti da Pelloux, il governo Saracco inaugurò una fase di distensione nella vita politica italiana. Una distensione che fu indubbiamente favorita dal buon andamento dell'economia e dal conseguente allentamento delle tensioni sociali oltre che dall'atteggiamento del nuovo re, Vittorio Emanuele III, assai più aperto del padre nei confronti delle forze progressiste. Quando il governo Saracco fu costretto a dimettersi per il comportamento incerto e contraddittorio tenuto in occasione di un grande sciopero indetto dai lavoratori genovesi, il re seppe interpretare il nuovo clima politico chiamando alla guida del governo, nel febbraio 1901, il leader della sinistra liberale Giuseppe Zanardelli, che affidò il ministero degli Interni a Giolitti. Proprio quest'ultimo, nel dibattito parlamentare sullo sciopero di Genova, aveva formulato con molta chiarezza la teoria secondo cui lo Stato liberale non aveva nulla da temere dallo sviluppo delle organizzazioni operaie e nulla da guadagnare da una repressione indiscriminata delle loro attività, ma al contrario aveva tutto l'interesse a consentirne il libero svolgimento.
Nei suoi quasi tre anni di vita il ministero Zanardelli-Giolitti condusse in porto alcune importanti riforme.
Furono estese le norme che limitavano il lavoro minorile e femminile nell'industria. Venne migliorata la legislazione sulle assicurazioni per la vecchiaia e per gli infortuni sul lavoro. Venne approvata una legge per la municipalizzazione dei servizi pubblici. Ma, più importante delle singole riforme, fu il nuovo atteggiamento del governo in materia di conflitti di lavoro.
Tenendo fede al suo programma, Giolitti mantenne una linea di rigorosa neutralità nelle vertenze sindacali, purché non degenerassero in manifestazioni violente.

Lo sviluppo delle organizzazioni sindacali

Le conseguenze del nuovo corso furono subito evidenti.
Le organizzazioni sindacali, operaie e contadine, cancellate o ridotte alla clandestinità dalle repressioni del '98, si svilupparono rapidamente. In quasi tutte le principali città del Centro-nord si costituirono, o si ricostituirono, le Camere del lavoro, mentre crescevano anche le organizzazioni di categoria. Un fenomeno a parte era poi lo sviluppo delle organizzazioni dei lavoratori agricoli. Formate in prevalenza da braccianti – ma anche da mezzadri e piccoli affittuari – e concentrate in prevalenza nelle province padane, le leghe rosse si riunirono, nel novembre 1901, nella Federazione italiana dei lavoratori della terra (Federterra) che contava oltre 200 mila iscritti. Obiettivo finale e dichiarato delle leghe era la «socializzazione della terra». Obiettivi immediati erano l'aumento dei salari, la riduzione degli orari di lavoro, l'istituzione di uffici di collocamento controllati dai lavoratori stessi.
Lo sviluppo delle organizzazioni sindacali fu accompagnato da una brusca impennata degli scioperi. Ne derivò una spinta al rialzo dei salari destinata a protrarsi, con poche interruzioni, per tutto il primo quindicennio del secolo. Questi progressi non si possono spiegare, ovviamente, solo con la nuova politica liberale, ma vanno inquadrati nella fase di generale sviluppo economico attraversata dal paese in questo periodo.

 

Lo sviluppo economico e i problemi del Meridione

Le premesse del decollo industriale

A partire dagli ultimi anni dell'800, l'Italia conobbe il suo primo decollo industriale autentico decollo industriale. Se l'economia italiana poté inserirsi nella congiuntura internazionale favorevole cominciata nel 1896, ciò fu dovuto anche ai progressi che il paese era venuto realizzando nei primi trenta-quarant'anni di vita unitaria sul piano delle infrastrutture e dei settori produttivi. La costruzione di una rete ferroviaria, avviata negli anni della Destra, aveva favorito i processi di commercializzazione dell'economia. La scelta protezionistica del 1887 aveva reso possibile la creazione, sia pure a costi molti alti, di una moderna industria siderurgica. Infine, il riordinamento del sistema bancario attuato dopo la crisi della Banca Romana aveva creato un'organizzazione finanziaria abbastanza efficiente. Particolare importanza ebbe la costituzione, avvenuta nel 1894 con l'incoraggiamento dello Stato e con l'apporto di capitali tedeschi, di due nuovi istituti di credito, la Banca commerciale e il Credito italiano, che svolsero una funzione decisiva nel facilitare l'afflusso del risparmio privato verso gli investimenti industriali, soprattutto nei settori più moderni.

La crescita industriale

Furono appunto questi settori che fecero registrare i maggiori progressi. La siderurgia, la più favorita dalle tariffe dell'87, vide la creazione, accanto alle Acciaierie di Terni (fondate, col concorso dello Stato, nel 1884), di numerosi nuovi impianti per la produzione della ghisa e dell'acciaio (a Savona, Piombino, Bagnoli). Nel settore tessile, i maggiori progressi si ebbero nell'industria cotoniera, anch'essa altamente meccanizzata e favorita dal protezionismo. Nel settore agro-alimentare si assisté alla crescita rapidissima di un'altra industria protetta, quella dello zucchero, legata alla diffusione della coltura della barbabietola nella Pianura padana. Sviluppi interessanti si ebbero anche in settori che non erano favoriti dalle tariffe doganali, come quello chimico –soprattutto nell'industria della gomma, con gli stabilimenti Pirelli di Milano –, o che addirittura ne erano svantaggiati, come quello meccanico. In questo campo la principale novità fu costituita dall'affermazione dell'industria automobilistica dove, nonostante la ristrettezza del mercato interno (le automobili erano allora riservate a pochissimi privilegiati), riuscirono a svilupparsi numerose aziende: alcune – come la Fiat di Torino, fondata nel 1899 da Giovanni Agnelli – avrebbero poi acquistato una posizione di preminenza nel mondo industriale italiano. Un discorso a parte va fatto, infine, per l'industria elettrica, che in Italia aveva mosso i primi passi già negli anni '80 dell'800 e che conobbe un autentico boom all'inizio del '900.
Fra il 1896 e il 1907 il tasso medio di crescita annua dell'industria fu del 6,7%, superiore a quello di qualsiasi altro paese europeo nello stesso periodo. Fra il 1896 e il 1914 il volume della produzione industriale risultò quasi raddoppiato, mentre la quota dell'industria nella formazione del prodotto interno lordo, che fra il 1880 e il 1900 era rimasta pressoché stazionaria attorno al 20%, passò nel 1914 al 25% circa, contro il 43% dell'agricoltura.

Le condizioni di vita degli italiani

Il decollo industriale dell'inizio del '900 fece sentire i suoi effetti anche sul tenore di vita della popolazione. Nel primo quindicennio del secolo il reddito pro capite degli italiani aumentò del 25%, mentre era rimasto pressoché invariato nei precedenti quarant'anni. Questo aumento consentì a vasti strati della popolazione di destinare una quota dei bilanci familiari – fin allora assorbiti soprattutto dalle spese per l'alimentazione – alla casa, ai trasporti, all'istruzione, alle attività ricreative e soprattutto all'acquisto di beni di consumo durevoli: in primo luogo utensili domestici, ma anche biciclette, macchine per cucire e altri prodotti della moderna tecnologia che fecero allora la prima comparsa sul mercato nazionale.
La qualità della vita degli italiani cominciava a mutare, sia pur lentamente e parzialmente, di pari passo con lo sviluppo economico. I segni di questo mutamento erano visibili soprattutto nelle città, ancora piccole rispetto alle maggiori metropoli europee — Roma, per esempio, contava nel 1911 poco più di 500 mila abitanti contro i quasi 3 milioni di Parigi —, ma a esse più simili che in passato, grazie soprattutto allo sviluppo dei servizi pubblici (illuminazione, trasporti urbani, gas domestico, acqua corrente) gestiti non di rado dagli stessi comuni tramite apposite aziende municipalizzate. Le condizioni abitative dei lavoratori urbani restavano ancora precarie.
Gli appartamenti dotati di servizi igienici autonomi restavano un'eccezione. Ma la diffusione dell'acqua corrente e il miglioramento delle reti fognarie costituirono un progresso di non poco conto, contribuendo alla forte diminuzione della mortalità da malattie infettive (colera, tifo e, in genere, affezioni intestinali) che si verificò nel primo quindicennio del secolo. Anche la mortalità infantile — indicatore fra i più importanti dell'arretratezza economica e civile — fece registrare un notevole calo.
Questi progressi tuttavia non furono sufficienti a colmare il divario che ancora separava l'Italia dagli Stati più ricchi e più industrializzati. Alla vigilia della prima guerra mondiale il reddito pro capite era circa la metà di quello tedesco. L'analfabetismo era ancora molto elevato (37% nel 1911), mentre si avviava a scomparire in tutta l'Europa del Nord. La quota della popolazione attiva impiegata nelle campagne era ancora intorno al 55% (mentre non superava il 40% in Francia, il 35% in Germania e addirittura l'8% in Inghilterra): una quota troppo alta per le capacità produttive dell'agricoltura italiana, com'era dimostrato dall'incremento dell'emigrazione verso l'estero.

L'emigrazione

Nel solo 1913 si contarono 870 mila partenze, per un totale di circa 8 milioni di emigrati (di cui almeno 2 milioni a carattere permanente) fra il 1900 e il 1914. Tutte le regioni italiane parteciparono al fenomeno migratorio.
Ma il contributo più rilevante, in rapporto alla popolazione, venne dal Mezzogiorno. Inoltre, mentre l'emigrazione dalle regioni centro-settentrionali era soprattutto temporanea e diretta verso i paesi europei, quella meridionale si indirizzava in prevalenza verso le Americhe e aveva per lo più carattere permanente.
Dal punto di vista economico, il fenomeno migratorio ebbe alcuni effetti positivi: non solo perché allentò la pressione demografica, creando un rapporto più favorevole fra popolazione e risorse e attenuando le tensioni sociali, ma anche perché le rimesse, ovvero il denaro inviato dagli emigrati alle famiglie, ridussero il disagio delle zone più depresse e giovarono all'economia dell'intero paese. Tuttavia, un'emigrazione così massiccia rappresentò un impoverimento, in termini di forza-lavoro e di energie intellettuali, per la comunità nazionale e soprattutto per il Mezzogiorno.

Il divario tra Nord e Sud

Ancora una volta gli effetti del progresso economico si fecero sentire soprattutto nelle regioni più sviluppate, in particolare nel cosiddetto triangolo industriale che aveva come vertici Milano, Torino e Genova. E il divario fra Nord e Sud si venne perciò accentuando, sia pure nel quadro di una crescita generalizzata. Secondo i dati di un'inchiesta del 1903, sul totale dei lavoratori dell'industria il 57% era concentrato nelle regioni settentrionali mentre solo il 25% viveva nel Mezzogiorno, che aveva una popolazione pari al 37% di quella nazionale.
Questo divario era accentuato da alcuni mali storici della società meridionale: l'analfabetismo diffuso, la disgregazione sociale, l'assenza di una classe dirigente moderna, la subordinazione della piccola e media borghesia agli interessi della grande proprietà terriera, il carattere clientelare e personalistico della lotta politica.
Tale carattere era accentuato dal fatto che, per molti giovani, la conquista di un impiego pubblico – raggiungibile grazie ai favori del notabile o del deputato locale – costituiva l'unica alternativa alla disoccupazione o all'emigrazione: fu in questo periodo che la pubblica amministrazione italiana, nata piemontese e "nordista", cominciò a meridionalizzarsi. Tutti questi erano mali antichi, ma risaltavano maggiormente nel momento in cui contrastavano col generale sviluppo del paese.

 

L'età giolittiana

[ Introduzione audio ]

Giovanni Giolitti fu la più notevole figura di statista apparsa in Italia dopo la morte di Cavour. Chiamato per la seconda volta alla guida del governo nel novembre 1903, dopo le dimissioni di Zanardelli, restò al potere per oltre un decennio, con brevi interruzioni nel 1905-6 e nel 1909-11.

Il controllo del Parlamento e il trasformismo giolittiano

Se è ormai consuetudine parlare di "età giolittiana" per indicare il periodo che va dal superamento della crisi di fine secolo alla vigilia della prima guerra mondiale, ciò è dovuto al fatto che in questo periodo lo statista piemontese esercitò sulla vita del paese un'influenza ancora maggiore di quanto non dica la sua pur lunga permanenza alla guida del governo. Quella esercitata da Giolitti fu una dittatura parlamentare molto simile a quella realizzata da Depretis fra il 1876 e il 1887, anche se diversa, e decisamente più aperta, nei contenuti. Tratti caratteristici dell'azione di Giolitti furono infatti: il costante sostegno alle forze più moderne della società italiana (la borghesia industriale e il proletariato organizzato), il tentativo di condurre nell'orbita del sistema liberale gruppi e movimenti considerati nemici delle istituzioni, la tendenza ad ampliare l'intervento dello Stato per correggere gli squilibri sociali.
Il controllo delle Camere (unito a una perfetta conoscenza dell'amministrazione statale) costituì l'elemento fondamentale del "sistema" di Giolitti. Questo controllo era però ottenuto a prezzo della perpetuazione dei sistemi trasformistici, che furono affinati ed estesi, e di un costante e spregiudicato intervento del governo nelle lotte elettorali, soprattutto nel Mezzogiorno, dove le ingerenze del potere esecutivo tramite i prefetti, trovavano terreno favorevole in un ambiente dominato dai conflitti tra i notabili e caratterizzato dall'assenza quasi totale di organizzazioni politiche moderne.

Gli avversari di Giolitti

Su questi aspetti deteriori si appuntarono ben presto le critiche dei numerosi avversari dello statista piemontese.
Per i socialisti rivoluzionari e per i cattolici democratici Giolitti era colpevole di far opera di corruzione all'interno dei rispettivi movimenti, dividendoli e attirandone le componenti moderate entro il suo sistema di potere trasformista (Giolitti tentò in più occasioni di inserire dirigenti socialisti nel governo). Per converso i liberaliconservatori, come Sidney Sonnino – che fu capo del governo per brevi periodi, nel 1906 e nel 1909 – o Luigi Albertina, direttore del «Corriere della Sera» di Milano, il più importante quotidiano italiano, accusavano Giolitti di attentare alle tradizioni risorgimentali, venendo a patti con i nemici delle istituzioni e mettendo così in pericolo l'autorità dello Stato. Diversamente motivate erano le accuse lanciate a Giolitti dai meridionalisti come Gaetano Salvemini. Per loro la denuncia del malcostume politico imperante nelle regioni del Sud – fu Salvemini a bollare Giolitti con l'epiteto ingiurioso di «ministro della malavita» – si legava alla critica severa della politica economica del governo. Questa politica avrebbe favorito infatti l'industria protetta e le «oligarchie operaie» del Nord, ma anche la grande proprietà terriera meridionale, tutelata dal dazio sul grano, ostacolando lo sviluppo delle forze produttive nel Mezzogiorno. Infine, molti intellettuali univano la critica del trasformismo e della corruzione parlamentare con l'avversione all'«appiattimento» democratico di cui la politica giolittiana sarebbe stata responsabile.

Le leggi per il Mezzogiorno e il suffragio universale

Ciononostante, durante l'età giolittiana furono varate – anche se con effetti tutt'altro che decisivi – alcune importanti iniziative in favore del Mezzogiorno: in particolare le leggi speciali del 1904, volte a incoraggiare lo sviluppo industriale e la modernizzazione dell'agricoltura mediante stanziamenti statali. Altri provvedimenti di rilievo furono la statalizzazione delle ferrovie, nel 1905, e l'istituzione, nel 1912, di un monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, i cui proventi dovevano servire a finanziare il fondo per le pensioni di invalidità e vecchiaia dei lavoratori. Sempre nel 1912 fu varata la più importante tra le riforme giolittiana: l'estensione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto trent'anni e a tutti i maggiorenni che sapessero leggere e scrivere o avessero prestato il servizio militare, in pratica il suffragio universale maschile.

I socialisti e lo sciopero generale del 1904

La svolta liberale dell'inizio del '900 aveva avuto nei socialisti dei protagonisti attivi, poiché Turati e i dirigenti a lui più vicini pensavano che la via delle riforme e della collaborazione con la borghesia progressista fosse per il movimento operaio l'unica capace di assicurare il consolidamento dei risultati appena conseguiti. Mentre si venivano delineando i limiti del liberalismo giolittiano, però, nel 1904 le correnti rivoluzionarie conquistarono la guida del partito e, a settembre, in seguito a un «eccidio proletario» verificatosi in Sardegna nel corso di una manifestazione di minatori, indissero il primo sciopero generale nazionale della storia d'Italia. Ci furono forti pressioni sul governo perché intervenisse militarmente, ma Giolitti lasciò che la manifestazione si esaurisse da sola, salvo poi sfruttare le paure dell'opinione pubblica moderata per convocare, a novembre, nuove elezioni in cui le sinistre segnarono una battuta d'arresto.

La nascita della Cgl e le scissioni socialiste

Per il movimento operaio lo sciopero costituì una prova di forza ma rivelò anche gravi limiti organizzativi: si era infatti sentita l'esigenza, soprattutto da parte dei riformisti, di un più stretto coordinamento nazionale. Proprio dalle federazioni di categoria controllate dai riformisti partì l'iniziativa che portò, nel 1906, alla fondazione della Confederazione generale del lavoro (Cgl), che raccolse oltre 200 mila iscritti. La corrente più estremista, che si ispirava al sindacalismo rivoluzionario, fu progressivamente emarginata dalla Cgl e infine allontanata anche dal partito socialista, il Psi, dove ripresero il sopravvento le correnti riformiste. Ma, nel congresso di Reggio Emilia del luglio 1912, la guida del partito tornò nelle mani degli intransigenti, fra i quali venne emergendo la figura di un giovane agitatore romagnolo, Benito Mussolini. Il congresso decise l'espulsione della corrente dei riformisti di destra guidata da Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, che prospettavano una collaborazione al governo, e non solo in Parlamento, con le forze democratico-liberali.

I democratici cristiani

Durante l'età giolittiana anche il movimento cattolico si trasformò e riuscì ad avere un peso maggiore nella vita politica. La novità più importante fu l'affermazione del movimento democratico cristiano, guidato da Romolo Murri, un giovane sacerdote marchigiano dalle posizioni audacemente riformatrici, in cui la polemica contro il capitalismo e lo Stato borghese si riempiva di contenuti democratici (suffragio universale, decentramento amministrativo, legislazione sociale). Nei primi anni del '900 i democratici cristiani fondarono circoli, riviste e le prime unioni sindacali cattoliche "di classe", ovvero costituite dai soli lavoratori. Nel 1904, però, papa Pio X, per timore che conquistassero il controllo dell'Opera dei
congressi, decise di scioglierla. Successivamente Murri venne sospeso dal sacerdozio (1909). Il movimento sindacale cattolico, comunque, continuò a svilupparsi.

Le alleanze clerico-moderate

Nel frattempo il papa e i vescovi, preoccupati dai progressi delle forze laiche e socialiste, favorirono le tendenze clerico-moderate che miravano a far fronte comune con i «partiti d'ordine» (moderati e conservatori) per bloccare l'avanzata delle sinistre. Alleanze politiche di questo genere furono esplicitamente autorizzate dalle autorità ecclesiastiche e vennero d'altra parte incoraggiate dallo stesso Giolitti. Quest'ultimo, infatti, pur ispirandosi in materia di rapporti fra Stato e Chiesa a una linea rigorosamente laica, vide nel nuovo atteggiamento dei cattolici la possibilità di ampliare i suoi spazi di manovra, utilizzando nuove forze a sostegno delle sue maggioranze.
Il non expedit fu sospeso in alcuni collegi del Nord nelle elezioni del 1904 e, in misura molto più ampia, nelle successive consultazioni del 1909, dove fu autorizzata anche la presentazione di candidature dichiaratamente cattoliche, anche se solo a titolo personale.

 

Il nazionalismo, la guerra di Libia e la fine del giolittismo

Il riavvicinamento alla Francia

A partire dal 1896, anno della caduta di Crispi, la politica estera italiana subì una netta correzione di rotta. Fu attenuata, pur senza rinnegare il vincolo della Triplice alleanza, la linea rigidamente filotedesca seguita nel precedente decennio. Il conseguente miglioramento dei rapporti con la Francia portò alla fine della guerra doganale e, nel 1902, a un accordo per la divisione delle sfere di influenza in Africa settentrionale: l'Italia otteneva il riconoscimento dei suoi diritti di priorità sulla Libia, lasciando in cambio mano libera alla Francia sul Marocco.

I nazionalisti e i progetti imperialisti in Nord Africa

In questi anni si affermò un movimento nazionalista che, alla fine del 1910, si organizzò nella Associazione nazionalista italiana. Molti uomini politici e intellettuali avevano cominciato a chiedersi perché l'Italia dovesse rassegnarsi a un destino di potenza di secondo rango, perché tanti lavoratori italiani fossero costretti a emigrare in cerca di lavoro nei paesi più ricchi anziché impegnare le loro energie al servizio della grandezza nazionale. Ebbe allora notevole fortuna la teoria formulata dallo scrittore Enrico Corradini, secondo cui il contrasto fondamentale non era più quello fra le diverse classi all'interno di un singolo paese, ma quello fra paesi ricchi e paesi poveri, fra «nazioni capitalistiche» e «nazioni proletarie» (ossia dotate di una popolazione in eccedenza rispetto alle risorse economiche).
Tra i nazionalisti emerse un gruppo imperialista e conservatore che avviò una martellante campagna per la conquista della Libia. Questa iniziativa trovò potenti alleati nei gruppi cattolico-moderati legati alla finanza vaticana e in particolare al Banco di Roma, da anni impegnato in un'opera di penetrazione economica in terra libica. La campagna contribuì senza dubbio a spingere il paese sulla via dell'intervento, ma l'impulso decisivo venne dalle vicende della politica internazionale: quando apparve chiaro che la Francia si apprestava a imporre il suo protettorato sul Marocco, il governo italiano ritenne giunto il momento di far valere gli accordi del 1902.

La guerra di Libia

La guerra contro l'Impero turco, che esercitava la sovranità sulla Libia, scoppiò nel settembre del 1911. Il conflitto fu più lungo e difficile del previsto anche perché i turchi, anziché accettare uno scontro campale, preferirono fomentare la guerriglia condotta con decisione dalle popolazioni arabe. Per venire a capo della resistenza, l'Italia dovette non solo rinforzare il corpo di spedizione, ma anche estendere il teatro di guerra ai possedimenti turchi del Mare Egeo, occupando l'isola di Rodi e l'arcipelago del Dodecaneso. La guerra terminò nell'ottobre del 1912 con la pace di Losanna che sanciva la conquista italiana della Libia. La pace non valse tuttavia a far cessare la resistenza araba; e da ciò gli italiani trassero pretesto per mantenere l'occupazione di Rodi e del Dodecaneso.
Durante la guerra la maggioranza dell'opinione pubblica borghese si schierò a favore dell'impresa coloniale e la appoggiò con grandi manifestazioni patriottiche. Ma dal punto di vista economico la conquista della Libia si rivelò un pessimo affare. 1 costi della guerra furono molto pesanti; le ricchezze naturali favoleggiate dai nazionalisti si scoprirono scarse o inesistenti (nessuno sospettava allora la presenza di petrolio sotto lo «scatolone di sabbia» del deserto libico); la colonizzazione delle zone costiere non bastò ad assorbire quote consistenti di lavoratori.

L'indebolimento del governo

Il successo politico e propagandistico dell'impresa non si risolse però in un durevole consolidamento del governo.
Al contrario, la guerra di Libia, introducendo elementi di radicalizzazione nel dibattito politico, scosse pericolosamente gli equilibri su cui si reggeva il sistema giolittiano e favori il rafforzamento delle ali estreme. La destra liberale, i clericoconservatori e soprattutto i nazionalisti trassero nuovo slancio dal buon esito di un'impresa che avevano fermamente e rumorosamente sostenuto. Sull'opposto versante, quello socialista, l'opposizione alla guerra fece emergere le tendenze più radicali e indebolì quelle correnti riformiste e collaborazioniste che avevano costituito fino allora un elemento non secondario degli equilibri politici giolittiani: uno dei motivi della scissione di Reggio Emilia fu l'atteggiamento non pregiudizialmente contrario all'impresa libica assunto da Bissolati e Bonomi.

Il "patto Gentiloni"

Altri elementi di novità nel sistema politico furono apportati dalle elezioni del novembre 1913, le prime a suffragio universale maschile. Nell'imminenza delle elezioni, il conte Ottorino Gentiloni, presidente dell'Unione elettorale cattolica, invitò i militanti ad appoggiare quei candidati liberali che si impegnassero, una volta eletti, a rispettare un programma in cui erano previsti fra l'altro la tutela dell'insegnamento privato, l'opposizione al divorzio, il riconoscimento delle organizzazioni sindacali cattoliche. Moltissimi candidati liberali accettarono segretamente di sottoscrivere questi impegni, spinti dall'esigenza di assicurarsi i suffragi di un elettorato di massa. Anche grazie a questi accordi, le elezioni del 1913 non ebbero effetti sconvolgenti sugli equilibri parlamentari. Ma si configurò una maggioranza più eterogenea e divisa che in passato, rendendo la mediazione giolittiana sempre più problematica.

La fine del giolittismo

Nel maggio 1914 Giolitti rassegnò le dimissioni, indicando al re come suo successore Antonio Salandra, leader della destra liberale. Come aveva già fatto in passato, Giolitti incoraggiò dunque un'esperienza di governo conservatore con la prospettiva di lasciarla logorare rapidamente e di tornare poi al potere a capo di un ministero orientato a sinistra. Ma la situazione era molto cambiata dopo la guerra di Libia.
Un sintomo evidente del nuovo clima fu la cosiddetta "settimana rossa" del giugno 1914. L'uccisione di tre dimostranti durante una manifestazione antimilitarista ad Ancona provocò un'ondata di scioperi in tutto il paese.
Nelle Marche e in Romagna la protesta assunse un carattere apertamente insurrezionale: vi furono assalti a edifici pubblici e atti di sabotaggio contro le linee telegrafiche e ferroviarie. Priva di qualsiasi sbocco concreto, non appoggiata dalla Cgl e fronteggiata con decisione dal governo, l'agitazione si esaurì in pochi giorni. L'unico risultato fu quello di rafforzare le tendenze conservatrici in seno alla classe dirigente, di dare spazio ai nazionalisti e di accentuare le fratture all'interno del movimento operaio. Di li a poco la Grande Guerra avrebbe reso irreversibile la crisi del giolittismo e messo in luce la debolezza di una linea politica che aveva avuto il merito innegabile di favorire la democratizzazione della società, incoraggiando al tempo stesso lo sviluppo economico: questa linea politica, tutta fondata sulla mediazione parlamentare, si rivelava inadeguata a fronteggiare le tensioni sprigionate dalla nascente società di massa.

 

 

 

 

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