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GUERRE DI RELIGIONE E NUOVI ASSETTI GEOPOLITICI
Nel periodo compreso tra gli anni '70 del XVI secolo e il 1648, l'Europa fu
insanguinata da una serie ininterrotta di guerre di religione, che coinvolsero
la maggior parte degli Stati.
Alla lotta religiosa tra cattolici e protestanti si intrecciò il mai sopito
conflitto per il predominio sul continente tra gli Asburgo (che regnavano sulla
Spagna e sull'Impero) e la Francia. Attorno alle due principali potenze gli
schieramenti si definirono anche in base agli orientamenti religiosi: i paesi
cattolici a sostegno degli Asburgo, quelli protestanti con la Francia.
La drammatica stagione delle guerre di religione si concluse solo nel 1648 con
la pace di Vestfalia: grazie a essa, gli Stati europei riuscirono a
trovare una situazione di equilibrio religioso destinata a restare immutata,
nelle grandi linee, fino ai giorni nostri.
Con essa tramontò definitivamente il sogno degli Asburgo di unificare l'Europa
sotto il vessillo della religione cattolica. Mentre l'Impero si frammentava, la
Francia si imponeva come la principale potenza europea.
Le guerre di religione in Francia
Dopo la morte di Francesco II (1559-60), un ragazzo di quindici anni che la
ragion di Stato aveva fatto sposare, un anno prima, con Maria Stuart, futura
regina di Scozia, fu incoronato re di Francia Carlo IX (1560-74), un bambino di
dieci anni.
La reggenza passò quindi nelle mani della madre Caterina dei Medici, discendente
dalla grande famiglia fiorentina per parte di padre e dalla più alta nobiltà
francese per parte materna.
Verso la guerra civile tra cattolici e ugonotti
La situazione che la reggente si trovò ad affrontare era molto difficile: ai
problemi economici e finanziari, determinati da circa mezzo secolo di guerre, si
aggiungeva il dissidio religioso. Malgrado i provvedimenti repressivi adottati
da Enrico II appena salito al trono, gli ugonotti – così venivano chiamati i
calvinisti francesi – avevano continuato a fare proseliti e, intorno al 1560
circa, oltre un milione di francesi era diventato calvinista.
Le spaccature religiose avevano inoltre un loro riflesso presso la nobiltà di
corte: alla fazione cattolica, guidata dalla famiglia dei Guisa, si
contrapponeva una fazione protestante, che faceva capo ai Coligny.
L'influenza di queste potenti famiglie cresceva anche in conseguenza della
ripetuta ascesa al trono di sovrani giovanissimi e a causa del temperamento
insicuro di Caterina. La reggente, che cercava di non cadere nelle mani di
nessuna delle due fazioni – ma temeva in particolare i Guisa, che avrebbero
voluto portare la Francia nell'orbita della cattolica Spagna – decise di avviare
una politica di pacificazione religiosa, garantendo una relativa libertà di
culto ai calvinisti.
Il suo progetto falli rapidamente di fronte all'inasprimento dell'odio politico
e religioso.
Gli ugonotti infatti – appoggiati dall'Inghilterra e dai protestanti dei Paesi
Bassi, come i cattolici erano appoggiati dalla Spagna – erano molto inferiori di
numero, ma meglio organizzati. Nei territori e nelle città da loro controllate
assumevano tutte le funzioni di governo, senza lasciare spazio agli avversari;
laddove erano in minoranza cercavano comunque di piazzare loro uomini
nell'amministrazione, creando una rete di funzionari ugonotti tra loro
collegati.
Ugonotti e cattolici sul territorio francese
Nel 1562 i Guisa, sventato un tentativo di colpo di Stato da parte degli
ugonotti, presero le armi e ne uccisero un gran numero.
La congiura fallita e questo episodio, noto come il massacro di Vassy, diedero
inizio a una lunga serie di guerre civili che portò la Francia sull'orlo del
baratro.
Invano la reggente cercò di porsi come mediatrice tra i contendenti.
Il 24 agosto del 1572, la notte di San Bartolomeo, il popolo di Parigi,
accanitamente antiprotestante, sobillato dalle autorità e dal duca di Angiò – il
futuro Enrico III –, scatenò una feroce caccia all'uomo, casa per casa: migliaia
di ugonotti convenuti per una cerimonia, tra cui molti nobili, furono trucidati.
Lo stesso capo della parte ugonotta, ammiraglio di Coligny, fu ucciso a
tradimento.
I riflessi delle tensioni sulla monarchia francese
La morte di Carlo IX e l'ascesa al trono di suo fratello Enrico III (1574-89)
non mutarono la situazione, anzi la aggravarono.
La fazione protestante si riorganizzò sotto la guida di Enrico di Borbone,
ottenendo alcuni importanti successi militari; quella cattolica, sotto la
direzione di Enrico di Guisa, si costituì in una Lega santa.
Le vicende internazionali, intanto, incidevano sempre più sulla situazione
interna francese: i Guisa strinsero rapporti strettissimi con la monarchia
spagnola, che prevedevano addirittura l'eventualità di un intervento militare
spagnolo in territorio francese.
Nel 1588, il disastro della Invincibile Armata nelle acque della Manica indusse
Enrico III a fare assassinare Enrico di Guisa e ad allearsi con Enrico di
Borbone. Il pugnale di un frate domenicano, allora, vendicò questo affronto
recato alla causa cattolica e ferì a morte il re, ma, prima di morire, Enrico
III designò come successore Enrico di Borbone, con la condizione che egli si
convertisse al cattolicesimo.
Il Borbone salì al trono col nome di Enrico IV (1589-1610).
A questo punto Filippo II, allarmato per il fatto che la corona di Francia
sembrava caduta nelle mani dei protestanti, decise l'intervento militare, mentre
il pontefice Sisto V (1585-90) dichiarava nulla la successione al trono
francese.
Un esercito spagnolo comandato da Alessandro Farnese mosse dai Paesi Bassi
unendosi alle forze cattoliche della Lega santa e pose guarnigioni in molte
città francesi, tra le quali Parigi. La reazione popolare all'invasione
straniera, il timore che la corona di Francia cadesse nelle mani degli spagnoli
e l'abilità di Enrico IV riuscirono tuttavia a incrinare la compattezza dello
schieramento cattolico e a ristabilire la situazione.
La svolta avvenne quando, nel 1593, il re pronunciò solennemente, nella
cattedrale di Saint-Denis, l'abiura del calvinismo e si proclamò cattolico.
Le ultime resistenze caddero e lo stesso papa Clemente VIII (1592-1605) finì per
assolvere il re di Francia riconoscendo i suoi diritti al trono.
Una soluzione di compromesso con l'editto di Nantes
Nel 1598 Francia e Spagna firmarono la pace di Vervins, con la quale le
truppe spagnole si ritirarono dal paese.
La pacificazione interna fu finalmente raggiunta lo stesso anno, con l'editto di
Nantes: gli ugonotti si videro riconosciuti gli stessi diritti politici dei
cattolici e piena libertà di praticare il loro culto dove era stato celebrato
fino a quel momento; essi ottennero anche l'accesso alle cariche pubbliche e la
partecipazione agli organi preposti all'applicazione dell'editto e, come
ulteriore garanzia, la concessione di 100 piazzeforti nel paese.
Il culto protestante fu invece vietato a Parigi e nel territorio circostante.
Era una soluzione di compromesso, che accontentava moderatamente le due fazioni
e consentiva di superare la drammatica fase delle guerre di religione.
La monarchia, che aveva attraversato uno dei periodi più bui della sua storia,
uscì rafforzata, trovando un rinnovato consenso.
La politica di Enrico IV
Chiusa con l'editto di Nantes la sanguinosa serie delle guerre di religione,
Enrico IV si dedicò alla riorganizzazione della macchina statale e al
perfezionamento dell'opera di pacificazione.
Il suo ministro per gli affari economici, duca di Sully, portò in pareggio il
bilancio dello Stato attraverso il taglio delle spese superflue, il recupero
delle terre demaniali e l'intensificazione della vendita delle cariche
pubbliche, un affare reso più lucroso dall'istituzione della paulette,
una speciale tassa annuale che rendeva di fatto ereditari gli uffici acquistati.
Le cariche comportavano l'acquisizione della nobiltà, la nobiltà di toga
distinta dall'antica nobiltà di spada.
Un altro ministro di Enrico IV, Barthélemy Laffemas, promosse l'istituzione di
manifatture regie e introdusse misure protezionistiche per impedire che la
Francia si privasse di materie prime e di metalli preziosi per importare
manufatti.
Nel settore della politica estera il re indirizzò i suoi sforzi a isolare la
potenza asburgica, sollecitando l'alleanza delle Province Unite e dei regni
dell'Europa settentrionale.
Le tensioni religiose nell'Impero asburgico
La Germania era da sempre una realtà politica estremamente frazionata: circa mille unità politicamente semiautonome, le più piccole delle dimensioni di un villaggio, le maggiori estese quanto uno Stato di media grandezza.
La Germania dopo la pace di Augusta
La pace di Augusta (1555) aveva aggiunto a questa frammentazione politica una
frammentazione religiosa; infatti, il riconoscimento del diritto dei principi
tedeschi d'imporre il proprio credo nei rispettivi Stati non attenuò le gravi
tensioni che laceravano il paese; la pace di Augusta, inoltre, era stata
sostanzialmente un accordo tra cattolici e luterani, dal quale erano stati
esclusi i calvinisti e le altre minoranze religiose.
Sebbene i due imperatori Ferdinando I (1556-64) e Massimiliano II (1564-76) si
astenessero dal promuovere controffensive cattoliche, di fatto i principi
cattolici, con in testa il potente duca di Baviera, sostennero campagne di
"riconquista" delle regioni luterane o dove esistevano significative
infiltrazioni protestanti.
In campo protestante si rafforzò il calvinismo, che divenne la religione
ufficiale del Palatinato. Questa situazione certamente non favori la vita
economica, che si trovò imbrigliata in una dimensione regionale.
L'annessione di Boemia e Ungheria
Inoltre, dopo la grave sconfitta inflitta a Luigi II Jagellone, re di Boemia
e di Ungeria, dai turchi a Mohàcs nel 1526, e la morte dello stesso Luigi in
battaglia, i domini boemi e ungheresi erano passati sotto l'autorità degli
Asburgo. La Boemia era stata incorporata nell'Impero, mentre in Ungheria solo
poche aree ristrette rimasero immuni dall'occupazione turca.
Dal punto di vista confessionale, la Boemia rimase fedele alla grande tradizione
hussita; anche il luteranesimo fu accolto favorevolmente, mentre i cattolici
restavano un'esigua minoranza. Nell'Ungheria turca, poi, attecchirono in
evidente chiave antiasburgica sia il luteranesimo sia il calvinismo.
L'aggravamento del dissidio religioso
Con l'imperatore Rodolfo II (1576-1612) si riaccese il conflitto religioso.
Nel 1608 il principe del Palatinato promosse un'associazione protestante,
l'Unione evangelica, appoggiata dalla Francia di Enrico IV, alla quale aderirono
anche le forze anticattoliche boeme; come risposta, il duca di Baviera costituì
l'anno dopo la Lega cattolica, sostenuta dalla Spagna.
Rodolfo II adottò una politica di conciliazione e concesse anche ai boemi, con
la Lettera di maestà, libertà di culto, al fine di spezzare il fronte
dell'Unione evangelica.
La situazione precipitò con l'avvento al potere dell'imperatore Mattia (1612-19)
e l'assunzione, nel 1617, della corona di Boemia e di Ungheria da parte di
Ferdinando di Stiria, suo cugino e successore designato (1619-37). Ferdinando,
che era stato educato dai gesuiti ai più rigorosi ideali della Controriforma,
credeva profondamente, come tanti altri sovrani asburgici prima e dopo di lui,
nella stretta integrazione tra Impero e cattolicesimo. Egli abolì pertanto la
Lettera di maestà e avviò una pesante restaurazione del cattolicesimo in tutta
la Boemia, immettendo al tempo stesso individui di origine tedesca nei posti di
maggiore responsabilità.
Scoppia la guerra dei Trent'anni
Le origini del conflitto
La protesta contro l'ondata di «tedeschizzazione» e di cattolicizzazione,
lanciata da Ferdinando di Stiria e appoggiata dall'imperatore, fu vastissima e
assunse forme violente: il 23 maggio del 1618 la folla tumultuante invase il
palazzo reale di Praga e gettò dalla finestra due rappresentanti imperiali.
Alla cosiddetta defenestrazione di Praga seguirono avvenimenti ancora più gravi:
la nobiltà boema dichiarò decaduto dal trono di Boemia Ferdinando – che nel
frattempo era succeduto a Mattia nella carica imperiale, come Ferdinando II – e
proclamò re il calvinista Federico V, giovane elettore del Palatinato e capo
dell'Unione evangelica; Federico era sostenuto – ma in verità più a parole che
con i fatti – da una vasta rete di relazioni: dal re d'Inghilterra Giacomo I (di
cui era genero), dal re di Danimarca Cristiano IV (di cui era parente), dalle
Province Unite, da Venezia.
A favore dell'imperatore si schierò naturalmente la Lega cattolica, guidata dal
duca Massimiliano di Baviera e sostenuta concretamente dalla Spagna.
La Francia si mantenne, per il momento, neutrale.
La questione boema divenne così la posta di un gioco ben più importante – il predominio cattolico o protestante nell'Impero – rispetto al quale nessuna potenza europea poteva dirsi del tutto indifferente.
Fu così che un contrasto locale divenne l'avvio di una nuova guerra, destinata a insanguinare l'Europa per trent'anni, dal 1618 al 1648.
La natura del conflitto
Durante la guerra dei Trent'anni cattolici e protestanti si affrontarono in
un conflitto violento che si combatté in tutta la Germania, ma si allargò presto
a gran parte dell'Europa: teatro di battaglia fu in prima battuta la Boemia,
dove il conflitto scoppiò – come si leggerà nelle righe seguenti –, ma in
seguito si combatté anche nei Paesi Bassi, nell'Italia settentrionale, in
Francia.
Questa guerra, che coinvolse molti Stati europei, fu l'ultima guerra di
religione, ma a determinarla concorse un intreccio di questioni politiche e
questioni religiose.
In primo luogo pesarono le ambizioni egemoniche degli Asburgo che si
scontreranno duramente con quelle francesi. Infatti, la pur cattolica Francia,
interverrà nella guerra in funzione antiasburgica (e dunque anche antispagnola),
senza disdegnare di allearsi con i protestanti.
La guerra in Boemia
In nome dell'antica solidarietà asburgica e della comune confessione
cattolica, nel 1620 Ferdinando II fu soccorso da un poderoso esercito spagnolo:
soldati iberici, uniti alle truppe bavaresi, sotto la guida di Massimiliano di
Baviera e del generale fiammingo Tilly, sconfissero i rivoltosi boemi nella
battaglia della Montagna Bianca (nei pressi di Praga). Il fronte dei ribelli si
disgregò rapidamente: Federico V non si curò nemmeno di organizzare la difesa
della capitale e si diede alla fuga, abbandonando i suoi sostenitori a un triste
destino.
Dopo la battaglia della Montagna Bianca si scatenò, in Boemia, un'azione
capillare di sradicamento delle «eresie»: in pochi anni tutti i pastori
protestanti furono espulsi. I nobili maggiormente coinvolti nella rivolta furono
giustiziati, gli altri furono colpiti da ammende e confische. Per non
sottomettersi al cattolicesimo, molti boemi abbandonarono il loro paese. Secondo
una fonte dell'epoca, già nel 1627 erano emigrate circa 36 mila famiglie.
Le terre confiscate all'aristocrazia protestante furono assegnate agli stranieri
– soprattutto tedeschi, spagnoli, italiani – che erano giunti in Boemia come
ufficiali e generali al seguito degli Asburgo.
I nuovi proprietari applicarono ai loro contadini condizioni e rapporti di
lavoro molto duri, che segnarono un ritorno indietro nel tempo; ne nacquero
miseria e rivolte.
I principali scontri
Le manovre spagnole
Nel quadro delle operazioni militari di sostegno a Ferdinando II contro i ribelli boemi, gli spagnoli occuparono la Valtellina, nel cantone svizzero dei Grigioni, dopo aver sobillato i cattolici della regione al massacro dei protestanti (Sacro macello, 1620). La regione aveva una rilevanza strategica fondamentale perché rappresentava il corridoio di collegamento tra la Lombardia spagnola e l'Austria, cuore dei domini asburgici, e avrebbe consentito alla Spagna, che allo scadere della tregua dei dodici anni aveva riaperto le ostilità contro le Province Unite, di stringere gli olandesi in una morsa, attaccandoli da est (Impero) e da sud (Fiandre cattoliche).
L'intervento della Danimarca
Il successo di Ferdinando II, combinato con l'aggressività della politica
estera spagnola, spinse all'azione, nel 1625, il sovrano di Danimarca Cristiano
IV (1588-1648), il quale temeva che il suo regno venisse assorbito da un Impero
troppo forte.
La sua impresa fu ben finanziata da inglesi, francesi e olandesi, ma fallì
rapidamente: più volte sconfitto, Cristiano IV fu costretto a firmare, nel 1629,
la pace di Lubecca, che lo impegnava a tenere la Danimarca al di fuori delle
vicende tedesche.
La guerra di Boemia – con la sua propaggine danese – poteva dirsi risolta con un
limpido successo di Ferdinando II.
Progetti politici e potenza militare di Ferdinando II
Il disegno politico dell'imperatore. L'editto di restituzione
Nel 1629 l'imperatore Ferdinando II compi un passo molto grave.
Con il cosiddetto editto di restituzione stabilì infatti che tutti i beni
confiscati alla Chiesa cattolica dopo l'anno 1552 dovessero essere restituiti.
La decisione ledeva gli interessi di molti principi tedeschi che si vedevano
improvvisamente privati di parti a volte molto consistenti dei loro patrimoni.
L'imperatore aveva in animo di trasformare l'Impero in una compagine unitaria,
forte e accentrata. Né nascondeva, inoltre, la sua intenzione di introdurre una
trasformazione rivoluzionaria nell'ordinamento dell'Impero, rendendo ereditaria
– a favore della dinastia asburgica – la corona imperiale, che ormai da tempo
immemorabile veniva attribuita elettivamente.
Il ruolo di Wallenstein
Non mancava infine a Ferdinando II, a incutere altro timore, un esercito
agguerrito: si trattava soprattutto delle truppe di Albrecht von Wallenstein
(1583-1634), un nobile boemo uscito vincitore dalla guerra danese.
Wallenstein aveva creato le basi di un enorme patrimonio acquistando a prezzi
bassissimi le terre confiscate ai ribelli boemi. Speculazioni, prestiti,
investimenti lo avevano poi reso uno degli uomini più ricchi del tempo.
Ambizioso, cinico, crudele egli puntava molto in alto: in cambio dei suoi
preziosi servizi l'imperatore lo nominò principe dell'Impero e gli attribuì le
cariche più prestigiose; ma non erano soltanto dei maligni quelli che
affermavano che egli aspirava a diventare un vero e proprio sovrano, magari
soppiantando lo stesso Ferdinando.
Wallenstein fece della guerra un'inesauribile fonte di denaro. Ai suoi ordini
era un esercito gigantesco, che nei momenti di maggiore impiego superò i 100
mila uomini. Le prestazioni di questa poderosa macchina militare venivano
vendute a caro prezzo all'imperatore; in mancanza di liquidità, quest'ultimo
trovava nello stesso Wallenstein una preziosa fonte di finanziamento, alla
quale, naturalmente, bisognava poi pagare i dovuti interessi.
Con Wallenstein la guerra divenne una vera e propria impresa economica in grande
stile: tutto quanto ruotava intorno all'esercito e alle sue necessità – dai
rifornimenti alla produzione di armi – era occasione di lucro.
I soldati di Wallenstein venivano solitamente mantenuti a spese del territorio
che attraversavano, mediante contribuzioni imposte, alle quali si aggiungevano
rapine, saccheggi, requisizioni: questo metodo, messo sistematicamente in atto
per anni e anni, fece di loro un vero e proprio flagello per le popolazioni
tedesche.
Dopo la morte di Wallenstein, sopraggiunta nel 1634, Ferdinando II proseguì il
conflitto con gli eserciti spagnoli.
L'intervento della Svezia
La reazione alle mire espansionistiche di Ferdinando II
La politica di potenza di Ferdinando II allarmò anche il re di Svezia Gustavo
Adolfo (1611-32), che decise di far ricorso alle armi: la Svezia era uno Stato
protestante che doveva essere difeso, prima che fosse troppo tardi, dalle
insidie dell'imperatore asburgico e dalle sue mire di restaurazione cattolica.
La Svezia era anche una grande potenza nordica, per la cui sopravvivenza il
controllo del Mar Baltico – una delle zone chiave dell'economia europea – era
vitale.
Attraverso il Baltico l'Europa occidentale si approvvigionava, infatti, di grano
e materie prime come il rame, il ferro, il catrame, la canapa, ed esportava nel
Nord Europa i suoi manufatti. L'imperatore asburgico non nascondeva le sue
intenzioni di estendere la sua diretta influenza anche sulle rive di quel mare e
di costruire una potente flotta da guerra baltica.
La decisione del re di Svezia fu quindi motivata da esigenze strategiche. Il re
si assicurò così la disponibilità della Francia e degli elettori protestanti di
Sassonia e di Brandeburgo, indignati per le efferatezze – un vero e proprio
sterminio – compiute dai cattolici nella città di Magdeburgo. Quindi portò i
suoi soldati in Germania e nel 1631 sconfisse a Breitenfeld (nei pressi di
Lipsia) le truppe della Lega cattolica comandate da Tilly.
L'avanzata svedese in territorio tedesco fu inarrestabile e di successo in
successo si spinse fino alla Baviera e all'Alsazia.
L'esercito di Gustavo Adolfo
La travolgente apparizione dei soldati svedesi nel teatro di guerra germanico
ebbe l'effetto di uno shock: non si era mai vista una macchina militare tanto
moderna e micidiale.
Gustavo Adolfo aveva infatti introdotto alcune innovazioni belliche destinate a
fare scuola in tutta Europa. Anzitutto l'artiglieria: grazie ai progressi nelle
tecniche di fusione, che consentivano leghe più leggere e resistenti, egli
sostituì i vecchi cannoni, pesantissimi e praticamente inamovibili nel corso del
combattimento, con cannoni molto più maneggevoli, che non era difficile spostare
e orientare a seconda delle mutevoli necessità dello scontro.
La seconda innovazione riguardava la cavalleria, che venne addestrata per
effettuare cariche in massa a sciabola puntata e a ranghi serrati, con un
micidiale effetto d'urto.
La terza innovazione riguardava l'importanza attribuita ai fucilieri, dotati di
un moschetto leggero e addestrati al tiro di precisione e a ricaricare le armi
rapidamente.
L'ultima e decisiva innovazione riguardò la cooperazione di queste tre armi sul
campo di battaglia. La grande efficienza di questo esercito aveva una
spiegazione più profonda: l'esercito svedese era costituito da truppe regolari a
lunga ferma; mentre gli altri eserciti europei erano spesso composti in gran
parte da individui ridotti alla miseria e raccolti in modo casuale tra gli
sbandati e gli emarginati, quello svedese era composto da elementi regolarmente
pagati e mantenuti dallo Stato, che restavano sotto le armi per venti anni.
La vittoria asburgica
Nella battaglia di Lützen del 1632 gli svedesi riportarono un'altra vittoria
sull'esercito tedesco guidato da Wallenstein, ma durante una carica di
cavalleria Gustavo Adolfo perse la vita.
Sul trono svedese saliva una bambina, la regina Cristina (1632-54).
In questa occasione Ferdinando II fu salvato dalla fortuna: la morte del suo
rivale gli regalò tempo prezioso per riprendere fiato e riorganizzare la lotta
contro gli svedesi. L'imperatore fece uccidere a tradimento il potente e temuto
Wallenstein, che secondo l'opinione dei più mirava a soppiantarlo, e affidò le
sue sorti agli eserciti spagnoli. Ancora una volta la solidarietà asburgica tra
Spagna e Impero fu la carta vincente: nel 1634 le truppe svedesi furono
duramente sconfitte da quelle spagnole a Nördlingen
(in Franconia). L'imperatore era salvo.
L'anno dopo la pace di Praga sancì la fine delle ostilità all'interno
dell'Impero: gli elettori protestanti si riconciliarono con l'imperatore
ottenendo in cambio che l'applicazione dell'editto di restituzione fosse
rinviata di quarant'anni. Restava però aperta la guerra con la Svezia.
L'intervento della Francia
Il disegno politico della Francia
L'imperatore era uscito indenne dalla lotta contro la Svezia e il suo
prestigio si manteneva sempre altissimo.
Per le altre potenze europee restava quindi intatta la minaccia dell'ambizioso
progetto di Ferdinando II: la trasformazione dell'Impero in una compagine
unitaria, forte e accentrata.
Per scongiurare questa eventualità, il re di Francia Luigi XIII e il suo primo
ministro, cardinale di Richelieu, decisero di intervenire direttamente in
guerra.
In questa fase della guerra dei Trent'anni, dunque, le ragioni dell'egemonia in
Europa prevalsero decisamente su quelle della lotta religiosa: così Richelieu,
cardinale e ministro di un re cattolico, usciva apertamente in campo come il
maggior rivale dell'imperatore e del re di Spagna, paladini della Controriforma;
in seguito egli non avrebbe esitato, come già in passato, ad allearsi con le
forze protestanti di Germania.
Le operazioni militari della Francia si diressero principalmente contro la Spagna, che finì per trovarsi impegnata su ben tre fronti: in Germania, a sostegno delle truppe imperiali; nei Paesi Bassi, dove era sempre aperta la guerra contro le Province Unite; contro la Francia.
La Spagna sull'orlo del collasso
La Spagna non era in grado di reggere questo sforzo immane: le condizioni
economiche del paese, già da tempo gravemente deteriorate, si erano
ulteriormente aggravate a causa di un fiscalismo oneroso e inflessibile, che
richiedeva alle popolazioni immiserite sforzi eccessivi per mantenere al
fronte eserciti che erano solo il pallido ricordo di quelli che solo alcuni
decenni prima avevano trionfato in tutta Europa.
La crisi economica inasprì le tensioni politiche e attivò le forze
centrifughe: nel 1640 la Catalogna e il Portogallo proclamarono l'indipendenza
dalla monarchia spagnola, che si trovò così a dover fronteggiare anche una
gravissima rivolta interna, abilmente sostenuta da Richelieu.
Quest'ultimo morì nel 1642, ma la sua politica estera fu proseguita dal
successore, il cardinale Mazzarino.
Nel 1643 la fanteria spagnola subì una pesante sconfitta a Rocroi, nelle
Ardenne, da parte delle truppe francesi guidate dal principe di Condé. A
Rocroi i formidabili fanti spagnoli, la cui fama di imbattibilità durava da
decenni, crollarono di fronte a un esercito agguerrito e ben addestrato. La
tecnologia e la tattica militare si evolvevano rapidamente e le innovazioni
passavano con rapidità da un esercito all'altro: agenti, informatori, studiosi
di cose militari operavano tutti in questo senso. In un mondo in cui l'arte
militare diventava sempre più una faccenda da grandi professionisti, la
Francia aveva fatto passi da gigante.
A Rocroi l'Europa prese anche atto del declino inarrestabile del Regno di
Spagna, un colosso ormai logoro e spento, prossimo a uscire di scena.
La pace tra spagnoli e olandesi e la fine del conflitto
I successi francesi furono tanto travolgenti da allarmare persino le Province
Unite, tradizionali nemiche della Spagna: apparve preferibile, agli olandesi,
l'esistenza di uno Stato-cuscinetto rappresentato dai Paesi Bassi spagnoli –
posto tra loro e la potentissima Francia, piuttosto che l'immediata vicinanza
con quest'ultima. D'altro canto gli stessi, spagnoli si erano ormai convinti che
non sarebbero mai riusciti a domare la rivolta olandese.
La pace separata tra spagnoli e olandesi – che la Francia cercò in tutti i modi,
ma inutilmente, di scongiurare – fu firmata a Münster nel gennaio 1648: con essa
la Spagna riconobbe ufficialmente l'indipendenza delle Province Unite.
Le vicende della guerra si evolvevano negativamente anche per l'imperatore: i
francesi erano penetrati in Baviera e puntavano su Vienna, gli svedesi si erano
impadroniti della Boemia e assediavano Praga. Nel 1648 il successore di
Ferdinando II, Ferdinando III (1637-57), decise opportunamente di porre fine al
conflitto e firmò la pace di Vestfalia, per la quale erano in corso trattative
sin dal 1644.
Tra Spagna e Francia, invece, la guerra continuò.
La pace di Vestfalia
La pace di Vestfalia, che pose fine alla guerra dei Trent'anni, comprendeva un complesso di trattati che furono sottoscritti nell'ottobre 1648 nelle due città di Münster e Osnabrück, in Vestfalia.
La fine delle guerre di religione
La pace segnò il definitivo crollo del progetto politico e religioso
asburgico e la fine delle guerre di religione.
Sotto il profilo religioso l'imperatore dovette rinunciare al sogno di una
Germania tutta cattolica: la pace di Vestfalia riconobbe, anzi, apertamente,
accanto alle confessioni cattolica e luterana (già riconosciute dalla pace di
Augusta del 1555), l'esistenza di una terza confessione, la calvinista.
Queste decisioni consentivano la convivenza delle confessioni, ma non
significavano che la libertà religiosa fosse riconosciuta pubblicamente. La
religione pubblica dei singoli Stati rimaneva infatti quella stabilita dal
principe entro il 1624 (ma per il Palatinato si fissò il 1618), mentre ai
sudditi di altra confessione era concesso di praticare privatamente i propri
culti. Si trattava certamente di uno svuotamento del principio del cuius
regio eius religio anche se il nuovo regime non si applicò nei territori
ereditari degli Asburgo.
L'imperatore rinunciò infine a rivendicare le proprietà confiscate dai
protestanti ai cattolici dopo il 1552 (anno fissato dall'editto di restituzione)
e accettò lo spostamento di tale limite al 1624.
Dissoluzione del potere imperiale in Germania
Sotto il profilo politico, la Germania si ritrovò ancora smembrata in una
miriade di piccoli stati, a ognuno dei quali fu concessa un'autonomia quasi
assoluta; i principi tedeschi potevano addirittura svolgere una politica estera
indipendente.
Più che una realtà politica, l'Impero era ormai una finzione.
Gli Asburgo si trovarono di fatto in condizione di poter esercitare la propria
autorità esclusivamente sui domini ereditari di Austria, Boemia e Ungheria. Di
qui il loro orientamento a rivolgere il proprio interesse politico verso sud
(Italia) ed est (Balcani), tanto più in quanto nella seconda metà del secolo si
riaffacciò la minaccia turca.
In riconoscimento dei loro successi, Francia e Svezia ottennero alcuni
territori.
La prima acquisì definitivamente le città lorenesi di Metz, Toul e Verdun (che
deteneva dal 1559), insieme con quasi tutta l'Alsazia.
La seconda una serie di possedimenti alle foci dell'Elba, del Weser e dell'Oder,
che resero incontrastato il suo dominio nel Baltico.
Tra i principati tedeschi importanti acquisizioni ottenne la Prussia-Brandeburgo,
futura potenza europea di prima grandezza, che incorporò la Pomerania orientale.
Ma la trionfatrice della guerra dei Trent'anni fu la Francia che, con il definitivo indebolimento dell'Impero – e il successo sulla Spagna sancito dalla pace dei Pirenei del 1659 –, raggiungeva un'incontrastata egemonia continentale. Un'egemonia destinata a durare fino al 1871 quando, in seguito alla vittoria della Prussia sulla Francia, si costituirà l'Impero tedesco.
Le conseguenze del conflitto
La guerra dei Trent'anni fu quindi un avvenimento di eccezionale importanza
perché con essa si concluse la lunga e drammatica fase delle guerre di
religione: gli Stati europei trovarono un loro equilibrio religioso destinato a
restare immutato, nelle grandi linee, fino ai nostri giorni.
Le conseguenze immediate del conflitto furono però terribili.
Dall'epoca delle invasioni barbariche nessun evento bellico aveva infatti
provocato tanti disastri e all'indomani della pace di Vestfalia molte regioni
europee sembravano essere state attraversate da un cataclisma. Le finanze degli
Stati belligeranti erano esauste per il lungo e massiccio sforzo militare e i
contribuenti erano ridotti allo stremo. Le truppe di passaggio, infatti, oltre a
essere mantenute a spese del territorio che attraversavano, mediante
contribuzioni imposte, compivano anche rapine, saccheggi, requisizioni: questo
metodo, messo sistematicamente in atto per anni e anni, fece di loro un vero e
proprio flagello per le popolazioni tedesche.
Tra le conseguenze consuete della guerra c'era anche la diffusione delle
epidemie.
La peste nera ebbe una nuova recrudescenza, perché di regione in regione, di
città in città i soldati lasciavano una scia di contagio. Agli spostamenti delle
truppe bisogna aggiungere quelli provocati dal timore che il loro arrivo
suscitava nella popolazione: all'approssimarsi degli eserciti i contadini
fuggivano e si accalcavano nelle città; qui, nell'affollamento e nella
promiscuità, prosperavano le infezioni.
Non si trattava soltanto della peste e degli altri morbi conosciuti ormai da
secoli, ma anche di nuovi agenti patogeni, insidiosi e micidiali: è questa
l'epoca in cui si diffonde la sifilide, detta «mal francese», ma anche
«spagnolo», «napoletano» o «germanico», dal momento che nessun paese intendeva
assumersi la responsabilità di una malattia (probabilmente proveniente
dall'America) considerata vergognosa e degradante.
Ai vecchi nemici se ne aggiungevano dunque di nuovi, contro i quali l'umanità
era altrettanto impotente.
Il Regno di Russia
Michele Romanov
Mentre nel cuore dell'Europa centro-occidentale infuriavano i conflitti
religiosi, a est il Regno di Russia attraversava una delicata transizione
politica.
Dopo la morte di Ivan IV detto il Terribile, nel 1584, il paese aveva vissuto
infatti un convulso periodo di eventi torbidi, che lo gettarono nello
scompiglio: congiure di palazzo, usurpatori, lotte tra i boiari (l'alta
aristocrazia) e la nobiltà di servizio (legata allo zar), sembrarono distruggere
l'operato dello zar appena defunto.
L'autorità dello Stato fu ricostruita tuttavia da Michele Romanov, che regnò tra
il 1613 e il 1645, mentre si consumava la guerra dei Trent'anni. Michele Romanov
fu il fondatore di una dinastia che avrebbe regnato in Russia fino alla
rivoluzione bolscevica (1917).
L'eredità lasciata da Ivan IV il Terribile
Il Regno di Russia era una compagine dalle dimensioni immense, nella quale
per iniziativa di Ivan IV (1547-1584) era stato intrapreso il processo di
riforma dello Stato. La vasta opera di riforma era stata concentrata sulla
giurisprudenza, l'esercito, l'amministrazione locale e aveva portato al
rafforzamento dell'autorità centrale e a un ridimensionamento del potere dei
boiari.
Il territorio del Regno era stato diviso in due parti: i territori situati
intorno a Mosca e nelle regioni centrali del Regno facevano parte della cosiddetta
opričnina, posta alle dirette
dipendenze del sovrano; i territori rimanenti, che costituivano la zemščina,
erano rimasti invece sotto l'amministrazione della Duma, il Consiglio dei
boiari. Questi ultimi erano stati privati dei loro possedimenti nella opričnina,
in cambio dei quali avevano ricevuto terre nelle regioni periferiche, dove non
avevano forza le tradizioni feudali. Contro i boiari, lo zar aveva creato anche
una autorevole nobiltà di servizio, a lui legata da vincoli di fedeltà, alla
quale conferì terre e privilegi.
Inoltre, tra il 1564 e il 1572 circa 4000 boiari furono giustiziati con l'accusa
di tradimento. I sopravvissuti vissero nel terrore. In conseguenza di queste
stragi, Ivan ricevette quel soprannome di "Terribile" con cui è passato alla
storia.
Durante il regno di Ivan IV i confini dello Stato russo furono estesi lungo
tutto il corso del Volga — un'arteria commerciale di fondamentale importanza —,
nel Caucaso, in Asia centrale, in Siberia. Il territorio russo divenne talmente
imponente da apparire come un vero e proprio impero.
Meno fortunata era stata però l'espansione militare russa verso il Baltico: su
questo versante i soldati di Ivan avevano incontrato una fortissima resistenza
svedese e polacca.
Le condizioni sociali dei contadini russi erano rimaste invece quelle tipiche di
quasi tutte le campagne dell'Est europeo: miseria e asservimento ne erano i
tratti distintivi e le riforme di Ivan IV non avevano per nulla mutato questo
stato di cose.
Tanto la nuova nobiltà di servizio quanto la vecchia nobiltà dei boiari erano
riusciti a imporre ai contadini prestazioni di lavoro sempre più pesanti. In
Russia come in Polonia, le immense distese a est dell'Elba erano dunque il regno
della servitù della gleba.
FORME DI GOVERNO MODERNE NELL'ETÀ DELL'ASSOLUTISMO
Lo Stato moderno e lo sviluppo delle monarchie assolute
Nel corso del '600 si avviò una fase decisiva di quel processo di rafforzamento dello Stato ormai in atto da due secoli. Lo Stato moderno, che si costituì in questo periodo, era un'organizzazione politica accentrata e assoluta e la sua formazione è segnata dalla progressiva accentuazione di questi due caratteri basilari.
Esercito e fiscalità
Gli storici sostanzialmente concordano nell'individuare nei conflitti fra le
monarchie e nelle conseguenti necessità militari l'impulso iniziale che mise in
moto la trasformazione delle istituzioni politiche.
L'esigenza di disporre di un esercito permanente rese necessario un flusso
costante di entrate, che solo un'estesa fiscalità poteva assicurare e che solo
un'amministrazione ben organizzata poteva controllare. Contemporaneamente gli
Stati si dotarono di apparati coercitivi, e dunque di istituzioni giudiziarie,
indispensabili, fra l'altro, per garantire un'uniformità di applicazione del
prelievo fiscale su tutto il territorio nazionale.
Esercito permanente, fisco, burocrazia e apparati coercitivi definiscono i
contorni di una nuova struttura statale, che si contrappone alla frammentazione
dei poteri di origine feudale. Una struttura accentrata intorno alla figura del
sovrano, che detiene un potere del tutto indipendente e quindi «assoluto» (ossia
sciolto da ogni vincolo).
Accentramento e assolutismo non sono solo le condizioni dell'esercizio del
potere negli Stati moderni, ma rappresentano anche il risultato di un lungo
processo costitutivo.
Caratteri delle monarchie assolute
La formazione dello Stato moderno coincide dunque con lo sviluppo delle
monarchie assolute ed è costantemente accompagnata dalla lotta per il
ridimensionamento politico della nobiltà tradizionale: una lotta che, nelle sue
fasi iniziali, vide le monarchie allearsi ai ceti cittadini e mercantili.
Ma in un periodo successivo anche le città dovranno rinunciare alle loro antiche
«libertà», cedendo alla spinta uniformatrice dello Stato. Se le monarchie
riuscirono nell'intento di ridurre le autonomie politiche, non misero tuttavia
in discussione il sistema dei privilegi fiscali – corrispondente di fatto
all'esenzione dal pagamento delle imposte – di cui godevano i ceti nobiliari e
che costituiva il fondamento della gerarchia sociale. Favorirono invece, in
funzione del consolidamento del proprio potere e come alternativa alla nobiltà,
la creazione, attraverso la vendita delle cariche, di un nuovo ceto burocratico.
La burocrazia dei funzionari – di estrazione borghese e di formazione giuridica
– fu indispensabile all'amministrazione giudiziaria e fiscale.
Il sistema della venalità delle cariche, vendute in sempre maggior numero per
incrementare le entrate, divenne tuttavia un limite all'assolutismo del potere
regio: la sostanziale privatizzazione, che l'ereditarietà istituiva, negava
infatti allo Stato la prerogativa di poter rimuovere o sostituire i funzionari.
In Francia – e più tardi anche in Spagna – questi limiti vennero superati con
l'istituzione delle nuove figure degli intendenti. Ma in generale la venalità
delle cariche rappresentò un'importante via di ascesa sociale per i ceti
borghesi, un'ascesa sociale che si realizzò all'interno della cornice
istituzionale della monarchia assoluta e che costituì, nonostante alcune accese
fasi conflittuali – per esempio, la Fronda parlamentare in Francia –, uno degli
elementi portanti dello Stato moderno.
L'ascesa di questi ceti e il parallelo processo di formazione dello Stato
moderno, con le sue spinte al controllo e al disciplinamento dei vari ceti,
portarono alla diffusione di codici di comportamento che propagarono una vera e
propria «civiltà delle buone maniere».
La riflessione politica: Bodin e la sovranità
Il processo di rafforzamento dello Stato moderno fu, inoltre, accompagnato
dall'elaborazione di nuove teorie sullo Stato che si preoccuparono di definire i
caratteri della sovranità e della ragion di Stato.
Al francese Jean Bodin (1530-1596), autore dei Sei libri della Repubblica
(1576), è dovuta la più chiara e completa trattazione della sovranità, intesa
come «quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato» e che si
manifesta nel «fare e disfare le leggi».
La sovranità, secondo Bodin, è illimitata e indivisibile: il sovrano è colui che
fa e impone le leggi senza essere sottoposto ad alcuna norma o giudizio; egli è
al di sopra delle parti e delle leggi (quindi, legibus solutus,
svincolato dalle leggi), nonché al di sopra di ogni fazione o controversia
religiosa.
Per Bodin, il potere del sovrano è assoluto, ma non arbitrario, e in questo si
distingue dal dispotismo:
«Il principe non è vincolato dalle leggi sue o dei suoi predecessori: ma dai giusti patti e dalle giuste promesse che ha fatto, sia con giuramento sia senza giuramento, così come lo sarebbe un privato. E per le stesse ragioni per cui un privato può essere sciolto da una promessa ingiusta o irragionevole o troppo gravosa, per il fatto di essere stato tratto fuori strada da inganno, frode, errore, violenza, timore motivato o gravissima offesa, il principe può essere esentato da tutto quello che comporta una menomazione della sua maestà, se è principe sovrano. Così si può fissare il principio che il principe non è soggetto alle sue leggi né a quelle dei suoi predecessori, ma lo è aisuoi patti giusti e ragionevoli, soprattutto se essi implicano l'interesse dei sudditi sia come singoli sia in generale».
Il sovrano può derogare alle leggi ordinarie, ma non certo alle leggi divine e naturali. Inoltre:
«Il principe non può derogare a quelle leggi che riguardano la struttura stessa del regno e il suo assetto fondamentale, in quanto esse sono connesse alla corona e a questa inscindibilmente unite (tale è, per esempio, la legge salica, che escludeva le donne dalla successione al trono); qualunque cosa un principe faccia in proposito, il successore è in pieno diritto di abolire tutto ciò che sia stato compiuto con pregiudizio di quelle leggi su cui la stessa maestà sovrana poggia e si fonda».
Botero e la «ragion di Stato»
In ambito italiano e controriformistico nacque, soprattutto con il libro
Della ragion di Stato (1589) di Giovanni Botero (1544- 1617), la
trattatistica sulla «ragion di Stato», cioè su quella che potremmo chiamare la
norma dell'azione politica.
A Botero si deve infatti la formulazione di un linguaggio nuovo, specialistico,
della politica, sganciato da quello filosofico, religioso, morale.
Contro Machiavelli, Botero rivendicava un adeguamento della politica ai dettati
della morale cattolica. Ma presto la «ragion di Stato» si trasformò in
giustificazione e legittimazione dell'operato dello Stato e di ogni tentativo
volto a rafforzarne e a consolidarne la potenza, al cospetto dei suoi sudditi e
degli altri Stati: e con questo significato il concetto sarà impiegato in
seguito.
Giacomo I e il parlamento inglese
Fine della dinastia Tudor e ascesa di Giacomo I
Morta senza eredi Elisabetta I, la dinastia Tudor si estinse e sul trono
d'Inghilterra salì Giacomo I Stuart (1603- 25), figlio di Maria Stuart e re di
Scozia.
Le due corone di Scozia e d'Inghilterra – quest'ultima comprendente anche
l'Irlanda – si trovarono così unite in una sola persona.
Giacomo I propose un programma di forte accentramento monarchico, basato sulla
riaffermazione dell'autorità della Chiesa anglicana – dal punto di vista
gerarchico e liturgico più che dottrinale –, sul prelievo di risorse economiche
attraverso la tassazione, sull'esautorazione degli organismi rappresentativi
tradizionali – la Camera dei Comuni – a vantaggio di esponenti della corte
direttamente legati al sovrano; anche sul piano dell'amministrazione della
giustizia fu notevole la spinta verso la creazione di tribunali regi esenti da
nomine elettive e liberi di ignorare le garanzie accordate ai cittadini dalla
ormai plurisecolare tradizione della Magna Charta.
Sul piano della politica estera, Giacomo I fu incapace di giostrare, come
brillantemente aveva fatto Elisabetta, tra le due grandi potenze continentali,
Francia e Spagna, ma finì per scontentarle entrambe; cosa ancor più grave, la
sua assenza dalla grande scena politica europea non fu funzionale, come nel
primo trentennio del regno di Elisabetta, alla tutela e al rafforzamento su
scala mondiale degli interessi commerciali inglesi: significativo fu, da questo
punto di vista, il declino della collaborazione tra la Corona e le grandi
compagnie commerciali.
Dissenso religioso
Nel suo sforzo di accentramento, Giacomo I non riuscì a creare una solida
struttura burocratica e militare e una sicura base di consenso. I cattolici, che
avevano sperato di trovare in lui – figlio della cattolica e martire Maria
Stuart – il campione della propria riscossa, rimasero delusi fino al punto di
tramare contro la sua persona: famosa fu la cosiddetta congiura delle polveri,
il cui piano – fallito – prevedeva di far saltare in aria il re con tutto il
Parlamento.
Dal canto loro i puritani non accettarono il rilancio della Chiesa anglicana
voluto dal re: essi erano infatti convinti che la vita religiosa dovesse essere
esente da ingerenze dell'autorità civile, tanto più in quanto questa autorità
non godeva del prestigio e della credibilità di Elisabetta.
Ciò comportò una ripresa delle persecuzioni religiose che causò un consistente
flusso migratorio di dissenzienti: tali erano i Padri Pellegrini che, a bordo
della Mayflower, approdarono nel Massachusetts, in Nord America (1620); il loro
esempio sarà seguito da migliaia di inglesi nel ventennio successivo.
Dissenso del Parlamento
Il mondo dell'imprenditoria commerciale, manifatturiera, agricola che non era
composto solo da un forte ceto borghese ma anche da una cospicua frangia della
piccola e media nobiltà – la gentry – si vide danneggiato nei suoi
interessi economici dal fiscalismo e dall'assenteismo in politica estera del re,
e per di più insidiato nella sua roccaforte tradizionale, il Parlamento.
In assenza della grande nobiltà – decimata nel XV secolo durante la guerra delle
Due Rose – il fronte del dissenso nei confronti della monarchia si concentrò
proprio nel Parlamento, che divenne contemporaneamente sede principale della
opposizione religiosa. Giacomo I si trovò ripetutamente in contrasto con
l'assemblea, soprattutto in occasione di richieste di nuove imposizioni fiscali,
e diverse volte si rifiutò di convocarla o ne arrestò gli esponenti più attivi.
Il progetto assolutistico di Carlo I d'Inghilterra
Carlo I contro il Parlamento
Il successore di Giacomo I, Carlo I Stuart (1625-49), sciolse il Parlamento
per due anni consecutivi, nel 1625 e nel 1626.
Costretto a riconvocarlo nel 1628 per farsi approvare il finanziamento di una
spedizione di soccorso agli ugonotti assediati alla Rochelle, il re dovette
accettare una Petition of Rights (Petizione di diritti) che condannava il
fiscalismo monarchico, l'oppressività della Chiesa anglicana, l'uso invalso di
trattenere i cittadini senza autorizzazione da parte di alcun tribunale.
La petizione sortì tuttavia un effetto opposto a quello desiderato: nel 1629
Carlo I Stuart sciolse di nuovo il Parlamento e cominciò a reprimere
sistematicamente l'opposizione politica e religiosa. La sua azione scavò un
profondo fossato tra la monarchia da un lato, la gentry provinciale e le
borghesie cittadine dall'altro; il re apparve in sostanza come il persecutore
dei ceti economicamente più attivi e più sensibili alle suggestioni del
puritanesimo.
Due tribunali speciali, la Camera stellata – le cui competenze furono estese ai
reati politici – e la Corte di alta commissione – istituita per reprimere la
dissidenza religiosa –, lavoravano a pieno ritmo, mentre il re aggirava la
Petizione di diritti imposta dal disciolto Parlamento: senza che l'assemblea
venisse convocata, fu estesa a Londra e a tutte le città del Regno l'esazione
dello ship-money, un tributo originariamente versato solo dai centri
portuali per il mantenimento della flotta regia.
La vendita delle cariche pubbliche e le dimensioni della burocrazia parassitaria
raggiunsero proporzioni straordinarie: una pletora di funzionari, magistrati,
appaltatori di pubbliche funzioni e servizi versava al tesoro regio congrue
somme, di cui si rifaceva abbondantemente a spese della comunità.
Dal punto di vista religioso, il forte rilancio della Chiesa di Stato comportò
un diretto attacco contro le comunità puritane, che non riconoscevano l'autorità
dei vescovi anglicani e dei parroci da loro nominati.
Il Corto Parlamento
Nel 1639 l'arcivescovo William Laud – primate della Chiesa anglicana – avviò
una operazione di normalizzazione della vita religiosa in Scozia, dove nel 1560
si era stabilita la Chiesa nazionale presbiteriana, di stampo calvinista
ortodosso.
Di fronte al ripristino della gerarchia anglicana, al recupero delle proprietà
confiscate a suo tempo agli ordini religiosi cattolici, all'introduzione di
modifiche liturgiche, il clero presbiteriano, seguito dall'assemblea nazionale
scozzese – nobiltà in testa – rispose con il Covenant, un 'patto' giurato
di difesa a oltranza del calvinismo ortodosso dalle ingerenze inglesi.
Era la guerra: gli scozzesi sconfissero l'esercito regio e invasero il
territorio inglese occupando alcune città. Esaurite le risorse finanziarie,
Carlo I fu costretto, per poter continuare la guerra, a convocare il Parlamento
perché approvasse nuove imposizioni fiscali. Nell'assemblea prese però corpo una
vasta opposizione, che solidarizzò con i ribelli e reclamò l'abolizione dei più
vessatori provvedimenti della Corona. Il re sciolse subito questa assemblea che
fu detta il Corto Parlamento, perché, convocato il 13 aprile 1640, fu dissolto
meno di un mese dopo.
Il Lungo Parlamento
Nel mese di novembre dello stesso anno il re convocò, pensando piega il re
forse di poterlo facilmente manipolare, quello che è passato alla storia come il
Lungo Parlamento, in quanto restò in carica fino al 1653. L'assemblea,
capeggiata da John Pym e John Hampden, manifestò invece immediatamente una
notevole combattività, rifiutò di collaborare con il sovrano e richiese la
condanna a morte dei suoi principali collaboratori.
Carlo I fu costretto a piegarsi. Il successo del Parlamento fu coronato da una
raffica di provvedimenti che abolivano i tribunali speciali, vietavano nel modo
più assoluto l'imposizione di nuovi tributi senza l'assenso parlamentare,
l'arresto di sudditi senza processo e decretavano la fine delle persecuzioni
religiose.
Il primo ministro, conte di Strafford, fu messo a morte.
La rivolta irlandese
Nell'estate del 1641 la sconfitta del progetto assolutistico di Carlo I era
evidente, ma la grandissima maggioranza del Parlamento era assolutamente lontana
dall'immaginare la creazione di una repubblica.
La situazione, invece, precipitò rapidamente. Lo stesso anno scoppiò in Irlanda
una violenta insurrezione di contadini e proprietari cattolici, che massacrarono
migliaia di coloni protestanti inglesi e scozzesi: il re fu sospettato di aver
fomentato la rivolta per modificare il quadro politico e ottenere il
reclutamento di un esercito di cui si sarebbe poi servito per schiacciare il
Parlamento. La manovra sembrava confermata dai suoi tentativi – peraltro falliti
– di trarre dalla propria parte gli scozzesi.
Il Parlamento vedeva dunque messe in discussione non solo le vittorie ottenute
nei dodici mesi precedenti, ma la sua stessa sopravvivenza.
Fu allora presentata la cosiddetta Grande rimostranza che – oltre a ribadire le
conquiste politiche ottenute dal Parlamento – chiedeva il controllo del
reclutamento degli eserciti e delle nomine ministeriali.
L'inizio della guerra civile
L'atmosfera si surriscaldò: mentre il paese era inondato di libelli di
denuncia contro le manovre di Carlo I e i predicatori puritani eccitavano i
fedeli con sermoni infuocati, il re tentò il colpo di Stato irrompendo nel
Parlamento con una schiera di armati (4 gennaio 1642).
L'insuccesso fu completo: i capi dell'opposizione riuscirono a fuggire e la
cittadinanza londinese si scatenò in furiose manifestazioni di massa. Carlo I
dovette abbandonare la capitale. Era l'inizio della guerra civile.
La guerra civile
Gli schieramenti
Nell'estate del 1642 gli schieramenti in campo si delinearono con una certa
precisione.
Dalla parte del re si schierarono i cosiddetti cavalieri – espressione con cui
si designavano i nobili –: si trattava per lo più di esponenti
dell'aristocrazia, della gentry, dell'altissima borghesia, contrari
all'evoluzione in senso radicale del programma politico parlamentare espresso
nella Grande rimostranza, all'abolizione della gerarchia anglicana, alla
proliferazione della dissidenza religiosa, alle avvisaglie di disordine sociale
emerse in numerose rivolte contadine e negli stessi tumulti della popolazione
londinese.
I sostenitori del Parlamento, le Teste rotonde – così erano chiamati i puritani
per l'uso di portare i capelli corti, diversamente dalle abitudini degli
aristocratici –, raccoglievano invece il consenso della borghesia medio-alta,
dei commercianti, dei bottegai, degli artigiani, tutti interessati a un regime
di maggiore libertà dal giogo fiscale regio e di maggiore partecipazione
politica, sia a livello parlamentare sia a livello di amministrazione locale.
Non meno importante era il fattore religioso: la grandissima maggioranza dei
puritani era filoparlamentare, e questa circostanza spiega anche l'adesione di
un cospicuo numero di aristocratici e di membri della gentry; i cattolici
erano invece tutti realisti.
L'ascesa di Cromwell
Tra il 1642 e il 1643 la guerra si trascinò con alterne vicende. La svolta decisiva si ebbe soltanto dopo che, morti i due leader Hampden e Pym, si affacciò sulla scena politica e militare il puritano Oliver Cromwell (1599-1658).
L'Inghilterra agli inizi della guerra civile
Cromwell – che proveniva dai ranghi della gentry – si distinse in un
primo momento come capo militare della fazione parlamentare, in particolare come
ideatore degli Ironsides ('fianchi di ferro'), un distaccamento di
cavalleria corazzata che risolse numerosi scontri con le sue travolgenti cariche
a ranghi serrati.
In seguito, Cromwell riorganizzò tutte le truppe parlamentari nella New Model
Army, un autentico capolavoro d'ingegneria politica e di scienza bellica. I
soldati, accuratamente addestrati, eleggevano liberamente i loro ufficiali ed
erano oggetto di un indottrinamento politico e religioso di stampo puritano, che
li motivava fortemente alla lotta.
Carlo I fu sconfitto nelle due battaglie di Marston Moor (luglio 1644) e di
Naseby (giugno 1645). Consegnatosi agli scozzesi – con i quali tentò invano un
accordo separato –, fu da loro trasferito in Inghilterra nelle mani del
Parlamento (gennaio 1647).
Nell'ultima fase dello scontro, il Parlamento aveva proceduto a smantellare la
Chiesa di Stato anglicana e la gerarchia episcopale. L'arcivescovo Laud fu
condannato a morte.
Disgregazione dello schieramento vincitore
La sconfitta del re, principale nemico da abbattere, ebbe come immediata
conseguenza la disgregazione del fronte dei vincitori.
Lo schieramento puritano, infatti, si spezzò, sia dal punto di vista politico
sia da quello religioso.
La maggioranza parlamentare era di orientamento presbiteriano, sosteneva cioè lo
smantellamento della gerarchia episcopale anglicana (iniziato nel 1646) e
l'introduzione di un'unica confessione di Stato calvinista, governata in modo
autonomo dalle singole comunità di fedeli.
L'esercito, appoggiato da Cromwell, si ispirava invece alle dottrine dell'altra
anima del puritanesimo, gli indipendenti, che sostenevano l'introduzione di una
generalizzata libertà di culto e di organizzazione per tutti i gruppi e per
tutte le sètte religiose protestanti. Questa scelta era del tutto coerente con
l'organizzazione che Cromwell aveva dato al New Model Army: nell'esercito
non era praticata alcuna discriminazione religiosa – se non per i cattolici e
gli anglicani episcopalisti.
Sotto il profilo politico, i sentimenti decisamente antistuardisti instillati
nei soldati e la democraticità che permeava l'organizzazione dell'esercito di
Cromwell diffusero tra i soldati l'idea che i poteri del sovrano dovessero
essere drasticamente ridotti; l'ala estremista dei levellers
('livellatori') propugnava addirittura l'abbattimento della monarchia e
l'istituzione di una repubblica governata da un Parlamento eletto a suffragio
universale.
Fuga del re e crisi
La difficile situazione dei rapporti tra esercito e Parlamento era complicata
dall'ambigua condotta di Carlo I, che tramava con ambedue gli schieramenti e
contemporaneamente cercava sempre l'appoggio degli scozzesi, ostili a Cromwell e
alle Teste rotonde per le loro posizioni religiose e politiche.
Alla fine del 1647 il re fuggì nuovamente in Scozia e nella primavera successiva
gli scozzesi invasero l'Inghilterra, mentre focolai di ribellione realista si
accendevano in varie regioni del paese.
La situazione divenne gravissima.
Cromwell, che fino a quel momento aveva cercato di raggiungere con il Parlamento
un compromesso che salvaguardasse l'istituto monarchico, fu accusato di
tradimento. Nell'esercito si verificarono casi di ammutinamento: ai levellers
si aggiunse il movimento ancora più radicale dei diggers ('zappatori'),
sostenitori dell'abolizione della proprietà privata; in campo religioso sorse la
setta dei quaccheri (dall'inglese quaker, 'tremante'), pacifisti a
oltranza e contrari a ogni forma di organizzazione e autorità religiosa.
Rotto ogni indugio, Cromwell affrontò e vinse gli scozzesi e i rivoltosi
realisti (primavera-estate 1648), occupò Londra ed espulse dal Parlamento il
gruppo presbiteriano e i moderati (dicembre 1648): l'assemblea, epurata di circa
150 membri, fu detta Rump Parliament ('Parlamento ridotto').
Condanna e morte di Carlo I
Nel gennaio del 1649 il re fu
processato e condannato a morte. La sentenza
venne immediatamente eseguita.
Per la prima volta nella storia europea un movimento rivoluzionario ebbe come
esito l'eliminazione fisica legalizzata di un sovrano.
Nel maggio venne abolita la Camera dei Lords e proclamato il
Commonwealth, la Repubblica inglese.
La repubblica di Cromwell e la restaurazione degli Stuart
Ottenuto il totale controllo della situazione, Cromwell mise a tacere le
frange estremiste dei levellers e dei diggers. Si volse poi a
ristabilire l'ordine in Irlanda, dove nel giro di appena tre anni represse nel
sangue la rivolta dei realisti cattolici (1649).
Nel 1650-51 pacificò definitivamente la Scozia.
Politica estera
In politica estera Cromwell non fu meno fortunato che nelle sue imprese in
Irlanda e in Scozia.
Egli puntò soprattutto sull'espansione della potenza commerciale e coloniale
inglese, coordinandola, nei limiti del possibile, con la difesa della comunità
protestante internazionale.
Nel 1651, in evidente funzione antiolandese, promulgò l'Atto di navigazione, in
base al quale i collegamenti commerciali con l'Inghilterra venivano riservati
alle navi inglesi o dei paesi da cui provenivano le merci; esso stabiliva
inoltre che il commercio con le colonie inglesi d'oltremare era monopolio della
madrepatria.
La reazione olandese fu rapidamente stroncata in una breve guerra (1652-54) – la
prima combattuta per puri obiettivi commerciali –, che si concluse con il
riconoscimento, da parte degli olandesi, dell'Atto di navigazione.
Contemporaneamente Cromwell stipulò trattati vantaggiosi con Svezia e Danimarca,
che gli assicurarono l'ingresso nel Baltico, e con il Portogallo, nel cui
immenso impero commerciale gli inglesi ebbero libero accesso, muovendo così i
primi passi verso la loro futura conquista dell'India.
Nel 1657 Cromwell si alleò con la Francia contro la Spagna, ottenendo, notevoli
vantaggi.
Sotto Cromwell l'Inghilterra accentuò dunque il suo ruolo di potenza di primo
piano sullo scenario internazionale, tanto sullo scacchiere europeo quanto su
quello coloniale. Dal punto di vista economico-sociale, nell'età di Cromwell si
verificò un'impennata nei processi di privatizzazione della terra e di sviluppo
di un'agricoltura moderna, fondata sul lavoro salariato e orientata al mercato e
al profitto.
Politica interna
In politica interna Cromwell non riuscì a dar vita a un solido sistema di
governo a causa dei contrasti con il Parlamento.
Nonostante l'avvio allo smantellamento del sistema feudale, nessuna radicale
riforma sociale ebbe luogo in quegli anni. Nel 1651 il Rump Parliament fu
ulteriormente epurato per la sua sorda opposizione.
Questo ultimo spezzone del Lungo Parlamento, detto Barebone Parliament
(letteralmente 'Parlamento scheletro'), non diede tuttavia alcun segno di
collaborazione e venne disciolto nel 1653, mentre Cromwell assumeva il titolo di
Lord protettore di Inghilterra, Scozia e Irlanda.
Disfacimento del Commonwealth
Anche i Parlamenti eletti successivamente manifestarono un atteggiamento
ostile nei confronti del governo di Cromwell, che assunse sempre più i connotati
di una dittatura militare, fino al progetto di trasformare il Protettorato in
una vera e propria monarchia ereditaria.
Quanto l'ordinamento di Cromwell fosse instabile è dimostrato dal fatto che,
morto il Lord protettore nel 1658, il figlio Richard assunse il potere, ma
dovette lasciarlo dopo pochi mesi in un dilagare di torbidi che annunciavano la
fine della Repubblica.
Seguì infatti una fase di intricati conflitti tra stuardisti e cromwelliani,
Lungo Parlamento (riconvocato nel febbraio 1660) ed esercito, armate del Nord e
armate del Sud, fin quando, nel maggio 1660 il generale George Monk, con
l'approvazione del Parlamento, marciò su Londra e mise sul trono l'erede di
Carlo I, Carlo II Stuart (1660-85).
Restaurazione degli Stuart
La restaurazione degli Stuart ebbe come immediato effetto il ripristino della
Chiesa anglicana, la ripresa delle persecuzioni della dissidenza religiosa, la
ricostituzione della Camera dei Lords e dei privilegi nobiliari. Non si
verificò, tuttavia, un completo ritorno ai tempi di Giacomo I e Carlo I.
La crescita di una forte coscienza politica nel ceto borghese e nella piccola
nobiltà diede infatti una configurazione più articolata alla classe dirigente;
sotto il profilo istituzionale, inoltre, non furono ripristinati i tribunali
speciali e soprattutto prese forza la centralità del Parlamento come stabile
punto di riferimento e di confronto per l'esercizio del potere monarchico.
Da allora, e sempre più nettamente in seguito, Parlamento e monarchia sono
considerati come due poteri distinti. Una distinzione e una separazione che
accompagnarono il progressivo indebolimento e la definitiva scomparsa di ogni
ipotesi politica fondata sulla monarchia di diritto divino.
L'eredità della rivoluzione
Dopo questa "grande rivoluzione" a nessun sovrano inglese sarebbe più stato
concesso di imporre nuove tasse per decreto, di incarcerare gli avversari
politici senza processo, di attentare ai diritti di proprietà, di modificare
d'autorità le forme dell'organizzazione ecclesiastica.
La strada dell'assolutismo non poté più essere percorsa, anche se questi
fondamenti del sistema politico inglese saranno definitivamente stabiliti dalla
seconda ("gloriosa" e "pacifica") rivoluzione del 1688-89.
Sul piano ideologico la ricchissima eredità di idee e di proposte della
rivoluzione (e dei suoi momenti più radicali) rivivrà in America e in Francia
durante le rivoluzioni della fine del '700.
La Francia di Luigi XIII e di Richelieu
Luigi XIII e Maria dei Medici
Nel 1610 Enrico IV fu ucciso da un fanatico cattolico. Gli succedette il
figlio, il piccolo Luigi XIII (1610-43), al posto del quale esercitò il potere
la madre, l'italiana Maria dei Medici.
L'equilibrio internazionale fu sconvolto dall'inversione di rotta della
reggente, che da fervente cattolica si orientò decisamente in senso filospagnolo.
Nel 1614, in una situazione di grave conflittualità interna, furono convocati
gli Stati generali (fu l'ultima volta fino al 1789). Questa assemblea, composta
dai rappresentanti dei tre ordini in cui era suddivisa la popolazione, fu
l'arena in cui si affrontarono i nobili e i rappresentanti della borghesia
burocratica e imprenditoriale: i primi contrari all'ereditarietà degli uffici; i
secondi avversi agli abusi degli aristocratici e alla reimposizione dei diritti
feudali.
La politica di Richelieu
Nel 1617 Luigi XIII si appropriò del pieno esercizio del potere, malgrado la
tenace opposizione della madre. Al suo fianco era il cardinale di Richelieu
(1585-1642), che dal 1624 sarebbe diventato il capo del Consiglio del re.
Richelieu intraprese una vera e propria offensiva in grande stile, volta al
rafforzamento del potere monarchico. In tale prospettiva, nel 1625 il cardinale
attaccò le piazzeforti ugonotte — un vero e proprio Stato dentro lo Stato —, la
cui autonomia appariva sempre più incontrollabile, e nel giro di pochi anni le
sottomise. L'ultimo caposaldo, La Rochelle, cadde nel 1628 dopo un lungo e
sanguinoso assedio.
L'anno dopo, l'editto di grazia sancì la libertà di culto dei protestanti e,
insieme con essa, il disfacimento del loro apparato politico-militare.
Contro gli ugonotti Richelieu non fu animato da uno spirito d'intolleranza
religiosa bensì da ragioni di Stato, le stesse che lo spinsero, pur essendo un
cardinale cattolico, ad allearsi con i protestanti in funzione antiasburgica
nella guerra dei Trent'anni.
Parallelamente Richelieu condusse un'azione decisa contro quegli esponenti della
grande nobiltà che tramavano per ristabilire i loro antichi privilegi e facevano
riferimento a Maria dei Medici e al fratello del re, Gaston d'Orléans: alcuni
nobili furono giustiziati, mentre Maria fu mandata in esilio.
Richelieu esaltò inoltre il ruolo dei funzionari alle dirette dipendenze della
Corona — di origine borghese e nobili di toga, tratti dai gradi inferiori della
magistratura — che, con la carica di intendenti — carica non venale —
accentrarono nelle loro mani l'amministrazione delle province sostituendosi ai
governatori di origine aristocratica.
L'unico problema che il cardinale non riuscì a risolvere fu quello delle
agitazioni popolari, che esplosero nella fase di partecipazione della Francia
alla guerra dei Trent'anni, a causa dell'eccessivo fiscalismo regio, che gravò
soprattutto sulle masse contadine.
La Francia di Mazzarino
L'era di Mazzarino
Nel 1642 il cardinale Richelieu mori. L'anno seguente scomparve il re Luigi
XIII. La politica estera della Francia, impegnata nella guerra dei Trent'anni
non subì, però, mutamenti di rilievo, grazie all'azione del
cardinale Mazzarino,
consigliere personale di Richelieu e suo successore a capo del Consiglio del re.
L'importanza di questa carica fu accentuata dal fatto che al trono francese era
salito un bambino di appena cinque anni, Luigi XIV (1643-1715), in vece del
quale la reggenza fu tenuta dalla madre Anna d'Austria, legata al Mazzarino da
forti vincoli di fiducia e di collaborazione.
La Fronda parlamentare
Con la pace di Vestfalia, Mazzarino sancì il successo della potenza francese
sulle ambizioni egemoniche della Casa d'Austria. Il conflitto continuò tuttavia
con la Spagna, tanto sul confine franco-spagnolo quanto in Italia e nelle
Fiandre.
Di conseguenza l'impegno finanziario dello Stato francese a sostegno della
guerra non diminuì e l'emergenza bellica consentì un ulteriore giro di vite
nella politica di accentramento del governo. Il progetto del cardinale, infatti,
prevedeva l'affidamento dell'esazione delle imposte esclusivamente agli
intendenti.
Ciò suscitò l'opposizione dei Parlamenti provinciali francesi, roccaforti della
nobiltà di toga, che replicarono proponendo la soppressione degli intendenti e
reclamando a sé il diritto di gestire l'imposizione delle tasse e
l'amministrazione del Tesoro.
L'opposizione presto degenerò in un'aperta rivolta che fu chiamata Fronda
parlamentare (1648-49), dal nome della "fionda" con cui i ragazzi scagliavano le
pietre. I parlamentari riuscirono a mobilitare il popolo di Parigi e a occupare
la città per alcuni giorni.
Mazzarino fu costretto a lasciare Parigi e ad accettare le rivendicazioni
parlamentari (poi da lui stesso abilmente vanificate). Nel corso dello stesso
anno la Fronda parlamentare andò tuttavia progressivamente disgregandosi, perché
non aveva elaborato un programma di ampio respiro, ma si era limitata a tutelare
i privilegi della nobiltà di toga e della ricca borghesia.
La Fronda dei principi
Nel 1650 prese avvio la Fronda dei principi, causata dall'ostilità
dell'aristocrazia allo strapotere di Mazzarino, dal successo ottenuto dai
Parlamenti e dalla forte oppressione fiscale.
Ancora una volta lo scontento del popolo di Parigi fu strumentalizzato e
indirizzato contro il governo centrale. Mazzarino fu nuovamente costretto a
lasciare Parigi e a rifugiarsi a Colonia, in Germania. Di qui diresse le
operazioni delle truppe fedeli alla monarchia.
Nel 1652 il principe di Condé, vincitore di Rocroi e capo dell'esercito ribelle,
fu sconfitto nei pressi della capitale e il fronte aristocratico si disciolse
rapidamente. Il cardinale, accompagnato dalla reggente e da Luigi XIV, rientrò
trionfalmente a Parigi nel mese di ottobre.
Vittoria sulla Spagna
La fine delle turbolenze frondiste consentì a Mazzarino di riprendere con
energia la guerra contro la Spagna.
Tra le scelte diplomatiche del cardinale la più felice fu la coraggiosa alleanza
con la Repubblica inglese di Cromwell. Mentre la flotta inglese paralizzava le
rotte spagnole, l'esercito anglofrancese sconfisse definitivamente le truppe
iberiche presso Dunkerque (1658).
Con la pace dei Pirenei del 1659 la Francia ottenne l'Artois e, lungo il confine
con la Spagna, il Rossiglione; l'Inghilterra ottenne la Giamaica e la base di
Dunkerque.
Questa pace decretò il tramonto della potenza spagnola e il rafforzamento della
Francia nel ruolo di massima potenza continentale.
A essa fece seguito il matrimonio tra l'erede al trono di Spagna, Maria Teresa –
figlia di Filippo IV – e Luigi XIV. Gli accordi prevedevano che Maria Teresa
rinunciasse ai suoi diritti di successione ma recasse in dote la favolosa cifra
di 500 mila scudi d'oro: quest'ultimo impegno non fu onorato e di ciò si sarebbe
fatto forte Luigi XIV per giustificare il suo aggressivo programma di politica
estera.
Il declino della Spagna
Nei primi decenni del '600, la Spagna entrò in un periodo di inarrestabile
decadenza.
Dopo la morte di Filippo II, nel 1598, Filippo III (1598-1621) ereditò un regno
che era afflitto da una crisi economica e sociale senza precedenti.
All'esterno, Filippo III avviò una serie di prudenti iniziative di pace con
l'Inghilterra – pace di Londra del 1604 – e con le Province Unite – tregua dei
dodici anni, dal 1609 –.
All'interno il re non riuscì invece a contenere l'offensiva della nobiltà che
mirava a salvaguardare il proprio tradizionale livello di ricchezza attraverso
un vasto processo di rifeudalizzazione.
I contadini, oggetto di un'oppressione fiscale e personale durissima, reagirono
spesso dandosi al banditismo o, comunque, appoggiandolo; per altro verso venne
schiacciata ogni possibilità di espansione e ascesa sociale per i ceti borghesi.
Il progetto assolutistico di Filippo IV
L'unica risposta concreta a questa situazione di crisi fu la ripresa della
politica estera aggressiva, sotto Filippo IV (1621-65), a opera del primo
ministro conte-duca di Olivares. Questi, infatti, decise di intervenire nella
guerra dei Trent'anni a sostegno degli Asburgo d'Austria e, nel 1621, allo
scadere della tregua dei dodici anni, riprese le ostilità contro le Province
Unite.
L'azione politica di Olivares puntava alla realizzazione di un progetto di
accentramento assolutistico, destinato a fornire alla monarchia spagnola i mezzi
per un rilancio in grande stile sulla scena europea. Per rendere possibile ciò,
sul piano interno, Olivares intraprese un'opera di riorganizzazione militare e
amministrativa: la cosiddetta Unione delle armi, ovvero la ripartizione fiscale
e il reclutamento militare proporzionali tra le varie province e tra i vari
domini della Corona.
Il progetto di Olivares suscitò resistenze sempre più forti nel regno, sia per
l'eccessiva esosità delle richieste, sia perché, in realtà, in molte regioni
della penisola iberica vere e proprie sistematiche imposizioni fiscali e leve di
soldati non erano state mai effettuate da parte del governo centrale.
Una federazione di regni
Il Regno di Spagna era infatti costituito da una federazione di regni
autonomi – Castiglia, Aragona, Catalogna, Valencia, Portogallo – sui quali
primeggiava la Castiglia. Ciascuno di questi regni era dotato di larghissima
autonomia, benché le principali cariche pubbliche fossero ricoperte generalmente
da nobili castigliani.
In questa federazione si trovavano in subordine i "vicereami" italiani (Napoli,
Sicilia, Sardegna, più il Ducato di Lombardia) e coloniali, nonché i domini
dinastici della Casa regnante (Paesi Bassi e Franca Contea).
Filippo IV, come del resto i suoi predecessori, era padrone assoluto della
Castiglia e – almeno in linea teorica – di tutte le dipendenze fuori di Spagna;
ed era da queste regioni che provenivano il gettito fiscale che riforniva il
tesoro reale e il grosso del reclutamento militare. Il resto della penisola
iberica non offriva alcun significativo contributo.
Rivolta della Catalogna e del Portogallo
Ecco perché alle richieste di Olivares, nell'inverno del 1640, si ribellarono
la Catalogna e il Portogallo: la prima aveva fra l'altro una forte tradizione di
autonomia culturale e di vivacità economica, che alimentava aspirazioni
indipendentistiche; il secondo era stato integrato nel Regno di Spagna da soli
sessant'anni ed era quindi ancor più motivato a distaccarsi dalla compagine
castigliana.
In Catalogna la rivolta esplose nelle campagne e da qui si diffuse a Barcellona,
principale centro della regione, dove l'agitazione venne gestita e guidta dalla
nobiltà e dalla borghesia, e assunse la fisionomia di moto indipendentista.
Barcellona sarà riconquistata soltanto nel 1652, dopo dodici anni di guerra.
In Portogallo, invece, il fronte antispagnolo si indirizzò al recupero
dell'integrità del territorio nazionale e dei domini coloniali.
Fu proclamato re il duca di Braganza, che prese il nome di Giovanni IV
(1640-56), e la reazione spagnola fu respinta anche grazie all'aiuto di Francia
e Inghilterra.
Nel 1668 il trattato di Lisbona sancirà l'indipendenza del Portogallo.
L'allontanamento di Olivares nel 1643 aggravò il disordine amministrativo del Regno di Spagna, mentre le sorti della guerra dei Trent'anni volgevano decisamente a favore della Francia. La guerra sempre più difficile e le ribellioni che esplodevano qua e là nella penisola iberica spinsero Filippo IV a spostare la pressione fiscale soprattutto sui possedimenti italiani. Anche qui il governo spagnolo dovette tuttavia affrontare gravi rivolte.
Le due anime delle Province Unite
Con la tregua dei dodici anni stipulata con la Spagna nel 1609, la Repubblica
delle Province Unite, oltre a vedersi di fatto riconosciuta dalla Spagna stessa
come Stato autonomo, raggiunse gradualmente la condizione di maggiore potenza
commerciale europea. Né tale processo si arresterà con la ripresa della guerra
nel 1621.
Ciò nonostante, anche le Province Unite attraversarono nel primo ventennio del
'600 una profonda crisi politica e religiosa.
Organizzazione Politica
Ciascuna delle sette Province Unite (Olanda, Zelanda, Utrecht, Frisia,
Groninga, Gheldria e Overijssel) era amministrata autonomamente da un'assemblea
elettiva o Stato provinciale e aveva a suo capo un governatore civile, il
Pensionario, e un governatore militare, lo Stadhouder; gli Stati generali
federali, con sede a L'Aja, erano diretti da un Gran Pensionario e da uno
Stadhouder generale, provenienti di solito dalla provincia più potente,
l'Olanda.
Il dualismo tra Gran Pensionario e Stadhouder generale esprimeva anche gli
interessi politici ed economici dei due ceti più forti: la borghesia mercantile
e la nobiltà terriera; l'una propensa al rispetto delle autonomie provinciali,
all'attenuazione del conflitto con la Spagna, alla pacificazione religiosa;
l'altra incline a un maggiore accentramento statale – lo Stadhouder generale e
anche quelli provinciali erano di norma discendenti di Guglielmo d'Orange –,
alla prosecuzione della lotta contro la Spagna anche a costo di subire gravi
danni economici, a coltivare l'intransigenza propria del calvinismo ortodosso –
in questo appoggiata anche dagli strati più bassi della popolazione.
Religione e politica
Lo scontro politico tra le due massime autorità della Repubblica, riflesso
del dissidio interno all'intera classe dirigente, esplose clamorosamente,
com'era prevedibile, sul terreno religioso.
La religione, infatti, era sempre l'elemento catalizzatore del confronto
politico. La corrente calvinista intransigente dei gomaristi ebbe la meglio sui
tolleranti e moderati arminiani nel sinodo di Dordrecht del 1618; ottenuta la
messa al bando degli arminiani dai rappresentanti delle comunità calviniste
delle Province Unite, di Svizzera, d'Inghilterra, di Scozia e di Germania, lo
Stadhouder Maurizio d'Orange sancì la condanna a morte per tradimento del Gran
Pensionario Oldenbarneveldt (1619).
Il paese della tolleranza
Malgrado questi tragici avvenimenti, la Repubblica delle Province Unite si
affermò come il paese europeo dove erano maggiormente praticate la tolleranza
religiosa e la libera circolazione delle idee.
L'intensità delle relazioni commerciali olandesi determinò un costante rapporto
con le più disparate realtà culturali europee. Così, a prescindere dai problemi
politici e religiosi interni, la mentalità degli olandesi dovette per forza di
cose adattarsi alla convivenza con i "diversi": la folla eterogenea che si
accalcava in un centro d'affari come Amsterdam non poteva certo essere oggetto
di pregiudizi che erano del tutto privi di interesse – e anzi sarebbero stati
dannosi – per il mondo degli affari.
LA DECADENZA DELL'ITALIA
L'Italia dopo Cateau-Cambrésis
La pace di Cateau-Cambrésis firmata nel 1559 da Filippo II ed Enrico II di
Francia, pose termine al lungo conflitto franco-asburgico per il controllo
dell'Italia.
La Spagna si ritrovò dunque a controllare, direttamente o indirettamente,
l'intera penisola.
Rientravano tra i domini diretti i Viceregni di Napoli, di Sicilia e di
Sardegna, il Ducato di Milano e quella serie di importanti piazzeforti della
costa tirrenica che vanno sotto il nome di Stato dei Presidi (Talamone,
Orbetello, Porto Ercole, Ansedonia, Porto Santo Stefano, Porto Longone).
L'influenza spagnola, tuttavia, si estendeva indirettamente anche sulla
Repubblica di Genova, su compagini di rilievo come il Granducato di Toscana e il
Ducato di Savoia, sui piccoli Stati dell'area padana, come il Ducato di Parma e
Piacenza, dei Farnese, il Ducato di Modena e Ferrara, degli Este, e quello dei
Gonzaga di Mantova.
Gli stessi Stati che godevano di maggiore autonomia, come lo Stato della Chiesa
e la Repubblica di Venezia, erano comunque condizionati dalla Spagna.
Quest'ultima, anche se avviata a un'inesorabile decadenza, era sempre la
maggiore potenza politica del tempo e i suoi rinnovati contrasti con la Francia
influenzarono la situazione italiana.
Da un punto di vista politico-territoriale la pace di Cateau-Cambrésis non
determinò sostanziali mutamenti rispetto alla situazione delineatasi con la pace
di Cambrai. Due fatti nuovi vanno tuttavia segnalati: la creazione nel
Centro-nord, a opera di papa Paolo III, del Ducato di Parma e Piacenza (1545) e
la scomparsa della Repubblica di Siena, inglobata, nel 1555, nel Granducato di
Toscana.
Malgrado la frammentarietà del quadro politico-territoriale della penisola,
all'interno dei singoli Stati italiani prese avvio un processo di consolidamento
delle strutture statali: negli Stati signorili si registrò una tendenza al
rafforzamento in senso assolutistico del potere del signore, mentre nelle
repubbliche si accentuò il carattere oligarchico degli ordinamenti cittadini,
mediante un ulteriore restringimento del numero delle famiglie ammesse al
potere.
La Repubblica di Genova
Fra gli Stati italiani la Repubblica di Genova, il cui dominio si estendeva
anche sulla Corsica, era certamente quella maggiormente legata alla Spagna,
soprattutto per i suoi interessi finanziari. I suoi banchieri e finanzieri,
infatti, avevano nella Corona spagnola il cliente più importante.
Genova inoltre era un importante punto di collegamento fra i due blocchi
dell'Impero asburgico, quello spagnolo e quello tedesco, e il suo porto era
utilizzato per le spedizioni militari spagnole.
L'Italia dopo la pace di Cateau-Cambrésis
Il Granducato di Toscana
In Toscana la restaurazione dei Medici era avvenuta grazie all'appoggio di Carlo V. Il legame con la Corona iberica era del resto testimoniato dalla presenza, all'interno della compagine medicea, dello Stato dei Presidi. Cosimo I (1537-74), che nel 1569 ottenne il titolo di granduca, avviò un'opera di consolidamento del proprio potere e intraprese una politica di espansione territoriale, che portò all'acquisizione della Lunigiana e della Repubblica di Siena (1555).
Il Ducato di Savoia
Pure il Ducato di Savoia, posto a cavallo tra la Francia e l'Italia,
gravitava nell'orbita spagnola.
Il duca Emanuele Filiberto (1528-80) era rientrato in possesso della Savoia e
del Piemonte, a lungo occupati dai francesi, grazie alla sua alleanza militare
con la Spagna.
L'ingombrante presenza della vicina monarchia francese spinse Emanuele Filiberto
a valorizzare politicamente la parte italiana del ducato, spostando la capitale
da Chambéry a Torino e ottenendo dalla Francia, in cambio della cessione dei
territori transalpini del ducato, il Marchesato di Saluzzo (1601).
Emanuele Filiberto avviò nei suoi domini una vasta opera di centralizzazione
delle strutture amministrative e militari, volta a indebolire i piccoli
potentati locali. A lui si deve la creazione di un esercito "nazionale" mediante
l'imposizione dell'obbligo di leva per i sudditi. Questa riforma fece dello
Stato savoiardo la maggiore potenza militare della penisola.
Lo Stato della Chiesa
Rinnovato e rafforzato dal concilio di Trento, il papato assunse un più
deciso controllo dello Stato della Chiesa, mediante una politica di espansione
territoriale – annessione di Ferrara (1598), del Ducato di Urbino (1625), di
quello di Castro (1649) – e di rafforzamento del potere del pontefice. Ciò,
tuttavia, non determinò l'indebolimento dei numerosi poteri locali presenti sul
territorio – i comuni e le signorie – che anzi conservarono, e in alcuni casi
rafforzarono, la propria autonomia.
Non meno autorevole il ruolo politico esercitato dal papato all'interno della
penisola, dove riuscì a ottenere da molti principi e signori un impegno nella
lotta contro l'eresia protestante. In molti Stati cercò addirittura di
raggiungere una piena autonomia dalle ingerenze delle autorità civili,
determinando l'insorgere di conflitti giurisdizionali, ovvero di scontri
incentrati sulla difesa delle prerogative ecclesiastiche, tra i quali il più
celebre fu quello che lo oppose alla Repubblica di Venezia.
La Repubblica di Venezia
Nel XVI secolo la Repubblica di Venezia, nonostante i contraccolpi
rappresentati, da un lato, dall'affermazione della potenza ottomana nel
Mediterraneo e, dall'altro, dalla sconfitta subita ad Agnadello, rimaneva ancora
una grande realtà politica. Essa rappresentava agli occhi degli intellettuali e
dei politici contemporanei un vero e proprio mito, un modello sia per la sua
indipendenza dall'influenza spagnola, sia per la libertà culturale che in pieno
clima controriformistico era riuscita a mantenere.
Da un punto di vista politico, Venezia era governata da un'oligarchia patrizia
particolarmente attenta sia agli interessi presenti sulla terraferma da poco
conquistata, sia alla prosperità mercantile. Dopo Lepanto, infatti, Venezia
aveva stipulato con gli ottomani una pace che le aveva consentito di riprendere
nel Mediterraneo i tradizionali commerci e traffici marittimi. Inoltre, una
parte della classe dirigente veneziana, detta "partito dei giovani",
insofferenti verso la dominazione spagnola e critici nei confronti della Chiesa
della Controriforma, aveva stabilito rapporti economici e diplomatici con
l'Europa protestante, in particolare con l'Inghilterra e con la Francia.
Questa decisione portò allo scontro col papa Paolo V (1605-21), con cui vi erano
altri motivi di attrito, come, per esempio, le leggi che regolavano la proprietà
ecclesiastica nel territorio della repubblica.
La questione dell'interdetto
La fase più acuta di questo conflitto fu rappresentata dalla vicenda
dell'interdetto (1606-7), scoppiata in seguito all'arresto di due religiosi,
colpevoli di delitti comuni, che il papato intendeva processare, sottraendoli ai
tribunali veneti.
La pretesa della Santa Sede che i due religiosi fossero consegnati all'autorità
ecclesiastica fu respinta dalla repubblica, che per la risoluzione della
controversia si valse della consulenza di un religioso di grande statura
intellettuale, lo storico Paolo Sarpi (1552-1623).
Il papa allora lanciò l'interdetto, ovvero proibì ai sacerdoti di celebrare
messa e di amministrare i sacramenti sul territorio veneto. Furono momenti
drammatici durante i quali si sfiorò la guerra. Tuttavia, la volontà degli
spagnoli di mantenere la pace in Italia e la mediazione diplomatica del re di
Francia portarono a un accordo.
La dominazione spagnola
L'egemonia spagnola in Italia, che si protrasse fino agli inizi del XVIII
secolo, garantì alla penisola, uscita prostrata da oltre un cinquantennio di
guerre, un lungo periodo di pace.
La quiete d'Italia, come fu detta dai contemporanei, divenne allora un valore
assoluto, prendendo il posto della libertà d'Italia.
Caratteri della dominazione spagnola
Il principale organo di controllo dei domini diretti spagnoli era costituito
dal Consiglio d'Italia, istituito nel 1555 da Filippo II. Il Consiglio d'Italia,
che aveva sede a Madrid ed era composto da magistrati spagnoli e italiani, aveva
competenze giudiziarie (era tribunale di ultima istanza), amministrative e di
controllo sul funzionamento delle istituzioni e del personale giudiziario e
finanziario.
In questi territori era inoltre attiva l'Inquisizione spagnola, meno mite
dell'Inquisizione romana.
Nella penisola la monarchia spagnola era rappresentata dai viceré di Napoli, di
Sicilia e di Sardegna e dal governatore del Ducato di Milano; inoltre,
periodicamente, la Corona inviava visite presso i governi locali, per
verificarne il buon funzionamento.
Fallirono invece i tentativi di introdurre nel Regno di Napoli e nel Ducato di
Milano l'Inquisizione spagnola.
Le ragioni della stabilità del dominio spagnolo in Italia consistevano non tanto
nel ricorso agli strumenti coercitivi e di repressione di cui la Corona
disponeva, quanto nella capacità di Carlo V, prima, e di Filippo II, poi, di
coinvolgere nel governo i ceti dirigenti locali (il patriziato milanese e il
ceto baronale napoletano e siciliano). Questi, infatti, si integrarono
pienamente nel "sistema imperiale spagnolo" grazie alle scelte strategiche della
Corona, che concesse loro onori, feudi e uffici e promosse le alleanze
matrimoniali.
La pressione fiscale
Le esigenze della politica imperialistica portata avanti dalla Corona
spagnola – la guerra contro i turchi, la gestione della rivolta dei Paesi Bassi,
lo scontro con l'Inghilterra elisabettiana, l'ingerenza nelle guerre di
religione in Francia, la partecipazione alla guerra dei Trent'anni – fecero sì
che in tutte le regioni sottoposte al dominio diretto, ma principalmente nel
Regno di Napoli, la pressione fiscale raggiungesse livelli soffocanti,
aggravando le condizioni di vita dei sudditi, già duramente provate dalla crisi
economica che nei primi decenni del XVII secolo colpì l'intera Europa.
In particolare, in occasione della guerra dei Trent'anni, quando la Spagna
dovette mobilitare tutte le sue stremate energie per far fronte al conflitto,
l'Italia fu vista come una terra da spremere per arruolare truppe, ammassare
viveri, procurarsi denaro. Il governo, infatti, non esitò a mettere in vendita i
beni dello Stato per raccogliere risorse finanziarie. Dalla riscossione delle
imposte alle dogane, ai titoli nobiliari ai terreni demaniali: tutto venne
acquistato da banchieri, mercanti, nobili che cercarono di ottenere i più larghi
profitti, non esitando a sfruttare le popolazioni. Questa oppressione determinò
un clima di aspra tensione sociale, caratterizzato dal dilagare del banditismo e
da un ribellismo diffuso.
Rifeudalizzazione
Nei secoli della dominazione spagnola si registrò nella penisola un ritorno
agli antichi istituti feudali.
Gli studiosi hanno parlato a tale proposito di rifeudalizzazione: in cambio di
denaro i governi concedevano titoli nobiliari, riconoscendo agli acquirenti
diritti feudali (riscossione di tributi, autorità giudiziaria) sulle terre
comprate.
Sul senso da attribuire al termine rifeudalizzazione occorre, tuttavia,
intendersi.
Il fenomeno esprimeva senza dubbio un maggior peso dei grandi signori nel
controllo dei territori. Ma certamente non si trattò – sarebbe stato
impossibile, dato il livello raggiunto dalla società italiana – di un ritorno
puro e semplice al feudalesimo.
Da un punto di vista strettamente economico questa rifeudalizzazione,
soprattutto nelle regioni settentrionali, fu un fenomeno tutto sommato
superficiale: normalmente, quando un signore otteneva un feudo da un potere
superiore – per esempio il re di Spagna –, otteneva con esso le rendite
derivanti da certi diritti che in precedenza erano esercitati dal sovrano; per i
sudditi cambiava ben poco, perché ora essi pagavano quegli stessi diritti non
più ai rappresentanti del re, ma al feudatario.
Molto più grave fu tuttavia la situazione dei sudditi delle regioni meridionali
della penisola.
La rivolta di Masaniello
Rivolte antispagnole
Nei territori sottoposti al dominio spagnolo il malcontento per la pressione
fiscale si uni spesso alla volontà di mantenere, o riconquistare, le proprie
tradizioni di autogoverno e autonomia, come avvenne in Catalogna e in
Portogallo, dove la ribellione antispagnola fu sostenuta da tutti gli strati
sociali.
Non così nel Regno di Napoli, dove furono i ceti popolari – artigiani, mercanti,
contadini, ma anche gruppi di borghesi e intellettuali – a rendersi protagonisti
di un movimento di rivolta antifeudale che ben presto assunse un carattere
antispagnolo.
L'esosità del fisco spagnolo, l'iniqua distribuzione del carico fiscale, il
soffocante controllo dei baroni sulla società napoletana erano infatti invisi
tanto al popolo quanto alla borghesia. L'imposizione di un'ennesima gabella,
quella sulla vendita della frutta, diede il via alla rivolta napoletana del 7
luglio 1647.
Masaniello
La furia popolare, animata da un giovane pescivendolo di nome Tommaso Aniello,
detto Masaniello (1620-1647) e coordinata dall'abate Giulio Genoino, dilagò
rapidamente nei quartieri popolari e nelle campagne circostanti.
Un episodio analogo si verificò anche in Sicilia, a seguito dell'ennesimo
aumento del prezzo del pane. I rivoltosi napoletani, che rivendicavano la
riforma dell'ordinamento politico della capitale e l'abolizione di tutte le
nuove imposte, presero d'assalto i palazzi baronali, gli uffici del fisco, il
palazzo del viceré e le carceri.
Masaniello venne intanto nominato "capitano generale del popolo". Lo stile di
vita sfarzoso assunto dal capopopolo e le congiure dei suoi avversari finirono
per alienargli il favore popolare e il 16 luglio venne assassinato.
La sua morte non spense la rivolta, che ebbe anzi obiettivi più vasti:
l'armaiolo Gennaro Annese cercò di dar vita a una repubblica, prendendo a
esempio l'esperienza delle Province Unite, e chiese aiuto alla Francia.
L'atteggiamento del cardinale Mazzarino fu molto cauto, ma l'appello fu raccolto
dal nobile francese Enrico di Guisa, che fu nominato capo della Real repubblica
napoletana.
Il fronte dei rivoltosi, peraltro mal guidato, non riuscì tuttavia a trovare una
ispirazione unitaria e fu facile preda dei nemici: il governo spagnolo e i
baroni organizzarono una repressione sistematica a Napoli e nelle campagne.
Nel 1648 la repubblica fu abbattuta e la situazione tornò alla normalità.
GLI STATI E LE GUERRE DEL '700
Introduzione al '700
Il '700
Quello che chiamiamo qui '700 non è un periodo di cento anni precisi,
definiti dall'inizio e dalla fine del secolo XVIII. È invece un arco temporale
più lungo che inizia nel 1660 e si conclude tra il 1775 e il 1789 alla vigilia
dell'età delle grandi rivoluzioni, quella americana, quella francese e quella
industriale.
Il '700 coincide prima con l'apogeo e poi con la crisi dell'assolutismo, il
sistema di governo prevalente nell'Europa continentale, nel quale la sovranità
dello Stato coincide con quella del monarca. Ma è anche il periodo in cui si
viene formando in Gran Bretagna il sistema parlamentare, una forma di governo
che pone limiti precisi ai poteri del sovrano e li trasferisce al Parlamento.
Questa scelta di definire col nome di '700 un periodo cronologico più lungo e
diverso risponde all'esigenza di dare un senso compiuto e facilmente
individuabile a una serie di elementi e di caratteri che connotano per quell'arco
di anni l'intera Europa sul terreno della politica, dell'economia, delle
strutture sociali della cultura.
La periodizzazione
Delimitare un periodo e dargli un nome rientra in quella pratica fondamentale
del lavoro degli storici che chiamiamo periodizzare, di cui sono noti
innumerevoli esempi.
È il risultato di un'operazione conoscitiva che fa parte dei fondamenti della
storia e della concezione di un tempo lineare che non ammette ritorni ciclici.
Questa concezione affonda le sue radici nelle grandi religioni monoteiste, come
il cristianesimo, che adotta la cronologia prima e dopo Cristo, base del
calendario dominante nel mondo, o come l'Islam, con prima e dopo l'egira.
È così possibile tracciare una linea del tempo scandita in giorni, mesi, anni,
decenni, secoli ecc., ma ripartita in periodizzazioni storiche che rompono la
rigida misura cronologica, si dilatano o si restringono, in relazione al
significato unitario che le diverse culture e le diverse convenzioni
storiografiche attribuiscono a queste scansioni.
Accanto ai grandi contenitori temporali, come "Medioevo", "età moderna", "età
contemporanea" si collocano segmenti più brevi come "età della riforma e della
controriforma" o "età delle rivoluzioni".
Queste denominazioni sono fondate su convenzioni diffuse, costruiscono un
linguaggio comune e condiviso, consentono agli storici una comunicazione
consensuale, ma possono essere, proprio per la loro dimensione convenzionale,
criticate e contraddette dando luogo a diverse periodizzazioni e a diverse
interpretazioni.
Il '700 europeo, nel nostro caso, rappresenta in questo caso l'ultima fase
dell'età moderna prima dei grandi sconvolgimenti rivoluzionari che, secondo la
tradizione italiana, ma anche francese e tedesca, danno origine all'età
contemporanea. A questo lungo '700 seguirà un lungo '800 – dalla Rivoluzione
francese alla vigilia della prima guerra mondiale – e un breve '900, dal 1914
alla caduta dei comunismi nel 1989-91.
Non si tratta solo di denominazioni, ma di "contenitori temporali"
caratterizzati da alcuni elementi ben identificati.
La modernità politica europea: assolutismo e parlamentarismo
Uno degli elementi che caratterizzano l'età moderna è la nascita dello Stato
centralizzato, diverso e contrapposto alla frammentazione dei poteri feudali
tipici del Medioevo.
Lo Stato moderno è una formazione politica che sorge e si sviluppa nelle
signorie e principati italiani a partire dal '400 per poi svilupparsi in altre
parti d'Europa, sia nei grandi paesi che in territori meno estesi: agli Stati
nazionali – come la Francia o la Spagna – si affiancano gli Stati territoriali,
diffusi in Italia e in Germania.
Fondamenti dello Stato moderno sono la burocrazia, la diplomazia, un esercito
professionale dipendente dal sovrano e un sistema di tassazione nazionale,
indispensabile per pagare esercito e burocrazia.
L'acquisizione e l'efficiente funzionamento di questa macchina statale sono
processi graduali che giungono a compimento solo nel periodo successivo alla
rivoluzione francese. Ma il lungo '700 di cui parliamo rappresenta un lasso di
tempo decisivo di questo processo: da un lato vede il massimo sviluppo dello
Stato moderno nella forma dell'assolutismo e gli inizi della sua crisi,
dall'altro registra il fallimento di questo sistema di governo nonostante i
tentativi compiuti dai re della dinastia Stuart di introdurlo in un grande paese
come l'Inghilterra.
Se dunque la Francia di Luigi XIV (1661-1715) rappresentava il paradigma della
monarchia assoluta e del governo personale del sovrano, tanto da giustificare
l'espressione attribuitagli «l'état c'est moi», 'Io Stato sono io', in
Inghilterra iniziarono a consolidarsi, dopo la seconda rivoluzione del 1688-89 e
i successivi atti legislativi, i poteri del Parlamento.
La modernità politica dell'Europa si presentava dunque con due volti diversi e
in larga misura opposti, destinati entrambi a sviluppi significativi nel secolo
successivo. Da un lato il completamento dell'architettura dello Stato moderno
nelle forme in cui lo conosciamo anche oggi, dall'altro la progressiva sconfitta
della monarchia assoluta, il passaggio alla monarchia costituzionale, in cui
l'esercizio del potere è regolato e limitato dalle norme raccolte nella
Costituzione, e infine il successivo affermarsi, in gran parte dell'Europa, di
un sistema parlamentare al fianco delle antiche monarchie.
Così dall'iniziale radicale divaricazione si giungerà a un sostanziale intreccio
dei modelli politici originariamente contrapposti.
La geografia politica dell'Europa nel '700
Se Francia e Inghilterra rappresentavano i punti più alti dello sviluppo
politico europeo del '700, uno sguardo panoramico all'intero continente ci
restituisce un affresco composito in cui, accanto a Stati sempre attivi nelle
dinamiche delle guerre dinastiche e di espansione, sono presenti altre realtà
solo marginalmente coinvolte nelle trasformazioni del secolo.
La Spagna, dopo una fase di nuovo protagonismo politico e militare legato al
cambio della dinastia regnante dagli Asburgo ai Borbone (1700) e ai conflitti
che ne derivarono, usci gradatamente dalla grande politica europea.
La Francia invece continuò a esercitare, pur con qualche difficoltà, il ruolo di
potenza egemone sul continente ottenuto con la pace di Vestfalia (1648) e la
conseguente frammentazione dei piccoli Stati tedeschi posti oltre il suo confine
orientale.
L'Europa nel '700
Ma il bassopiano germanico, che si estende dal Reno verso est, vide nella sua
parte centro-orientale il rafforzarsi, in questo periodo, della Prussia,
destinata progressivamente a divenire l'antagonista della Francia grazie alla
sua capacità espansiva a ovest e a est del suo nucleo originario.
Il grande Regno di Polonia, indebolito dai contrasti interni tra le varie
fazioni nobiliari di una monarchia elettiva, divenne preda delle ambizioni dei
potenti vicini – Russia, Austria e Prussia – che si spartirono i suoi territori
fino a cancellare la Polonia autonoma dalla carta geografica (1772-95).
A est la Russia, dopo la vittoria sulla Svezia per il controllo del Baltico,
oltre ai guadagni territoriali a spese della Polonia, consolidò la sua
colonizzazione della Siberia, iniziata nel '600 e portata fino ai confini con la
Cina e alle coste del Pacifico.
L'Austria, coinvolta a più riprese nei conflitti dinastici da cui usci solo
parzialmente sconfitta, rimase tuttavia la potenza egemone nei Balcani
settentrionali in costante confronto con l'impero ottomano.
L'Italia, soggetto passivo dei giochi dinastici del secolo, conservava come
elementi di stabilità lo Stato pontificio lungo la diagonale dal Lazio alle
Romagne, la Repubblica di Venezia, in costante arretramento nei suoi domini
greci e del Mar Ionio sotto la pressione dei turchi, e quella di Genova ormai
lontana dagli antichi splendori.
A cavallo delle Alpi occidentali l'opportunismo politico e militare consentì ai
Savoia di ampliare e stabilizzare, dopo alterne vicende, i loro possedimenti
elevati al rango di Regno di Sardegna.
In questa Europa delle monarchie,poi, convivevano numerose piccole
repubbliche (come Lucca o San Marino in Italia) e città commerciali come quelle
sul Mare del Nord o sul Baltico (Brema, Amburgo, Lubecca), tutte rette da
patriziati cittadini.
Diverso il caso della Svizzera, dove, dopo anni di conflitti tra cattolici e
protestanti, si era realizzato un equilibrio che conservava l'autonomia dei
singoli cantoni e l'indipendenza dai forti Stati confinanti.
Da questo quadro panoramico dell'Europa continentale è rimasta fuori la
struttura sociale e politica più nuova, quella delle Province Unite o Olanda:
una repubblica mercantile, ricca, colta e tollerante, votata all'espansione
oltreoceano fino alla lontana Indonesia, conquistata a partire dal 1602, ma con
un retroterra agricolo moderno, di contadini e proprietari, tenuta insieme,
nella sua varietà, dalla guida politica della nobile famiglia degli Orange.
Certo, non era più l'Olanda del "secolo d'oro" dopo l'arretramento seguito ai
successi dell'Inghilterra, proiettatasi verso il dominio dei traffici e degli
insediamenti transoceanici. Peraltro, anche le ambizioni di espansione coloniale
della Francia uscirono ridimensionate dal conflitto con la Gran Bretagna, una
sconfitta (sancita nel 1763) che testimoniava come il grande commercio e il
controllo degli oceani fosse divenuto il presupposto dello sviluppo economico e
il fondamento di una nuova epoca, quella dell'industrializzazione.
La società e l'economia di ancien régime
Con ancien régime, o 'antico regime', i rivoluzionari francesi
chiamarono il sistema politico travolto dalla Rivoluzione francese del 1789. Gli
storici adottarono la denominazione ancien régime, usata dai
rivoluzionari, per indicare, al di là della Francia, tutta l'Europa
prerivoluzionaria.
Tra i caratteri distintivi dell'ancien régime due appaiono fondamentali e
tali da giustificare, nonostante le differenze, uno scenario uniforme: la
sopravvivenza del feudalesimo e dei privilegi del clero e una rigida separazione
tra i diversi ceti che rendeva ardua ogni forma di mobilità sociale verso
l'alto.
Ne discendeva l'immagine di una società irrigidita nella difesa dei poteri e dei
quadri sociali tradizionali, un'immagine solo in parte corrispondente alla
realtà e incapace di dar conto di alcuni fattori di graduale trasformazione che
segnano in modo evidente questo periodo.
Il primo di tali fattori è il tendenziale aumento della popolazione che investe
gran parte dell'Europa. Questa crescita demografica è il segnale inequivocabile
del miglioramento del livello di vita della popolazione nel suo insieme,
determinato da una maggiore disponibilità di risorse alimentari e dalla
riduzione delle epidemie devastanti.
Inoltre, la crescita della popolazione comporta inevitabilmente l'aumento dei
consumi e il fatto che non si torni alle gravi crisi alimentari dei decenni
precedenti è segno di una produzione agricola ormai cresciuta e di un sistema di
scambi e di approvvigionamenti più dinamico. Nei paesi più coinvolti negli
scambi commerciali (le Fiandre, l'Inghilterra) si assiste inoltre a uno sviluppo
particolare dell'industria domestica che comporta un aumento dell'offerta di
prodotti per il mercato e un corrispondente aumento della domanda di beni
durevoli e di consumi.
La somma di tanti episodi economici di piccola scala e un tessuto diffuso di
unità produttive favorisce quella "rivoluzione industriosa" che precede e
accompagna la successiva rivoluzione industriale (avviata tra fine '700 e inizi
'800 in Gran Bretagna).
La svolta culturale e il riformismo illuminato
A contraddire l'immobilità dell'ancien régime intervenne anche la
rivoluzione culturale dell'Illuminismo radicata in parte sulle ormai lontane
premesse di quella rivoluzione scientifica che, nei due secoli precedenti, aveva
via via sgretolato la concezione aristotelica della natura e contraddetto la
visione della storia e dell'uomo fondata sulla Bibbia.
La ricerca scientifica metteva progressivamente in luce l'estraneità, dal punto
di vista fisico-matematico e sperimentale, delle concezioni della realtà legate
alla prospettiva della trascendenza e confermava così il processo avviato nel
Rinascimento.
Accanto ai temi innovativi delle scienze della natura e del pensiero politico —
da Locke a Montesquieu, da Rousseau a Beccaria —, spicca la capillarità della
circolazione delle nuove idee che coinvolge tutti i centri culturali dell'Europa
e che annovera tra i suoi centri propulsori le città e le regioni del nuovo
sviluppo economico.
Questa rivoluzione culturale si traduce in una pluralità di esiti: sollecita al
riformismo molti sovrani, promotori di una serie di provvedimenti amministrativi
che non intaccano la gerarchia dei poteri, ma limitano fortemente il ruolo della
Chiesa cattolica fino alla cacciata dei gesuiti, uno dei suoi bracci operativi
più potenti; contribuisce al sorgere di una nuova opinione pubblica borghese
consapevole del proprio ruolo e critica del sistema assolutista; svela infine la
crisi inarrestabile di un grande paese come la Francia, tra i maggiori
produttori e consumatori della nuova cultura.
Proprio l'impossibilità di risolvere una crisi che nasceva dall'interno stesso
del sistema di potere francese diede l'avvio a una serie di eventi che sarebbero
sfociati nella Rivoluzione e nella caduta dell'ancien régime.
L'assolutismo in Francia
«Io me ne vado, ma lo Stato rimarrà per sempre».
Queste parole furono pronunciate da Luigi XIV sul letto di morte: parole
ascoltate da uno stuolo di cortigiani raccolti intorno a lui.
Era il 1715 e Luigi aveva regnato più di settant'anni da quando, bambino di
neanche cinque anni, era succeduto al padre nel 1643.
Nei primi tempi il paese era rimasto affidato alla reggenza della regina-madre
Anna (degli Asburgo di Spagna) e al cardinale Mazzarino che aveva traghettato la
Francia attraverso le due guerre civili della Fronda e salvato la monarchia dei
Borbone: ma nel 1661, alla morte di Mazzarino, il giovane re aveva iniziato a
governare in prima persona.
Era finita l'epoca dei grandi ministri, Richelieu e Mazzarino, e iniziava l'età
di Luigi XIV.
L'accentramento dei poteri
Il rafforzamento dello Stato fu in effetti la realizzazione più significativa
di quel periodo e ancora oggi la Francia, dopo il completamento dell'opera della
monarchia assoluta compiuto da Napoleone agli inizi dell'800, si distingue per
una forte centralizzazione delle istituzioni politiche e amministrative.
Luigi XIV si avvalse di numerosi ministri e collaboratori, ma accentrò nelle sue
mani il governo dello Stato e non rinunciò mai a intervenire sulle questioni
principali.
L'accentramento nelle mani del sovrano di tutti i poteri comportava la
contemporanea riduzione di tutti i potenziali antagonismi. L'antica nobiltà di
spada, resasi pericolosa ai tempi della Fronda, fu svuotata dei suoi residui
poteri, ammansita da donativi e pensioni, e obbligata a risiedere a corte almeno
sei mesi l'anno sotto l'occhio vigile del re.
Versailles, lo spettacolo del potere assoluto
La nuova reggia di Versailles, il grandioso palazzo costruito a una ventina
di chilometri da Parigi, allontanò la corte dalla popolazione irrequieta della
capitale divenendo il centro effettivo del governo e la rappresentazione
scenografica del potere del grande sovrano.
Imitata, seppure in scala minore, in tutta l'Europa continentale, Versailles
rappresentava l'esempio tangibile di un'egemonia culturale confermata anche
nell'adozione del francese come lingua parlata da tutta la nobiltà europea.
Alla corte di Versailles tutto ruotava intorno alla persona del re e alla sua
stessa vita privata, a cominciare dalle cerimonie del risveglio e della
vestizione alle quali erano ammessi singoli esponenti della grande nobiltà. La
partecipazione a questi rituali, regolata dalle norme di etichetta che fissavano
la posizione di ognuno nei diversi gradi di vicinanza fisica al sovrano, era un
privilegio ambito e ricercato. Ma questi privilegi dispensati dall'alto
contribuivano a trasformare i nobili, un tempo "pari" del re di Francia, in
sudditi cortigiani al suo servizio.
L'amministrazione e il colbertismo
Al declino della nobiltà di spada corrispondeva l'ascesa della più recente
nobiltà di toga, dalla quale erano tratti gli intendenti, esponenti di origine
borghese e di nomina regia, ai quali era affidata l'amministrazione delle
province, mentre dal centro un ruolo decisivo di coordinamento era svolto dal
controllore generale delle finanze, che fino al 1683 fu Jean-Baptiste Colbert.
Il controllo delle finanze e della fiscalità, elemento decisivo di tutti gli
Stati moderni, assumeva in Francia un'importanza tanto più decisiva quanto
maggiori erano le ambizioni politiche e militari di Luigi XIV.
Colbert avviò una politica economica volta ad aumentare la ricchezza interna
della Francia attraverso l'incremento delle esportazioni e l'introduzione di
alti dazi doganali sulle importazioni. Questa politica, nota come colbertismo,
era una variante del mercantilismo, una prassi comune ai maggiori Stati europei
che, se da un lato incrementava i commerci, dall'altro attivava aspre rivalità
tra i maggiori protagonisti dei mercati internazionali.
Colbert favorì lo sviluppo delle compagnie commerciali, l'espansione coloniale
in India, nelle Antille, in Africa e il consolidamento dei possessi già francesi
in Canada; finanziò le manifatture di beni di lusso e ne protesse
l'esportazione.
Era inevitabile che questo dinamismo francese entrasse in rotta di collisione
con gli interessi delle potenze marittime e commerciali come l'Inghilterra e
l'Olanda. In particolare la rivalità con le Province Unite, la repubblica dei
mercanti calvinisti, aveva anche delle giustificazioni confessionali con
evidenti riflessi sulla politica religiosa di Luigi XIV.
L'uniformità religiosa
L'imposizione dell'uniformità religiosa divenne presto uno degli obiettivi
dell'assolutismo monarchico: un'applicazione del principio del cuius regio
eius religio, 'la religione del principe sarà anche quella dei sudditi',
paradossalmente più rigida di quella in vigore negli Stati tedeschi dopo la pace
di Vestfalia del 1648.
Il cattolico Luigi XIV ritenne che la libertà di culto degli ugonotti, i
calvinisti francesi, garantita dall'editto di Nantes, concesso nel 1598 dal
nonno Enrico IV per la pacificazione religiosa della Francia, andasse cancellata
col pretesto che non esistevano più seguaci della «pretesa religione riformata».
In effetti gli ugonotti avevano visto ridotte le loro salvaguardie politiche e
militari già dai tempi di Richelieu e ora erano colpiti dalle continue angherie
dei reparti militari: ma erano tutt'altro che estinti, se ne contavano tra 800
mila e 1 milione.
La revoca dell'editto di Nantes (1685) determinò – nonostante i divieti di
emigrazione, le conversioni forzate e le requisizioni di beni – la fuga e
l'esilio di oltre 200 mila ugonotti verso i paesi protestanti in Europa e
oltreoceano: la Svizzera, l'Olanda, l'Inghilterra, il Nord America, la colonia
olandese del Sud Africa. L'emigrazione si tradusse in un grave danno economico
per la Francia che perse molti dei suoi migliori artigiani (ad esempio nel campo
della tessitura e dell'orologeria), marinai, ufficiali dell'esercito, mercanti e
uomini di cultura. Queste competenze arricchirono i paesi di destinazione e
alcuni se ne avvantaggiarono dal punto di vista demografico, come il Brandeburgo
e Berlino, dove si trovano ancora molti cognomi francesi.
Tra i motivi che contribuirono alla cacciata degli ugonotti vi era anche una
questione di prestigio: rafforzare l'immagine di re cattolico e di difensore
della fede offuscata dalla recente vittoria dell'imperatore contro i turchi che
si erano spinti ad assediare Vienna (1683).
Nell'imposizione dell'uniformità religiosa Luigi XIV, pur rimanendo fedele alle
tradizioni di controllo regio sulla Chiesa di Francia, contribuì alla
persecuzione dei giansenisti, più volte condannati dai pontefici romani.
I giansenisti (seguaci del teologo olandese Cornelio Giansenio, 1565-1638)
aderivano a una concezione della grazia come dono divino che li apparentava al
protestantesimo. Il loro maggior centro spirituale e culturale, il convento di
Port-Royal a una trentina di chilometri da Parigi, fu alla fine soppresso e raso
al suolo nel 1709.
I limiti dell'egemonia francese
Le guerre di Luigi XIV
Non bastavano certo l'imposizione dell'uniformità religiosa, né la
repressione delle sparse rivolte contadine, né l'espansione coloniale e neppure
la protezione delle arti o lo splendore di una reggia a costruire un grande
regno. Per la scala di valori di quell'epoca la fama si otteneva sui campi di
battaglia con la gloria militare, con la conquista di nuove città e territori.
Per questo si armava e potenziava un esercito permanente, si costruivano opere
di difesa e piazzeforti lungo i confini.
Luigi XIV fu quasi sempre in guerra, alternativamente con quasi tutti gli Stati
europei. Dal 1667 al 1697 la Francia perseguì con successo l'obiettivo di
allargare i propri confini a est, con l'annessione della Franca Contea e della
città libera di Strasburgo, e a nord con la conquista di Lille e di parte delle
Fiandre a spese dei Paesi Bassi spagnoli.
La guerra di successione spagnola
Quando, nel 1700, Carlo II morì senza figli e con lui si estinse la dinastia
degli Asburgo di Spagna, si scoprì che aveva designato come erede universale dei
suoi regni Filippo di Borbone, duca d'Angiò, nipote di Luigi XIV e della sua
sposa Maria Teresa (sorellastra del re defunto), purché i due rami della
dinastia dei Borbone (della monarchia di Francia e di Spagna) rimanessero
separati.
Filippo salì sul trono di Spagna, con il nome di Filippo V, ma nessuna delle
grandi potenze europee era disposta a credere che la clausola della separazione
sarebbe stata rispettata. Luigi XIV per primo, avviando l'occupazione dei Paesi
Bassi spagnoli, non sembrava volerla onorare.
Le altre grandi potenze europee – Austria, Inghilterra e Province Unite, seguite
tra le altre dalla Prussia – non potevano accettare il rischio dell'unificazione
delle corone di Francia e Spagna, che avrebbe dato vita a un enorme impero in
Europa e nelle Americhe, ed entrarono in guerra.
Il conflitto che ne seguì durò oltre dieci anni (dal 1702 al 1714) e le due paci
che lo conclusero – quella di Utrecht nel 1713 e quella di Rastatt nel 1714 –
ridimensionarono le ambizioni di Luigi XIV.
L'Europa nel 1714
Fu mantenuta la separazione dei due rami dei Borbone, mentre all'Austria di Carlo VI (1711-40) vennero concessi larghi vantaggi territoriali, a spese della Spagna, in Italia e nelle Fiandre quale compenso alla rinuncia dei diritti degli Asburgo d'Austria alla riunificazione dei domini asburgici quali erano stati al tempo dell'imperatore Carlo V.
Bilancio di un regno
Nel 1715 Luigi XIV morì: il suo lungo regno è considerato come il momento più
alto della monarchia assoluta in Europa.
Questo giudizio corrisponde solo in parte a quanto realmente avvenuto dal
momento che il progetto assolutista rimase largamente incompiuto e limitato dai
molti compromessi con le élites locali e con gli organismi giudiziari, i
parlamenti, spesso in conflitto con il sovrano. Riflette invece in larga misura
l'autorappresentazione della monarchia, della sua pompa e del suo splendore,
propagandata dalle gazzette del tempo e da innumerevoli immagini, tra cui quella
di Luigi XIV come il re Sole. Una rappresentazione accettata dai contemporanei e
confermata dai posteri.
Il regno di Luigi XV
L'ascesa al trono di Luigi XV (1715-74), pronipote di Luigi XIV, iniziava di
nuovo con un periodo di reggenza, affidata a Filippo d'Orléans, dal momento che
il nuovo re era anche lui un bambino di appena cinque anni. A differenza del
predecessore, tuttavia, quando raggiunse la maggiore età Luigi XV affidò il
governo del paese ai suoi ministri.
In un primo periodo il prestigio francese rimase intatto e non mancarono i
successi militari e diplomatici, in particolare nel corso di due diverse guerre
di successione, quella polacca e quella austriaca, che consentirono l'annessione
dell'importante provincia orientale della Lorena.
Durante la cosiddetta guerra dei Sette anni (1756-63), invece, si consumò il
conflitto tra Francia e Gran Bretagna, schierate su fronti opposti, per il
controllo dei domini coloniali: il conflitto si risolse in una sconfitta epocale
dei francesi con la perdita di ampi territori in America del Nord (il Canada) e
dei recenti insediamenti in India.
Nonostante questi gravi insuccessi la Francia rimaneva pur sempre la maggiore
potenza continentale europea, ma gli scandali, gli intrighi e la corruzione
della corte e il ruolo stesso della monarchia interpretato da un re irresoluto
in politica e dissoluto nella vita privata sollevavano la critica velenosa dei
polemisti, degli intellettuali e dell'opinione pubblica borghese.
Inoltre gli altissimi costi delle guerre avevano ormai innescato una crisi
finanziaria alla quale il governo non riuscì a porre rimedio né allora né in
seguito, data l'impossibilità di tassare il clero e i ceti nobiliari, fino a
sfociare in una più ampia crisi del sistema assolutista e nel suo tracollo con
la Rivoluzione del 1789.
La rivoluzione del 1688-89 in Inghilterra
Gli anni che vanno dal 1660 al 1730 videro in Inghilterra prima la sconfitta di una monarchia a vocazione assolutista, poi il prevalere della sovranità del Parlamento in tutte le grandi questioni politiche — dalla definizione dei diritti dei sudditi alle norme per la successione al trono —, infine la nascita di un governo controllato dal Parlamento.
Da Giacomo Il Stuart a Guglielmo Il d'Orange
Dopo la breve esperienza della Repubblica di Cromwell (1650-60), la
restaurazione monarchica della dinastia Stuart, sancita nel 1660
dall'incoronazione di Carlo II, aveva lasciato irrisolto e anzi accentuato il
dualismo di poteri tra la Corona e il Parlamento.
Quando nel 1685, dopo la morte di Carlo II, il fratello Giacomo II salì al trono
e iniziò a governare, il conflitto si riaccese fino a sfociare tre anni dopo in
una soluzione rivoluzionaria.
Giacomo II infatti non solo si era convertito al cattolicesimo, ma dal suo
secondo matrimonio, con una nobile italiana della casa d'Este, era nato un erede
maschio che minacciava la continuità della monarchia protestante. Inoltre, la
politica assolutista del re, ispirata a quella di Luigi XIV, puntava a
modernizzare lo Stato costruendo un organismo accentrato e burocratico, a
ridurre i privilegi della Chiesa anglicana, a distribuire le cariche tra
l'esigua minoranza cattolica.
Tutte queste iniziative suscitarono una diffusa opposizione nel paese tanto da
indurre sette esponenti della nobiltà inglese a inviare, nel giugno 1688, una
lettera a Guglielmo d'Orange, governatore delle Province Unite e marito di
Maria, figlia di primo letto di Giacomo II, per invitarlo a intervenire
militarmente in difesa delle «libertà inglesi e della religione protestante».
Approntata una flotta, il 4 novembre 1688, Guglielmo sbarcò sulla costa
meridionale dell'Inghilterra con 11 mila fanti e 4 mila cavalieri. Giacomo II,
indebolito dalla defezione di molti dei suoi ufficiali, si sottrasse allo
scontro, ma venne catturato e brevemente imprigionato, salvo consentirgli, poco
dopo, di fuggire in Francia.
Nel febbraio 1689 il Parlamento, dopo una complessa trattativa tra Camera dei
Lords e Camera dei Comuni, proclamò Guglielmo e Maria unitamente re e regina
d'Inghilterra con il titolo di Guglielmo III e Maria II.
Il Bili of Rights e l'Act of Settlement
Nel mese successivo i due sovrani accettarono una dichiarazione dei diritti
che elencava gli abusi di Giacomo II, le prerogative del Parlamento e i compiti
dei nuovi sovrani, condizione politica per la loro ascesa al trono.
Questo testo, trasformato in legge dal Parlamento il 18 dicembre 1689, è noto
come Bill of Rights («la legge sui diritti dei sudditi e sulle norme
della successione»). In una serie di punti si stabiliva, tra l'altro, il divieto
per il sovrano di sospendere l'applicazione delle leggi e di tenere un esercito
permanente in tempo di pace senza il consenso del Parlamento, si riaffermava la
libertà delle elezioni politiche, la libertà di stampa e di parola, nonché il
diritto dei sudditi protestanti di tenere armi per propria difesa; infine
escludeva la possibilità che un discendente cattolico della famiglia Stuart
salisse sul trono di Inghilterra.
Il Bill of Rights divenne la legge fondamentale del regno.
Nel 1701, di conseguenza, di fronte alla mancanza di eredi protestanti del ramo
principale degli Stuart, il Parlamento decretò il passaggio del trono alla
casata tedesca degli Hannover, lontani parenti protestanti degli Stuart: ci
riuscì approvando l'Act of Settlement (la legge della successione che
impediva a un cattolico di salire al trono) e riaffermando così la supremazia
degli organismi rappresentativi in Inghilterra.
La seconda Rivoluzione inglese: "gloriosa", ma tutt'altro che pacifica
Gli avvenimenti del 1688-89 sono passati alla storia col nome di "gloriosa
rivoluzione", una definizione destinata a celebrare la soluzione pacifica di un
conflitto in cui vincitori e perdenti avevano tenuto un atteggiamento moderato.
Questa volta il re era fuggito, non era stato decapitato come Carlo I nel 1649
al culmine della prima Rivoluzione inglese, e il radicalismo politico era stato
bandito dalla contesa.
Questa volta aveva prevalso la tolleranza nei confronti dei protestanti che non
si riconoscevano nella Chiesa anglicana (puritani e quaccheri), liberi ora di
professare i loro culti (grazie al Toleration Act del 1689): una
tolleranza che non si estendeva tuttavia ai cattolici ("i papisti") che
rimanevano nemici irriducibili.
Questa volta la rivoluzione non era sfociata in una dittatura, com'era stata
quella di Cromwell, ma era nata una monarchia di tipo costituzionale fondata
sulla separazione dei poteri tra re e Parlamento. Un sistema politico che aveva
i suoi fondamenti nel Bill of Rights e nella precedente legge sull'Habeas
corpus (1679), la norma che impediva gli arresti arbitrari imponendo che
entro tre giorni un giudice convalidasse il fermo dell'accusato: questa tutela,
che garantiva gli avversari politici, sarebbe diventata uno dei capisaldi di
ogni ordinamento liberale e/o democratico.
In realtà la rivoluzione del 1688-89, se fu "gloriosa" per i risultati
politici conseguiti, fu tutt'altro cha pacifica.
Non fu il risultato di un tranquillo accordo tra élites politiche e
religiose sigillato dal Bill of Rights. Fu invece un aspro conflitto tra
schieramenti contrapposti, contrassegnato, come tutte le altre rivoluzioni, da
una vasta mobilitazione popolare, da insurrezioni, sommosse e rivolte,
soprattutto in Scozia e in Irlanda, e da una dura repressione.
L'episodio più significativo si ebbe nell'estate del 1690, quando lo sbarco in
Irlanda del cattolico Giacomo II, alla testa di un contingente francese, aveva
costretto Guglielmo III a intervenire. L'11 luglio, lungo il fiume Bovne
l'esercito di Giacomo affiancato da milizie raccogliticce di contadini cattolici
irlandesi, fu sconfitto dalle più numerose e addestrate truppe di Guglielmo d'Orange,
composte da reggimenti scelti olandesi e danesi a cui si erano aggiunti reparti
di ugonotti francesi: fu quella l'ultima battaglia confessionale del '600.
La vittoria confermò l'esito della rivoluzione e consolidò la posizione
internazionale di Guglielmo III, ma solo nel 1697 Luigi XIV riconobbe la
legittimità della nuova monarchia inglese e allentò il sostegno, fino allora
concesso, a Giacomo II e ai suoi seguaci.
Verso il governo parlamentare in Gran Bretagna
Whigs e Tories
La visione della rivoluzione del 1688-89 come una rivoluzione pacifica è il
frutto di una costruzione propagandistica a posteriori compiuta dai Whigs,
la fazione politica che dominò la vita politica inglese in quel periodo e per
gran parte del '700, in costante antagonismo con i Tories. In realtà,
l'ascesa al trono di Guglielmo e Maria fu il risultato di un accordo tra una
maggioranza whig della Camera dei Comuni e una minoranza tory
presente soprattutto nella Camera ereditaria dei Lords.
La contrapposizione tra i due schieramenti, che diverrà poi quella tra liberali
(i Whigs) e conservatori (i Tories), era basata allora più sugli
orientamenti politici che sulle diverse origini sociali.
Entrambi i gruppi provenivano dalla nobiltà terriera, grande o piccola, e solo
alcuni membri (tra i Whigs) discendevano da una borghesia terriera o
cresciuta al servizio dello Stato e poi nobilitata. Monarchici i Tories e
legati alla Chiesa anglicana; sostenitori della sovranità del Parlamento i
Whigs, ispirati dalle nuove riflessioni politiche maturate in questo
periodo, in particolare dal contrattualismo e dall'idea di tolleranza teorizzati
dal filosofo John Locke: entrambi erano favorevoli alla politica espansionistica
oltreoceano, con una preferenza dei Tories per le conquiste territoriali,
mentre i Whigs erano sostenitori dello sviluppo commerciale.
Il governo parlamentare
Nel 1707 la Corona d'Inghilterra (con il Galles) e quella di Scozia si
unirono costituendo la Gran Bretagna.
Dopo questo evento e durante il regno dei primi due sovrani della casata degli
Hannover, Giorgio I (1714-27) e Giorgio II (1727-60), il predominio whig
fu esercitato da Robert Walpole, un uomo politico di grande abilità, dal 1721 al
1742. Fu con lui che nacque quella prassi politica chiamata governo di
gabinetto, un governo formato da un gruppo ristretto di ministri scelto e
guidato dal leader della maggioranza parlamentare che, su delega del sovrano,
esercitava il potere esecutivo sotto il controllo del Parlamento.
Si trattava della prima attuazione di un sistema di governo parlamentare e del
passaggio da una monarchia costituzionale a una monarchia parlamentare che in
Gran Bretagna si sarebbe realizzata compiutamente nel secolo successivo.
Questo sistema politico rimaneva in graduale definizione, legato com'era non
solo alle qualità dei leader del Parlamento, ma anche alla personalità dei
sovrani e alla loro propensione a intervenire nella politica della nazione:
debole quella di Giorgio I e Giorgio II, decisamente più incisiva quella di
Giorgio III, il primo re della dinastia degli Hannover nato in Inghilterra, che
regnò dal 1760 al 1820.
I caratteri della vita politica
Nella lunga fase di trasformazione dei rapporti istituzionali tra re, governo
e Parlamento, la lotta politica era dominata dal conflitto per mantenere il
controllo del patronage, il meccanismo, fondato su relazioni personali e
clientelari, che garantiva la distribuzione e il controllo delle più importanti
cariche governative.
La corruzione era diffusissima come lo era la pratica di comprare i voti per
essere eletti soprattutto nelle piccole circoscrizioni rurali, dominate dai
maggiorenti locali, spesso nobili e grandi proprietari terrieri. Un sistema di
abusi e irregolarità destinati a essere modificati solo con la riforma
elettorale del 1832.
La vita politica era oggetto di vivaci discussioni e critiche da parte di
un'opinione pubblica che si veniva formando nei luoghi di ritrovo come le
coffeehouses (i caffè) o nella lettura delle gazzette sempre più diffuse
anche lontano dalle grandi città.
Tutti questi aspetti erano espressione di un vitale dinamismo della società
inglese. Pur rimanendo divisa, essa era concorde nella difesa degli interessi
nazionali che ormai vedevano intrecciati lo sviluppo del commercio
internazionale e il controllo di vasti territori oltreoceano.
La politica estera
Divenuta ormai la maggiore potenza marittima, la Gran Bretagna era tuttavia
pronta a intervenire in Europa, direttamente o sovvenzionando gli alleati, per
evitare che l'equilibrio tra le potenze venisse alterato dalle guerre di quegli
anni, avvantaggiando stabilmente uno dei contendenti.
Durante la guerra dei Sette anni (1756-63), sotto la guida di William Pitt il
Vecchio, gli inglesi sconfissero le ambizioni coloniali della Francia in Canada,
nelle Antille e in India. I successi in serie per terra e per mare dell'«anno
mirabile 1759» furono poi consolidati dalla pace di Parigi del 1763 che
consegnava alla Gran Bretagna un dominio degli oceani destinato a durare per
oltre un secolo e mezzo.
Le ragioni delle guerre
Le molte guerre di un secolo
Dalla pace dei Pirenei (1659), che aveva chiuso il conflitto tra Francia e
Spagna, e fino alle paci di Parigi e Hubertusburg (1763), che conclusero la
guerra dei Sette anni, si contano in Europa almeno quindici guerre in cui si
confrontarono più di due contendenti.
Guerre per il controllo degli oceani e del commercio internazionale, che videro
coinvolte le une contro le altre Gran Bretagna, Olanda, Spagna e Francia; guerre
per il dominio del Baltico e dei suoi territori costieri, tra Svezia, Danimarca,
Russia, Prussia e Polonia; guerre per la successione dinastica sui troni di
Spagna, Polonia, Austria. Vanno ricordate anche le guerre contro i turchi
ottomani, combattute dall'Austria nei Balcani e dalla Russia per la conquista
delle sponde del Mar Nero.
Gli attori principali degli scenari bellici, in Europa e sul fronte
extraeuropeo, furono Francia, Gran Bretagna, Austria e Russia, cui presto si
affiancò una giovane potenza, la Prussia, che andava consolidandosi lungo le
rive del Mar Baltico.
Le origini di tante guerre si possono spiegare individuando quattro motivi
principali spesso intrecciati e coincidenti tra loro: gli interessi commerciali,
le questioni dinastiche che sottendono una concezione patrimoniale dello Stato
(secondo l'idea che il potere regio si riceve in eredità dal predecessore come
se fosse un bene patrimoniale di famiglia), le ambizioni di conquista, il
contesto geopolitico.
Gli interessi commerciali
Per i paesi che avevano possedimenti, più o meno ampi, nelle Americhe, nelle
Antille, sulle coste africane, in Asia, l'obiettivo delle guerre era per alcuni
difendere tali territori per altri quello di accrescerli.
Era in palio il controllo dei commerci più redditizi, come quello degli schiavi
africani, o quello delle importazioni e riesportazioni di beni di lusso
(tessuti, porcellane) o dei generi coloniali (caffè, tè, zucchero, tabacco).
In questo quadro la Spagna tenne un ruolo difensivo di fronte alla politica
aggressiva dell'Olanda, della Francia e soprattutto della Gran Bretagna.
Le questioni dinastiche
In questo periodo ogni variazione delle regole di successione dinastica
divenne motivo di conflitto tra le potenze: dal momento che quasi tutte le case
regnanti erano in qualche misura imparentate tra loro, era sempre possibile
rivendicare diritti nel caso di estinzione della linea diretta maschile di
successione.
Scendevano allora in campo gli eserciti e si dava avvio a una guerra: ma dopo
qualche anno e molte battaglie interveniva la diplomazia che, attraverso una
serie di compensazioni territoriali, riportava in equilibrio il sistema dei
rapporti di forza tra le potenze.
Così era accaduto al tempo della guerra di successione spagnola, e così accadde
per la successione polacca e, poco dopo, nel 1740, per quella austriaca.
Alla morte dell'imperatore Carlo VI, privo di eredi maschi, la figlia Maria
Teresa salì al trono dei domini di casa d'Austria, come era stato stabilito da
una norma, la Prammatica sanzione, emessa dallo stesso imperatore molti
anni prima (nel 1713), per consentire la discendenza femminile fin allora
proibita dall'antica Legge salica.
Le potenze, che appena due anni prima avevano trovato un accordo con l'Austria
al termine della guerra di successione polacca grazie a molte compensazioni
territoriali a danno degli Asburgo in Italia, rientrarono in guerra: erano
principalmente Francia, Spagna e Prussia (quest'ultima però non aveva preso
parte al precedente conflitto dinastico).
Il primo a muoversi fu il re della Prussia, Federico II, che occupò la ricca
provincia della Slesia fino allora in mano austriaca.
Dopo otto anni di scontri, la pace di Aquisgrana del 1748 provvide ad alcuni
scambi e restituzioni territoriali, ma la Prussia riuscì a conservare la Slesia;
inoltre, le potenze che avevano combattuto contro l'Austria (e i suoi alleati)
riconobbero la validità della Prammatica sanzione e accettarono l'ascesa
al trono imperiale di Francesco di Lorena, consorte di Maria Teresa d'Austria.
Le ambizioni di conquista
Se alla metà del '700 apparivano risolti i problemi legati alle successioni
dinastiche, non per questo si erano placate le ambizioni di conquista degli
Stati più aggressivi e dinamici.
Tra Francia e Gran Bretagna era ormai in atto un conflitto planetario, con i
francesi impegnati a ostacolare il predominio coloniale britannico. Al centro
dell'Europa, invece, la giovane potenza prussiana non si sentiva ancora
garantita nelle sue conquiste, accerchiata com'era da Austria, Francia e Russia.
Le tensioni scoppiarono nella guerra dei Sette anni (1756-63), che si combatté
su due fronti: europeo ed extraeuropeo.
Fu Federico II di Prussia a dare inizio alla guerra, ma le sue straordinarie
vittorie militari contro francesi e austriaci non gli avrebbero assicurato il
successo finale: solo l'improvvisa morte della zarina Elisabetta, sua acerrima
nemica, e l'ascesa al trono di Russia del filoprussiano Pietro III consentirono
alla Prussia di uscire indenne dalla guerra.
Sul fronte extraeuropeo la vittoria della Gran Bretagna sulla Francia, sancita
nel 1763, pose un freno all'espansione coloniale francese, mentre sul continente
europeo si stabilì una nuova intesa tra Prussia, Austria e Russia che avrebbe
portato, a partire dal 1772, alla progressiva spartizione del grande Regno di
Polonia.
Il contesto geopolitico
Il vario alternarsi di dinastie in Italia e la spartizione della Polonia sono
tra le conseguenze più significative delle guerre del '700.
Proprio questi risultati trovano una spiegazione se utilizziamo un criterio di
analisi geopolitica, un criterio che tiene conto della posizione geografica
delle singole aree e della forza delle organizzazioni statali che gravitano su
di esse.
Da questo punto di vista è possibile distinguere in Europa tra aree forti e aree
deboli. Le prime si collocano lungo il margine atlantico (Spagna, Portogallo,
Francia, Gran Bretagna e Province Unite) o appartengono alla Scandinavia, alla
Prussia e alla Russia: tutte corrispondono a realtà storiche, linguistiche e
religiose sostanzialmente definite e a strutture politico-amministrative già
consolidate o in via di costruzione.
Un arco di aree forti circonda dunque a ovest, a nord e a est due grandi aree
deboli, il bassopiano tedesco-polacco dall'Elba al Dnjepr e la Penisola
italiana: deboli per la labilità dei confini e per un regime politico soggetto
all'ingerenza continua delle potenze confinanti, nel caso della Polonia, o per
l'assenza di uno Stato unitario, nel caso dell'Italia.
Gli eserciti
Guerre numerose dunque per tutto il '700, ma non drammaticamente letali come
erano stati i massacri delle popolazioni al tempo dei conflitti religiosi.
Per condurre queste continue guerre era necessario potenziare gli eserciti ormai
divenuti permanenti. Un potenziamento che si ottenne non solo con il numero dei
soldati arruolati, ma con l'addestramento continuo e il rafforzamento della
disciplina.
I due aspetti erano strettamente collegati: si trattava di trasformare in
soldati professionali a lunga ferma contadini arruolati spesso con l'inganno,
sbandati, piccoli malviventi. Soldati resi uniformi dalla divisa, soggetti a una
disciplina spesso durissima, che dovevano imparare a marciare rapidamente
tenendo le linee compatte e a non scompigliarle sotto il fuoco nemico.
Soldati addestrati a sparare, a caricare e ricaricare rapidamente il moschetto,
pronti a usare la baionetta negli scontri ravvicinati.
Sempre più frequente era l'arruolamento nei territori dello Stato (con l'obbligo
per le singole province di fornire un certo numero di reclute, come avveniva in
Prussia), ma erano diffuse truppe professionali provenienti da paesi e regioni
che da secoli fornivano contingenti mercenari, come la Svizzera, la Scozia,
l'Irlanda nonché l'Asia e il Brunswick in Germania.
Si trattava anche di assicurarsi la fedeltà e la competenza di un corpo di
ufficiali, nei primi tempi tratti dalla nobiltà cadetta di tutta Europa, ma in
seguito sempre più originari degli Stati in cui prestavano servizio.
La burocrazia e l'amministrazione
L'alto costo delle guerre, degli armamenti e degli approvvigionamenti richiedevano un'organizzazione e una burocrazia in grado di raccogliere e amministrare le risorse materiali e umane. Come scrisse Federico II nel 1747, «Il maggior segreto nella condotta della guerra e il capolavoro per un buon generale è di riuscire ad affamare l'avversario. La fame esaurisce il nemico più sicuramente del coraggio altrui e voi otterrete il successo con meno rischi che attraverso il combattimento».
L'ascesa della Prussia
Una nuova potenza in Europa
«Giù il cappello, signori. Se ci fosse stato lui, noi oggi non saremmo qui».
Questo fu l'omaggio che Napoleone, vincitore a Jena contro i prussiani nel 1806,
rese di fronte alla tomba di Federico II.
L'imperatore francese celebrava il grande generale, ma Federico II va ricordato
soprattutto per il suo contributo decisivo all'ascesa della Prussia al rango di
grande potenza. Un risultato ottenuto non solo con le vittorie militari, ma con
il sistematico rafforzamento dello Stato e della sua amministrazione volta
soprattutto a garantire il finanziamento e il funzionamento di una efficiente e
potente macchina bellica.
Alla fine del regno di Federico II, la Prussia poteva mettere in campo un esercito
di 195 mila uomini mentre la Francia, con una popolazione almeno tripla, ne
schierava poco più di 180 mila.
Come dicevano i contemporanei, la Prussia non era «uno Stato con un esercito, ma
un esercito con uno Stato». In tutti gli aspetti relativi all'organizzazione
militare la Prussia divenne, nella seconda metà del '700, la potenza militare
più temibile anche grazie alla superiore capacità tattica e ai successi sui
campi di battaglia di Federico II contro avversari spesso più numerosi dei
prussiani.
Protagonista delle guerre contro la Francia di Napoleone e alla fine vincitrice
dopo molte umilianti sconfitte, la Prussia sarebbe diventata, nell'800,
l'elemento propulsore dell'unificazione tedesca, ottenuta dopo la sconfitta
della Francia nel 1870. Per questo la sua ascesa riveste un significato decisivo
nella storia europea.
La composizione territoriale del Regno di Prussia
Il regno di Federico II (1740-86) si collocava al termine di un processo che
era iniziato nei primi decenni del '600.
E infatti nel 1618 che la Prussia, una regione posta sul Baltico al confine
orientale della Polonia (cui era legata da vincoli feudali) oltre che possesso
originario dell'Ordine teutonico, si aggiunse ai territori del principe del
Brandeburgo, una regione storica della Germania centro-settentrionale. Prussia e
Brandeburgo erano e rimasero distanti tra loro per oltre un secolo e mezzo.
Quando l'elettore del Brandeburgo (della famiglia degli Hohenzollern) divenne re
di Prussia, nel 1701, le due regioni erano ancora separate: il Brandeburgo a
ovest con capitale Berlino e la Prussia a est con capitale Königsberg,
la patria del filosofo Immanuel Kant.
La formazione della Prussia
Solo con la prima spartizione della Polonia, nel 1772, si stabili una
continuità territoriale tra est e ovest. Peraltro al nuovo regno appartenevano
anche altri più piccoli Stati territoriali posti nella Germania occidentale.
Proprio questa frammentarietà sollecitò i principi elettori del Brandeburgo e
poi i primi re di Prussia a potenziare l'accentramento e l'amministrazione
statale: si trattava di piegare la nobiltà feudale e terriera, gli Junker, al
servizio dello Stato nell'amministrazione e nell'esercito e di ridurre i
privilegi e le autonomie periferiche.
Un esercito permanente era stato creato già da Federico Guglielmo il Grande
Elettore (1640-88) per poter entrare in gioco nei numerosi conflitti di
quell'epoca. Dopo la prima guerra del Nord (1654-60), con cui si era inserito
nel conflitto per la supremazia sul Baltico, il Grande Elettore ottenne la fine
della dipendenza feudale della Prussia dal Regno di Polonia, mentre la Svezia
conquistava il dominio sul Baltico assicurandosi anche il controllo delle coste
settentrionali della Germania.
Ma nella successiva seconda guerra del Nord, terminata nel 1720-21, la Svezia fu
sconfitta: il controllo del Baltico passò alla Russia, mentre il Regno di
Prussia ottenne la Pomerania e la città di Stettino che divenne il suo porto
principale.
L'impulso ai commerci e alle manifatture
Questo risultato consentiva alla Prussia di partecipare ai lucrosi commerci
del Baltico che fornivano legnami per la costruzione delle navi delle potenze
marittime e cereali per i paesi a forte urbanizzazione e demograficamente più
sviluppati.
Dal momento che il numero degli abitanti era considerato uno degli elementi
della ricchezza di un paese, venne visto positivamente l'arrivo degli emigrati
ugonotti dalla Francia nelle città del Brandeburgo e soprattutto a Berlino, dove
contribuirono a sviluppare le attività manifatturiere di una città
prevalentemente burocratica.
Ma la vocazione principale della Prussia rimase, in questo periodo, quella
militare per contrastare le altre grandi potenze territoriali dell'Europa
centrale.
La Russia da Pietro il Grande a Caterina II
Alla metà del '700 la Russia prese parte alla guerra dei Sette anni: per la
prima volta il grande impero dell'Europa orientale si spingeva con il suo
esercito nei territori tedeschi confrontandosi con i grandi Stati continentali.
Nei primi anni del secolo la Russia aveva infatti interrotto il suo isolamento
ed era ormai assurta al rango di grande potenza europea, dopo la conquista
dell'egemonia sul Baltico, seguita alla sconfitta di Carlo XII di Svezia sul
campo a Poltava, in Ucraina nel 1709, e alla pace di Nystadt del 1721.
Le politiche di Pietro I il Grande
Artefice di questa trasformazione fu lo zar, e poi imperatore, Pietro I il
Grande (1682-1725).
Rientrato a Mosca dopo un lungo viaggio in Europa
occidentale, dove ebbe modo di conoscere direttamente i sistemi di governo e
dare sfogo alla sua curiosità per la tecnica militare e le costruzioni navali
(in Olanda lavorò in un cantiere), nel 1698 Pietro assunse direttamente il
potere fin allora tenuto da una reggente.
Dotato di grande determinazione ed
energia (anche fisica: era alto più di due metri), diede inizio alla
modernizzazione della Russia.
Al di là di alcune iniziative fortemente
simboliche, come l'imposizione del divieto di portare le tradizionali lunghe
barbe a conferma del passaggio a costumi più occidentali, l'opera di Pietro fu
interamente politica e militare.
Il giovane zar – aveva allora 26 anni – seguì
le tre abituali direttrici riformatrici volte a costruire un sistema di governo
secondo il modello delle monarchie assolute: creazione di un esercito
permanente, con un parziale reclutamento obbligatorio; depotenziamento della
grande nobiltà posta ora al servizio dello Stato; costruzione di un sistema
amministrativo e di un sistema fiscale in grado di fornire le risorse alla
nascente potenza militare.
Inoltre, per vincere la sfida della supremazia nel
Baltico era indispensabile sconfiggere per terra e per mare la Svezia, che era
il principale avversario dell'impero russo. Fu così sviluppata anche una marina
da guerra mentre gli effettivi dell'esercito giunsero a quasi 300 mila uomini di
cui 100 mila cosacchi che, in cambio del riconoscimento dell'autonomia delle
loro comunità, prestavano una lunghissima ferma militare.
L'obiettivo del Baltico era confermato anche dalla fondazione nel 1703 di una
nuova capitale, San Pietroburgo, progettata da architetti italiani sull'estuario
del fiume Neva, all'estremità orientale del golfo di Finlandia: una città presto
divenuta scenografia monumentale del nuovo potere russo e insieme principale
porto militare e commerciale.
L'impatto sociale delle riforme
Un passaggio decisivo verso un'amministrazione moderna fu l'apertura a tutti
(nobili e borghesi) dell'accesso alle cariche statali, mentre ogni avanzamento
fu basato sulla preparazione e sul merito.
Nel 1722 la Tabella dei ranghi suddivise tutte le carriere (militari, civili, di
palazzo) in quattordici gradi; stabilì inoltre che tutti, compresi i nobili,
sarebbero partiti dal livello più basso, e che il raggiungimento dell'ottavo
grado avrebbe comportato il conferimento della nobiltà a chi ne era privo.
Veniva così favorita una mobilità sociale ascendente nel quadro
dell'amministrazione dello Stato.
Il potere dello zar, che si estendeva anche sulla Chiesa ortodossa e sulle
proprietà ecclesiastiche, era privo di ogni controllo, anche di quelli che nelle
monarchie assolute occidentali potevano provenire dagli organismi giudiziari o
dalle autonomie periferiche.
La Russia era ormai divenuta un'autocrazia, che corrispondeva al titolo che
Pietro si diede nel 1721 di «imperatore e autocrate di tutte le Russie».
La modernizzazione autocratica non intaccò le basi sociali del mondo rurale
russo basate sulla nobiltà terriera e sulla servitù della gleba: anche se le
antiche sopravvivenza schiavistiche vennero abolite, la servitù e la connessa
proprietà sulle persone e il controllo sui movimenti dei contadini servi si
mantennero fino al 1861, quando fu soppressa dall'imperatore Alessandro II.
Elisabetta I e Caterina II
La rapidità con cui furono realizzate tante riforme era destinata a creare
malcontento soprattutto tra la nobiltà, e i successori di Pietro dovettero
rallentarne la rigida applicazione. Il nuovo sistema di potere poteva funzionare
correttamente solo se esercitato da personalità forti, in grado di muoversi
abilmente e con determinazione tra le insidie della grande nobiltà e gli
intrighi di corte.
Dopo la morte dello zar riformatore, nel 1725, solo Elisabetta I (174162), che
impegnò la Russia nella guerra dei Sette anni contro la Prussia, e soprattutto
Caterina II (1762-96), che riprese i progetti riformatori ed estese i territori
russi in Polonia e verso il Mar Nero, possono reggere il confronto con il grande
Pietro.
L'Europa nel 1748
I risultati di cento anni di guerre
La gerarchia delle potenze
Gibilterra, la rocca che controlla gli accessi al Mediterraneo, è dal 1713 un
possesso britannico.
Il Québec, la maggiore colonia della Francia nell'America settentrionale, grande
cinque volte l'Italia e dove ancora si parla francese, fu conquistata dalla Gran
Bretagna nel 1759 e da allora fa parte del Canada, che fu colonia britannica
prima di diventare Stato indipendente.
Sono due esempi degli esiti delle guerre del '700 che modificarono i confini
degli Stati e le appartenenze delle colonie, instaurando una nuova gerarchia tra
le potenze europee.
La Spagna scese di rango e così le Province Unite e la Svezia, mentre emersero
le nuove grandi potenze di Prussia e Russia e la Gran Bretagna ottenne
l'egemonia sugli oceani.
Dalla Penisola iberica a occidente alla Russia e ai Balcani a oriente, per
chiudere con l'Italia a sud, possiamo seguire sulla carta d'Europa la diversa
entità dei cambiamenti intervenuti in un secolo.
- Portogallo Nel 1703, durante la guerra di successione spagnola, il
Portogallo aveva siglato accordi con l'Inghilterra in base ai quali erano stati
stabiliti reciproci vantaggi per gli scambi commerciali tra i vini portoghesi e
i tessuti di lana inglesi. Tali accordi, noti anche come Port Wine Treaty (in
riferimento al porto, vino liquoroso molto diffuso in Gran Bretagna),
contribuirono a mantenere l'impero coloniale portoghese, che comprendeva il
Brasile, fuori dai conflitti tra le potenze.
- Spagna Al termine della guerra di successione spagnola, la Spagna
aveva perso tutti i suoi possedimenti in Italia e nei Paesi Bassi; aveva dovuto
riconoscere anche le conquiste inglesi di Gibilterra e dell'isola Minorca
(tornata definitivamente spagnola nel 1802) e cedere il monopolio dell'asiento
(il commercio degli schiavi verso le colonie spagnole) a una compagnia
commerciale inglese. Tuttavia, al termine della guerra di successione polacca,
nel 1738, la nuova dinastia dei Borbone di Spagna ottenne il Regno di Napoli e
di Sicilia che un ramo cadetto (i Borbone di Napoli) governerà dal 1759 al 1860.
- Francia Ai successi iniziali delle "guerre di rapina" di Luigi XIV,
che videro l'ampliamento dei confini territoriali francesi a est e a nord, con
città come Strasburgo e Lille, si sarebbe aggiunta per via ereditaria la Lorena
nel 1766. Nel complesso, pur mantenendo una posizione preminente in Europa, la
Francia subì grandi perdite nei suoi possessi coloniali ceduti alla Gran
Bretagna nel 1763: oltre al Canada francese (Québec), parte della Louisiana
(un'altra parte andò alla Spagna), alcune isole delle Antille (Dominica, Grenada,
Saint Vincent e le Grenadines, Tobago) e molti dei suoi possessi in India.
- Paesi Bassi spagnoli I Paesi Bassi spagnoli (o del Sud),
corrispondenti agli attuali Belgio e Lussemburgo, passarono all'Austria dopo la
guerra di successione spagnola. i sovrani austriaci non riuscirono durante il
loro dominio, durato fino al 1794, a ottenere dalle Province Unite la riapertura
dell'estuario del fiume Schelda (privilegio ottenuto dagli olandesi nel 1648),
la cui chiusura aveva strangolato le fiorenti attività commerciali della città
di Anversa.
- Province Unite Uscite sostanzialmente indenni dalle guerre di fine
'600 e anzi col prestigio accresciuto dalla difesa contro Luigi XIV, le Province
Unite non sarebbero state più tra i protagonisti del '700. Conservarono tuttavia
intatti i grandi possessi coloniali in Indonesia e lungo le coste dell'America
Latina e nei Caraibi mantenendo il ruolo di grande potenza commerciale grazie
alle due compagnie delle Indie orientali e delle Indie occidentali.
- Gran Bretagna Superate le tensioni rivoluzionarie e pacificati i
conflitti interni, l'Inghilterra o, più correttamente a partire dal 1707, la
Gran Bretagna giocò un ruolo decisivo durante la guerra di successione spagnola
per poi dedicarsi prevalentemente ad accrescere i suoi possedimenti coloniali a
spese della Spagna e soprattutto della Francia.
- Prussia Se messa a confronto con la permanente frammentazione dei
piccoli Stati tedeschi, esclusa la Baviera, l'ascesa della Prussia a grande
potenza militare e territoriale rappresenta l'avvenimento più significativo del
'700 nell'Europa continentale. Conquistata e difesa la Slesia, gli ulteriori
ingrandimenti avvennero soprattutto a spese della Polonia.
- Svezia e Polonia Potenza militare egemone nell'area del Baltico
alla metà del '600, sconfitta dalla Russia, la Svezia non riuscì più a svolgere
un ruolo di rilievo dopo il 1720. Vittima delle sue debolezze istituzionali,
invece, il Regno di Polonia — più esattamente la Confederazione polacco-lituana
— rimase preda dei più potenti vicini, Prussia, Austria e Russia, che
l'accerchiavano da tutti i lati. Nelle tre spartizioni del 1772, 1793 e 1795
perse tutti i suoi territori e Varsavia divenne una città prussiana.
- Russia Dopo la sconfitta della Svezia e la raggiunta egemonia sul
Baltico ottenuta da Pietro il Grande, la Russia volse le sue armi contro
l'impero ottomano raggiungendo il mar Nero tra il 1774 e il 1783 ed ergendosi
contemporaneamente a protettrice delle minoranze ortodosse contro i turchi.
- Austria Ottenuti i possedimenti spagnoli in Italia dopo la guerra di
successione spagnola, già nel 1738 l'Austria dovette cedere il Regno di Napoli e
di Sicilia ai Borbone di Spagna. La pace di Aquisgrana (1748), che pose termine
alla guerra di successione austriaca, confermò la perdita della Slesia
conquistata dalla Prussia e decise la cessione del Ducato di Parma a un ramo
cadetto dei Borbone di Spagna. L'Austria conservava in Italia la Lombardia con
Milano e Mantova, mentre il Granducato di Toscana, dopo l'estinzione dei Medici,
era andato a Francesco di Lorena, marito di Maria Teresa d'Austria. Il bilancio
non era positivo per l'Austria anche per i risultati delle lunghe guerre nei
Balcani contro l'impero ottomano. Dopo la liberazione di Vienna dall'assedio
turco (1683) gli eserciti austriaci si erano spinti verso sud sotto la guida di
Eugenio di Savoia conquistando Belgrado nel 1717. Ma nel 1739 gli ottomani
avevano ripreso gran parte dei territori perduti.
- Italia Nella Penisola italiana il '700 si presenta con due volti
diversi. Da un lato mantenevano la continuità politica e territoriale le
Repubbliche di Genova e di Venezia e lo Stato pontificio, dall'altro si
alternavano le case regnanti o se ne installavano di nuove tra il 1713 e il
1748, come abbiamo visto accadere in Lombardia, a Parma, in Toscana, nei Regni
di Napoli e di Sicilia. Solo a partire dal 1748 la situazione italiana si può
dire stabilizzata. In questo contesto l'unico significativo elemento di autonomo
protagonismo è quello rappresentato dal Piemonte dei Savoia che vide premiata la
politica opportunistica con l'acquisto della Sicilia nel 1713 e il connesso
titolo regio. L'abilità di Vittorio Amedeo II (1675-1732) consenti allo Stato
sabaudo di uscire dalla sudditanza francese, che durava da oltre un secolo e
mezzo, e di affermarsi, grazie alla riorganizzazione amministrativa e alla
costruzione di un forte esercito, come una "piccola" potenza, decisiva per le
sorti future dell'Italia. Nel 1718 i Savoia dovettero cedere la Sicilia
all'Austria, ottenendo in cambio la Sardegna e assunsero da allora quel titolo
di re di Sardegna che porteranno fino al 1861 quando, con l'unificazione,
Vittorio Emanuele II diverrà re d'Italia.
L'Italia nel 1713 e nel 1748
LA SOCIETÀ E L'ECONOMIA
La demografia del '700
La crescita demografica
L'aumento della popolazione delle città, e in particolare delle città
capitali, è il segnale più vistoso della crescita demografica del '700. Londra
passa da 700 mila a 950 mila abitanti, Parigi raggiunge i 650 mila alla fine del
secolo. In Italia è Napoli la città più popolosa: cresce da poco più di 200 mila
a oltre 300 mila abitanti nel corso del '700. Crescono le città che sono grandi
centri commerciali e produttivi, ma crescono anche le capitali prevalentemente
burocratiche come Vienna e Berlino.
Ma perché aumentano gli abitanti delle città? Non tanto per una crescita
naturale della popolazione quanto per una costante migrazione verso i grandi
centri. In questo periodo si determinò infatti, nelle aree rurali, un surplus
demografico e gli individui giovani si trasferirono nei centri urbani
impegnandosi nei lavori più richiesti: servi e serve per le famiglie nobili o
agiate, manovali, apprendisti; inoltre, quanti avevano titoli di studio o
competenze specifiche trovarono impiego nel campo delle libere professioni o
presso le amministrazioni pubbliche.
Le ragioni della crescita
Tra le ragioni che spiegano l'incremento demografico del secolo in quasi
tutta l'Europa, se ne possono indicare con ragionevole certezza almeno tre:
l'aumento fisiologico della popolazione, l'aumento della produzione agricola,
l'aumento del numero dei matrimoni.
- Una ripresa fisiologica Al lungo periodo di diminuzione della
popolazione, imputabile alle guerre, alla peste e alle carestie del '600, fece
seguito una fase di ripresa fisiologica: così era avvenuto dalla metà del '400 e
così avvenne dalla fine del '600. Così è avvenuto anche in tempi più recenti,
dopo le grandi guerre mondiali.
- L'aumento della produzione agricola La diminuzione delle grandi
epidemie determinò una diminuzione della mortalità catastrofica (quella dovuta a
guerre e carestie, oltre che alle epidemie), mentre l'aumento della produzione
agricola sostenne la crescita della popolazione. Si interruppe così il
tradizionale andamento del ciclo demografico nel quale la scarsità di risorse
disponibili arrestava l'aumento della popolazione.
- L'aumento dei matrimoni Contemporaneamente si assistette all'aumento del
numero dei matrimoni e alla diminuzione dell'età degli sposi: sposarsi più
giovani comportava la possibilità di avere più figli, e ciò contribuì a far
crescere il tasso di natalità. Diminuì per contro la pratica del matrimonio
tardivo, diffusa soprattutto nell'Europa centrale e settentrionale dove, fino ad
allora, le donne si sposavano a 24-26 anni: questa pratica aveva ridotto di 6-8
anni il periodo di fecondità naturale entro il matrimonio attivando un controllo
implicito delle nascite; né erano al tempo molto numerosi i figli illegittimi
sia per il rispetto delle norme religiose, sia per la frequente soppressione dei
nati fuori dal matrimonio.
Il nesso tra natalità e mortalità
L'aumento della natalità e la riduzione della mortalità (in particolare di
quella infantile) sono condizioni determinanti per la crescita della popolazione.
Nel corso del '700 e poi dell'800 si verificò infatti, in Europa, un incremento
demografico dovuto in particolare all'aumento dei tassi di natalità e alla
diminuzione costante della mortalità. Di questa crescita della popolazione, che
segna la cosiddetta prima transizione demografica (cioè il passaggio da un
sistema demografico tradizionale uno moderno), furono protagonisti i paesi
economicamente più sviluppati. In seguito, invece, a partire dalla fine
dell'800, cominciò, seppure in tempi diversi a seconda dei luoghi, la seconda
transizione demografica, caratterizzata dalla contemporanea diminuzione della
mortalità e della natalità, tipica delle società contemporanee.
Le malattie infettive
Sul tasso di mortalità influirono nel '700 anche le epidemie. Le grandi epidemie di peste si ridussero ad episodi marginali, ma in generale le malattie infettive e contagiose mantennero elevato il loro carattere letale soprattutto entro le grandi agglomerazioni urbane. Il tifo e la dissenteria proliferarono facilitati dalle cattive condizioni igieniche, mentre il vaiolo continuava a mietere vittime in tutti gli strati sociali lasciando sfigurati nel corpo e nel volto quanti contraevano la malattia. La maggiore organizzazione ospedaliera non ridusse la mortalità, anzi probabilmente la aumentò, poiché i luoghi di cura accentuavano le occasioni di contagio. L'inoculazione antivaiolosa, a cui si ricorreva nel '700, era spesso letale e, fino alla scoperta di Edward Jenner sull'efficacia della vaccinazione effettuata con i germi del vaiolo (1796), l'unico rimedio rimaneva quello di circoscrivere il contagio.
Crescita demografica e sviluppo economico
Nonostante gli ostacoli frapposti dalle malattie infettive, l'aumento della popolazione nel '700 è certificato da tutti i dati disponibili, per quanto frammentari e approssimativi, ed è ragionevolmente collegabile allo sviluppo economico. Confortano questa tesi alcuni fenomeni demografici, sebbene anteriori a questo periodo: il grande centro mercantile di Amsterdam, per fare un esempio, vide crescere la sua popolazione da 54 mila a oltre 200 mila abitanti proprio nel corso del '600, nell'epoca del suo massimo splendore, per rimanere poi stabile nel '700, in un periodo di parziale declino.
Mobilità e gerarchie sociali
La mobilità sociale
L'aumento della popolazione determinò anche una significativa mobilità sociale ascendente, ossia un diffuso cambiamento in meglio dello status sociale? Non è possibile dare una risposta univoca a questo interrogativo. Un certo peso ebbe lo sviluppo economico, di cui si dirà nei paragrafi finali del capitolo. È evidente, infatti, che nei settori investiti dallo sviluppo — nuova agricoltura, industria domestica, manifatture, traffici commerciali — si registrarono forme di ascesa sociale accompagnate da una nuova ricchezza personale o familiare. Lo stesso avvenne all'interno delle amministrazioni pubbliche con l'aumento delle funzioni e delle cariche, mentre fu costante l'ascesa di chi era impegnato nelle libere professioni: avvocati, notai, medici. Ma le spinte innovative si scontrarono, in particolare nell'Europa continentale, con la permanenza di una struttura e di un ordinamento normativo della società organizzati rigidamente in base alla tradizione e al rango.
La società per ceti
Contadini, popolani di città, borghesi, proprietari terrieri, nobiltà, clero: questi erano i ceti o i gruppi sociali prevalenti nella società di ancien régime, distribuiti in una piramide a base molto larga su cui poggiavano i vertici della nobiltà e del clero. Ad ogni ceto si apparteneva per nascita ed era estremamente difficile uscire dal proprio status di provenienza. Chi nasceva nobile rimaneva nobile tutta la vita. E chi nasceva contadino aveva altissime probabilità di restare tale. Cambiare ceto era un evento eccezionale, possibile solo in virtù del conferimento di privilegi particolari, come quelli delle "patenti di nobiltà" concesse a un borghese. Solo nel clero non si accedeva per nascita, ma i gradi alti della carriera ecclesiastica erano prevalentemente prerogativa della nobiltà.
I privilegi e la diseguaglianza dei diritti
La società per ceti era caratterizzata dai privilegi, ossia dalle norme e
dalle giurisdizioni particolari riservate a ogni gruppo. L'appartenenza a un
ceto comportava il godimento di certi diritti e l'esclusione da altri: questo
era il fondamento giuridico della diseguaglianza sociale. La società per ceti
trovava anche un riconoscimento ufficiale nell'ordinamento politico di molti
Stati che mantenevano rappresentanze e assemblee per ceti, tali è determinare,
in molti casi, tensioni e conflitti nei rapporti col potere centrale. Il sistema più noto era quello dei tre ordini, o stati, francesi: clero, nobiltà e
terzo stato. Quest'ultimo raccoglieva tutti i sudditi che non appartenessero ai
primi due ordini, dal grande mercante al più povero dei contadini.
Molti contemporanei consideravano questo ordinamento per ranghi un carattere immutabile della società e le differenze, anche minime, di status erano aspramente
difese, soprattutto quando comportavano un'esenzione fiscale totale o parziale.
Ma nel corso dell'ultima parte del '700 molte voci critiche si levarono contro
questo sistema.
La critica al sistema dei privilegi
Intellettuali e pensatori politici attaccarono i privilegi fiscali del clero e della nobiltà non solo sul piano dei principi, ma anche perché aggravavano la crisi finanziaria degli Stati. Inoltre, molti scrittori posero al centro dei loro romanzi le differenze di rango e gli ostacoli frapposti agli spontanei sentimenti dei giovani innamorati: sentimenti ostacolati dal forzato rispetto delle tradizioni e dalla prospettiva di matrimoni combinati a tutela degli interessi patrimoniali delle famiglie. Seppure di qualche anno più tardi, il romanzo Orgoglio e pregiudizio (1813) della scrittrice inglese Jane Austen ci restituisce un'analisi illuminante delle convenzioni sociali dominanti all'epoca: la ribellione della giovane protagonista femminile (Elisabeth) a queste norme, e la sua combattività, sostenuta da sensibilità e intelligenza, conferiscono all'opera la forza comunicativa di un pamphlet politico radicale.
Famiglia, matrimoni e figli
La composizione delle famiglie
Nel '700 la struttura familiare dominante è ancora quella della famiglia estesa o allargata, in cui convivono tre generazioni (nonni, genitori e figli) insieme con altri parenti (zii e zie, spesso celibi e nubili, ma talora coniugati e con figli) e con una presenza variabile di domestici e garzoni: è il modello familiare prevalente nelle campagne, sia tra i ceti popolari sia tra quelli più elevati. Molto spesso l'economia familiare, per quanto garantita dalla disponibilità di numerose "braccia" per le attività lavorative, poteva entrare in crisi per le troppe "bocche" da sfamare: per questo alcuni giovani membri erano affidati o ceduti ad altre famiglie oppure migravano verso i centri urbani in grado di offrire loro un lavoro. Ma proprio nelle città, in questo periodo, si veniva affermando gradualmente, soprattutto nelle prime generazioni degli immigrati urbani, un nuovo modello familiare: la famiglia nucleare o coniugale, formata dai soli genitori e figli.
Gli inizi della contraccezione
L'aumento demografico e la relativa mobilità sociale, di cui si è detto,
favorivano inoltre la diffusione di nuovi modelli culturali e comportamentali
come risposta ai problemi delle famiglie troppo numerose. In alcuni paesi, come
la Francia rurale e l'Ungheria, e in alcuni gruppi sociali come la borghesia
ginevrina e la nobiltà italiana, ma anche in gruppi etnico-religiosi come gli
ebrei italiani, si comincia a registrare infatti la tendenza a intervenire sui
ritmi naturali della fecondazione limitando le nascite. Per quanto circoscritto,
anche per la limitatezza delle ricerche in proposito, tale fenomeno è
l'indicatore di un nuovo atteggiamento di controllo razionale della vita
sessuale e affettiva. Dal momento che la cronologia di questi comportamenti
sembra non coincidere con i grandi mutamenti politici e culturali di fine
secolo, i motivi principali che gli storici e i demografi hanno individuato per
spiegare il fenomeno sono tre: l'esigenza di tutelare la proprietà, una maggiore
attenzione alla salute della donna, l'affermarsi di una nuova sensibilità per
l'infanzia.
- La tutela della proprietà La proprietà immobiliare rurale o urbana,
soprattutto se di recente acquisizione e se non garantita dalle norme feudali
del maggiorascato, non doveva rischiare, dove vigeva la divisione ereditaria, di
essere eccessivamente frammentata tra un numero troppo elevato di figli.
- L'attenzione alla salute delle madri Una maggiore attenzione alla
salute della donna cominciò a diffondersi verso la fine del '700: soprattutto
nelle famiglie altoborghesi e in qualche settore della nobiltà, queste
attenzioni erano volte al fine di preservare le madri dall'eccessivo numero di
gravidanze, causa di innumerevoli morti precoci per parti e di nascite a
rischio.
- La nuova centralità dell'infanzia Infine, i bambini, considerati fino allora
come adulti in miniatura, iniziarono ad essere oggetto di sollecitudini
particolari, di tenerezza, di attenzioni mirate alla loro età e alla loro
educazione: atteggiamenti che contribuirono a distanziare le nascite.
La discendenza delle case regnanti
La necessità di garantire una discendenza escludeva ogni forma di limitazione delle nascite nelle famiglie regnanti. La regine Anna di Inghilterra quando salì al trono nel 1702, a trentasette anni, non aveva eredi, nonostante ben diciassette gravidanze: il solo figlio, che era sopravvissuto agli aborti o alla morte in tenerissima età di tutti gli altri, era morto nel 1700 a 11 anni. Questo spiega perché il Parlamento inglese emise, già nel 1701 l'Act of Settlement che trasferiva la Corona d'Inghilterra ai lontani eredi protestanti della famiglia degli Hannover. La dinastia degli Asburgo fu invece più fortunata. Maria Teresa d'Austria rappresentò infatti un'eccezione: dei sedici tra figli e figlie avuti tra i 20 e i 39 anni, quattro morirono di vaiolo e due in tenerissima età. Ma tutti gli altri, oltre ai due eredi al trono imperiale, Giuseppe II e Leopoldo II, entrarono in altre case regnanti o principesche secondo una sapiente politica di matrimoni.
Il feudalesimo e i contadini
Nella notte del 4 agosto 1789, durante la Rivoluzione francese, l'Assemblea nazionale abolì il feudalesimo. Fu questo uno dei risultati più clamorosi della rivoluzione appena iniziata in Francia, un evento epocale, dal significato pratico e simbolico fortissimo vissuto in particolare dalle masse rurali come una liberazione dall'oppressione.
La sopravvivenza del feudalesimo
Dunque, nel '700, a distanza di quasi un millennio dalla sua diffusione, il feudalesimo, era ancora sistema economico e giuridico dominante nelle campagne europee? La domanda impone una risposta articolata. Il feudalesimo si era in realtà ridotto, anche nelle regioni del suo originario insediamento (Francia e Germania occidentale), a una forma d proprietà nobiliare sulla terra accompagnata da una serie di obblighi di lavoro gratuito e di tributi che gravavano sui contadini. Praticamente inesistente era la tutela che il feudatario accordava ai suoi sudditi, mentre permanevano alcune forme di controllo (sui matrimoni ad esempio e sulla facoltà di allontanarsi dalle terre) e l'amministrazione della bassa giustizia, esercitata dal signore per i reati minori. La servitù personale non era più una realtà diffusa nel feudalesimo occidentale, di cui quello francese rappresentava il modello più conosciuto, mentre era la regole nell'Europa orientale, a est dell'Elba, dove si era avuta, a partire dal '500, una vera e propria rifeudalizzazione. Non vi era servaggio in Inghilterra, dove il regime feudale era praticamente scomparso già nel '600. In declino era il feudalesimo in Spagna mentre in Italia meridionale e in Sicilia, anche se la servitù personale era da tempo superata, i prelievi in denaro e in natura e le prestazioni personali erano così ampi da far ritenere che il regime feudale fosse vivo e particolarmente vessatorio. In pieno vigore nel Lazio, la feudalità era generalmente scomparsa nel resto dell'Italia centrale e in quella settentrionale, con alcune presenze, significative in Lombardia e in Friuli, modeste in Piemonte.
Il conflitto tra contadini e signori
I vincoli feudali che gravavano sulle terre ne limitavano l'uso e i
redditi. Anche nei casi in cui il contadino poteva trasmettere in
eredità o vendere la terra coltivata, questa non era detenuta in piena
proprietà: dovevano infatti essere corrisposti al signore dei tributi ordinari —
in denaro o in natura — per l'uso o straordinari nei casi di vendita e di
successione. L'ammontare di questi tributi era in genere stato fissato secoli
prima e si era mantenuto stabile per consuetudine: le corresponsioni in denaro
presentavano quindi il vantaggio, rispetto a quelle in natura, di essersi
ridotte di valore in seguito alla progressiva svalutazione della moneta. Ma
questo sistema era alla base dei numerosi conflitti tra i contadini che volevano
alleggerire il loro carico e i signori che miravano a incrementarlo. Un
conflitto tanto più aspro nei periodi di carestia, ma anche nei casi di
aumentata produttività i cui risultati rischiavano di venire sottratti ai
contadini da una normativa considerata intollerabile.
Un altro ambito di conflitto era quello relativo agli usi civici, ossia ai
diritti collettivi della comunità contadina, come quelli di pascolo, di raccolta
della legna nelle zone boschive o delle spighe sparse nei campi dopo la
mietitura (la spigolatura). Da un lato infatti i signori puntavano alla
privatizzazione integrale della terra, all'inasprimento dei gravami feudali e
all'abolizione degli usi civici, dall'altro le comunità contadine difendevano i
tradizionali usi collettivi delle terre.
La particolare condizione dei contadini agiati
Questa contrapposizione era particolarmente aspra in molte regioni dell'Europa occidentale dove si stava affermando il ceto dei contadini agiati, proprietari e affittuari che adottavano strategie diverse secondo le circostanze: se erano proprietari miravano alla riduzione dei diritti delle comunità, se invece erano affittuari di terre signorili — cui era legata la riscossione di diritti — tendevano a mantenere e a rafforzare le forme del prelievo feudale.
La decima
Tutti avvertivano ormai come insopportabile non solo il peso delle tasse a favore dello Stato, come la taglia sugli individui o la gabella sul sale, prodotto indispensabile alla conservazione delle carni, ma anche il prelievo a favore della Chiesa nella misura di un decimo del raccolto. La decima, in realtà inferiore a 1/10 e pari in genere a 1/12-1/13, era una tassa antichissima, destinata in origine al mantenimento del parroco, ma spesso passata nelle mani dell'alto clero. Come gli altri diritti e prelievi feudali, la decima sarebbe stata abolita in Francia nella notte del 4 agosto 1789.
La rivoluzione agricola e le nuove colture
Il regime feudale delle terre rappresentava per larga parte la componente arretrata dell'agricoltura. Nel corso del '700, tuttavia, si accentuarono alcuni processi relativi alla proprietà delle terre e alle tecniche colturali che consentono di parlare di una rivoluzione agricola. Qui, come altrove, l'impiego del termine di "rivoluzione" in campo economico e sociale si riferisce a trasformazioni radicali che si compiono in tempi molto più lunghi di quelli caratteristici delle rivoluzioni politiche.
La privatizzazione delle terre comuni in Inghilterra
Le maggiori innovazioni in campo agricolo si registrano in Inghilterra dove le strutture agrarie cambiarono più profondamente fra '600 e '700. Le trasformazioni avvennero in seguito alle recinzioni — in inglese enclosures — dei campi aperti e delle terre comuni e all'introduzione di nuove tecniche e colture. Il sistema a campi aperti — open fields — caratterizzava nel '600 oltre la metà delle campagne inglesi: era costituito da appezzamenti non recintati, contigui, ma di proprietà individuale. Le consuetudini prevedevano che su questi campi, dopo il raccolto, tutti gli abitanti del villaggio potessero spigolare o inviare gli animali al pascolo. Di proprietà collettiva erano invece le terre comuni — common lands — destinate, tra le altre attività, al pascolo e alla raccolta di legna. I diritti d'uso di queste terre appartenevano a quanti avevano proprietà nel villaggio. Su di esse risiedevano, nei cottages (modestissime capanne), i contadini poveri e privi di proprietà.
Fattori di trasformazione e mercato
Le enclosures comportarono la recinzione — con muretti,
siepi, steccati — e la ricomposizione degli appezzamenti situati nelle zone dei
campi aperti, la recinzione e la privatizzazione delle terre comuni. Questa
operazione (che avveniva col consenso del Parlamento) mirava a una più chiara
definizione della proprietà e a una utilizzazione più razionale delle terre in
grado di rispondere alla domanda del mercato. Le enclosures richiedevano
investimenti per le opere di chiusura e per la riconversione colturale:
contemporaneamente determinarono la graduale trasformazione dei cottagers
in braccianti agricoli e la diminuzione dei piccoli proprietari.
Altro fattore di trasformazione dell'agricoltura inglese fu il passaggio da una
rotazione triennale a una rotazione pluriennale con l'introduzione nel ciclo
produttivo delle piante da foraggio, come il trifoglio e le rape, alternate ai
cereali. Le colture foraggere avevano la proprietà di arricchire di azoto il
terreno, consentendo una produttività più elevata. Aumentavano così le
disponibilità alimentari per gli uomini e per il bestiame. L'allevamento
diveniva una componente fondamentale dell'azienda agricola: forniva infatti
concime naturale per la terra, carne e latte per il mercato.
L'agricoltura capitalistica
Rotazioni complesse, integrazione di agricoltura e allevamento,
produzione per il mercato non furono una prerogativa inglese: i nuovi sistemi
erano già diffusi in alcune regioni della Francia settentrionale, nelle Fiandre,
in Olanda e nella Germania nord-occidentale. In Italia la cascina lombarda con i
suoi prati costantemente irrigati, che consentivano ripetuti tagli d'erba,
rappresentava un modello di progresso e produttività. Ma questa agricoltura —
definita "capitalistica" per la presenza di un imprenditore, proprietario o
affittuario, che investe capitali sulla terra, si avvale di manodopera salariata
e produce per il mercato — rimaneva, almeno in Italia, un settore marginale in
lenta espansione.
I nuovi sistemi produttivi, infatti, incontrarono molti ostacoli alla loro
diffusione. La frammentazione fondiaria con le difficoltà organizzative che ne
derivavano, l'assenteismo dei proprietari, le consuetudini dei contadini erano
tutti elementi di resistenza al cambiamento.
La lenta diffusione delle nuove colture
Si spiega così il ritardo con cui si affermarono le coltivazioni di
origine americana — la patata e il mais —, nonostante garantissero una resa
superiore a quella del frumento e degli altri cereali. Esse erano comunque
destinate a modificare profondamente le abitudini alimentari, soprattutto degli
strati popolari.
Solo le carestie della seconda metà del secolo imposero la patata come coltura
alimentare dominante dall'Inghilterra alla Francia e dalla Germania alla
Polonia; in Irlanda divenne presto l'elemento base della dieta contadina.
Il mais (o granturco) ebbe diffusione più precoce, ma egualmente lenta,
nonostante i vantaggi di un ciclo vegetativo più breve di quello del frumento:
fu ostacolato dalle sue stesse proprietà colturali che volevano climi temperati
e un'intensa lavorazione del terreno durante la crescita. Fu coltivato nei paesi
mediterranei: Spagna, Francia meridionale, Sicilia, Italia settentrionale. In
alcune regioni italiane, come il Veneto, la polenta di mais sarebbe divenuta il
cibo quotidiano dei contadini, mentre i prodotti del frumento erano destinati
alla tavola dei ceti più agiati o al mercato.
Nel '700 si diffusero anche altre colture, seppure di minore importanza. Il riso
nelle zone irrigue del Piemonte e della Lombardia; il tabacco un po' ovunque, in
Olanda, Belgio, Germania, Italia. Questa fu l'unica delle nuove colture
coloniali che, per ragioni climatiche, poteva affermarsi in Europa mentre tè,
caffè, cacao — ingredienti base di bevande "eccitanti" il cui consumo crebbe
notevolmente nel '700 — rimasero prodotti di importazione.
L'industria rurale e l'economia industriosa
Dalle corporazioni all'industria rurale
L'organizzazione del lavoro artigianale era regolata nelle città
dalle corporazioni di mestiere, alle quali si accedeva dopo un lungo
apprendistato.
Le corporazioni imponevano norme estremamente rigide sulle procedure, sulle
tecniche e sulla qualità del prodotto tanto che, col passare del tempo, si erano
chiuse a ogni innovazione lasciando lievitare di conseguenza i costi di
produzione e smarrendo la capacità di adeguarsi alla domanda del mercato. Già
tra '500 e '600 era divenuto più conveniente spostare le attività produttive
nelle campagne dove molte famiglie contadine erano in grado di avviare
un'industria rurale domestica.
Nelle campagne, infatti, era facile reperire manodopera a basso costo, da
impiegare in modo elastico in rapporto all'andamento della domanda. La nuova
figura del mercante imprenditore, chiave di volta di questo metodo produttivo,
forniva la materia prima, ritirava il prodotto finito e provvedeva a venderlo
sul mercato. Questo sistema ebbe un'ampia diffusione in tutta Europa, ma
soprattutto nelle regioni e nei dintorni delle città con forti tradizioni
artigianali: nelle Fiandre per la filatura e tessitura del lino, nella Germania
occidentale per le armi da taglio e i coltelli, nelle zone prealpine dell'Italia
settentrionale per la seta, in Inghilterra per i tessuti di lana.
La "rivoluzione industriosa"
L'industria domestica rurale consentì di rispondere con una certa efficienza allo sviluppo della domanda interna e internazionale — anche coloniale — e offrì a molte famiglie contadine un'alternativa di reddito e la possibilità di raggiungere più alti livelli di vita. Rispetto alla fase successiva della rivoluzione industriale, che ebbe inizio tra la fine del '700 e 1'800, queste attività sono espressione di una protoindustrializzazione. Il lavoro a domicilio continuò tuttavia a caratterizzare settori importanti della produzione — soprattutto quello della tessitura — anche in fase di industrializzazione ormai avviata. Le attività e le pratiche della protoindustria coincidono con quella che una nuova tendenza della storia economica ha cominciato a chiamare la "rivoluzione industriosa", diffusa nelle regioni che si aprono sulle due sponde dell'Atlantico: Olanda, Paesi Bassi, parte della Francia, Inghilterra e le colonie britanniche del Nord America. Questa categoria individua nell'aumento dei consumi il risultato di una domanda sostenuta dalle unità familiari produttive. Grazie a un'intensificazione del lavoro nell'ambito dell'industria domestica queste unità familiari disponevano di una quota di reddito da impiegare nell'acquisto di generi voluttuari — zucchero, caffè, tè, tabacco, liquori — o di beni durevoli, come gli orologi da tasca che registrano un vistoso incremento produttivo alla fine del '700. Il fenomeno alimentò una domanda che rimase sostenuta nel tempo e trovò una risposta nell'interazione tra la produzione industriale locale e l'aumento delle importazioni dei generi coloniali. Il modello della "rivoluzione industriosa" non era solo una prerogativa di quella parte del mondo occidentale, ma trovava un corrispettivo anche in paesi dell'Oriente, come il Giappone, nello stesso arco temporale.
Le manifatture statali
Anche gli Stati avevano un ruolo nelle attività produttive di tipo
industriale attraverso il sistema della manifattura. La manifattura è
l'organizzazione del lavoro in cui gli operai, concentrati in un unico
laboratorio o officina, svolgono, per lo più manualmente, tutte le fasi del
processo produttivo. Tipiche manifatture furono quelle promosse in Francia da Colbert al tempo di Luigi XIV, per la fabbricazione di prodotti di lusso
destinati al mercato delle esportazioni, come arazzi e porcellane, nel quadro di
una politica mercantilista. Anche in altri paesi le manifatture furono spesso
costituite su iniziativa statale per la fornitura di armi e uniformi agli
eserciti. La manifattura, comunque, non fu mai l'organizzazione dominante e non
lo fu soprattutto nel settore tessile, quello che assorbiva allora e avrebbe
coinvolto anche in seguito la quantità più rilevante di manodopera.
Caratteristiche dell'epoca furono anche le manifatture installate nelle prigioni
o negli ospizi dei poveri e dei trovatelli, questi ultimi istituiti in larga
parte nel corso del '600 come strumenti di "controllo sociale". Le istituzioni
per indigenti rispondevano infatti con la reclusione e l'obbligo del lavoro alla
mutata sensibilità nei confronti della mendicità, avvertita come fenomeno
sociale destabilizzante e pericoloso.
UNA RIVOLUZIONE CULTURALE
L'Illuminismo: capisaldi e diffusione del movimento
L'Illuminismo ha tanti nomi: Lumières in francese, Enlightenment
in inglese, Aufklarung in tedesco.
Tutti fanno riferimento alla luce, ai "lumi della Ragione" che rischiarano le
tenebre dell'ignoranza e del pregiudizio, e indicano le vie del progresso.
Partendo dalle basi gettate dalla nuova scienza del '600 e dal pensiero politico
di Locke, l'Illuminismo fu un grande movimento intellettuale, politico e
culturale, e coinvolse, a partire dalla Francia degli anni '30 del '700, via via
tutta l'Europa.
I capisaldi dell'Illuminismo
I tratti comuni di questo movimento, che presenta in realtà molti e talora
contrastanti interessi e orientamenti, possono essere ridotti a tre principali:
l'uso libero e spregiudicato della ragione, con l'obiettivo concreto di
assicurare la felicità e il benessere degli uomini; la critica delle istituzioni
politiche e religiose, del principio di autorità e delle tradizioni:
- l'uso libero e spregiudicato della ragione, con l'obiettivo concreto di
assicurare la felicità e il benessere degli uomini;
- la critica delle istituzioni politiche e religiose, del principio di autorità
e delle tradizioni;
- la fiducia nel progresso, fondata su una concezione della storia dell'uomo
come graduale processo di incivilimento e come liberazione dalla tutela del
sacro e dell'irrazionale.
Bersaglio della critica illuminista furono la Chiesa e le confessioni religiose
in genere, considerate fonti di ignoranza, di superstizione e pregiudizi: in
questo senso l'Illuminismo fu un movimento profondamente laico.
Non sempre questo atteggiamento comportava la negazione della fede: prevalse
invece l'adesione al deismo e a una religione naturale e razionale, anche se fra
gli illuministi non mancarono prese di posizione atee e materialiste (fondate
sull'idea che la realtà derivi unicamente dalla materia e che dunque non possa
spiegarsi con il ricorso all'intervento divino).
L'intellettuale illuminista
Protagonista dell'Illuminismo fu una nuova figura di intellettuale, più
saggista che filosofo, spesso giornalista e pubblicista, e quindi specializzato
nella divulgazione delle nuove idee presso il pubblico colto.
L'intellettuale illuminista rivendicava un proprio ruolo chiave nella società e
con questo obiettivo si moltiplicarono i luoghi e gli strumenti della
comunicazione: salotti, caffè, club, accademie, società letterarie e
scientifiche e tutte le pubblicazioni a stampa o i pamphlets.
Intellettuali illuministi furono, inoltre, tra i consiglieri e i collaboratori
di quei sovrani assolutistici che colsero le esigenze di rinnovamento politico e
avviarono in questa epoca una stagione di riforme.
La connotazione razionalista rivendicata dall'Illuminismo non deve tuttavia far
dimenticare che, proprio nell'ambito della nuova cultura, nacque l'interesse per
le componenti affettive ed emotive. L'analisi dei sentimenti divenne una chiave
di lettura dell'agire umano e la loro rappresentazione si pose al centro di
molte opere letterarie (come Giulia o la nuova Eloisa di Rousseau del
1761).
Un movimento cosmopolita
Tutti i paesi europei parteciparono, in maggiore o minor misura, al movimento
illuminista.
Dal Portogallo alla Polonia, dall'Italia alla Svezia fu tutto un fiorire di
opere, di periodici, di gazzette e di accademie ispirate agli ideali e ai
programmi dei Lumi.
Nessun grande dibattito o tema di discussione rimase chiuso nel suo ambito
d'origine. Intellettuali, riformatori e pubblico colto: tutti erano convinti di
partecipare a una grande opera di rinnovamento che non conosceva confini
nazionali.
Questo cosmopolitismo fu l'elemento portante di una cultura tendenzialmente di
élite, in grado tuttavia di alimentare una vivace circolazione di idee che
coinvolgeva un pubblico ben più vasto e spesso lontano dai centri propulsivi
della cultura dei Lumi.
Perché in Francia?
Sebbene l'Illuminismo sia diventato presto un fenomeno europeo, il suo centro
propulsore fu la Francia, e Parigi in particolare.
La Francia esercitava dal '600 un'egemonia culturale su gran parte dell'Europa
continentale. Il francese era la principale lingua di comunicazione come oggi è
l'inglese. Le arti della parola – il teatro, la letteratura, l'oratoria –
avevano avuto nel '600 uno straordinario sviluppo. Un largo ceto intellettuale,
in parte di origine nobiliare, ma soprattutto di origine borghese, protetto e
finanziato dai grandi signori, si era affermato al centro della scena culturale.
L'assolutismo aveva, per altro verso, suscitato una estesa cultura di
opposizione alimentata sul fronte interno e soprattutto estero, in particolare
dall'Olanda che ospitava esiliati e fuorusciti, come gli ugonotti.
Sostenuta anche da una larga letteratura clandestina, spesso di contenuto
irriverente nei confronti del sovrano e del clero, si stava diffondendo
un'opinione pubblica colta ostile al sistema di governo, anche se non ancora
apertamente schierata.
In questo ambiente e da queste sollecitazioni nacquero le prime opere
dell'Illuminismo: scritti che ponevano al centro della loro riflessione la
critica alla società del tempo, al sistema politico e ai fondamenti della
monarchia di diritto divino.
La Massoneria
Uno dei più potenti strumenti di diffusione delle nuove idee e dei programmi
riformatori in Europa fu la Massoneria.
Setta segreta nata in Inghilterra, adottò i riti e le tradizioni delle antiche
corporazioni di liberi muratori (free-masons). Composta in realtà da
nobili, borghesi e intellettuali la Massoneria si batteva per la tolleranza,
contro il fanatismo e l'oscurantismo religioso, in nome della filantropia, della
fratellanza universale e della certezza sull'efficacia dei Lumi.
Si diffuse tra gli anni '20 e '30 del '700 in tutta Europa (dove si distinsero
diversi riti o obbedienze: inglese, scozzese, francese) e fu talora legata alla
curiosità e alle mode, che contribuirono tuttavia ad accrescerne le adesioni.
Le élites riformatrici poterono così disporre di un formidabile strumento
di pressione rafforzato dal fascino della segretezza.
Una nuova scienza
La nascita dell'economia politica
Anche lo studio dei fenomeni economici trovò in questi periodo la sua prima
sistemazione disciplinare con la scuola dei fisiocratici francesi.
François Quesnay (1694-1774) fu il maggior rappresentante della fisiocrazia (dal
greco physis, 'natura', e kratein, 'dominare'), la dottrina che
considerava la terra come la fonte unica della ricchezza.
È l'agricoltura infatti, secondo i fisiocratici, che grazie alla fertilità dei
suolo produce quel sovrappiù di ricchezza che consente di alimentare i
contadini, i proprietari terrieri e la «classe sterile», quella dei mercanti e
degli artigiani. Da questa premessa discendeva la proposta di un programma di
riforme teso a eliminare ogni ostacolo alla coltivazione e alla libera
circolazione delle derrate agricole: i fisiocratici proponevano la libertà dei
commerci – soprattutto dei grani –, l'abolizione dei dazi doganali.
l'introduzione di un'imposta unica sulla rendita fondiaria. Nasceva con la
Fisiocrazia la convinzione che l'analisi dei meccanismi produttivi consentisse
di comprendere l'intera organizzazione sociale.
Smith e la «ricchezza delle nazioni»
È, tuttavia, allo scozzese Adam Smith (1723-1790) e alla sua opera
Ricerche sopra la natura e la causa della ricchezza delle nazioni (An
Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776) che
dobbiamo la prima enunciazione di una teoria generale dell'economia.
Studioso di filosofia morale, Smith rintracciava, come altri filosofi scozzesi,
nel sentimento – simpatia, interesse, ecc. – il movente dell'agire e
dell'associarsi e nell'utile individuale e sociale il fondamentale criterio di
comportamento. Se ciascuno è lasciato agire liberamente secondo il proprio
interesse particolare – affermava Smith –, inevitabilmente contribuisce al
benessere collettivo e alla felicità generale, secondo una provvidenziale
volontà che domina le azioni dei singoli: un agire che va al di là delle
originarie intenzioni individuali e che appare guidato da quella che Smith
chiama la «mano invisibile».
Punto centrale dell'analisi di Smith è il concetto di lavoro produttivo, misura
del valore di scambio delle merci e unica fonte della ricchezza sociale:
nell'analisi dello studioso il "valore della merce", è infatti direttamente
proporzionale al lavoro impiegato per produrla.
L'espansione dell'economia è legata secondo Smith all'incremento della
produttività: a garantirla sono la crescente divisione del lavoro tra la
manodopera impiegata, il reinvestimento continuo dei profitti derivati
dall'attività economica e l'innovazione tecnologica introdotta nei processi
produttivi.
Anche Smith, come i Fisiocratici, era convinto che il libero mercato e il libero
scambio fossero le condizioni più favorevoli per lo sviluppo dell'attività
economica: si doveva dunque annullare ogni forma di protezionismo e ridurre
l'intervento statale al controllo delle imposte e alla garanzia dei servizi
pubblici.
L'arripiezza e l'importanza delle sue analisi fecero di Smith il fondatore di
quella che sarà definita l'economia «classica» e il primo teorico del liberismo.
L'assolutismo illuminato
All'interno del movimento illuminista è possibile individuare gli elementi di
un disegno riformatore che mirava alla modernizzazione dello Stato e al
raggiungimento della «felicità pubblica».
Questi elementi si tradussero in azioni di politica interna in molti paesi
europei nella seconda metà del '700 inserendosi nel solco del lungo processo di
formazione dello Stato moderno.
Se la Francia, la patria dell'Illuminismo, non raccolse le richieste di
rinnovamento politico, altre monarchie assolute avvertirono invece l'esigenza di
allargare i poteri dello Stato a spese dei privilegi del clero e della nobiltà.
Si trattava di un obiettivo che poteva mettere in discussione i fondamenti del
consenso alla monarchia da parte dei ceti dirigenti tradizionali, ma era anche
un passaggio decisivo per il rafforzamento dello Stato, lo sviluppo della
società civile e dell'economia.
L'assolutismo illuminato
La storia politico-istituzionale del secondo '700, tra gli anni '50 e gli
anni '80, fu segnata da una pratica di governo che prende il nome di assolutismo
illuminato.
In questa breve stagione alcuni sovrani come Federico II (1740-86) di Prussia,
Maria Teresa (1740-80) e Giuseppe II (1765-90) d'Austria, Caterina II (1762-96)
di Russia, e in Italia Carlo III (1734-59) nel Regno di Napoli e Pietro Leopoldo
(1765-90) in Toscana, avviarono una politica di riforme che aveva molti tratti
in comune:
- la presenza, tra i consiglieri e collaboratori dei sovrani, di intellettuali
illuministi o di funzionari illuminati;
- l'avvio, nei paesi cattolici, di una politica ecclesiastica — il
giurisdizionalismo —volta a estendere la giurisdizione e il controllo dello
Stato sull'organizzazione delle Chiese nazionali;
- la realizzazione delle riforme dell'amministrazione statale e del sistema
fiscale.
Il giurisdizionalismo
La politica ecclesiastica mirava ad eliminare quella struttura giuridica
parallela rappresentata dai diritti e privilegi ecclesiastici: diritti come
quello d'asilo, che riconosceva l'immunità a quanti, accusati di un delitto, si
rifugiavano nei luoghi di culto, o il privilegio che riservava ai soli tribunali
ecclesiastici di giudicare anche reati comuni (come il furto e l'omicidio)
quando fossero compiuti da religiosi.
Vennero messi in discussione la legittimità del tribunale dell'Inquisizione e il
monopolio religioso dell'istruzione. In questa politica l'Illuminismo realizzò i
suoi maggiori successi.
Contro gli Ordini religiosi
Agli occhi dei riformatori i conventi e la vita monastica apparivano forme di
parassitismo, mentre le estese proprietà della Chiesa, difese dai vincoli di
manomorta — che ne impedivano la vendita —, erano di ostacolo alla circolazione
dei beni, ritenuta un potente stimolo all'economia.
Questo orientamento, condiviso dalle élites, era visto con timore dai
ceti popolari, beneficiari del sistema assistenziale della Chiesa e in genere
ostili al cambiamento.
Il successo più rilevante della lotta agli ordini religiosi fu l'espulsione
della Compagnia di Gesù da molti paesi europei: dal Portogallo nel 1759, dalla
Francia nel 1764, dalla Spagna nel 1767, dal Regno di Napoli nel 1768.
All'espulsione seguiva l'incameramento dei beni da parte dello Stato.
Fino ad allora i gesuiti avevano esercitato una larga influenza sui ceti
dirigenti: erano spesso confessori dei principi e nei loro collegi si educavano
i figli della nobiltà. Ma i gesuiti erano considerati nemici di ogni
innovazione: così, nel 1773, la pressione dei sovrani costrinse il papa Clemente
XIV a sopprimere la Compagnia di Gesù (che sarà tuttavia restaurata nel 1814).
La riorganizzazione amministrativa e fiscale
La razionalizzazione della macchina statale fu ottenuta concentrando le
decisioni, riorganizzando le normative per ridurre la varietà delle leggi,
costruendo quella struttura basata su dipartimenti e ministeri che ancora oggi
caratterizza l'amministrazione pubblica.
Una parte consistente delle entrate era destinata alle spese militari: così i
quasi trent'anni di pace dopo la fine della guerra dei Sette anni (1763) resero
la riorganizzazione del sistema fiscale più agevole.
In molti Stati, ma soprattutto nei domini asburgici, fu avviata l'imponente
impresa della redazione di un catasto dei beni terrieri e immobiliari, destinata
a dare fondamento certo all'imposizione fiscale riducendo al tempo stesso le
esenzioni.
Gli elementi comuni del dispotismo illuminato variano tuttavia molto se
analizzati nei singoli territori di applicazione.
I DOMINI COLONIALI E LE VIE DEL COMMERCIO
Le due direttrici dell'espansione coloniale europea
Alla metà del '600 si era già consolidata l'espansione coloniale europea: a ovest nelle Americhe, a sud verso l'Africa, a est verso l'Asia.
Spagna e Portogallo
Protagonisti iniziali di questa politica, a partire dal periodo delle
scoperte geografiche alla fine del '400, erano stati gli spagnoli e i
portoghesi.
A Occidente le due potenze iberiche avevano ormai costituito i loro imperi
dotati di un'efficiente amministrazione controllata dalla madrepatria.
La Spagna dominava, a partire dal Messico, tutto il versante occidentale e
meridionale dell'America del Sud a cui si aggiungevano le maggiori isole delle
Antille, il Portogallo aveva invece conquistato il Brasile.
Il trattato di Tordesillas del 1494 aveva, come sappiamo, suddiviso
verticalmente le due sfere di conquista: le terre ad ovest della raya
(l'immaginaria linea di divisione che attraversava l'oceano Atlantico)
spettavano alla Spagna, quelle poste ad est al Portogallo.
A sud e a est furono i portoghesi a fondare le prime basi commerciali lungo le
coste africane occidentali e orientali, per poi conquistare Goa in India nel
1510 e Macao in Cina nel 1557, due colonie destinate a rimanere al Portogallo,
rispettivamente, fino al 1961 e al 1999.
Nel 1543 erano arrivati in Giappone portando le armi da fuoco e introducendo il
cristianesimo.
Gli spagnoli, dal canto loro, giunsero in Asia da est, dal Messico, uno dei più
antichi domini della Spagna in America, per conquistare le Filippine a partire
dal 1565.
Le altre potenze navali
Questo duplice scenario geografico subì profondi mutamenti tra gli inizi del
'600 e la fine della guerra dei Sette anni nel 1763.
Altre potenze europee cominciarono infatti a contrastare l'egemonia spagnola
nelle Americhe e quella portoghese in Africa e in Asia. Erano tutte potenze
navali dell'Atlantico: Francia, Olanda, Gran Bretagna e Danimarca e tutte si
spinsero nei due quadranti occidentali e orientali.
Inizialmente a prevalere fu il modello portoghese della fondazione di scali
commerciali, poi presero avvio le conquiste territoriali.
Col sostegno degli Stati furono le compagnie commerciali dei singoli paesi a
impiantare sia i primi insediamenti sia a procedere nell'occupazione dei
territori.
Non si trattava di una pacifica competizione, ma di veri e propri conflitti per
ottenere privilegi di esportazione dalle coste occupate e di guerre di rapina,
sostenute dalle marine militari, per sottrarre possessi coloniali alle potenze
rivali.
Se in un primo momento i portoghesi si erano appropriati del commercio orientale
delle spezie, che per secoli era stato organizzato e controllato dagli arabi,
tradizionali mediatori tra l'Occidente e l'Estremo Oriente, gli olandesi prima e
gli inglesi poi, affacciatisi sui mari orientali all'inizio del '600,
soppiantarono progressivamente l'egemonia portoghese.
Gli olandesi e gli Inglesi in Asia
Così verso la metà del '600 la Compagnia olandese delle Indie orientali,
un'associazione di mercanti che su concessione del governo godeva del monopolio
dei traffici con l'Oriente, divenne la più significativa presenza europea in
Asia.
I mercanti olandesi riuscirono a impadronirsi delle Molucche, le favolose isole
delle spezie, della Malacca, di Sumatra e di Giava dove, a Batavia (Jakarta),
fissarono la capitale del loro impero commerciale. Da lì, per quasi mezzo
secolo, gli olandesi furono padroni del traffico delle spezie, in particolare
della noce moscata e dei chiodi di garofano, dei quali riuscirono ad avere il
monopolio assoluto.
Molto meno ricca della concorrente olandese, l'inglese East India Company
concentrò i propri interessi sulla costa orientale dell'India, una zona che gli
olandesi avevano trascurato e dove si stavano istallando anche i francesi.
Successivamente l'attività fu estesa più a nord, al Bengala, ma il risultato più
importante fu l'acquisizione (1665) di Bombay, fondamentale nodo commerciale
sulla costa occidentale indiana. L'Inghilterra importava dall'Oriente tè, caffè,
salnitro, ma soprattutto tessuti – sete, cotoni, broccati.
Anche l'Olanda e la Francia importavano grandi quantitativi di tessuti indiani,
mettendo in allarme i produttori europei di tessuti in seta, lana e lino: ma,
nonostante il tentativo di arginare le importazioni con vincoli protezionistici,
le compagnie commerciali furono sempre più impegnate nell'esportazione di
prodotti orientali in Occidente.
Lo scontro tra Gran Bretagna e Francia in India
Nel 1673, con la cessione alla Compagnia francese delle Indie orientali del
villaggio di Pondichéry, non lontano dal possedimento inglese di Madras, la
Francia diede inizio al tentativo di costituire un proprio impero coloniale in
India, entrando in contrasto con la Gran Bretagna nel Bengala.
Lo scontro tra le due potenze si accentuò durante la guerra dei Sette anni
(1756-63) e la potenza navale britannica riuscì a sovrastare le forze francesi:
gli inglesi posero l'assedio a Pondichéry e la conquistarono (1761).
La Francia, sconfitta, dovette abbandonare il Bengala mentre la Compagnia
britannica, rimasta sola a dominare il commercio con l'India, avrebbe poi
assunto l'amministrazione del Bengala e del Bihar, trasformando così un dominio
commerciale in un vero e proprio possedimento coloniale.
Solo dopo la metà dell'800 la Corona britannica avrebbe assunto il diretto
controllo dell'India.
I conflitti nelle Americhe e la conquista delle Antille
Ben più accesi e prolungati furono i contrasti tra le potenze nelle Americhe:
prima nelle Antille poi nell'America settentrionale.
La Spagna aveva imposto alle sue colonie di commerciare solo con la madrepatria,
ma questo monopolio fu continuamente attaccato dalla pirateria e dal
contrabbando, praticati soprattutto da inglesi, olandesi e francesi.
I pirati – bucanieri o filibustieri – assaltavano e depredavano le navi cariche
di metalli preziosi, mentre i contrabbandieri, con la complicità delle autorità
locali, smerciavano beni fortemente richiesti nelle colonie e che la Spagna non
era in grado di fornire.
Le numerose isole delle Grandi e Piccole Antille costituivano punti di appoggio
ideali per le azioni dei pirati e dei contrabbandieri e, dal momento che gli
spagnoli controllavano solo le più grandi fra esse (Cuba e Santo Domingo),
olandesi, inglesi e francesi si insediarono in questa area durante il '600.
L'iniziativa fu presa come sempre dalle compagnie commerciali.
Gli olandesi si stabilirono a Curaçao dal 1634 e in altre isole a ridosso
dell'attuale Venezuela. La Compagnia olandese delle Indie occidentali, inoltre,
amministrava sul continente la Guiana, dove alla fine del '500 era stata
introdotta la coltivazione della canna da zucchero. La Guiana fu a lungo molto
contesa e, accanto agli olandesi, vi si insediarono gli inglesi e i francesi.
Gli inglesi avevano possedimenti disseminati lungo tutto l'arco delle Piccole
Antille, conquistati prevalentemente nella prima metà del '600. Tra il 1625 e il
1629 si impadronirono di molte isole dell'arcipelago Bahama e nel 1655 della
Giamaica, la terza per dimensioni delle Grandi Antille e grande centro di
smistamento degli schiavi africani.
Nello stesso periodo, i francesi occuparono alcune isole nelle Piccole Antille
(fra cui Guadalupe e Martinica nel 1635) e la parte occidentale di Santo
Domingo, che denominarono Haiti.
Britannici e francesi nel Nord America
Lungo le coste dell'America settentrionale gli inglesi avevano dato avvio,
dai primi anni del '600, a una serie di colonie di popolamento (deputate
all'insediamento dei migranti dalla madrepatria) subentrando, in qualche caso, a
svedesi e olandesi: Nieuw Amsterdam, per esempio, nel 1664 divenne New York.
Riuscirono poi a unificare i loro territori dove si rafforzò il controllo
diretto della madrepatria con la nomina di un governatore e di pubblici
funzionari, che cercarono di limitare le autonomie amministrative e le forme di
autogoverno locale.
Molto più a nord i francesi si erano insediati in Canada lungo il corso del
fiume San Lorenzo: la penetrazione era stata avviata dai mercanti di pellicce
che commerciavano con i pellerossa, tribù indiane per lo più nomadi che vivevano
nell'area praticando caccia e allevamento.
In realtà, la presenza francese fu sempre numericamente limitata, anche perché
il divieto di immigrazione per gli ugonotti impedì che nella colonia giungesse
la sola comunità che, come i dissidenti religiosi inglesi, cercava di espatriare
per non subire le persecuzioni di cui era vittima.
Nella prima metà del '600 vennero fondate le prime importanti basi in Canada,
Québec e Montréal. In seguito i francesi scesero dalla regione dei Grandi Laghi
lungo il corso del fiume Ohio e nel bacino del Mississippi costruendo delle
piazzeforti lungo i fiumi.
La presenza francese a nord e a ovest delle colonie britanniche rese inevitabile
lo scontro tra le due potenze schierate su fronti avversi nelle guerre del '700
europeo: così la Francia, in seguito alla pace di Utrecht (1713) che poneva fine
alla guerra di successione spagnola, dovette rinunciare a Terranova e alla Nuova
Scozia, riuscendo però a conservare il Canada e il controllo del bacino del
Mississippi, che in onore di Luigi XIV era stato chiamato Louisiana.
In seguito però, al termine della guerra dei Sette anni (1763), che in America è
ricordata come la French and Indian War (per l'alleanza franco-indiana in
funzione antibritannica), la Gran Bretagna ottenne dalla Francia il Canada e i
territori della Louisiana a est del Mississippi e dalla Spagna la Florida.
Da parte sua la Spagna ricevette in cambio la Louisiana a ovest del Mississippi
con Nuova Orléans.
I domini francesi in America erano ormai ridotti alle isole delle Antille,
mentre la Gran Bretagna conquistava una indiscussa egemonia territoriale nel
Nord America.
La tratta degli schiavi e il commercio triangolare atlantico
I metalli preziosi
L'economia delle Americhe era stata caratterizzata in un primo, lungo
periodo, essenzialmente dall'esportazione dei metalli preziosi, oro e argento,
dalle colonie spagnole.
Si è calcolato che dal 1500 al 1660 furono introdotte in Europa 181 tonnellate
d'oro e 16 mila tonnellate d'argento, pari al 25% dell'intera disponibilità
europea.
L'argento americano contribuì ad aumentare in misura rilevante le risorse
finanziarie della Corona spagnola, ad accrescere la circolazione monetaria in
Europa e a consentire gli acquisti sui mercati dell'Estremo Oriente.
Il sistema agricolo delle piantagioni e la canna da zucchero
Nella seconda metà del '500 si affermò anche il sistema agricolo delle piantagioni. La piantagione era una grande proprietà ter- riera dedita in genere a una sola coltura: canna da zucchero, cacao, caffè, cotone, tabacco, tutti prodotti destinati all'esportazione. Questo tipo di sfruttamento della terra si diffuse nelle terre poste lungo le coste dell'Oceano Atlantico, come il Brasile e la Guiana, e nelle Antille.
Il sistema delle piantagioni era approdato in America Latina con l'inizio
della coltivazione della canna da zucchero in Brasile.
Originaria del Golfo del Bengala in India, la canna da zucchero aveva percorso
un lungo viaggio verso ovest, attraverso il Medio Oriente, Cipro e la Sicilia.
Dalla seconda metà del '400 era coltivata nelle isole atlantiche portoghesi a
ridosso dell'Africa (Madera, Azzorre, Canarie) dove si impiegava il lavoro degli
schiavi africani. Di lì la canna da zucchero varcò l'oceano e si affermò in
Brasile nella seconda metà del '500.
Per la coltivazione della canna sono necessari un clima caldo-umido, energia
idrica o animale, legname, capitali per i mulini di spremitura e una larga
disponibilità di manodopera da impiegare soprattutto nella raccolta.
I portoghesi disponevano dei capitali occorrenti per le macchine, il Brasile
forniva tutto il resto ma non la manodopera. Gli indios, infatti, dove non erano
stati decimati, erano considerati troppo ostili o fisicamente inadatti al lavoro
pesante, organizzato e disciplinato delle piantagioni.
La tratta degli schiavi e l'istituzione della schiavitù
Così cominciarono a essere importati schiavi neri dall'Africa.
Gli insediamenti portoghesi sulle coste africane operavano come centri di
raccolta verso i quali venivano convogliati i neri fatti prigionieri in azioni
di guerra o in razzie nell'interno. Gli schiavi erano in primo luogo vittime
delle guerre fra gli Stati africani o fra i diversi clan e tribù, ed era proprio
la loro condizione di prigionieri di guerra a giustificarne la schiavitù.
Del resto non furono gli europei a introdurre la schiavitù, che era invece una
istituzione già diffusa in Africa e alimentata dalla domanda del mondo arabo.
Gli europei diedero nuovo sviluppo a questo mercato tradizionale offrendo in
cambio degli schiavi prodotti molto ambiti, come tessuti, chincaglieria,
ferramenta minuta, coltelli, ma soprattutto armi da fuoco e cavalli. A questi
prodotti si aggiunse in seguito l'alcool, in particolare il rhum.
Il commercio triangolare
I portoghesi, che controllavano nel'500 questi scambi, imbarcavano schiavi in
Africa, li vendevano in America e riportavano in Europa le navi cariche di
zucchero o di melassa: così i traffici legati allo zucchero si configuravano
come un commercio triangolare, che sarebbe divenuto caratteristico dell'intero
sistema commerciale atlantico.
L'economia delle piantagioni – non solo di canna da zucchero, ma anche di caffè,
tabacco, cotone –, fondata sul lavoro degli schiavi, presto si diffuse dal
Brasile ad altre zone dell'America: prima le Antille e poi l'America del Nord.
Data l'elevata mortalità degli schiavi nelle piantagioni – nelle quali la
speranza di vita non superava i dieci anni –, la manodopera nera andava
continuamente rinnovata. La forzata immigrazione degli africani – si calcola che
ne furono "importati" da 10 a 12 milioni tra il 1525 e il 1867 – non solo
produsse durature trasformazioni nelle strutture sociali ed economiche, ma diede
luogo a una vera e propria rivoluzione etnica e demografica.
Quando, agli inizi dell'800, fu possibile tracciare un quadro statistico della
popolazione americana, risultò che i neri di origine africana erano la
componente etnica più numerosa in Brasile (dove la schiavitù fu abolita solo nel
1888) e di gran lunga maggioritaria nelle Antille.
Il predominio britannico
Naturalmente molti altri paesi europei e singole città portuali partecipavano
al sistema di commercio triangolare atlantico iniziato dai portoghesi.
La città libera di Amburgo si era specializzata come mercato delle spezie e
dello zucchero mentre Nantes e Bordeaux, in Francia, si svilupparono grazie alla
tratta degli schiavi trasportati sulle loro navi. Ma era la potenza navale
britannica a crescere a spese delle altre nazioni marittime.
Questo predominio si accrebbe lungo tutto il '700. In uno dei settori più
importanti, quello del commercio degli schiavi, la Gran Bretagna aveva ottenuto
con la pace di Utrecht del 1713 il monopolio della tratta verso le colonie
spagnole, l'asiento de negros, che mantenne fino al 1750. L'asiento
('accordo'), che prevedeva una "fornitura" di 4800 schiavi l'anno, fu stipulato
con una compagnia commerciale britannica. Prima dell'accordo con la compagnia
britannica gli spagnoli, che non praticarono mai direttamente il commercio degli
schiavi, avevano concesso l'asiento a mercanti genovesi e tedeschi, poi a
compagnie portoghesi e, dal 1701, francesi.
Questo commercio "ufficiale" rappresentava comunque solo una piccola parte della
tratta complessiva, alla quale partecipavano molti armatori inglesi soprattutto
delle città portuali di Bristol e Liverpool. Anche le colonie britanniche del
Nord America entrarono stabilmente in questo circuito: esse, infatti, erano
favorite rispetto all'Europa da una minore distanza dalle Antille e da una
capacità produttiva che era in grado di soddisfare non solo la domanda europea –
tabacco e cotone –, ma anche quella dei Caraibi e dell'America spagnola e
portoghese – grano, pesce e legname da costruzione. Erano inoltre importatrici
di schiavi neri dall'Africa e di melassa dalle Antille.
L'egemonia britannica e la conquista dell'Australia
L'imperialismo commerciale e lo sviluppo industriale
«II commercio è la ricchezza del mondo; il commercio stabilisce le differenze
tra ricchi e poveri, tra una nazione e l'altra; il commercio alimenta
l'industria, l'industria genera il commercio; il commercio dispensa la naturale
ricchezza del mondo, e il commercio fa sorgere nuove forme di ricchezza».
Non sorprende che l'autore di questo elogio del commercio (A Plan of the
English Commerce, 1728) fosse uno scrittore e saggista inglese come Daniel
Defoe, autore delle celebri avventure di Robinson Crusoe (1719).
La Gran Bretagna si avviava a diventare infatti la principale potenza
commerciale mondiale: agli inizi del '700 aveva già conquistato il quasi
monopolio negli scambi con il Portogallo e il Brasile, mantenendo una posizione
privilegiata nel commercio con i domini spagnoli. Primeggiava anche
nell'attività di riesportazione di molti prodotti coloniali. Inoltre quando, a
partire dalla seconda metà del '700, si inserì nel commercio triangolare il
cotone grezzo delle piantagioni americane (Antille e Nord America), un mercato
di vendita su scala mondiale era già pronto per i tessuti di cotone
dell'industria inglese.
La conquista e il popolamento britannici dell'Australia
Dominatrice degli oceani, la Gran Bretagna si avviò anche a conquistare terre
inesplorate agli antipodi dell'Europa come l'Australia.
Fino all'insediamento degli europei nel '700 l'Australia era restata
completamente esclusa dai processi di civilizzazione che avevano trasformato il
pianeta. In questo continente, di gran lunga il più arido, il più piccolo, il
meno fertile, il meno popolato e il più povero di risorse biologiche, gli
indigeni vivevano in età moderna ancora senza agricoltura e allevamento, non
usavano archi e frecce, non avevano villaggi permanenti, né conoscevano la
scrittura o qualche forma di organizzazione politica. Gli aborigeni australiani
erano cacciatori-raccoglitori nomadi, riuniti in bande, che utilizzavano ancora
strumenti di pietra.
Scoperta nel 1642 dall'olandese Abel Tasman, l'Australia era conosciuta come
Nuova Olanda. Ma dopo che il capitano James Cook ne ebbe esplorato le coste
orientali nel 1770, gli inglesi si stabilirono in alcune zone costiere,
soprattutto nel Sud-est, che furono dapprima adibite a colonie di deportazione
(per i detenuti della madrepatria) e solo successivamente divennero colonie di
popolamento.
Il primo gruppo di deportati, imbarcati in Inghilterra, arrivò in Australia nel
1788: il 26 gennaio una flotta di undici vascelli con a bordo 1030 persone, di
cui 548 prigionieri uomini e 188 donne, entrò nella baia di Sydney. Erano per lo
più giovani, in gran parte colpevoli di piccoli furti, che la durissima
giustizia penale britannica aveva condannato a morte e poi graziati. Divennero i
protagonisti di un esperimento mai tentato prima da uno Stato: organizzare un
insediamento, lontano dalla patria, dove confinare i "criminali" recidivi e
considerati più pericolosi.
Tra 1788 e 1853, quando vennero interrotte le deportazioni, oltre 160 mila
prigionieri, tra cui circa 24 mila donne, erano stati trasferiti a forza dalla
Gran Bretagna in Australia.
La nuova società australiana
Solo una minima parte di questa massa di deportati (circa il 10%) fu reclusa
nei famigerati stabilimenti penali (Norfolk Island, Port Arthur, Macquarie
Harbour, Moreton Bay), dove soprusi, violenze e torture costituivano terribili
esperienze quotidiane.
La maggior parte dei prigionieri venne in realtà utilizzata per svolgere lavori
obbligatori per i coloni liberi o fu fatta lavorare alle dirette dipendenze del
governo: essi non conobbero dunque la reclusione, ottennero dopo un periodo la
semilibertà e spesso, scontata la pena, riuscirono a integrarsi nella società
coloniale.
Così, progressivamente, cominciò a consolidarsi una nuova società,
caratterizzata dalla formazione di un singolare ceto medio costituito dai
discendenti dei detenuti, con propri valori e un dinamico spirito
imprenditoriale. E fu anche per la mobilitazione di queste nuove generazioni
nate in Australia, che non gradivano il marchio di deportato e non tolleravano
la concorrenza della manodopera coatta, che la Gran Bretagna decise nel 1853 di
interrompere definitivamente la deportazione dei "criminali" nell'isola.
LA NASCITA DEGLI STATI UNITI
Le rivoluzioni politiche alle origini dell'età contemporanea
L'ampio arco temporale, dal 1776 al 1848-49, segnato dalle grandi rivoluzioni
corrisponde al periodo in cui collochiamo gli inizi dell'età contemporanea.
Non una data precisa, ma un insieme di vicende, tutte caratterizzate da
trasformazioni rivoluzionarie (o da tentativi rivoluzionari votati
all'insuccesso) che si susseguono in quei decenni tanto determinando radicali e
alla fine irreversibili mutamenti nei rapporti politici e nelle strutture
economiche, quanto avviando processi che portarono nei decenni immediatamente
successivi a grandi risultati come l'indipendenza e l'unità d'Italia e
l'unificazione tedesca.
Le rivoluzioni politiche – americana, francese, del Sud e del Centro-America –
sono state inserite, da alcuni storici, in un quadro unitario, quello delle
"rivoluzioni atlantiche", per il loro affacciarsi sulle due sponde dell'oceano e
per i reciproci influssi che, nelle due direzioni, legavano Europa e America
nella realizzazione di modelli politici liberali e democratici.
Altri storici hanno contestato questa visione d'insieme ritenendo le differenze
più significative delle affinità: essa segnala tuttavia l'ampiezza delle aree
coinvolte nella grande trasformazione che poniamo alle origini dell'età
contemporanea.
Le rivoluzioni politiche spazzano via le strutture del privilegio, cancellano i
residui feudali, riducono drasticamente il dominio delle aristocrazie lasciando
emergere i nuovi ceti borghesi. «Da sudditi a cittadini» è la formula che
condensa l'insieme di questi mutamenti caratterizzati dall'eguaglianza di fronte
alla legge e dall'acquisizione dei diritti politici: innanzitutto il diritto di
voto attribuito (ai soli uomini) dapprima in base alla ricchezza posseduta o a
determinati titoli culturali. L'allargamento del suffragio rimase in tutto il
periodo una delle richieste dei gruppi democratici e uno dei principali punti di
contrasto tra liberalismo e democrazia.
La grande Rivoluzione
In Europa la Rivoluzione francese (scoppiata nel 1789) è la matrice
principale del cambiamento, non solo per l'abbattimento dell'ancien régime,
ma perché è dalla vicenda rivoluzionaria che emergono i nuovi protagonisti della
lotta politica.
In primo luogo le masse popolari urbane – artigiani, lavoratori manuali, piccoli
borghesi –, protagoniste non solo sulla scena francese (e parigina in
particolare), ma anche delle fasi rivoluzionarie degli altri paesi europei in
tutta la prima metà dell'800. La loro violenza, che ricalcava in parte codici di
comportamento delle rivolte popolari di antico regime, solo gradatamente verrà
incanalata verso obiettivi politici e programmatici ben definiti.
Un ruolo decisivo in questo ambito ebbero i nuovi politici di professione, un
altro portato della Rivoluzione francese, come i giacobini, i primi a dar vita a
un'organizzazione centralizzata simile ai successivi partiti politici.
Dagli ideali rivoluzionari interpretati in chiave espansiva e nazionalista
emerse la figura di Napoleone Bonaparte, iniziatore di una trasformazione
politica e amministrativa non solo della Francia ma di gran parte dell'Europa
conquistata dagli eserciti francesi.
Il modello di governo napoleonico, fondato all'interno su un consenso raccolto
rivolgendosi direttamente ai cittadini con lo strumento del plebiscito, inaugurò
una forma di potere autoritario destinato a riproporsi più volte in varie parti
dell'Europa e del mondo nel corso dell'età contemporanea.
La rivoluzione industriale e la questione sociale
Negli stessi decenni delle rivoluzioni politiche americane ed europee, in Gran Bretagna (e in particolare in Inghilterra, dove un secolo prima era stato introdotto un sistema costituzionale-parlamentare) prese avvio la rivoluzione industriale. Le nuove tecnologie destinate ad aumentare e migliorare la produzione, innanzitutto nel settore tessile cotoniero, e contemporaneamente ad abbassare i costi del lavoro, diedero vita non solo a un nuovo sistema produttivo e al luogo fisico delle attività lavorative, la fabbrica, ma anche alla classe operaia, composta dai lavoratori salariati e dalle loro famiglie. Queste trasformazioni, nel loro graduale diffondersi, investirono nei primi decenni dell'800 altri paesi europei – il Belgio, la Francia, le regioni occidentali della Germania – e gli Stati Uniti. Tra gli anni '30 e '40 la rivoluzione industriale fu affiancata progressivamente dalla rivoluzione dei trasporti legata alla costruzione delle ferrovie che stesero la loro rete di comunicazioni nei paesi più sviluppati. Contemporaneamente, in Gran Bretagna prima, nell'Europa continentale in seguito, iniziava a emergere dalle dure condizioni di lavoro e dalle forme di sfruttamento proprie del sistema di fabbrica la questione operaia e il correlato conflitto tra imprenditori industriali e lavoratori. Più in generale l'addensarsi nelle grandi città e nelle nuove città industriali di un numeroso proletariato in condizioni di dura povertà poneva all'attenzione dei governi e dei movimenti politici il manifestarsi della questione sociale accompagnata da nuovi antagonismi tra ceti e classi: agli occhi della classe dirigente e di molti osservatori le classi laboriose si presentavano come «classi pericolose». Questione operaia e questione sociale trovarono due diverse forme di tutela e/o di rappresentanza. In Gran Bretagna nelle prime organizzazioni sindacali delle Trade Unions, altrove nei movimenti politici espressione delle prime forme di socialismo (che postulavano una società nuova fondata sui valori della solidarietà e della uguaglianza).
Le ideologie politiche
Il socialismo nelle sue diverse varianti utopistiche e rivoluzionarie è in
ordine di tempo l'ultima delle grandi ideologie che si formano e si affermano in
questo periodo. Ma la novità più radicale, quella del socialismo scientifico di
Marx e Engels, pur manifestandosi proprio sul finire dell'età delle rivoluzioni,
comincerà solo in seguito ad esercitare la sua presa sulla classe operaia.
Bisogna quindi tornare all'indietro per ricordare che dal grande bacino di idee
dell'Illuminismo si erano generate le due correnti principali del pensiero
politico di quest'epoca, il liberalismo e la democrazia.
Le differenze, che si esprimevano in radicali contrapposizioni – diversamente
dal loro successivo avvicinarsi e quasi confondersi a partire dal secondo '900
nella forma della liberaldemocrazia –, si misuravano allora nitidamente sul
piano degli obiettivi e dei programmi: tutela dei diritti individuali e difesa
dagli abusi di un potere dispotico, ascesa del merito contro i privilegi di ceto
per i liberali, allargamento della partecipazione politica e della
rappresentanza per i democratici. Ma erano evidenti anche per la diversa base
sociale di riferimento che nel caso della democrazia si estendeva alla piccola
borghesia e agli elementi più politicizzati dei ceti popolari urbani.
Il Romanticismo e l'idea di nazione
Il vario formarsi e modellarsi della cultura politica e delle ideologie tra
'700 e '800 si intreccia con il grande movimento culturale del Romanticismo.
Impossibile da racchiudere in una formula, il Romanticismo è tante cose insieme,
talora contraddittorie, spesso declinate assai diversamente nei vari paesi in
cui si manifesta. Gli elementi comuni sono il rifiuto del razionalismo
illuminista (e, sul piano dei costumi, del libertinaggio settecentesco),
l'esaltazione del sentimento puro e sofferto, talora in forme morbose o estreme,
e dell'entusiasmo giovanile con forti tratti di contrapposizione generazionale.
Movimento letterario, artistico e musicale contrapposto al classicismo degli
stili e delle forme, ma anche somma di comportamenti e di stili di vita, sul
piano storico guardava alle origini profonde dei popoli e al recupero delle
tradizioni.
Da queste numerose e articolate suggestioni emerse e si affermò l'idea di
nazione, che già Rousseau, in pieno Illuminismo, vedeva come espressione di un
popolo e di una comunità.
Interpretata dalla Francia in maniera aggressiva ed espansionistica nelle guerre
rivoluzionarie e napoleoniche, essa alimentò per contrapposizione in Germania
una concezione romantica della nazione fondata sull'unità delle origini, della
lingua, della terra e del sangue.
La rinascita nazionale tedesca nelle guerre antinapoleoniche (per liberarsi dal
dominio francese) e le successive aspirazioni e lotte per l'indipendenza di
paesi come la Grecia, la Polonia, l'Ungheria e l'Italia sono tutte
manifestazioni di questa nuova idea nazionale, di un nazionalismo che esalta la
tradizione e la storia e rivendica un primato particolare se non una missione da
affidare ai popoli finalmente consapevoli di un proprio destino.
La Restaurazione e la nuova ondata rivoluzionaria
Negli Stati Uniti rivoluzione, indipendenza e nascita della democrazia
avevano avuto un percorso coevo e sostanzialmente unitario. E così in larga
misura era avvenuto nelle colonie in America Latina. In Europa invece, dove gli
antichi ordinamenti sociali e politici erano assai più forti, il rovesciamento
del dominio napoleonico portò alla restaurazione dei vecchi sovrani e dei
sistemi di governo tradizionali, anche se molti degli ordinamenti giuridici
imposti dai francesi non poterono essere smantellati.
Ma la mobilitazione politica liberale e democratica innestata negli anni della
Rivoluzione francese e dalla diffusione dei programmi rivoluzionari in Europa
non poté essere arrestata. Nel 1820-21, nel 1830-31 e di nuovo nel 1848-49 tre
cicli rivoluzionari coinvolsero diversi paesi europei dalla Spagna alla Polonia,
dall'Ungheria all'Italia.
Nei primi due cicli la richiesta principale fu l'ampliamento delle libertà
politiche e la concessione di una costituzione. Dovunque prevalse la
repressione, il braccio armato della Santa Alleanza che tutelava la
Restaurazione.
In Italia a riportare l'ordine fu l'Austria, in Spagna intervennero i francesi
nel 1823. Solo qualche anno dopo in Grecia e in Belgio, rispettivamente nel 1829
e nel 1830, con la conquista dell'indipendenza dei due paesi, fu raggiunto un
risultato duraturo che ebbe il consenso delle maggiori potenze.
Nel frattempo la rivoluzione si era riaffacciata in Francia e il regime
costituzionale dei Borbone (successivo alla caduta di Napoleone) fu abbattuto
dalla sollevazione parigina del luglio 1830. Il nuovo sistema di governo
borghese-liberale della monarchia orleanista (che segui i fatti di luglio) si
rivelò via via sempre più chiuso alle istanze di un ampliamento democratico,
vittima a sua volta della nuova rivoluzione del febbraio 1848.
L'ondata rivoluzionaria che attraversò l'Europa nel 1848-49 fu assai più estesa
e combattuta.
Per la prima volta fu l'Austria, il centro propulsore della Restaurazione, ad
essere coinvolta direttamente a Vienna e in molte parti del suo impero: a
Budapest, a Milano, a Venezia. Nella rivoluzione del 1848 entrarono in campo
anche gli Stati tedeschi con l'obiettivo di instaurare regimi costituzionali e
insieme avviare l'unificazione del paese. Ma l'ostilità della Prussia, il più
forte Stato tedesco, a ogni innovazione spense rapidamente gli entusiasmi
nazionali germanici.
Ancora una volta la diversità, spesso radicale, di obiettivi e di programmi tra
liberali e democratici, peraltro non sostenuti da alcuna forza armata
organizzata, dovette piegarsi alla dura repressione militare messa in atto
soprattutto nell'Impero asburgico.
Questa sconfitta generale delle forze democratiche investi anche la Francia
dove, dopo la proclamazione della Repubblica, il suffragio universale portò al
potere Luigi Napoleone Bonaparte, nipote del primo Napoleone, con l'appoggio
delle forze conservatrici e cattoliche, e del mondo rurale. Giocò a suo favore
la potente leva rappresentata dalle memorie dei successi dello zio, che aveva
fondato il grande Impero francese.
Rinasceva nuovamente su base plebiscitaria un Impero napoleonico con l'obiettivo
di tornare ad avere un ruolo decisivo nella storia d'Europa.
L'Italia e il Risorgimento
L'Italia tornò protagonista della storia europea e artefice diretta dei
propri destini col movimento di rinascita politica del Risorgimento:
protagonista per la partecipazione ai moti costituzionali del 1820-21 e del '31,
per il diffondersi della consapevolezza di una nuova identità nazionale votata
all'unificazione del paese, per la particolarità della sua mobilitazione
politica.
L'obiettivo ostacolo delle antiche divisioni territoriali e del perdurare dei
particolarismi, la dominazione austriaca diretta o indiretta su tanta parte
della penisola e la presenza della Chiesa con un proprio ampio Stato
territoriale, rendevano il processo risorgimentale e unitario particolarmente
difficile.
Altri fattori, tuttavia, agivano per un radicale cambiamento dei tradizionali
assetti italiani: le ambizioni di espansione territoriale del Piemonte dei
Savoia, la diffusione e il consenso a nuove teorizzazioni e movimenti politici,
come sul fronte moderato il neoguelfismo di Gioberti, che poneva al centro della
storia d'Italia degli anni a venire il nuovo compito unificatore della Chiesa di
Roma, o il federalismo democratico di Cattaneo. Ma, per ampiezza di adesioni e
di gruppi sociali coinvolti, decisivo fu il ruolo di Mazzini e delle sue idee
democratiche e repubblicane animate da uno spirito di sacrificio e dal fascino
di una "nuova religione politica" in cui la fede nella libertà e nel progresso
umano era vissuta come una fede religiosa.
Il paradosso di un papa riformatore come Pio IX diede l'avvio a un incendio
rivoluzionario che, tra il '48 e il '49, sconvolse l'Italia con un significativo
anticipo rispetto a quanto avveniva nel resto d'Europa.
La concessione delle costituzioni, le rivolte di Milano e Venezia, l'inizio
della guerra del Piemonte all'Austria, la prima guerra d'indipendenza, con
l'iniziale partecipazione degli altri Stati italiani, si susseguirono in tempi
rapidissimi.
La prima sconfitta del Piemonte nel '48, la ripresa della guerra e la definitiva
sconfitta del Regno sabaudo nel '49 si compirono mentre continuava la resistenza
democratica della Repubblica romana contro l'intervento francese, volto a
restaurare il papato, e di Venezia contro gli austriaci.
Nonostante la duplice sconfitta dell'opzione bellica piemontese e delle
rivoluzioni democratiche di Roma e Venezia, quello del '48-49 fu un biennio
epocale. Un biennio che testimoniava la nuova dimensione europea del problema
italiano, e certificava la nascita di un movimento nazionale e di una
mobilitazione patriottica alimentata dalla partecipazione di decine di migliaia
di italiani.
Le colonie britanniche nell'America del Nord
La formazione degli Stati Uniti d'America è il primo episodio di quella
stagione rivoluzionaria – politica ma anche economica e sociale – che inizia
negli ultimi decenni del '700 e si chiude alla metà dell'800: l'età che abbiamo
chiamato delle "grandi rivoluzioni".
Con la nascita degli Stati Uniti fa il suo ingresso sulla scena mondiale un
nuovo protagonista: anche se dovranno passare molti decenni, e una drammatica
guerra civile, perché il nuovo Stato si consolidi. Ma dalla fine dell'800, prima
con la guerra contro la Spagna per l'indipendenza di Cuba (che divenne
protettorato americano nel 1898), poi con la partecipazione al primo conflitto
mondiale (nel 1917), gli Stati Uniti si affermarono come grande potenza fino a
dominare la seconda metà del '900 e gli anni iniziali del nuovo secolo.
I primi insediamenti
Agli inizi del '600 in due diversi punti delle coste atlantiche dell'America
settentrionale aveva preso avvio la colonizzazione inglese: nel 1607 nei
territori della Virginia e nel 1620 con lo sbarco, molto più a nord – a Cape Cod,
nel Massachusetts –, dei "Padri Pellegrini", una congregazione di puritani
inglesi già esuli in Olanda.
I nuovi insediamenti furono favoriti dall'assistenza fornita dagli indiani
nativi, i pellerossa, nel contribuire alla esplorazione del territorio e nel
fornire risorse alimentari prima che le nuove coltivazioni potessero cominciare
a dare i loro frutti. Presto però dissodamenti e disboscamenti sarebbero stati
all'origine di duri conflitti con le tribù dei pellerossa sul possesso delle
terre.
Nell'espansione inglese dei decenni successivi si sommarono l'iniziativa delle
compagnie commerciali e una consistente immigrazione di minoranze politiche e
religiose dalla Gran Bretagna ma anche da altri paesi europei, come quella degli
ugonotti dalla Francia o degli amish dalle regioni di lingua tedesca.
Via via gli inglesi risalirono verso nord e discesero verso sud conquistando e
mettendo a coltivazione territori sempre più estesi, assorbendo e talora
acquistando i precedenti insediamenti olandesi e svedesi.
Le tredici colonie
Nel 1763, alla fine della guerra dei Sette anni contro la Francia, le colonie
britanniche si estendevano dal Canada a nord (la Nuova Scozia) alla Florida a
sud, mentre a ovest erano delimitate dalla catena montuosa degli Appalachi.
Distese su un territorio così lungo, le colonie erano caratterizzate da grandi
diversità climatiche, ma differivano anche per composizione sociale e assetti
economico-produttivi.
Le quattro colonie settentrionali. La Nuova Inghilterra
In Massachusetts, New Hampshire, Rhode Island, Connecticut il clima, simile a
quello dell'Europa nordoccidentale, aveva consentito la coltivazione dei cereali
e la costituzione di villaggi rurali. Nei centri urbani della costa, però, primo
fra tutti Boston, fiorì, grazie alla larga disponibilità di legname,
un'importante industria cantieristica.
Le quattro colonie del Centro
Nei territori di New York, del New Jersey, della Pennsylvania e del Delaware,
che non costituivano un blocco omogeneo, la situazione economica era simile a
quella della Nuova Inghilterra, ma con più forti squilibri sociali e una diversa
struttura della proprietà terriera – soprattutto nello Stato di New York
dominavano infatti i grandi latifondisti.
Le cinque colonie del Sud
In Virginia, Maryland, Carolina del Nord e del Sud, Georgia tutta l'economia era
incentrata sulle piantagioni (tabacco, riso e, più tardi, cotone), si fondava
principalmente sulla grande proprietà e si reggeva sul lavoro degli schiavi di
origine africana. Ma era anche diffusa la piccola e media proprietà terriera che
si avvaleva anch'essa della manodopera degli schiavi neri.
Le appartenenze religiose e la mentalità del "nuovo popolo eletto"
Le colonie si differenziavano profondamente anche dal punto di vista
religioso, pur essendo tutte protestanti.
Nella Nuova Inghilterra prevalevano largamente i dissidenti della Chiesa
anglicana (presbiteriani, congregazionalisti, metodisti): qui, negli anni
1730-40, aveva trovato larga diffusione il movimento del Grande risveglio
protestante, animato da impetuosi predicatori che volevano rivitalizzare la
fede, ritornare alla Bibbia, rafforzare la pratica religiosa. La Pennsylvania
ospitava larghe comunità di quaccheri e di amish. Nelle colonie del Sud
era dominante invece la fedeltà alla Chiesa anglicana.
Le numerose denominazioni religiose del protestantesimo intransigente erano
impegnate nella difesa delle forme di autogoverno, delle libertà dei coloni e
alimentavano il dissenso nei confronti delle istituzioni e dei controlli
esercitati dall'amministrazione e dalle istituzioni della Corona britannica.
Queste posizioni erano fondate sul nesso sempre più stringente tra libertà
religiosa e libertà politica nonché sulla convinzione di una nuova missione e di
un destino speciale affidato da Dio ai nuovi americani che si consideravano un
popolo eletto, chiamato a realizzare il vero cristianesimo.
La popolazione e le tradizioni insediative
Secondo le stime, nel 1770 la popolazione aveva superato i 2 milioni e nel
1780, con un elevato tasso di incremento, avrebbe raggiunto i 2.780.000
individui.
Tra la popolazione si contavano oltre 500 mila schiavi neri, concentrati nelle
colonie meridionali dove rappresentavano il 40% circa degli abitanti.
Un ruolo rilevante avevano gli indiani pellerossa, dislocati all'interno dei
territori e sospinti dalla colonizzazione sempre più verso ovest, non facilmente
conteggiabili ma in continua diminuzione. Tra le numerose "nazioni" indiane
(questo era il termine con cui venivano chiamate le tribù) spiccavano la
confederazione degli Irochesi del Nord-est, già alleati dei britannici nelle
guerre franco-indiane, gli Algonchini, schierati invece con i francesi, e i
Cherokee a Sud.
Le colonie non erano caratterizzate da una significativa urbanizzazione,
soprattutto nei territori del Sud. Diversa era la situazione nelle colonie del
Centro e del Nord. Philadelphia era la città più popolosa con 40 mila abitanti,
mentre gli altri due principali centri urbani, Boston e New York, che pure
avevano conosciuto un vistoso incremento demografico del 50% tra il 1760 e il
1775, si fermavano a 18 mila e 21 mila abitanti rispettivamente. Centri dunque
relativamente piccoli ma vivacissimi per le attività economiche e la vita
politica e culturale.
Una rivoluzione per l'indipendenza
Le dure premesse
Le colonie americane, largamente inserite nel sistema di scambi atlantici,
dovevano sottostare alle leggi commerciali imposte da Londra.
Solo le navi britanniche potevano accedere ai porti del Nord America e tutte le
merci dirette alle colonie dovevano passare per la Gran Bretagna. La quasi
totalità della produzione coloniale – il tabacco e il riso del Sud, il legname
della Nuova Inghilterra, il pesce e l'olio di balena, il rhum e le pellicce –
era destinata ai mercati britannici, mentre l'industria locale, salvo quella
cantieristica, era ostacolata per evitare che entrasse in concorrenza con quella
della madrepatria.
Sul piano politico-amministrativo, invece, le colonie, pur sottoposte al
controllo di un governatore di nomina regia, si erano date assemblee legislative
elette dai cittadini che nel corso del tempo avevano assunto poteri sempre
maggiori. Questo dualismo di poteri di fatto lasciava spazio a continui
conflitti, intensificati soprattutto dopo la fine dell'ultima guerra
franco-indiana: a partire dal 1763 le tredici colonie cominciarono a sentirsi
come un'unità autonoma, diversa dalla madrepatria, con una propria identità e
non più come parte integrante di un impero britannico unitario.
Dal boicottaggio alla guerra
Questi sentimenti si accentuarono fino a trasformarsi in diffusa opposizione
politica quando la Gran Bretagna intensificò il prelievo fiscale.
Si trattava di rimettere in sesto le finanze statali dissanguate dalle guerre e
di pagare i funzionari e le truppe stanziate nei territori americani. Ma se ai
vincoli commerciali le colonie avevano risposto con il contrabbando o eludendo
le norme, ora all'inasprimento fiscale risposero con il boicottaggio delle merci
provenienti dalla madrepatria.
L'imposizione di una serie di dazi doganali – come quello sullo zucchero del
1764 – e dello Stamp Act (1765), l'obbligo di una marca da bollo non solo
sui documenti ma anche su giornali e riviste, provocò la dura reazione dei
coloni. Della protesta si fecero interpreti le assemblee legislative e i
numerosi periodici politici delle colonie, che potevano contare su un
larghissimo consenso in tutti i ceti sociali, dai grandi proprietari del Sud,
agli artigiani del Nord, agli intellettuali. Venne richiamata con forza la
stessa tradizione del parlamentarismo britannico: in particolare il principio
secondo cui nessuna tassa poteva essere imposta senza l'approvazione di
un'assemblea in cui i diritti dei tassati trovassero adeguata rappresentanza.
In base a questo principio — «no taxation without representation» — il
Parlamento di Londra, dove i coloni non erano rappresentati, non aveva diritto a
imporre tasse ai territori d'Oltreoceano.
La tensione, già alta, si accentuò quando un provvedimento del 1773 assegnò alla
Compagnia delle Indie il monopolio della vendita del tè nel continente
americano, danneggiando gravemente i commercianti locali. Nel dicembre 1773, nel
porto di Boston — centro principale dell'agitazione antibritannica — furono
assalite alcune navi della Compagnia e fu gettato in mare il carico di tè.
All'atto, passato alla storia come Boston Tea Party, il governo centrale
rispose con dure misure di ritorsione: nel 1774 il porto di Boston fu chiuso, il
Massachusetts fu privato delle sue autonomie, in tutte le colonie i giudici
americani furono sostituiti da funzionari britannici.
Da questo momento in poi, la rivolta divenne aperta e generalizzata.
Nel settembre '74, in un primo Congresso continentale, i rappresentanti delle
tredici colonie si accordarono per portare avanti le azioni di boicottaggio e
per difendere con ogni mezzo le loro autonomie. Nell'aprile 1775 si ebbero i
primi scontri armati tra le milizie dei coloni e le truppe britanniche nei
pressi di Boston. In maggio, un secondo Congresso continentale decideva la
formazione di un esercito comune, il Continental Army, e ne affidava il
comando a George Washington (1732-1799), un proprietario terriero della Virginia
che, nel volgere di un decennio, sarebbe divenuto il primo presidente degli
Stati Uniti d'America.
La protesta delle colonie, trasformatasi ormai in rivoluzione, sfociava così in
una vera e propria guerra.
La Dichiarazione di Indipendenza. Un atto fondativo
Il 4 luglio 1776, dopo un lungo e acceso dibattito, il Congresso continentale
approvò una Dichiarazione di indipendenza stesa da Thomas Jefferson (1743-1826),
che può essere considerata il vero atto di nascita degli Stati Uniti d'America.
Questo documento fondamentale, oltre a enumerare minuziosamente i motivi del
contrasto con la Corona britannica sul modello del Bill of Rights inglese
del 1689, si richiamava ai principi del giusnaturalismo, ai diritti inalienabili
dell'uomo e al diritto di un popolo a ribellarsi gettando le basi di un nuovo e
concreto progetto politico.
La Dichiarazione era un progetto rivoluzionario che rompeva ogni legame con la
monarchia britannica e dava vita a una repubblica.
La guerra, la vittoria e la pace
L'indipendenza venne dichiarata poco più di un anno dopo l'inizio di una
guerra che si sarebbe trascinata per otto anni: durò infatti dal 1775 al 1783.
Inoltre, dopo l'ingresso della Francia e della Spagna a fianco degli Stati Uniti
con l'evidente obiettivo di trarre vantaggi territoriali da un'eventuale
sconfitta della Gran Bretagna, il conflitto si sarebbe combattuto anche nei
Caraibi, a Gibilterra (inutilmente assediata dagli spagnoli per tre anni), sulle
coste africane e in India.
Negli Stati Uniti le prime fasi del conflitto non furono favorevoli agli
americani, anche perché le truppe britanniche, forti di 35 mila uomini (tra cui
un nutrito contingente di mercenari tedeschi), contro gli 8000 poco addestrati
dell'esercito di Washington, assunsero l'iniziativa occupando New York (agosto
1776).
Washington adottò allora una tattica prudente evitando gli scontri campali e
logorando gli avversari con ostinate azioni di guerriglia — sabotaggi, assalti,
attentati a sorpresa —, finché i britannici non subirono a Saratoga (1777) la
loro prima seria sconfitta.
La posizione degli insorti restava comunque difficile e piuttosto grave era la
situazione finanziaria, che costrinse le colonie a sostenere i costi del
conflitto ricorrendo a una serie di imposte straordinarie.
A favore degli indipendentisti si schierò l'opinione pubblica europea — nella
stessa Gran Bretagna non mancarono le voci favorevoli ai ribelli — tanto che, a
partire dal 1777, cominciarono ad arrivare, provenienti da diversi paesi
europei, numerosi volontari pronti a battersi a fianco degli Stati Uniti. Ma
l'aiuto decisivo venne dall'intervento delle potenze europee che impegnarono la
Gran Bretagna su molti altri teatri bellici. Importante in questa fase fu in
particolare il ruolo della Francia, che, alla fine del '77, riconobbe
l'indipendenza delle colonie e, nel gennaio '78, firmò con esse un patto di
alleanza militare.
Nell'estate dell'81, in coincidenza con l'arrivo di una flotta francese, gli
americani passarono al contrattacco e posero l'assedio a Yorktown, in Virginia,
dove si era concentrato il grosso delle forze britanniche costringendole alla
resa nell'ottobre 1781.
Con la pace di Versailles del settembre 1783 la Gran Bretagna riconosceva
l'indipendenza delle tredici colonie, ma conservava sostanzialmente intatto il
resto del suo impero, pur dovendo restituire alla Spagna la Florida (che aveva
occupato nel 1763).
La guerra civile e gli ideali repubblicani
Patrioti versus lealisti
La guerra contro la Gran Bretagna fu anche una guerra civile che vide
schierati i "patrioti" indipendentisti contro i "lealisti", fedeli alla Corona
britannica o, come anche si disse, i Whigs contro i Tories.
Si ritiene che i rivoluzionari fossero il 40% della popolazione e altrettanti i
pacifisti (come i quaccheri) e gli indifferenti. I lealisti erano quindi una
minoranza, ma molto combattiva. Tra i patrioti erano schierati l'élite dei
proprietari di piantagioni del Sud, come i virginiani Washington e Jefferson,
grandi e piccoli mercanti, ceti artigiani e agricoltori indipendenti soprattutto
nel Nord, e appartenenti alle congregazioni protestanti non anglicane.
La contrapposizione con i lealisti tuttavia non era sociale, ma politica e
ideologica.
Salvo che nella Nuova Inghilterra, dove la maggioranza indipendentista non trovò
molti avversari, gli scontri tra le due fazioni furono durissimi e spietati,
fino al massacro degli avversari. Alla fine della guerra tra i 60 e i 100 mila
coloni lealisti furono costretti all'esilio e le loro proprietà vennero
confiscate. Gli esiliati, a cui si aggiunse qualche migliaio di schiavi
liberati, si trasferirono in Canada nella regione dell'Ontario, nei Caraibi o
tornarono in Gran Bretagna.
La radicalità dello scontro rifletteva la diversità delle posizioni ideologiche.
La cultura rivoluzionaria era figlia delle tradizioni radicali inglesi, tanto
politiche che religiose, dei principi del contrattualismo di Locke, ma anche del
richiamo alle antiche libertà che risalivano alla Magna Charta. Inoltre,
il mito delle virtù repubblicane era contrapposto alla corruzione del dispotismo
monarchico.
Erano diffusi anche gli ideali della Massoneria (peraltro condivisi nello
schieramento monarchico) più per la loro capacità aggregante che per gli aspetti
dottrinari. Massoni furono alcuni dei leader rivoluzionari, come George
Washington, Benjamin Franklin (17061790), uomo di scienza e cultura oltre che
politico di peso, e Alexander Hamilton (1755-1804), che era stato uno dei più
stretti collaboratori di Washington e in seguito fu esponente delle tesi
federaliste.
Gli esclusi dalla Rivoluzione
Anche gli schiavi neri (o i neri liberati) e gli indiani nativi furono
coinvolti nella guerra.
A molti schiavi fu promessa la liberazione da entrambi gli schieramenti in
cambio dell'arruolamento.
Al Sud, soprattutto in Carolina, molti neri fuggirono approfittando dei
disordini della guerra mettendo in grave crisi l'economia delle piantagioni. Le
maggiori nazioni indiane si schierarono prevalentemente dalla parte dei
britannici, che sembravano poter tutelare meglio le tribù pellerossa dai rischi
dell'espansione dei coloni americani nei territori ad ovest degli Appalachi.
Di fatto, i principi egualitari, per quanto enunciati nel preambolo della
Dichiarazione di indipendenza, si ritenevano implicitamente limitati ai
bianchi americani e non si potevano estendere alle popolazioni native né agli
schiavi di colore. Peraltro, gli indiani pellerossa erano il principale ostacolo
all'allargamento verso ovest della colonizzazione e gli schiavi neri erano
indispensabili per mantenere efficiente il sistema produttivo degli Stati del
Sud. In questo senso gli uni e gli altri possono essere considerati gli
sconfitti del grande esperimento politico della Rivoluzione americana.
La Costituzione e la democrazia americana
La Costituzione del 1787
Il nuovo organismo politico uscito vittorioso dalla Rivoluzione e dalla
guerra era privo di un ordinamento istituzionale che superasse i potenziali
antagonismi tra i diversi Stati e si presentasse unito sulla scena
internazionale.
Per risolvere questo problema nel maggio 1787 si aprì a Philadelphia, sotto la
presidenza di Washington, una Convenzione costituzionale, ossia un'assemblea dei
rappresentanti di tutti i tredici Stati, che in meno di due mesi approvò una
Costituzione, destinata a reggere nelle sue linee fondamentali ancora ai nostri
giorni e a fungere da modello per molte successive esperienze di regime
rappresentativo. Ispirandosi al principio della divisione e dell'equilibrio dei
poteri, la Costituzione dava vita a nuovi organi federali, in grado di
esercitare la propria autorità su tutti i cittadini della Confederazione, che si
trasformava così in Unione o Federazione, acquistando la fisionomia di un vero e
proprio Stato unitario.
Gli organi federali
Il potere legislativo era esercitato da due Camere.
Le istituzioni americane
La Camera dei rappresentanti, che aveva competenza per le questioni
finanziarie, era eletta in proporzione al numero degli abitanti (un deputato
ogni 30 mila).
Il Senato, cui spettava il controllo sulla politica estera, era invece composto
da due rappresentanti per ogni Stato.
Questa soluzione costituiva un compromesso tra le esigenze degli Stati più
popolosi e le preoccupazioni degli Stati minori, destinati a essere sacrificati
in un sistema di rappresentanza basato esclusivamente sulla consistenza numerica
della popolazione.
Potevano votare, con criteri variabili nei singoli Stati, solo i maschi bianchi
dotati di un certo reddito, in base al criterio del suffragio censitario.
Il potere giudiziario – ferma restando l'autonomia in materia dei singoli Stati
– veniva posto sotto il controllo di una Corte suprema federale, composta da
giudici a vita nominati dal Presidente con l'assenso del Senato.
La maggiore novità della Costituzione stava nella creazione di un forte potere
esecutivo, accentrato nella figura del Presidente, eletto ogni quattro anni con
voto indiretto, cioè non direttamente da tutti gli aventi diritto, ma da
un'assemblea di "grandi elettori" designati dagli Stati.
Indipendente dal potere legislativo, il presidente era dotato di poteri
amplissimi: tra l'altro deteneva il comando delle forze armate, nominava, oltre
ai giudici della Corte suprema, i titolari di molti importanti uffici federali,
poteva bloccare col suo veto le leggi approvate dal Congresso – termine con cui
si designavano entrambi i rami del legislativo, ovvero la Camera dei
rappresentanti e il Senato.
Il Congresso poteva però a sua volta mettere in stato d'accusa il presidente e
destituirlo se questi si fosse reso colpevole di violazioni della legge.
Federalisti e antifederalisti
La Costituzione, per entrare in vigore, doveva essere approvata dalle
assemblee dei singoli Stati. Fu appunto in questa fase che il dibattito
costituzionale si sviluppò in termini più aperti e più vivaci.
Favorevoli alla soluzione federalista – ossia al rafforzamento del potere
centrale – e quindi all'approvazione della Costituzione erano soprattutto i
gruppi legati al commercio e alla industria, ma anche i grandi proprietari, e in
genere i ceti più conservatori, che speravano di trovare in un esecutivo forte
la migliore garanzia contro i rischi di disordine sociale e le tendenze
radicali.
Le idee antifederaliste avevano invece maggior seguito tra i ceti medio-bassi,
in particolare tra i piccoli coltivatori, che temevano di non poter essere
sufficientemente rappresentati da un governo centrale, considerato come un
possibile strumento in mano alle oligarchie finanziarie e agli affaristi delle
città.
Le tesi federaliste finirono col prevalere quasi dappertutto: la Costituzione fu
approvata da undici Stati su tredici, per essere poi solennemente ratificata dal
Congresso continentale nel settembre 1788. Nel febbraio seguente furono tenute
le prime elezioni legislative. Un mese dopo, George Washington veniva eletto
alla carica di presidente.
Le richieste degli antifederaliste ottennero una parziale soddisfazione con
l'approvazione da parte del Congresso, tra 1'89 e il '91, di dieci articoli
aggiuntivi – o emendamenti – alla Costituzione, noti come il Bill of Rights
americano, che avevano lo scopo di ribadire e di tutelare i diritti naturali di
libertà e proprietà dei cittadini e le prerogative dei singoli Stati contro
qualsiasi invadenza del potere federale.
I due partiti
Il governo federale fu organizzato in dipartimenti, ossia in ministeri.
Il dipartimento del Tesoro fu affidato ad Alexander Hamilton, esponente
dell'orientamento federalista, che ebbe un ruolo importantissimo nel risanare le
dissestate finanze dell'Unione e nel promuovere la riorganizzazione del sistema
creditizio attorno a una banca nazionale, la Banca degli Stati Uniti.
La politica di Hamilton, che favoriva i ceti commerciali e finanziari del
Centro-nord, suscitò l'opposizione dei proprietari del Sud e dei coloni
dell'Ovest, che trovarono un punto di riferimento in Thomas Jefferson, estensore
nel '76 della Dichiarazione di indipendenza.
Si formarono così due veri e propri partiti: il repubblicano-democratico, che
faceva capo a Jefferson, e il federalista, che aveva il suo principale leader in
Hamilton.
L'espansione degli Stati dell'Unione
L'assestamento delle istituzioni e il definirsi delle divisioni politiche
coincisero con l'accelerazione di quella espansione territoriale che si era
manifestata già durante il periodo coloniale.
Con l'Ordinanza del Nord-ovest emanata nel luglio 1787, le regioni da
colonizzare ottenevano la condizione di "territori", cioè di aree poste sotto la
tutela del Congresso statunitense che vi avrebbe inviato giudici e governatori.
Contemporaneamente erano incoraggiate a darsi propri organi di autogoverno fino
a che, una volta raggiunti i 60 mila abitanti, potessero trasformarsi in Stati
dell'Unione.
Questo meccanismo fu sperimentato già nell'ultimo decennio del secolo, che vide
la nascita di tre nuovi Stati: il Vermont, il Kentucky e il Tennessee.
Il sistema si sarebbe dimostrato valido anche nell'800, e avrebbe contribuito
non poco alla formazione di un modello di sviluppo territoriale (ed economico)
destinato a caratterizzare la storia degli Stati Uniti per tutto il secolo XIX:
un modello "aperto", capace di conciliare le spinte espansionistiche con la
tutela delle autonomie e con la crescita della democrazia.
LA RIVOLUZIONE FRANCESE E NAPOLEONE
Dal 1789 al 1815 la Francia, e tutta l'Europa, attraversarono un periodo di
conflitti e profonde trasformazioni.
Per prima la Rivoluzione francese rovesciò l'ancien régime, diede vita a
un nuovo sistema politico repubblicano, portò il paese in guerra contro le altre
potenze e creò nuove "repubbliche sorelle" della Francia in Europa.
L'opera rivoluzionaria fu continuata da Napoleone che costruì con le vittorie
militari un grande Impero francese, dalla Spagna alla Polonia, fino alla sua
rovinosa sconfitta nel 1815.
La crisi finanziaria e gli Stati generali
Luigi XVI ricorre agli Stati generali
Dalla morte di Luigi XIV (1715), l'assolutismo francese si era indebolito
senza riuscire a riformarsi.
Nonostante la vivacità del dibattito culturale e politico, il governo era chiuso
nel suo immobilismo, incapace di affrontare la crisi finanziaria, il principale
problema che lo affliggeva. L'indebitamento statale, dovuto soprattutto alle
spese per le continue guerre, aveva raggiunto dimensioni tali che solo la
tassazione dei ceti privilegiati – clero e nobiltà – poteva risolvere.
Luigi XVI, al governo dal 1774, ritenne allora di affidare la soluzione della
questione fiscale agli Stati generali, l'assemblea dei tre ordini – clero,
nobiltà e Terzo stato mai più riunitasi dal 1614.
Società, disagio e mobilitazione politica
Su una popolazione totale di 24-25 milioni, in Francia, il 98% era formato
dal Terzo stato, al quale appartenevano tutti coloro che non erano nobili o
ecclesiastici. Meno di 400 mila erano i nobili (1,5%), mentre il clero contava
130 mila individui (0,5%), divisi fra basso e alto clero (parroci e prelati) e
tra secolari e regolari (sacerdoti e appartenenti agli ordini religiosi). Almeno
20 milioni di persone vivevano nelle campagne, Parigi contava 650 mila abitanti,
Marsiglia e Lione 100 mila.
Se finanzieri e mercanti erano le figure di maggiore prestigio della borghesia,
più importanti si riveleranno nelle successive vicende politiche gli uomini di
legge, gli avvocati soprattutto, uomini colti, partecipi delle nuove idee
dell'Illuminismo.
La decisione di convocare gli Stati generali per il maggio 1789 determinò una
grande mobilitazione politica nel paese. Il tema più controverso era quello del
numero dei rappresentanti e del sistema di voto.
Non pareva infatti possibile applicare le vecchie regole che attribuivano lo
stesso numero di rappresentanti ai tre ordini e stabilivano che ogni ordine
esprimesse un unico voto collegiale. In questo modo il Terzo stato non avrebbe
visto riconosciuto il peso reale che aveva nella società.
Si formò allora un raggruppamento eterogeneo di intellettuali e pubblicisti
borghesi, il partito nazionale, nel quale confluirono anche esponenti del clero
e della nobiltà, espressione dell'opinione pubblica illuminista e liberale, dei
suoi strumenti di comunicazione – giornali, pamphlets, circoli, logge
(luoghi di riunione) massoniche – e di un programma mirante all'eguaglianza
politica e a un governo rappresentativo.
Il partito nazionale chiedeva anche il raddoppio dei rappresentanti del Terzo
stato, l'abolizione del voto per ordine e l'introduzione di quello individuale.
Un'ampia testimonianza delle aspettative e delle ragioni del malessere diffuse
nel paese si veniva nel frattempo raccogliendo nei cahiers de doléances
('quaderni di lagnanze'), testi che documentavano le rimostranze e le proposte
da presentare agli Stati generali.
In essi era già evidente una radicale divaricazione di obiettivi: mentre tutti e
tre gli ordini puntavano alla nascita di istituzioni rappresentative cui
affidare le decisioni in materia fiscale, il Terzo stato sosteneva anche
l'eguaglianza giuridica, l'abolizione dei privilegi, difesi ancora dalla nobiltà
e dal clero, e l'adozione del criterio del merito come forma di promozione
sociale.
La composizione interna dell'Assemblea
Quando si riunirono gli Stati generali il 5 maggio 1789, a Versailles,
l'assemblea di 1139 membri, eletti a suffragio maschile censitario, contava 578
deputati del Terzo stato, cui il re Luigi XVI aveva concesso il raddoppio: per
la metà erano uomini di legge, di cui almeno 200 avvocati; 80-100 erano i
commercianti, mercanti e finanzieri, e circa 50 i proprietari terrieri; una
trentina erano gli uomini di scienza, fra cui molti medici. Furono eletti nel
Terzo stato anche due transfughi dagli altri ordini, l'abate Sieyès e il conte
Mirabeau, esponenti di spicco del partito nazionale.
Su 291 rappresentanti del clero i parroci erano la stragrande maggioranza e
molti aderivano ai programmi del Terzo stato. Ma anche nell'alto clero non
mancavano i fautori del mutamento, come il vescovo di Autun, Talleyrand. I più
intransigenti difensori della società d'ordini erano invece i nobili: tuttavia,
su 270 un terzo circa erano gli esponenti liberali, fra cui il marchese di La
Fayette, reduce della guerra d'indipendenza americana.
L'avvio della Rivoluzione e la fine dell'ancien régime
L'Assemblea nazionale costituente
La maggioranza numerica dei deputati degli Stati generali era dunque favorevole a un profondo rinnovamento delle strutture politiche e amministrative: il Terzo stato allora prese l'iniziativa e, con l'appoggio di alcuni membri del basso clero, si autoproclamò Assemblea nazionale giurando di non sciogliersi prima di aver dato alla Francia una costituzione. A essi si aggiunse la maggioranza del clero e, dopo qualche giorno, il re ordinò alla nobiltà e alla minoranza del clero di unirsi al Terzo stato. Dalla antica rappresentanza per ceti il 9 luglio 1789 nasceva l'Assemblea nazionale costituente: era il primo atto formale della Rivoluzione.
14 luglio. La presa della Bastiglia
Mentre i primi passi della Rivoluzione negli ordinamenti politici si
compivano a Versailles, Parigi era in subbuglio.
Voci incontrollate parlavano di un intervento armato contro l'Assemblea
costituente. Come risposta a questo allarme, cominciò a formarsi una milizia
borghese, che avrebbe preso il nome di Guardia nazionale, con lo scopo di
contrapporsi alla repressione regia e di tenere sotto controllo le eventuali
iniziative popolari.
Contemporaneamente strati consistenti di popolo minuto si venivano armando. Il
14 luglio, un corteo popolare, alla ricerca di armi, giunse sotto le mura del
castello della Bastiglia, la prigione-fortezza simbolo dell'assolutismo, e dopo
alcune ore di scontri la conquistò.
Il 14 luglio sarà considerata in seguito la data iniziale della Rivoluzione
francese. E in effetti la presa della Bastiglia impresse una svolta agli
avvenimenti: il popolo parigino irrompeva prepotentemente sulla scena e da
allora l'avrebbe dominata per anni costringendo tutte le forze politiche a
misurarsi con questa decisiva presenza, con il suo protagonismo e con la sua
spesso imprevedibile e incontrollabile violenza.
Un "popolo" composto soprattutto da piccoli commercianti e artigiani, per oltre
due terzi alfabetizzati, da lavoranti e manovali, da impiegati e da qualche
professionista. In pochi giorni, una serie di atti rivoluzionari – la formazione
dell'Assemblea costituente, l'organizzazione della milizia borghese,
l'instaurazione di nuove rappresentanze municipali (che, iniziata a Parigi con
il riconoscimento del re, si estese a tutte le province) – testimoniava la
nascita di nuovi poteri e il progressivo sgretolamento dell'ancien régime.
L'abolizione del feudalesimo
Nella seconda metà di luglio una sollevazione delle campagne determinò
un'ulteriore accelerazione del processo.
La difficile situazione economica e l'improvviso diffondersi di un panico
collettivo – la «grande paura» –, legato a voci di supposte scorrerie di
briganti e di congiure aristocratiche, fecero esplodere una violenta rivolta
antifeudale. Furono assaliti e devastati i castelli, incendiati gli archivi dei
signori, dove era conservata la documentazione dello sfruttamento feudale.
Sospinta da questi avvenimenti, in un'atmosfera di entusiastica volontà
distruttiva del passato, l'Assemblea, nella notte del 4 agosto, approvò
l'abolizione del regime feudale sopprimendo anche tutti i privilegi giuridici e
fiscali, la venalità delle cariche e la decima ecclesiastica.
La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino
Il 26 agosto fu discussa e approvata dall'Assemblea la Dichiarazione dei
diritti dell'uomo e del cittadino, il documento più celebre della
Rivoluzione, destinato a divenire un punto di riferimento per tutti i regimi
liberali e democratici del mondo contemporaneo.
Espressione delle idee giusnaturaliste e illuministe, la Dichiarazione
rivendicava i principi fondamentali della libertà e dell'uguaglianza – «Gli
uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti» (art. 1) – e indicava
come obiettivo «la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili
dell'uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la
resistenza all'oppressione» (art. 2). Dichiarava inoltre che la legge è
«l'espressione della volontà generale» e che «tutti i cittadini hanno diritto di
concorrere [ ... ] alla sua formazione».
Affermando i principi dell'uguaglianza di fronte alla legge e della
partecipazione dei cittadini alla vita politica senza distinzione di ceto, la
Dichiarazione poneva il sigillo al rovesciamento dell'ancien régime.
Luigi XVI e la Rivoluzione
Il re non appariva tuttavia disposto ad accettare queste decisioni.
A rompere una preoccupante situazione di stallo fu l'iniziativa di gruppi di
popolane parigine, donne dei mercati e pescivendole, che, dopo essersi armate,
marciarono verso Versailles seguite dalla Guardia nazionale al comando di La
Fayette.
Sventato un attacco della folla contro la reggia, il sovrano si piegò a firmare
i decreti antifeudali e acconsentì a trasferirsi a Parigi nel palazzo delle
Tuileries.
Un corteo formato dal re e dalla sua famiglia, dai deputati dell'Assemblea, dal
popolo parigino, dalla Guardia nazionale marciò verso Parigi in un'apparente
concordia. In realtà, la monarchia era ormai incapace di affrontare gli eventi e
di puntare a una soluzione all'inglese (istituendo una monarchia di tipo
costituzionale): Luigi XVI non aveva le capacità politiche, né la mentalità, né
il temperamento per accettare il nuovo regime e quindi venire a patti con la
Rivoluzione.
La requisizione e la vendita dei beni ecclesiastici
Le ultime spallate alla struttura dell'ancien régime, attuate tra la
fine dell'89 e l'inizio del '90, furono la requisizione dei beni ecclesiastici e
la soppressione degli ordini religiosi, salvo quelli dediti all'insegnamento e
all'assistenza ospedaliera. Proprietà terriere, edifici urbani e rurali
divennero beni nazionali e servirono come garanzia per l'emissione di nuovi
titoli di Stato, gli assegnati. La vendita all'asta dei beni nazionali, pagabili
con gli assegnati, avrebbe sanato il deficit pubblico.
Il gigantesco passaggio di proprietà, realizzato a partire dal 1790, interessò
dal 6 al 10% del territorio nazionale. In molte regioni nel Nord e nel
Mezzogiorno, percentuali consistenti di beni furono acquistate dai contadini più
agiati; in altre, soprattutto in prossimità delle città, prevalse la borghesia
urbana. La vendita dei beni nazionali creò nuovi ceti proprietari, contadini e
borghesi, o rafforzò quelli già esistenti, legando tutti saldamente ai destini
della Rivoluzione.
Cessarono infine le discriminazioni nei confronti dei protestanti ai quali, nel
dicembre 1789, furono riconosciuti i diritti civili. Tale riconoscimento fu
esteso agli ebrei tra il '90 e il '91. L'abolizione della schiavitù nelle
colonie sarà invece decretata solo nel febbraio 1794.
Le quattro fasi della Rivoluzione
Nonostante la straordinaria densità di eventi che segnarono il periodo tra il
1789 e il 1790 appena descritto, le vicende della Rivoluzione francese furono,
negli anni seguenti, non solo numerose ma anche complesse e intricate. Per
essere meglio comprese, possono suddividersi in quattro fasi.
La prima fase La rivoluzione liberale, che coincide con gli avvenimenti
accaduti tra la convocazione degli Stati generali, nel 1789, e la Costituzione
del 1791, sancendo il rovesciamento dell'ancien régime e la nascita di un
sistema costituzionale e rappresentativo. In questa fase si raccolgono i
risultati più duraturi della rivoluzione.
La seconda fase La rivoluzione popolare e democratica, dal settembre 1791
alla fine del 1793. Il periodo è segnato dal protagonismo del popolo parigino,
dall'inizio della guerra contro le potenze avverse alla Francia rivoluzionaria,
dalla condanna a morte del re, infine dal trasferimento di tutti i poteri al
Comitato di salute pubblica giacobino.
La terza fase La dittatura giacobina e la nascita di una "democrazia
totalitaria" guidata da Robespierre, tra il 1793 e il 1794, che instaura il
sistema del Terrore volto a eliminare tutti gli avversari politici. Solo un
colpo di Stato della residua parte moderata, che vedeva la rivoluzione divorare
sé stessa, riesce a porre termine alla dittatura giacobina.
La quarta fase La fase della continuità rivoluzionaria e della
stabilizzazione difensiva sia dai rischi della controrivoluzione sia dalla
ripresa del radicalismo di sinistra. In questo periodo, tra il 1794 e il 1797,
assumono sempre maggior peso i generali comandanti delle vittoriose campagne
militari in Europa.
Per il suo stesso carattere di trasformazione rapida e improvvisa, la
Rivoluzione è sinonimo di instabilità: data la difficoltà di trasformare i suoi
risultati in un sistema di poteri legittimi e accettati, essa appare agli attori
principali sempre incompiuta o tradita. Questo spiega l'asprezza della lotta tra
i diversi schieramenti politici rivoluzionari, le continue varianti del sistema
di governo e lo sbocco finale nel dispotismo di Napoleone, che trova la sua
forza e la sua legittimazione non sul terreno della politica, ma nel controllo
delle forze armate e nei successi militari.
La rivoluzione liberale
La rappresentazione del consenso
Il rovesciamento dell'ancien régime suscitò entusiasmi e aspettative in tutta la Francia. Le nuove municipalità e la Guardia nazionale furono i più importanti organismi di aggregazione e di partecipazione. In diverse zone del paese guardie nazionali cominciarono a federarsi per la difesa degli obiettivi rivoluzionari. Sotto la spinta di iniziative periferiche fu organizzata e celebrata a Parigi, il 14 luglio 1790, anniversario della presa della Bastiglia, la grandiosa Festa della federazione. Con un rituale dai forti contorni religiosi, di fronte a 300 mila partecipanti La Fayette, a nome dei federati, prestò il giuramento che univa «i francesi tra loro e i francesi con il re per difendere la libertà, la costituzione e la legge». Poi il re giurò fedeltà alla nazione tra l'entusiasmo generale. Ma si trattava di un consenso provvisorio: in realtà, profonde differenze e orientamenti diversi erano già chiaramente visibili nei nuovi strumenti di cui si stava dotando la lotta politica.
I giornali e i club politici
La libertà di stampa (articolo 11 della Dichiarazione dei
diritti) aveva favorito il proliferare di numerosissimi giornali di ogni
tendenza (democratica, moderata, controrivoluzionaria) e la costituzione di
diversi club aveva contribuito all'organizzazione dei vari gruppi politici: la
Società dell'89, per esempio, era di tendenze moderate, mentre posizioni
radicali aveva il club dei cordiglieri (dal nome dell'ex convento dei frati
minori, cordelliers, dove si riuniva). A quest'ultimo aderivano alcuni
dei futuri protagonisti delle fasi più accese della Rivoluzione: Georges-Jacques
Danton (1759-1794) e Camille Desmoulins (1760-1794), entrambi avvocati, il
medico Jean-Paul Marat (1743-1793), il giornalista Jacques-René Hébert
(1757-1794).
Il club più importante, però, si rivelerà quello dei giacobini (dal nome dell'ex
convento domenicano di San Giacomo).
Organizzati secondo una rigida disciplina, i giacobini, con 450 società
affiliate, erano dotati di una presenza capillare nel paese che per certi
aspetti prefigurava quella dei moderni partiti politici.
Fra i membri di maggiore spicco dei giacobini erano Maximilien Robespierre
(1758-1794), avvocato originario di Arras e presedente del club dal marzo 1790,
e Jacques-Pierre Brissot (17541793), anch'egli avvocato, futuro leader della
frazione dei girondini.
Intorno ai giornali e ai club nasceva un nuovo ceto politico per gran parte
giovane (poco più che trentenne) e di formazione giuridica, grandi oratori,
giornalisti dalla penna graffiante. Ma nessuno dei personaggi ricordati qui
sarebbe sopravvissuto alle fasi più drammatiche della Rivoluzione.
Il sistema elettorale censitario
Uno dei temi più controversi fu il criterio per definire il corpo
elettorale.
I cittadini furono distinti in attivi e passivi in base al censo (cioè al
reddito, alla ricchezza). Soltanto quanti pagassero un'imposta annua pari a tre
giornate di lavoro erano considerati cittadini attivi ed elettori: erano oltre 4
milioni di cittadini maschi di età superiore ai 25 anni. Ma non tutti gli
elettori erano anche eleggibili: infatti, per essere eletti era necessario
possedere una qualsiasi proprietà fondiaria e pagare almeno un marco d'argento
(pari a 52 lire francesi) di tasse.
Questo sistema elettorale censitario – analogo a quelli esistenti in Gran
Bretagna e negli Stati Uniti – riservava ai notabili la rappresentanza della
nazione, ma era in contrasto con la mobilitazione di larghi strati popolari,
soprattutto urbani, in parte relegati nella categoria dei cittadini passivi,
privati dei diritti politici ed esclusi anche dalla Guardia nazionale (almeno 3
milioni).
Il nuovo sistema politico si prefigurava come un regime di borghesi benestanti e
di proprietari terrieri, designati appunto con il termine "notabili": e in
questo senso possiamo parlare di rivoluzione borghese.
Il partito di corte e gli emigrati
Proprio questa connotazione borghese e rappresentativa rendeva sempre più
evidente il contrasto con la monarchia assoluta di diritto divino.
Luigi XVI continuava a subire passivamente la Rivoluzione. Era inoltre sempre
più legato al "partito" della regina Maria Antonietta (figlia di Maria Teresa
d'Austria), decisa controrivoluzionaria, e alla consistente emigrazione
nobiliare che si organizzava all'estero in previsione di un ritorno al passato,
se necessario con l'aiuto delle grandi potenze europee.
Del resto in varie parti della Francia si erano già avuti episodi di ribellione
antirivoluzionaria che potevano far intravedere soluzioni favorevoli a una
restaurazione.
La politica ecclesiastica
Un altro elemento di instabilità era legato alla politica ecclesiastica.
Dopo la requisizione dei beni della Chiesa, spettava allo Stato il mantenimento
dei membri del clero, equiparati ai funzionari pubblici dalla Costituzione
civile del clero, votata nel luglio 1790. La legge attribuiva la nomina dei
vescovi e dei parroci alle assemblee elettorali locali e, come tutti gli altri
funzionari, anche gli ecclesiastici furono obbligati a giurare fedeltà alla
nazione, al re e alla Costituzione civile.
Questa radicale modifica dell'organizzazione ecclesiastica fu, come era
prevedibile, condannata da papa Pio VI (1775-1799). Solo sette vescovi su 130
prestarono il giuramento, mentre il basso clero, il più vicino al popolo minuto,
si divise a metà tra favorevoli, costituzionali, e contrari, refrattari, alla
Costituzione civile.
La gravissima frattura che si era aperta nella Chiesa di Francia ebbe come
conseguenza lo schierarsi di una parte consistente e progressivamente
maggioritaria del clero tra le file della controrivoluzione.
Le riforme amministrative
Nello stesso arco di tempo, fra il '90 e il '91, l'Assemblea costituente
proseguì nella grande opera di edificazione delle nuove strutture
amministrative. La Francia fu suddivisa in 83 dipartimenti, e i dipartimenti in
circondari, geograficamente omogenei per consentire di recarsi e tornare in
giornata dal centro amministrativo più vicino. Fu instaurato un compiuto
decentramento che rovesciava il sistema accentrato, voluto dalla monarchia
assoluta e realizzato dagli intendenti.
Parigi fu divisa in 48 sezioni (o circoscrizioni) che corrispondevano ad
altrettante assemblee elettorali.
L'Assemblea nazionale costituente, ispirata da principi liberisti e
anticorporativi, non solo soppresse tutte le corporazioni di mestiere, ma vietò
altresì le coalizioni operaie e gli scioperi, favorendo il mercato libero della
manodopera.
La Costituzione del 1791 e il tentativo di fuga del re
Il regime politico che si veniva definendo era un regime liberale fondato
sulla separazione dei poteri.
I giudici divennero elettivi.
Fu previsto un Parlamento composto da una sola camera, l'Assemblea legislativa,
della durata di due anni.
I ministri, di nomina regia, erano responsabili solo di fronte al sovrano e non
potevano essere membri dell'Assemblea.
Il re aveva facoltà di opporre un veto sospensivo alle leggi votate
dall'Assemblea: solo dopo la conferma in due successive votazioni, tali leggi
sarebbero diventate esecutive.
Il sistema previsto dalla Costituzione del '91, approvata il 3 settembre, era
stato congegnato in modo da richiedere, per un suo corretto funzionamento, uno
stabile accordo tra il potere esecutivo e quello legislativo, fra sovrano e
Assemblea.
Ma l'equilibrata attuazione di una monarchia costituzionale fu irrimediabilmente
pregiudicata dalla fuga del re da Parigi, il 20-21 giugno 1791.
La decisione di Luigi XVI mostrava il suo consenso ai programmi degli emigrati
aristocratici e della controrivoluzione. Il disegno era quello di guidare
dall'estero una restaurazione armata della vecchia Francia. Riconosciuto e
arrestato a Varennes, il re fu ricondotto a Parigi, insieme con la sua famiglia,
fra due ali di guardie nazionali e di popolo ostile. Era un colpo mortale alla
monarchia, la cui sopravvivenza era legata alla capacità di rappresentare
l'unità della nazione francese.
Ormai si era aperta un'alternativa repubblicana mentre la soluzione liberale e
moderata sarebbe divenuta rapidamente impraticabile.
La rivoluzione popolare e democratica
Dall'Assemblea legislativa alla Convenzione nazionale
In un anno, tra l'elezione dell'Assemblea legislativa a suffragio ristretto,
tenutasi nel settembre 1791, e quella a suffragio universale della Convenzione
(la nuova assemblea), nel settembre 1792, si assiste in Francia a una svolta
egualitaria e democratica.
La Legislativa aveva visto una maggioranza di deputati moderati e costituzionali
e una minoranza di radicali, i giacobini, tra i quali erano anche i girondini
(per l'origine di molti deputati dal dipartimento della Gironda, quello della
città portuale di Bordeaux).
Nella Convenzione si confrontarono invece due schieramenti usciti dai giacobini:
i girondini, collocati a destra, e i montagnardi collocati alla sinistra alta
dell'assemblea (la montagna). Questi ultimi erano composti dai giacobini
radicali di Robespierre e dagli ex cordiglieri.
I moderati, posti al centro, erano il gruppo più numeroso ma meno omogeneo,
designato col nome di "Palude".
La Convenzione era stata eletta dalla sola Francia rivoluzionaria. Nonostante il suffragio universale, aveva votato infatti soltanto un decimo circa degli oltre 7 milioni di elettori.
La mobilitazione del popolo parigino
Un mese prima delle elezioni per la Convenzione, il 10 agosto, i sanculotti, così chiamati perché non portavano (sans, 'senza') i calzoni al ginocchio (culottes) degli aristocratici e dei ricchi borghesi, ma i calzoni lunghi, diedero l'assalto alla reggia delle Tuileries con l'obiettivo di deporre un re traditore, pronto ad allearsi con i nemici della Francia. Luigi XVI venne sospeso dalle sue funzioni e arrestato insieme ai suoi familiari.
La guerra e la vittoria di Valmy
Poco dopo, nell'aprile 1792, scoppiò il conflitto con le potenze ostili alla
Francia rivoluzionaria: Austria, Prussia e poi anche Gran Bretagna. Da questo
momento la guerra condizionò in misura decisiva lo svolgimento degli avvenimenti
insieme ai ripetuti tentativi controrivoluzionari in alcune regioni
tradizionaliste e cattoliche, ma anche nella capitale.
Durante il conflitto, il 20 settembre 1792 le truppe francesi, innervate dai
volontari, batterono i prussiani a Valmy. Per la prima volta un popolo in armi
sconfiggeva una grande potenza e dimostrava che anche sul campo di battaglia la
Rivoluzione poteva rovesciare l'ancien régime.
La vittoria però fu più importante per il suo significato simbolico che per
quello militare.
Gli attacchi alla Francia
La caduta della monarchia
Il giorno dopo Valmy, il 21 settembre 1792, la Convenzione dichiarò
l'abolizione della monarchia e proclamò la Repubblica.
Luigi XVI fu messo sotto processo. Sul destino del re e sul ruolo da attribuire
al movimento dei sanculotti e al Comune insurrezionale di Parigi che li
rappresentava si apri un duro contrasto tra montagnardi e girondini.
Le differenze tra i due gruppi erano di natura strettamente politica e
ideologica: disposti al compromesso i girondini, radicalmente intransigenti i
montagnardi. Il re fu giudicato colpevole quasi all'unanimità, ma la richiesta
dei girondini di appellarsi al popolo per una conferma della condanna venne
respinta.
Il 21 gennaio 1793 il re fu decapitato.
La ghigliottina si ergeva di fronte al palazzo reale delle Tuileries, sulla
piazza ormai denominata Piazza della Rivoluzione. Il monarca di diritto divino
venne giustiziato come un uomo qualunque: uno dei fondamenti della storia di
Francia e d'Europa fu cancellato da quel gesto.
L'allargamento del conflitto e le rivolte
Nel febbraio 1973, sul fronte esterno, il conflitto si allargava e le potenze
coalizzate contro la Francia crescevano di numero: Austria, Prussia, Gran
Bretagna, Olanda, Spagna, Stati italiani.
La Repubblica otteneva successi militari e annessioni territoriali (Savoia,
Belgio, Renania), ma nel marzo una grande rivolta contadina esplose in Vandea
(una regione dell'Ovest, a sud della Loira) e nei dipartimenti vicini.
L'insurrezione, appoggiata dai nobili e dai preti refrattari, fu alimentata
soprattutto dall'opposizione e dall'estraneità di una parte del mondo rurale
alla Rivoluzione.
Il Comitato di salute pubblica: Robespierre al potere
Dall'aprile del 1793 il governo effettivo del paese passò nelle mani di un
nuovo organismo, il Comitato di salute pubblica, composto da nove membri scelti
dalla Convenzione.
I girondini, tra i principali sostenitori della guerra rivoluzionaria ma ostili
al movimento popolare e vicini alle posizioni moderate, vennero combattuti in
tutto il paese e nel giugno 1793 i sanculotti riuscirono a imporre l'arresto di
molti deputati girondini.
Il nuovo successo dei sanculotti apri la strada all'egemonia dei giacobini.
Depurati dei girondini, essi coincidevano ormai con i montagnardi. Il loro capo
era Robespierre, leader del Comitato di salute pubblica e mediatore della
convergenza tra movimento popolare e borghesia rivoluzionaria.
La dittatura giacobina
L'alleanza tra giacobini e sanculotti
All'inizio dell'estate del '93, il governo della Francia poggiava
sull'alleanza di due minoranze, quella costituita dai militanti e sanculotti
rivoluzionari – il 10% circa della popolazione maschile adulta – e quella
composta dal personale politico giacobino – non più di 100 mila uomini in tutto
il paese con circa 2000 società affiliate.
L'ideologia dei giacobini discendeva dalle teorie democratiche degli
illuministi, in particolare di Jean-Jacques Rousseau, alle quali attingeva nelle
linee di fondo anche il movimento popolare.
Dal punto di vista economico, giacobini e sanculotti auspicavano una società
caratterizzata da un insieme di piccoli produttori, contadini e artigiani,
proprietari dei mezzi di produzione. In questo senso, erano ancora collocati in
un contesto di economia tradizionale.
Dal punto di vista politico i giacobini e Robespierre giustificarono il loro
potere imponendosi come i veri interpreti del popolo e come espressione della
volontà generale.
Si inaugurava così un modello di democrazia totalitaria, centralizzata e
organizzata, che verrà ripreso nei secoli successivi e in particolare dai
rivoluzionari bolscevichi nel 1917 in Russia. I giacobini credevano di poter
trasformare nel profondo la società francese, gestendone in modo capillare il
cambiamento di struttura e finanche di mentalità.
Il Terrore
Gli strumenti della dittatura giacobina furono il Tribunale rivoluzionario e
il Terrore, ossia la sistematica eliminazione fisica degli avversari politici.
Fu varata la Costituzione democratica del '93, in realtà mai applicata, mentre
venivano sospese le più elementari garanzie dei cittadini.
Quando i giacobini cominciarono a governare, in gran parte della Francia
dilagava l'insurrezione "federalista", sotto la guida di girondini e realisti
(di fede monarchica).
Nel giro di sei mesi, tuttavia, le truppe della Convenzione riuscirono a
reprimerla e a domare, seppure provvisoriamente, la Vandea.
Sotto la pressione dei sanculotti, la Convenzione mise «il Terrore all'ordine
del giorno», intensificando la politica repressiva e introducendo criteri
totalmente discrezionali per definire le categorie dei "sospetti".
Le prigioni si riempirono, i tribunali e la ghigliottina lavoravano senza
tregua: da 300 mila a 500 mila furono gli arrestati in tutto il periodo del
Terrore. A Parigi, in ottobre, furono processati e decapitati l'ex regina Maria
Antonietta e i capi girondini, fra cui Brissot.
La leva in massa
La minaccia di un'invasione nemica impose un controllo ferreo sull'economia e l'introduzione di un calmiere dei prezzi (il maximum) per meglio organizzare l'approvvigionamento delle truppe. Contemporaneamente fu introdotta la leva in massa degli uomini tra i 20 e i 25 anni – nel 1799 la leva sarebbe divenuta obbligatoria – e giovani generali, anche di estrazione popolare, assunsero il comando, sotto il controllo dei commissari della Convenzione.
Il colpo di Stato del 9 termidoro
Dalla primavera del 1794 i contrasti tra i gruppi politici al
potere si fecero sempre più aspri.
Alla contestazione della sua
egemonia Robespierre rispose eliminando prima gli avversari di sinistra, gli
hebertisti (i cordiglieri vicini a Hébert), e poco dopo gli indulgenti,
capeggiati da Desmoulins e Danton, da tempo favorevoli a una politica meno
intransigente nel paese e all'estero.
Ma, nonostante l'importante vittoria militare di Fleurus contro austriaci e
britannici (26 giugno 1794), Robespierre intensificò la politica del Terrore.
In questa atmosfera maturò il colpo di Stato, una congiura che vide unite l'ala
moderata e quella estremista della Convenzione.
Il 9 termidoro del calendario rivoluzionario, ovvero il 27 luglio, Robespierre e
i suoi seguaci più stretti, Saint-Just e Couthon, vennero messi sotto accusa e
arrestati. I sanculotti non si mossero. Dichiarati fuori legge, Robespierre e
altri 21 furono giustiziati senza processo il 10 termidoro.
Il giorno dopo altri 71 robespierristi salirono sul patibolo. In meno di un anno
i condannati a morte del Terrore furono circa 17 mila ai quali vanno aggiunte le
vittime delle esecuzioni in massa (come quelle gettate nella Loira, a Nantes,
durante la repressione dell'insurrezione vandeana) per un totale di 35-40 mila
vittime. A Parigi le sentenze di morte furono 2639, ma la grande maggioranza fu
pronunciata nelle regioni insorte.
Continuità rivoluzionaria e stabilizzazione difensiva
La fine dei giacobinismo
La caduta di Robespierre non segnò la fine della rivoluzione, ma l'inizio di
una nuova fase caratterizzata, all'esterno, dall'espansione francese in Europa
e, all'interno, da faticosi tentativi di stabilizzazione volti a garantire la
tutela dei risultati rivoluzionari e la sopravvivenza del nuovo ceto politico.
In breve tempo fu smantellata la struttura di potere giacobina: decine di
migliaia di sospetti furono liberati e, a dicembre, la Convenzione reintegrò i
girondini superstiti.
I club giacobini vennero chiusi, mentre una nuova mobilitazione dei sanculotti
che protestavano contro il carovita fu repressa nella primavera del '95.
La repressione fu affidata all'esercito che, per la prima volta dall'inizio
della Rivoluzione, marciò sui quartieri popolari e disarmò i sanculotti.
Nel Mezzogiorno e nel Sudest infuriava il Terrore bianco – così detto dal colore
della bandiera borbonica – con vendette e massacri nei confronti dei giacobini e
dei preti costituzionali.
La Costituzione dei 1795 e il Direttorio
Il processo di stabilizzazione interna venne consolidato dai successi
militari ai quali seguirono, fra aprile e luglio 1795, i trattati di pace con la
Prussia e l'Olanda. Ma la guerra rimaneva aperta con l'Austria e la Gran
Bretagna.
Contemporaneamente la Convenzione elaborò un nuovo testo costituzionale, che
doveva conferire stabilità al nuovo assetto politico borghese della Francia.
Il potere esecutivo fu affidato a un Direttorio di 5 membri che nominava i
ministri. La nuova Costituzione riprese in molti punti quella del '91 e
soprattutto accentuò il carattere censitario del sistema elettorale e la tutela
della proprietà.
Tentativi insurrezionali
Nonostante questa nuova struttura istituzionale, la debolezza del nuovo
regime dava spazio a tentativi insurrezionali monarchici, come quello represso a
cannonate dal generale Napoleone Bonaparte a Parigi nell'ottobre '95, o
rivoluzionari come la "Congiura degli Eguali" promossa da François-Noël Babeuf e
sventata nel '96.
Babeuf teorizzava l'uguaglianza, la comunità dei beni, l'abolizione della
proprietà della terra: tra i capi della congiura figurava anche il toscano
Filippo Buonarroti, la cui esperienza ebbe grande rilievo nell'ispirare le prime
società segrete del movimento nazionale democratico in Italia.
Il ruolo dei militari
Mentre gli eserciti della Repubblica avevano ripreso vittoriosamente
l'offensiva in Europa, nuove difficoltà interne si presentarono costringendo la
maggioranza del Direttorio (guidata da Paul Barras) ad attuare un colpo di Stato
nel settembre 1797: furono annullate le elezioni tenute in quell'anno, deportati
numerosi deputati e giornalisti, introdotti severi controlli sulla stampa.
Decisivo per il colpo di Stato era stato l'appoggio dei comandanti militari
impegnati all'estero.
La sopravvivenza del regime e la continuità rivoluzionaria erano ormai affidate
non solo alle vittorie degli eserciti ma al diretto intervento dei generali
vittoriosi nella vita politica.
Gruppi politici e avvenimenti della Rivoluzione (1789-1795) |
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1789-90 Assemblea nazionale costituente (9 luglio 1789) |
Partito nazionale: fronte riformatore composto dal Terzo stato con l'apporto di aristocratici illuminati e molti esponenti del basso clero | • Nasce la Guardia nazionale • Assalto alla Bastiglia (14 luglio '89): il popolo parigino sulla scena rivoluzionaria • Nuove rappresentanze municipali a Parigi e nelle province (luglio '89) • Sollevazione nelle campagne: «grande paura» (luglio '89) • Abolizione del regime feudale (4 agosto '89) • Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (26 agosto '89) • Requisizione dei beni ecclesiastici (novembre '89) • Sistema elettorale censitario (dicembre '89) |
1790-91 Assemblea nazionale costituente | Società dell'89: di tendenze moderate Cordigliere: di tendenze radicali (Danton, Desmoulins, Marat, Hébert) Giacobini: di tendenze radicali, organizzati come un moderno partito politico (Robespierre e Brissot, futuro capo dei girondini) |
• Festa della federazione (14 luglio '90) • Costituzione civile del clero (luglio '90) • Decentramento amministrativo (dipartimenti provinciali e «sezioni» parigine) • Costituzione del 3 settembre '91: regime liberale, fondato sulla separazione dei poteri esecutivo, legislativo, giudiziario • Fuga del re (20-21 giugno '91) • Elezioni per la nuova Assemblea legislativa |
1791-92 Assemblea legislativa (1° ottobre 1791) | Foglianti: di tendenze moderate Costituzionali: difensori della Costituzione del '91 Giacobini: raggruppamento dei radicali (comprendono i Girondini) |
• Dichiarazione di guerra all'Austria (20
aprile '92) • Deposizione del re su iniziativa dei sanculotti parigini (10 agosto '92) • Elezioni a suffragio universale per la nuova Convenzione nazionale |
1792-93 Convenzione nazionale Comune insurrezionale | Palude (o Pianura): di tendenze moderate Girondine: ex giacobini, ora su posizioni meno radicali Montagnardi: giacobini legati a Robespierre ed ex Cordiglieri (Danton, Marat) |
• Scontro tra girondini e montagnardi sul
ruolo da attribuire al Comune insurrezionale e ai sanculotti parigini • Vittoria francese sui prussiani a Valmy (20 settembre '92) • Abolizione della monarchia (21 settembre '92) • Processo, condanna a morte e decapitazione di Luigi XVI (21 gennaio '93) • La Francia è in guerra con quasi tutti gli Stati d'Europa • Sollevazione antirivoluzionaria in Vandea (marzo '93) • Creazione del Comitato di salute pubblica (aprile '93) • Epurazione dei girondini (giugno '93) |
1793-94 Comitato di salute pubblica | • Dittatura giacobina • II Terrore • Leva in massa • Calendario repubblicano • Colpo di Stato contro Robespierre (9 termidoro/27 luglio '94) • Robespierre e i suoi più diretti seguaci vengono ghigliottinati |
|
1795-99 Direttorio | • Costituzione dei '95 |
Nuova politica e mentalità rivoluzionaria
Il ruolo delle masse popolari
Nella fase più radicale della Rivoluzione le fazioni politiche al governo
traggono la loro legittimazione non solo dalle elezioni, ma anche dalla
mobilitazione dal basso del popolo parigino, dei sanculotti.
Il ruolo delle masse rappresenta una delle maggiori novità della Rivoluzione fin
dall'89 e condizionerà anche in seguito la politica francese in tutti i momenti
cruciali per quasi un secolo.
I gruppi politici radicali – giacobini, montagnardi, hebertisti – cercheranno di
incanalare e di sfruttare questa mobilitazione popolare armata, protagonista
della caduta della monarchia (10 agosto 1792), dell'arresto dei deputati
girondini – che avevano trovato nelle province il loro maggior sostegno politico
– e infine del controllo sull'operato della Convenzione.
Nasce da questa necessità di guidare il popolo e dalla convinzione di parlare
«in nome del popolo» l'ideologia incentrata sulla «volontà generale» di cui
molti leader, ma in primo luogo Robespierre, ritengono di essere gli unici veri
interpreti.
Una pedagogia politica
Questa ideologia e questa pratica politica furono accompagnate da una larga
attività di educazione collettiva, di pedagogia rivoluzionaria fondata sulle
celebrazioni della Rivoluzione e dei suoi martiri (come Marat pugnalato dalla
realista Charlotte Corday), su un largo repertorio di simboli – la coccarda
tricolore, il berretto frigio degli schiavi liberati – e sulla diffusione di
immagini popolari del rovesciamento del Vecchio Mondo.
Si puntò anche a creare un sistema educativo pubblico e a diffondere l'uso di
una lingua nazionale che liberasse le masse illetterate dalla sudditanza ai
dialetti locali.
Cancellata la monarchia e osteggiata duramente la Chiesa, i due riferimenti
fondamentali dell'identità popolare, era necessario segnare profondamente il
rinnovamento rivoluzionario. In questa direzione la decisione più significativa
fu l'introduzione del nuovo calendario repubblicano o rivoluzionario, in vigore
dall'ottobre 1793 fino al 31 dicembre 1805, che stabiliva una nuova datazione
dalla proclamazione della Repubblica in poi: oltre a cambiare il nome dei mesi e
dei giorni, aboliva il ciclo settimanale e la domenica (sostituendoli con gruppi
di dieci giorni) intervenendo direttamente sulla scansione del tempo legata alle
pratiche religiose.
La scristianizzazione e il culto dell'Essere supremo
Il nuovo calendario era un aspetto della più sistematica scristianizzazione,
promossa soprattutto dal club dei cordiglieri di Hébert, con la distruzione di
simboli religiosi come le statue dei santi e le campane, e la celebrazione di
feste per la dea Ragione.
La scristianizzazione non ebbe l'appoggio di Robespierre, che vi scorgeva i
rischi dell'ateismo razionalista e dell'attenuazione del controllo morale e
sociale esercitato dalla religione: nel maggio del '94 il leader giacobino
sostenne e impose invece il culto dell'Essere supremo, espressione delle sue
concezioni deiste.
Molti aspetti della ventata scristianizzatrice vanno ricondotti alle componenti
di fondo della mentalità rivoluzionaria, che univa volontà punitiva e ossessione
del complotto controrivoluzionario alla convinzione della necessità di un
rovesciamento totale del passato. Un rovesciamento inteso come inversione dei
ruoli (trionfo dei poveri sui ricchi, degli umili sui potenti) e come
distruzione simbolica di tutto ciò che rappresentava l'antico regime.
L'espansione rivoluzionaria
Sostenitori e critici della rivoluzione in Europa
Quanto accadeva in Francia fu costantemente seguito dall'opinione pubblica in
tutta Europa. Se all'inizio i ceti illuminati guardarono con favore al
rovesciamento dell'assolutismo e a un possibile sviluppo costituzionale
all'inglese, successivamente lo scoppio della guerra e soprattutto l'uccisione
del re ridussero drasticamente il numero dei sostenitori.
Il Terrore divise ulteriormente i fautori della rivoluzione, separando le
correnti liberali e moderate da quelle democratiche.
Tra i primi a ragionare sulla Rivoluzione fu lo scrittore politico di origine
irlandese Edmund Burke (1728-1797). Esponente dei Whigs, già nel novembre 1790
pubblicò le Riflessioni sulla rivoluzione in Francia, una durissima requisitoria
contro l'astrattezza antistorica dei principi dell'89 e in difesa della
tradizione.
Alle origini della rivoluzione egli vedeva, tra l'altro, la "congiura dei
filosofi", un motivo destinato ad avere larghissima fortuna in tutto il pensiero
politico successivo. Significativa era anche la contrapposizione instaurata con
la pacifica Rivoluzione inglese del 1688-89 che dimostrava la superiorità dello
sviluppo politico britannico, risultato di una continuità storica, su quello
francese fondato sulla rottura con il passato.
La Rivoluzione non costituì solo uno spartiacque del pensiero politico, ma
determinò anche contrastanti reazioni in tutta Europa.
Da un lato i governi si impegnarono a reprimere ogni forma di protesta o di
dissenso nel timore che l'esempio francese dilagasse, dall'altro i nuclei di
opposizione presero coscienza di sé e dei propri obiettivi. Quella stessa rete
di comunicazione (la stampa, le logge massoniche), che aveva dato luogo alla
feconda circolazione delle idee illuministe, agì anche per i principi
rivoluzionari. Principi che la Francia sostenne, dal 1792, con una vigorosa
propaganda ideologica.
La "nazione armata"
In realtà, l'espansione rivoluzionaria in Europa fu affidata soprattutto alle
baionette dell'esercito: senza l'appoggio militare della "nazione armata" – in
cui i francesi si erano identificati dal 1792, con l'inizio della guerra contro
l'Austria –, nessun nuovo regime sarebbe stato in grado di reggersi. Inoltre
l'esercito, più di ogni altra istituzione, era profondamente legato – dai
soldati agli ufficiali – ai principi e ai risultati della Rivoluzione.
L'influenza della Rivoluzione fu particolarmente forte (e precoce) nei paesi
limitrofi, dove si legò a esigenze autonomistiche o a conflitti già in corso.
Tali furono i casi del Belgio e dell'Olanda: il Belgio fu annesso alla Francia
(1793-95), l'Olanda si trasformò in Repubblica batava (1795).
In Italia un centro di organizzazione rivoluzionaria si costituì a Oneglia, in
Liguria, sotto la diretta influenza dell'occupazione francese e la guida di
Filippo Buonarroti, che vi agiva come commissario della Convenzione.
Negli altri Stati italiani – a Torino, a Bologna, a Napoli e in Sicilia – i club
di giacobini (termine che qui indicava genericamente tutti i sostenitori della
Rivoluzione) furono duramente repressi dalle autorità di governo, che ne
condannarono a morte i maggiori esponenti (1794). Da questi primi nuclei si
svilupparono tuttavia altri gruppi che appoggiarono l'intervento diretto
francese nel 1796-97.
L'Europa dal 1789 al 1799
La conquista dell'Italia e le Repubbliche giacobine
La politica di conquista del Direttorio
Il Direttorio intensificò la politica di espansione francese in Europa nella
convinzione che la sicurezza della Francia potesse essere garantita non solo dal
raggiungimento delle "frontiere naturali" – le Alpi e il Reno – ma anche dalla
costituzione di "repubbliche sorelle" della Francia immediatamente al di là di
queste frontiere.
La realizzazione del disegno era legata alla sconfitta dell'Austria, che doveva
essere attaccata in primo luogo sul territorio tedesco in direzione di Vienna,
mentre altre truppe avrebbero tenuto impegnati gli austriaci in Italia, mirando
alla conquista del Piemonte e della Lombardia.
La campagna d'Italia
Nel 1796 il comando dell'armata d'Italia fu affidato a un giovane generale di
26 anni, Napoleone Bonaparte.
Le sue vittorie nel 1796-97 furono l'inizio di una carriera politica e militare
destinata a segnare profondamente, per quasi un ventennio, tutta la storia di
Francia e d'Europa. La campagna d'Italia mise immediatamente in luce le sue
straordinarie qualità di comandante militare: la capacità di imporsi agli
ufficiali e di trascinare i soldati, la rapidità di manovra e di decisione.
Bonaparte riuscì nel disegno strategico di mantenere unite le sue forze,
inferiori di numero, e di dividere quelle nemiche.
Il 15 maggio, sconfitti separatamente i piemontesi e gli austriaci, entrava
trionfalmente a Milano. Gli austriaci cercarono di riprendere il controllo della
Lombardia inviando nuove truppe, ma Bonaparte li sconfisse nella decisiva
battaglia di Rivoli Veronese (gennaio 1797) proseguendo poi verso Vienna.
Nel frattempo i francesi avevano costretto il papa Pio VI a cedere il possesso
dell'Emilia e della Romagna (trattato di Tolentino).
L'Italia nel 1799
Campoformio e la fine della Repubblica di Venezia
Le vittorie militari consentirono a Bonaparte di condurre
direttamente le trattative con l'Austria.
Con il trattato di Campoformio (ottobre 1797) ottenne il riconoscimento
dell'egemonia francese in Lombardia e in Emilia, dell'annessione del Belgio,
nonché l'attribuzione alla Francia della riva sinistra del Reno. L'Austria venne
compensata con il Veneto, l'Istria e la Dalmazia.
I territori di Bergamo e Brescia passarono alla neonata Repubblica cisalpina.
Fra lo sgomento e l'indignazione dei patrioti, la Repubblica di Venezia veniva
smembrata e cessava di esistere: dopo oltre un millennio finiva uno dei più
antichi Stati italiani.
Le decisioni di Campoformio non devono sorprendere. L'Italia era considerata
terra di conquista da depredare e saccheggiare. Le indicazioni del Direttorio in
questo senso erano chiarissime e non diverse da quelle adottate in Belgio e in
Olanda. Bonaparte e i suoi generali erano inoltre privi di scrupoli di sorta.
Così masse ingenti di denaro (frutto di imposizione ai sovrani e agli strati
sociali più abbienti) servirono al mantenimento dell'esercito o al risanamento
delle finanze francesi. Grandi tesori d'arte presero la via di Parigi.
Tutto ciò non contraddiceva tuttavia il più complesso progetto politico di
creare in Italia una serie di "repubbliche sorelle".
La nascita delle repubbliche
Impegnato a dare un nuovo assetto politico all'Italia settentrionale,
Bonaparte fu attentissimo a utilizzare tutti i mezzi di comunicazione del tempo
– stampa, proclami, immagini – per propagandare i suoi successi e per imporsi
all'opinione pubblica francese: un disegno che rispondeva all'esigenza di
mostrare, accanto a quelli militari, anche i suoi meriti politici.
Nel dicembre 1796 fu creata in Emilia e Romagna la Repubblica cispadana.
Nel giugno 1797 si formarono la Repubblica ligure e, sui territori occupati
della Lombardia, la Repubblica cisalpina, con la quale a luglio si fuse la
Cispadana.
Successivamente nel febbraio 1798 i francesi intervennero a Roma – dove, nella
repressione di un tentativo giacobino, era stato ucciso un generale francese – e
proclamarono la Repubblica romana, che comprendeva il Lazio, l'Umbria e le
Marche. Pio VI fu deposto e trasferito prima in Toscana e poi in Francia, dove
morì nel 1799.
Alla fine del 1798, inoltre, la ripresa delle ostilità contro la Francia da
parte delle potenze alleatesi dopo la spedizione napoleonica in Egitto indusse
il Regno di Napoli ad attaccare la Repubblica romana. Le truppe borboniche
furono respinte e Napoli fu occupata dai francesi, che qualche giorno dopo vi
proclamarono la Repubblica partenopea (gennaio 1799).
Le repubbliche "giacobine"
Passate alla storia come repubbliche "giacobine", le repubbliche italiane
imposte dai francesi non ebbero in realtà mai caratteristiche tali da richiamare
il radicalismo rivoluzionario.
Le Costituzioni repubblicane, del resto, furono tutte modellate sulla
Costituzione francese del 1795: solo quella napoletana, redatta da Mario Pagano,
aveva contenuti più democratici.
Inoltre, sia Bonaparte sia i suoi successori in Italia si appoggiarono ai nobili
e ai borghesi di orientamento moderato.
Il controllo dei francesi si tradusse anche nella nomina diretta dei membri
degli organi legislativi e di governo, nonché nella loro sostituzione a seconda
del maggiore o minore allineamento alla politica del Direttorio o a quella dei
comandanti militari in Italia.
L'egemonia francese diede tuttavia l'avvio a una serie di riforme anche al di
fuori dell'ambito dell'organizzazione istituzionale: come l'introduzione dello
stato civile, l'abolizione di maggiorascati e fedecommessi – che impedivano il
frazionamento e la vendita dei beni di origine feudale –, la soppressione degli
enti religiosi e l'inizio della vendita dei loro beni, convertiti in beni
nazionali.
Alcune di queste riforme rimasero allo stato di pura enunciazione, soprattutto
quelle miranti alla costituzione di una diffusa piccola proprietà contadina: non
ebbero alcun seguito, infatti, le proposte in questa direzione avanzate nella
Repubblica romana dove, soprattutto nella campagna intorno a Roma, era presente
un'imponente proprietà latifondistica.
Le nuove repubbliche determinarono un vigoroso risveglio del dibattito politico:
utopisti e riformatori, rivoluzionari e moderati – come Melchiorre Gioia, Matteo
Galdi, Enrico Michele L'Aurora e il più radicale Vincenzio Russo – si
impegnarono in una riflessione sulle forme politiche, sui problemi economici,
sui possibili destini unitari della penisola.
Anche per la brevità dell'esperimento repubblicano non vi fu il tempo per
consentire alle nuove idee di affermarsi e trovare un qualche sostegno nei ceti
popolari, rimasti sempre ostili ed estranei al nuovo regime.
L'opposizione popolare
Già nell'aprile 1797 le truppe francesi di stanza a Verona erano state
assalite (le Pasque veronesi), mentre a Napoli, nel 1799, i popolani
(«lazzaroni») si opposero violentemente all'ingresso dei francesi in città.
Questa estraneità e ostilità si estese anche alle altre Repubbliche giacobine.
Quando il controllo francese sull'Italia cominciò a vacillare, alla fine del '98
e nel '99, si registrarono infatti numerosi episodi di sollevazioni popolari.
Nell'Italia meridionale, in particolare, i contadini non videro alcun vantaggio
immediato per le loro durissime condizioni ad opera del nuovo regime
repubblicano: le norme che abolivano i prelievi feudali e garantivano la
continuità degli usi civici giunsero troppo tardi (alla fine di aprile 1799). Fu
agevole quindi per il cardinale Fabrizio Ruffo, emissario dei Borbone, sollevare
i contadini e guidare l'armata della Santa Fede – di cui facevano parte anche
bande di briganti – contro la repubblica dei miscredenti. La conquista di Napoli
a opera dei sanfedisti (giugno 1799) anche con l'aiuto della flotta inglese
consenti il ritorno dei Borbone che effettuarono una durissima repressione.
Fra gli altri furono impiccati Mario Pagano, Vincenzio Russo, Francesco
Caracciolo ed Eleonora de Fonseca Pimentel.
La rapida fine della Repubblica partenopea (durata solo sei mesi) diede spunto
allo scrittore politico Vincenzo Cuoco per rivolgere pesanti accuse
all'astrattismo dei patrioti e ai carattere «passivo» della rivoluzione
napoletana (nel celebre Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799,
pubblicato nel 1801). Certo è che l'episodio sanfedista testimoniava della
difficoltà di coinvolgere le masse contadine nella rivoluzione «borghese»,
difficoltà che anche la Francia conosceva in quegli anni con l'endemica
ribellione vandeana.
Il colpo di Stato e la svolta autoritaria di Bonaparte
La spedizione in Egitto
Nella primavera del '98 fu concesso a Bonaparte, dopo la rinuncia a un
progetto di invasione della Gran Bretagna, di organizzare una spedizione
militare contro l'Egitto. Da lì avrebbero potuto essere colpiti gli interessi
commerciali britannici in Oriente. La disponibilità del Direttorio a un progetto
avventuroso e azzardato mascherava il desiderio di allontanare da Parigi un
personaggio divenuto, dopo i successi in Italia, troppo ingombrante.
A maggio un'imponente flotta di oltre 300 navi salpò da Tolone: vi erano
imbarcati 38 mila soldati e una numerosa commissione scientifica. L'Egitto era
una provincia dell'Impero ottomano, sostanzialmente autonoma e dominata dalla
setta militare dei Mamelucchi.
Sbarcati ad Alessandria i francesi si spinsero verso il Cairo, e qui, nella
battaglia delle Piramidi, sconfissero i Mamelucchi a luglio.
La vittoria diede nuova fama a Bonaparte e contribuì a diffondere nel mondo
occidentale la moda per tutto ciò che era egiziano. Ma pochi giorni dopo, il 1°
agosto, l'ammiraglio inglese Horatio Nelson (1758-1805) sorprendeva la flotta
francese all'ancora di fronte ad Abukir e la distruggeva, isolando i francesi.
Verso il colpo di Stato
L'unico risultato certo della spedizione in Egitto fu la ricomposizione di
un'alleanza generale contro la Francia, animata come sempre dalla Gran Bretagna
e con la partecipazione anche della Russia, dell'Austria e dell'Impero turco.
Così, mentre Bonaparte si dedicava all'amministrazione del paese occupato e la
commissione scientifica iniziava un amplissimo rilevamento delle antichità
egiziane, in Italia e in Germania i francesi cominciarono a ripiegare
rapidamente sotto l'attacco degli austro-russi.
Le nuove difficoltà militari aprirono a Parigi un'ennesima crisi politica e le
forze di sinistra ripresero vita. A giugno i parlamentari attaccarono duramente
il Direttorio, nel quale era stato da poco nominato Sieyès (uno dei protagonisti
della prima fase della Rivoluzione). Nonostante i successi militari dell'ottobre
1799, che arrestarono l'avanzata russa, le divisioni politiche rimanevano
profonde e, come nel 1797, un colpo di Stato era nell'aria.
Sieyès, l'uomo forte del Direttorio, puntava chiaramente a una revisione
costituzionale che rafforzasse l'esecutivo, ma non disponeva di una maggioranza
parlamentare.
A metà ottobre Bonaparte rientrò a Parigi: una vittoria sui contingenti turchi
appena sbarcati e la notizia delle sconfitte in Europa gli avevano dato motivi
sufficienti per abbandonare l'Egitto. Pur lasciandosi alle spalle il primo
insuccesso, il suo ritorno sembrò un trionfo.
Ben presto Bonaparte divenne l'elemento decisivo del nuovo colpo di Stato. Il 18
brumaio (9 novembre) 1799, con il pretesto di un complotto, i deputati vennero
trasferiti a Saint-Cloud nei pressi della capitale, sotto protezione militare.
Il 19 brumaio Napoleone impose con le armi una riforma costituzionale. I
deputati accettarono la creazione di una commissione esecutiva con pieni poteri
composta dai tre consoli della Repubblica francese, Sieyès, Ducos (un altro
membro del Direttorio) e Bonaparte.
Un governo dittatoriale
Il successo di Napoleone Bonaparte nella conquista del potere poggiava su un
elemento di fondo: il ruolo dell'esercito nella vicenda rivoluzionaria. Dei
dieci anni fra 1'89 e il '99, sette erano stati anni di guerra. Dal momento in
cui il popolo francese si era identificato con la nazione in armi – dal 1792,
con l'inizio della guerra contro l'Austria – e questa identificazione era
divenuta uno degli elementi portanti della mobilitazione politica, il controllo
dell'esercito divenne la fonte principale del potere e la garanzia di una
stabilizzazione delle conquiste rivoluzionarie.
Napoleone rimarrà indissolubilmente legato ai successi militari e alla necessità
di rinnovarli. Ma proprio il dominio francese sull'Europa susciterà per
contrasto l'emergere di forze nazionali che determineranno il crollo dell'Impero
napoleonico.
L'ascesa al potere di Bonaparte venne sancita dalla nuova Costituzione dell'anno
VIII che, sottoposta a plebiscito, entrò in vigore alla fine del 1799.
Il potere esecutivo fu interamente attribuito al Primo console, ovvero allo
stesso Bonaparte, che deteneva anche l'iniziativa legislativa (avendo il diritto
di proporre leggi). Gli altri due membri del consolato ebbero solo un ruolo
consultivo.
Si venne di fatto instaurando un governo dittatoriale incentrato sulla figura di
Bonaparte, propostosi come nuovo despota illuminato, restauratore dell'ordine,
l'unico in grado di concludere la Rivoluzione.
Ma Napoleone mirò soprattutto a garantirsi un ampio consenso nel paese, oltre a
quello che gli veniva dall'esercito. Con questo obiettivo, il ricorso al
plebiscito fu uno dei fattori costitutivi del regime napoleonico. Il plebiscito
era inteso infatti come ricerca di una delega diretta da parte del popolo.
Nella prima di queste consultazioni popolari, la Costituzione dell'anno VIII
ricevette 3 milioni di «sì» e poco più di 1500 «no». Ma al voto, che era palese,
non parteciparono, nonostante le pressioni della polizia, oltre 4 milioni di
aventi diritto.
Dal consolato all'Impero
2 dicembre 1804. Napoleone imperatore
Nel giro di cinque anni, il Primo console Napoleone consolidò il suo regime
personale attribuendogli un'inedita veste istituzionale.
Nel 1802, sempre grazie a un plebiscito, trasformò la sua carica in consolato a
vita con la facoltà di designare il proprio successore. Nel 1804, con
l'obiettivo di cancellare ogni ipotesi di restaurazione borbonica si fece
nominare imperatore dei francesi, dando così inizio a una nuova dinastia.
La Costituzione dell'anno XII, che istituiva la dignità imperiale ereditaria, fu
sottoposta a plebiscito e approvata con oltre 3,5 milioni di «sì» e circa 2500
«no».
Il papa Pio VII fu obbligato a partecipare alla cerimonia dell'incoronazione, il
2 dicembre 1804, nella cattedrale di Notre-Dame, ma con gesto accuratamente
preparato Napoleone tolse la corona dalle mani del papa e se la pose sul capo,
quindi incoronò la moglie Giuseppina.
A favorire questi passaggi istituzionali e a garantire il consenso dei francesi
erano stati principalmente tre fattori: le vittorie militari con la garanzia di
un periodo di pace, l'esito positivo degli accordi con la Chiesa e una decisa
lotta alle opposizioni.
- La ripresa della guerra e la pace
Il consolidamento del potere napoleonico era legato alle vittorie militari e
alla conquista della pace. Ma la pace passò inevitabilmente per una ripresa
della guerra. Nella primavera del 1800, mentre le truppe del generale Moreau
attaccavano in Germania, Napoleone varcava le Alpi riuscendo a prevalere sugli
austriaci a Marengo (giugno 1800). L'Austria, dopo ulteriori sconfitte, si
adattò a firmare la pace di Lunéville (febbraio 1801), che riconosceva il
controllo francese (diretto o indiretto) sull'Italia centro-settentrionale e la
cessione definitiva alla Francia della riva sinistra del Reno. A questo punto,
dopo il ritiro della Russia dalla coalizione antifrancese, il conflitto rimaneva
aperto con la sola Gran Bretagna: nel marzo 1802, con la pace di Amiens, la
Francia restituiva l'Egitto all'Impero ottomano, mentre la Gran Bretagna
riconosceva le conquiste francesi in Europa. Ebbe allora inizio l'unico, e del
resto brevissimo, periodo di pace tra la Francia napoleonica e la Gran Bretagna.
- Il Concordato con la Chiesa
Napoleone ritenne che l'equilibrio del suo potere potesse essere assicurato
solo dalla ricomposizione della frattura con la Chiesa di Roma. Questo obiettivo
fu raggiunto con il Concordato del luglio 1801, con il quale il nuovo pontefice
Pio VII riconosceva la Repubblica francese e la vendita dei beni nazionali.
Tutti i vescovi, sia costituzionali sia refrattari, furono sostituiti da altri
nominati dal Primo console e insediati dal papa. I vescovi dovevano giurare
fedeltà alla Repubblica, ma era loro concesso nominare direttamente i parroci,
che quindi cessavano di essere elettivi. Da parte sua lo Stato si assumeva
l'onere della retribuzione del clero.
- La repressione del dissenso
Il rafforzamento dei poteri del Primo console era stato accompagnato da
un'accentuazione dei controlli sulla stampa e, in genere, su tutti gli aspetti
della vita culturale. Bonaparte, insofferente delle critiche alla sua politica,
aveva epurato i residui organi consultivi di molti intellettuali e più tardi
aveva allontanato da Parigi Madame de Staël, la scrittrice che riuniva nel suo
salotto molte voci dissenzienti. In realtà, la minaccia più consistente al
governo napoleonico veniva dai sostenitori della monarchia appoggiati dalla Gran
Bretagna. Nel marzo 1804 fu sventata una pericolosa congiura realista. La
riorganizzazione politica e amministrativa poté procedere senza ostacoli perché
furono sistematicamente combattute le opposizioni più radicali, di destra e di
sinistra: la guerriglia vandeana fu progressivamente sconfitta; i giacobini più
accesi vennero deportati alle Seychelles.
Le riforme e lo Stato napoleonico
Fu negli anni del consolato che Napoleone avviò una profonda riforma dello
Stato nella quale coinvolse il personale politico rivoluzionario e recuperò
molte figure dell'antico regime.
Questo processo di integrazione si attuò soprattutto grazie alla riforma
amministrativa, la più duratura delle realizzazioni napoleoniche, rimasta
sostanzialmente in vigore per oltre 150 anni.
I prefetti, rappresentanti del governo in ogni dipartimento – e in questo eredi
degli intendenti dell'ancien régime –, furono il principale strumento
della centralizzazione burocratica e amministrativa. L'accentramento, potenziato
già nel '93-94 in periodo giacobino, trovò con Napoleone la sua definitiva messa
a punto.
Il prefetto, che dipendeva direttamente dal Primo console, aveva compiti
politici oltre che amministrativi: applicava le direttive del governo ed
esercitava il controllo sullo «spirito pubblico» e, quindi, soprattutto sulle
opposizioni. I prefetti furono le «masse di granito» (l'immagine è dello stesso
Napoleone) su cui si edificò il regime napoleonico. Collegata all'esigenza di
formare un capace ceto di amministratori e di tecnici fu l'attenzione prestata
all'istruzione pubblica, media e universitaria. Venne potenziata l'École
polytechnique, come sede di formazione preparatoria alla specializzazione
nei settori minerari, dell'artiglieria e delle costruzioni. Ma la struttura
fondamentale dell'insegnamento pubblico furono i licei, che avevano il compito
di fornire una cultura generale, soprattutto classica e letteraria, al nuovo
ceto dirigente.
Questo intervento nel campo scolastico non fu che uno degli aspetti dell'enorme
dilatazione delle competenze e attribuzioni dello Stato realizzata in questo
periodo. Lo Stato fu investito dei compiti di assistenza sociale e sanitaria
nonché del controllo dei mendicanti.
La burocrazia si dedicò con apposite inchieste a una rilevante raccolta di dati
statistici, economici e sociali, che dovevano servire di base all'intervento
pubblico. Lo Stato, come lo conosciamo oggi, si formò in epoca napoleonica.
Il Codice civile e il nuovo ceto dirigente
Nel marzo 1804 la promulgazione del Codice civile completò e l'opera
riformatrice di Napoleone.
Il Codice salvaguardava e dava certezza giuridica alle più importanti conquiste
dell'89, quelle relative all'abolizione dei diritti feudali, alle libertà
civili, alla difesa della proprietà.
Nel diritto di famiglia venne mantenuto il divorzio (legalizzato in Francia in
piena rivoluzione, nel 1792), mentre in campo successorio l'accesso di tutti i
figli all'eredità aboliva definitivamente i privilegi di primogenitura, che la
consuetudine riconosceva non solo alle famiglie nobili ma, in molte regioni,
anche a quelle di altri ceti sociali.
Veniva così garantita la più ampia circolazione delle proprietà, uno dei
capisaldi del liberismo economico e del pensiero riformatore settecentesco. Le
strutture politiche e amministrative e la riforma giuridica contribuivano a
definire un ceto dirigente composto da notabili e proprietari terrieri – i soli
a cui era riservato di fatto l'accesso alle cariche pubbliche –, strettamente
legati a un regime che impersonava la loro ascesa recente e la riconciliazione
con il passato.
In questo senso, le riforme degli anni del consolato rappresentarono il
risultato più duraturo della politica di Bonaparte.
La Francia napoleonica e l'Europa
Le vittorie militari e i nuovi regni
La pace tra Francia e Gran Bretagna durò solo pochi mesi e le ostilità
ripresero nel 1803 coinvolgendo presto le potenze europee.
Le vecchie monarchie infatti non potevano accettare un usurpatore come
Napoleone. Solo dopo cinque anni di guerre (1805-9), di annessioni, di
formazione di nuovi regni l'Europa intera, ma non la Gran Bretagna, si piegò a
riconoscere il nuovo impero.
La geografia politica del continente ne risultò profondamente modificata.
Nell'Europa centrale e orientale un'inarrestabile sequenza di grandi vittorie
militari – ricordiamo solo la più spettacolare, quella di Austerlitz sugli
austro-russi il 2 dicembre 1805 – costrinse alla pace Austria, Prussia e Russia.
All'Austria umiliata, nel 1806, Napoleone impose la soppressione del Sacro
romano impero (istituito nel lontanissimo 962) e, nell'area germanica, la
costituzione della Confederazione del Reno posta sotto il controllo francese.
Alla Prussia, fortemente ridimensionata a livello territoriale, venne conferita
una sovranità limitata e imposta la presenza di truppe francesi. Alcuni
territori prussiani occidentali confluirono in un nuovo Stato vassallo
dell'Impero, il Regno di Vestfalia.
In Olanda e in Polonia Napoleone istituì altri Stati satelliti.
Anche in Spagna, nonostante una durissima guerriglia che inflisse le prime
sconfitte ai napoleonica, fu instaurato un dominio francese: il trono spagnolo
venne affidato al fratello di Napoleone, Giuseppe.
L'assegnazione di alcuni Stati satelliti a parenti diretti o acquisiti
dell'imperatore divenne una caratteristica del sistema di dominio napoleonico.
Con il giovane zar Alessandro I, invece, fu stabilita (nel 1807) una pace che
riconosceva gli interessi espansionistici della Russia.
In Italia la Repubblica italiana (erede della Cisalpina) fu trasformata in Regno
d'Italia (1805): Bonaparte ne cinse la corona e nominò viceré Eugenio
Beauharnais, figlio di primo letto di Giuseppina. Il Piemonte, la Toscana e una
parte dello Stato pontificio con Roma, il Lazio e l'Umbria furono annessi alla
Francia, mentre il papa Pio VII, che aveva scomunicato Napoleone, fu arrestato.
Il Regno di Napoli, deposti i Borbone, fu concesso prima al fratello di
Napoleone, Giuseppe, poi al cognato Gioacchino Murat. Sotto il controllo
borbonico restava la Sicilia e sotto quello dei Savoia la Sardegna.
Il sistema continentale e il matrimonio con Maria Luisa d'Austria
In tutti i paesi del continente sottomessi, alleati o controllati, Napoleone aveva imposto il divieto di mantenere relazioni commerciali con la Gran Bretagna (1806). Il sistema o Blocco continentale mirava a distruggere la potenza commerciale britannica, dato che sembrava impossibile ridurne quella navale, soprattutto dopo la battaglia di Trafalgar (ottobre 1805), quando la flotta francese era stata sbaragliata dai britannici comandati da Nelson, morto in combattimento.
L'Europa nel 1812
Fra il 1810 e il 1812 il Grande Impero – Francia e Stati vassalli – raggiunse la sua massima estensione, dalla Spagna alla Polonia, dalla Calabria al Baltico. Un dominio che Napoleone cercò di consolidare sposando la figlia dell'imperatore d'Austria, la granduchessa Maria Luisa. Dopo il divorzio da Giuseppina, dalla quale non aveva avuto eredi, il nuovo matrimonio fu celebrato a Parigi nel 1810. Il "figlio" della rivoluzione sposava una nipote di Maria Antonietta, la regina ghigliottinata nella capitale 17 anni prima, nell'intento di legittimare il nuovo impero.
L'esercito e la nuova nobiltà napoleonica
L'Impero napoleonico era fondato sulla supremazia militare. Una supremazia
che poggiava non solo sulle doti strategiche e sul prestigio di Napoleone, ma
anche su un esercito di cittadini politicamente motivati. In Francia la leva in
massa del 1793-94 aveva introdotto il principio della coscrizione obbligatoria.
Il sistema francese, secondo il quale ogni cittadino era anche un soldato,
dimostrò, nonostante le numerose diserzioni, buone capacità di funzionamento
grazie anche ad alcuni importanti correttivi che escludevano dalla leva gli
uomini sposati e consentivano ai più agiati di pagarsi un sostituto. Ciò favori
i giovani borghesi, che poterono così sottrarsi al servizio militare.
Modi e atteggiamenti "democratici", eredità delle origini rivoluzionarie, si
mantennero vivi nell'esercito, che offriva grandi possibilità di carriera e
rimaneva la principale via di ascesa sociale. Dall'esercito proveniva infatti
una parte rilevante del gruppo dirigente del regime napoleonico e il 59% della
nuova nobiltà istituita nel 1808.
La creazione di un ceto nobiliare non fu che l'ultimo atto della costruzione di
una nuova gerarchia sociale dipendente dall'onore delle armi e dal rapporto
personale con l'imperatore. Questa nobiltà divenne automaticamente un attributo
delle più elevate cariche statali: era ereditaria e legata a ben definiti
livelli di ricchezza. Come estrazione sociale per il 58% era di origine
borghese, il 22,5% proveniva dall'antica nobiltà e il 19,5% dai ceti popolari.
Innovazioni e resistenza nell'Europa napoleonica
Nei paesi conquistati o annessi Napoleone si appoggiò invece assai più a quei
settori delle forze tradizionali che mostrarono la loro disponibilità a
inserirsi nel nuovo sistema di potere.
Più significativa come fattore di trasformazione fu l'estensione degli istituti
giuridici (in primo luogo del Codice civile) e dell'amministrazione napoleonica:
tutti gli Stati «vassalli» adottarono il modello francese dello Stato
accentrato. Dappertutto la feudalità o i residui del regime feudale furono
aboliti, espropriati e soppressi gli ordini religiosi, mentre i beni
ecclesiastici vennero messi in vendita per sanare il debito pubblico.
Quasi ovunque questo rilevante passaggio di proprietà determinò un rafforzamento
dei ceti già proprietari, soprattutto borghesi, ma anche nobiliari.
Nonostante il rilevante svecchiamento delle istituzioni e la mobilitazione della
società civile il consenso al nuovo regime si mantenne piuttosto modesto. Anzi
la presa di coscienza della società civile, indotta dalle nuove istituzioni,
portava inevitabilmente a rifiutare la passiva accettazione dell'egemonia
politica, militare ed economica della Francia e a favorire la diffusione di
aspirazioni all'indipendenza nazionale. Proprio queste aspirazioni, in qualche
caso, si tradussero in movimenti di opposizione.
Tra i principali motivi di resistenza era l'imposizione del Blocco continentale
che ostacolava tutta l'economia europea da tempo inserita in un sistema di
scambi e danneggiava anche le manifatture francesi. Inoltre in Spagna Giuseppe
Bonaparte non riusciva a venire a capo della guerriglia, né ad arginare la
riconquista britannica.
Anche la Sicilia occupata dalla Gran Bretagna, dove si erano rifugiati i Borbone
di Napoli, sfuggiva al dominio francese.
Nel 1812 la Costituzione che le Cortes di Spagna (ossia le antiche
assemblee rappresentative) si diedero a Cadice e quella adottata in Sicilia
sotto l'influenza britannica furono due episodi di alternativa liberale e
moderata al predominio del dispotismo napoleonico sul resto d'Europa.
Ispirate entrambe al modello britannico (quella spagnola anche alla Costituzione
francese del '91), abolivano la feudalità, introducevano la separazione dei
poteri, istituivano una monarchia costituzionale e un sistema elettorale
censitario.
Episodi di breve durata, le due Costituzioni diverranno, negli anni della
Restaurazione, modelli e obiettivi per il movimento liberale.
Le riforme prussíane
Decisive invece per lo sviluppo di tutta la successiva storia tedesca e dei
rapporti con la Francia furono le riforme introdotte in Prussia dopo l'umiliante
disfatta subita a Jena (1806) e sotto la spinta di una rinascita intellettuale e
culturale fondata sul recupero della tradizione, che culminò nei Discorsi
alla nazione tedesca (1807-8) del filosofo Johann Gottlieb Fichte.
Le riforme economiche e sociali avviate nel 1807 dal barone von Stein abolirono
la servitù della gleba, introdussero la libera circolazione e proprietà della
terra, il libero accesso alle professioni. Più importanti, per il loro effetto
immediato, furono le riforme dell'esercito, che adottavano il principio del
servizio militare come dovere, per ogni cittadino, di difendere lo Stato.
Non fu tuttavia introdotta la leva obbligatoria, ma venne applicato un criterio
di addestramento e di rapido avvicendamento degli uomini, che consentì di
disporre di una larga riserva di truppe.
Solo nel 1813, e per la sola durata della guerra, la leva divenne obbligatoria e
il nuovo esercito territoriale prussiano (Landwehr), infiammato dal
patriottismo e dal coinvolgimento della gioventù studentesca e degli
intellettuali, fu un elemento determinante nella sconfitta di Napoleone.
Il crollo dell'Impero
Nonostante il breve periodo di pace tra il 1809 e il 1812, e la nascita di un
erede («il re di Roma»), la continuità dell'Impero napoleonico era tutt'altro
che garantita. L'incrollabile ostilità britannica, la ribellione spagnola e
l'opposizione delle nascenti forze nazionali erano ormai ostacoli insuperabili.
Le potenze sconfitte non desideravano altro che porre fine all'avventura
napoleonica indissolubilmente legata ai successi militari. Così quando la Russia
riprese la sua libertà di commercio uscendo dal sistema continentale e
sganciandosi dall'alleanza con la Francia, Napoleone rispose ancora una volta
con la guerra.
L'invasione della Russia sarebbe stata l'inizio del suo declino.
L'invasione della Russia
Napoleone non fu in grado di valutare realisticamente le difficoltà
dell'impresa.
Per quanto numeroso (circa 650 mila uomini) il suo esercito era mal equipaggiato
e troppo composito: nell'estate del 1812, accanto ai francesi c'erano polacchi,
italiani, tedeschi, svizzeri e molti altri, per un totale di 20 nazioni e 12
lingue diverse.
I russi non si lasciarono agganciare e indietreggiarono facendo terra bruciata
alle loro spalle. L'esercito napoleonico, abituato a sfruttare i paesi occupati,
ebbe subito difficoltà di approvvigionamento.
Solo a 100 chilometri da Mosca i russi accettarono battaglia e furono sconfitti
a Borodino (settembre): ma non fu uno scontro decisivo, come non lo fu la
conquista di Mosca, presto distrutta da un gravissimo incendio.
La campagna di Russia del 1812
Napoleone non era nella posizione di forza per trattare con uno zar che lo considerava un "anticristo" contro cui risvegliare tutte le energie della santa Russia. In ottobre fu ordinata la ritirata presto trasformatasi in rotta per il freddo, il fango, la neve e gli attacchi della cavalleria cosacca.
La sconfitta e l'abdicazione
Nel 1813 tutta l'Europa era in armi contro la Francia.
I prussiani preparavano la loro «guerra di liberazione». Si costituì una
coalizione fra Gran Bretagna, Russia e Prussia, cui si aggiunse anche l'Austria.
La guerra culminò a Lipsia nella battaglia delle nazioni (16-18 ottobre 1813),
in cui forze soverchianti sconfissero i francesi. A essa fece seguito l'avanzata
degli alleati nel cuore della Francia invano rallentata da battaglie di
interdizione: Parigi fu occupata alla fine del marzo 1814.
In aprile Napoleone abdicò e i vincitori gli assegnarono il possesso dell'isola
d'Elba. Sul trono di Francia fu restaurato un Borbone, Luigi XVIII, fratello del
re ghigliottinato, che concesse una Costituzione con un sistema elettorale a
suffragio molto ristretto.
Riunite nel 1814 in congresso a Vienna, Gran Bretagna, Russia, Prussia e Austria
avviarono contemporaneamente la ridefinizione dei confini d'Europa.
18 giugno 1815. La disfatta di Waterloo
Ma l'avventura napoleonica non era finita. Il malcontento degli strati
popolari nei confronti dei Borbone (i contadini temevano il ripristino dei
prelievi feudali, i lavoratori urbani avevano visto peggiorare le loro
condizioni) e il malessere di tanti soldati e ufficiali, esclusi dall'esercito,
convinsero Napoleone che un suo ritorno in Francia avrebbe avuto buone
probabilità di successo. E in effetti il suo sbarco sulle coste francesi (il 1°
marzo 1815) fu seguito da una marcia trionfale verso Parigi, abbandonata da
Luigi XVIII.
Napoleone riformò la Costituzione imperiale dell'anno XII, dando spazio alle
esigenze liberali, e ricorse di nuovo al plebiscito per approvare questa
iniziativa. Erano gli ultimi sussulti di un regime che aveva perso la sua
vitalità e che le potenze europee avevano ormai deciso di cancellare.
Napoleone non riuscì a dividere e affrontare separatamente le forze nemiche che
puntavano sulla Francia. A Waterloo (in Belgio), il 18 giugno, la resistenza dei
britannici del duca di Wellington consentì ai prussiani di intervenire e
sconfiggere duramente i francesi. Fu l'ultima battaglia di Napoleone.
Consegnatosi un mese dopo alla Gran Bretagna, venne deportato sull'isola di
Sant'Elena nell'Atlantico, dove morì il 5 maggio 1821.
L'illusione del ritorno era durata solo cento giorni.
Rivoluzione e Impero: una duplice modernità
La Rivoluzione francese e l'Impero napoleonico rappresentano non soltanto due
vicende fondamentali per la storia di Francia e d'Europa, ma sono anche due
momenti di accelerazione del tempo storico e di modernizzazione politica
destinati a influenzare profondamente l'intera storia mondiale successiva.
Oltre a formulare e difendere nuovi principi, si concepiscono, in questi
decenni, forme e pratiche nuove del fare politica.
La modernizzazione politica
La modernizzazione si attua su vari livelli con alcuni tratti – elencati
scritti di seguito – che si rivelano comuni tanto alla Rivoluzione quanto
all'Impero, seppure in un processo di trasformazione e di evoluzione.
- Il rovesciamento della società dei privilegi e del feudalesimo
Con la Rivoluzione si attua questo fondamentale ammodernamento della società
in primo luogo in Francia. Esportato poi nelle "repubbliche sorelle", Napoleone
lo impone infine in tutto il Grande Impero.
- La definizione dei diritti civili e politici
Presenti nella Dichiarazione dell'89 e nella prima Costituzione, i diritti
civili e politici vengono prima ampliati tra'92 e'94 sul terreno
dell'eguaglianza, poi di nuovo limitati dai criteri di censo. Il Codice civile
napoleonico del 1804, che recepisce e dà certezza giuridica alle più importanti
conquiste dell'89, garantisce l'uguaglianza di fronte alla legge e il diritto di
proprietà.
- La mobilitazione delle masse popolari
Al tempo della Rivoluzione si mobilitano in primo luogo le masse urbane; in
seguito quelle prevalentemente rurali, arruolate nell'esercito rivoluzionario e
poi napoleonico.
- Il rafforzamento dello Stato accentrato
Già obiettivo della dittatura giacobina, l'accentramento raggiunge il suo
culmine, per organizzazione ed efficienza, col sistema dei prefetti di
Napoleone.
- Il ruolo centrale della guerra
La guerra, non è intesa solo come azione di conquista, ma anche come imposizione
dei nuovi ordinamenti istituzionali: assume un carattere ideologico e politico.
Per la massa dei cittadini soldati, le vittorie militari – sia quelle
rivoluzionarie come a Valmy, sia quelle napoleoniche – rappresentano un elemento
di aggregazione e di formazione del consenso popolare.
La tradizione e il diritto
La forza delle due grandi vicende, quella rivoluzionaria e la napoleonica, è
stata anche di dare origine a due potenti tradizioni e a due miti largamente
diffusi, seppure in ambiti politicamente diversi se non opposti.
Nonostante la faticosa, e sostanzialmente fallita, fusione fra aspirazioni
ideali e realizzazioni pratiche, la Rivoluzione francese costruisce un'immagine
mitica positiva di sé stessa. Un mito costruito e alimentato dagli stessi
rivoluzionari e divenuto potente fattore di coinvolgimento emotivo e di
mobilitazione politica. Un mito che giustificava e assolveva anche gli aspetti
più violenti e sanguinari del Terrore.
Su queste basi si costruì una tradizione legata a principi come la libertà,
l'eguaglianza civile, l'eguaglianza sociale. Per questo, da un unico ceppo
nasceranno più tradizioni rivoluzionarie: liberale, democratica, socialista.
Così tutte le tendenze politiche dell'800 – e non solo in Francia – si
caratterizzeranno in base a un rapporto di adesione o rifiuto dei valori della
Rivoluzione o di suoi specifici momenti. E in particolare ogni movimento
rivoluzionario, anche nel '900, vorrà ritrovare nel rapporto privilegiato,
immaginario o reale, con il modello della Rivoluzione francese la propria
legittimazione storica.
«Io non agisco che sull'immaginazione della nazione», aveva detto Napoleone nel
1800; e questo rapporto continuerà anche dopo la sua definitiva sconfitta. Con
una forzatura della memoria e sulle ali del mito l'immaginazione popolare fece
di lui l'eroe della Rivoluzione.
Così quella contraddizione tra Rivoluzione e dispotismo, che aveva
contrassegnato Napoleone e quasi un ventennio di successi politici e militari,
continuò ad alimentare la sua leggenda. Il mito di Napoleone durò non solo per
gran parte dell'800, anche oltre il Secondo Impero del nipote Napoleone III, e
il suo modello continuerà ad essere evocato dai grandi e piccoli despoti della
storia successiva.
Due vicende incompiute
Un altro tratto che avvicina la rivoluzione e Napoleone fu l'incompiutezza
delle due vicende.
Dalla fase liberale a quella democratica e alla dittatura, la rivoluzione non
riuscì mai a chiudere il suo ciclo per poi deformarsi nel dispotismo
napoleonico: un sistema di potere a sua volta destinato a non trovare mai una
definitiva legittimazione, costretto a difendere con le armi un dominio precario
e a essere inevitabilmente sconfitto.
Le differenze
A questo quadro che ha sottolineato finora i punti di convergenza vanno
aggiunti gli elementi che ne individuano le specifiche differenze.
Specifiche degli anni della Rivoluzione furono la violenza delle masse urbane,
protagoniste delle fasi più sanguinarie della Rivoluzione; la nascita del
partito politico nella versione embrionale, ma fortemente organizzata, dei
giacobini; l'esperienza della politica assembleare fino al colpo di Stato del 18
brumaio.
A segnare il periodo napoleonico furono invece l'introduzione del plebiscito con
la correlata raccolta del consenso popolare per via plebiscitaria (un meccanismo
che vedremo all'opera anche in seguito); la coincidenza nella stessa persona del
potere politico e di quello militare; la creazione di una nuova classe dirigente
e di una nuova nobiltà, risultato della grande mobilità sociale di quegli anni
nata dalla politica, dall'esercito e legittimata dall'alto.
Infine, scorrendo questi 25 anni di rivoluzioni e di guerre con gli occhi della
nostra sensibilità vien fatto di chiedersi quale fu il costo umano di questa
straordinaria modernizzazione politica. Le vittime per secoli non sono entrate a
far parte dei "conti" della storia. Ma forse noi dobbiamo ricordare i circa 3
milioni di caduti (secondo stime approssimative) di questa grande pagina della
storia europea.
LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Caratteri della rivoluzione industriale
Le cause
«Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, gli scambi con le colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all'industria uno slancio fino allora mai conosciuto L'esercizio dell'industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non bastava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura [...]. Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattura era più sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All'industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al medio ceto industriale subentrarono i milionari dell'industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni». In questo brano, tratto dalle pagine iniziali del Manifesto del partito comunista scritto nel 1848, due profondi conoscitori delle trasformazioni della società come i filosofi politici tedeschi Karl Marx e Friedrich Engels individuavano i passaggi cruciali che avevano determinato la rivoluzione industriale e la nascita della grande industria: il ruolo del commercio internazionale nel sollecitare la domanda di nuovi prodotti e il passaggio dalla produzione delle corporazioni artigiane a quella delle manifatture; l'importanza delle macchine per dar vita alla fabbrica meccanizzata e la nascita di nuove classi sociali come la borghesia imprenditoriale e il proletariato industriale (composto dai lavoratori salariati e dalle loro famiglie).
Una rivoluzione economica
La rivoluzione industriale segna una radicale svolta nel sistema di produzione delle merci che ebbe inizio in Gran Bretagna, in particolare in Inghilterra, a partire dagli anni '60 del '700 per poi estendersi nell'800 ad altri paesi europei e agli Stati Uniti. Il tasso di sviluppo dell'economia che si registrò in quegli anni, pari all'1,5%, può essere considerato basso se paragonato ai ritmi di crescita del '900 (vicini e talora superiori al 6-8%), ma l'aspetto più importante è la continuità dello sviluppo accompagnato da profonde trasformazioni sociali. Le rivoluzioni economiche non hanno i tempi rapidi delle rivoluzioni politiche, misurabili in giorni e mesi, e qualche volta in numero limitato di anni, ma producono effetti duraturi ed evidenti nel medio e lungo periodo. Grande produttrice di ricchezza, l'industrializzazione sarebbe divenuta, in tutto il pianeta, la via obbligata per la conquista del benessere o almeno per l'uscita dalla povertà, anche se a prezzo di un iniziale peggioramento delle condizioni di lavoro per migliaia di uomini, donne e bambini.
Perché in Gran Bretagna?
Condizioni preliminari
Per comprendere le ragioni per cui la Gran Bretagna divenne la prima nazione industriale è indispensabile individuare i pre-requisiti ossia le condizioni preliminari e particolari che consentirono alla rivoluzione di prendere avvio sul suolo britannico e non altrove.
Materie prime a basso costo Dalla
metà del '700 la Gran Bretagna dominava il commercio internazionale: questo
significava minore costo delle importazioni di materie prime – come il cotone
grezzo – e la possibilità di esportare su tutti i mercati i prodotti delle
attività industriali nazionali.
Società prospera e dinamica La società britannica si distingueva per una
superiore diffusione delle libertà e della tolleranza, elementi strettamente
connessi al commercio e all'ascesa delle classi medie. Paese già prospero e
culturalmente vivacissimo, era in grado di offrire molti sbocchi allo spirito
pragmatico, alla disponibilità al rischio e al dinamismo dei suoi imprenditori.
Disponibilità di capitali La rivoluzione agricola e la privatizzazione
delle terre, sostenuta con energia dal Parlamento, avevano contribuito alla
concentrazione della ricchezza e alla disponibilità di capitali nel paese.
La cultura scientifico-pratica Alla diffusione anche negli strati
artigianali degli elementi della formazione di base – leggere, scrivere e
soprattutto fare di conto –corrispondeva la presenza di una cultura
scientifico-pratica che sollecitava la ricerca di nuove soluzioni tecniche per
la nascente meccanizzazione. I principali inventori delle nuove macchine per
l'industria tessile non furono scienziati ma ingegnosi praticanti.
Energia a basso costo Un costo del lavoro relativamente alto (se
paragonato a quello di altri paesi europei o asiatici) e una disponibilità di
energia, idrica o prodotta dal carbone, a basso prezzo, rese conveniente puntare
sull'innovazione tecnologica e sulle nuove macchine per aumentare la produzione
complessiva e la produttività per lavoratore. Ciò fu particolarmente evidente
nelle innovazioni applicate alla filatura del cotone. Altrove, in Francia e in
Austria per non parlare dell'India, il basso costo del lavoro non costituiva un
incentivo alla meccanizzazione.
Innovazioni e sviluppo tecnologico
Numerose furono le invenzioni che accompagnarono i primi anni dello sviluppo
industriale: tuttavia, non è l'invenzione in quanto tale che provoca il
cambiamento, ma è la sua applicazione diffusa e costante – l'innovazione – che
costituisce il cuore della trasformazione tecnica. I settori principalmente
interessati dai cambiamenti tecnologici furono quelli delle macchine utensili e
della generazione di forza motrice e, strettamente connesso a quest'ultimo,
della estrazione e lavorazione delle materie prime, in particolare del carbone e
dei minerali ferrosi.
Nel settore dell'industria tessile, la reciprocità del rapporto tra invenzione e
produzione risulta particolarmente evidente. In un breve giro di anni una serie
di invenzioni consentì il passaggio alla completa meccanizzazione della filatura
(che trasforma il materiale grezzo in filo) e alla produzione di un filato
sempre più sottile e resistente: venne messa a punto prima la macchina per
filare azionata a mano, la jenny di James Hargreaves, brevettata nel
1765; poi, nel 1769, fu inventato da Richard Arkwright il filatoio idraulico,
alimentato appunto con energia idrica; e nel 1779 il filatoio mule di Samuel
Crompton, un ibrido fra le due precedenti macchine. La tessitura rimase invece
prevalentemente manuale nonostante l'invenzione del telaio meccanico di Edmund
Cartwright (1787), che tuttavia si affermò solo a partire dal 1820, mentre i
telai tradizionali rimasero in attività fino al 1850 circa.
La macchina a vapore
Ancora nei primi decenni dell'800, le ruote idrauliche installate lungo i corsi d'acqua fornivano l'energia necessaria a muovere le nuove macchine e le fabbriche si chiamavano mills, 'mulini'. Una svolta decisiva fu il passaggio allo sfruttamento dell'energia termica con la costruzione delle prime macchine a vapore – a cominciare da quella inventata da James Watt nel 1769. La macchina a vapore funzionava bruciando carbone per riscaldare l'acqua e produrre vapore. Generava così energia artificialmente e in base alle esigenze di produzione. Divenne allora sempre più conveniente utilizzare una forza motrice costante alimentata da un combustibile, il carbone, di cui la Gran Bretagna possedeva ricchi giacimenti, senza sottostare più ai cicli naturali – che condizionavano l'impiego di energia eolica e idrica – o ai limiti della forza fisica umana e animale. A questo punto, vapore e carbone divennero gli strumenti del progresso. Nel 1800 erano in funzione 1000 macchine a vapore, nel 1815 la potenza installata era già cresciuta di 20 volte.
Cotone e ferro
L'industria cotoniera
«Se diciamo rivoluzione industriale, intendiamo cotone»: nien- te di più vero
di questa affermazione dello storico Eric J. Hobsbawm. È il settore
dell'industria cotoniera che determina il decollo dell'industrializzazione: il
cotone fu infatti il battistrada del nuovo modo di produzione basato sulla
fabbrica. Intorno al 1760 la Gran Bretagna importava 2,5 milioni di libbre di
cotone grezzo, nel 1787 l'importazione era salita a 22 milioni, per giungere
cinquant'anni dopo a 366 milioni. Questi dati lasciano chiaramente comprendere
l'enorme incremento produttivo dell'industria cotoniera britannica. Tradizionale
grande produttrice ed esportatrice di tessuti di lana, la Gran Bretagna cominciò
a primeggiare anche nel settore cotoniero.
I tessuti di cotone avevano un mercato molto più ampio di quello della lana,
erano adatti a tutti i climi e in grado di sostituire la canapa e il lino. Per
quasi tutto il '700 il Bengala indiano, ormai sotto dominio britannico, era
stato il maggior produttore di tessuti di cotone, imbattibili per costo e
qualità, distribuiti in tutto il mercato internazionale dalle navi mercantili
britanniche. Fu proprio questa competizione internazionale a sollecitare la
meccanizzazione della filatura con risultati straordinari tanto sul versante
quantitativo quanto su quello qualitativo, e con un'alta remunerazione dei
capitali investiti. Contemporaneamente all'aumento di produttività dovuto alle
macchine, la diminuzione del costo del lavoro era favorita da un'ampia
disponibilità di manodopera alla quale non era richiesta una particolare
specializzazione, data l'elementarità della manovra delle nuove macchine
tessili. L'espansione demografica e la possibilità di impiegare donne e bambini
fornirono all'industria la necessaria quantità di forza lavoro a basso costo per
poter entrare sul mercato a prezzi competitivi e sostenere quindi l'ampliamento
della domanda di un prodotto sempre più economico e sempre più richiesto.
L'industria siderurgica
ro, l'industria del ferro – la siderurgia – segnò un passaggio indispensabile
dell'industrializzazione britannica. La progressiva meccanizzazione, infatti,
dipendeva da investimenti in nuove attrezzature e in macchine costruite
prevalentemente in ferro. Ma anche qui era necessario introdurre innovazioni che
eliminassero e riducessero le strozzature di una produzione legata al
tradizionale impiego del carbone di legna per alimentare gli altiforni che
producevano la ghisa. Il risultato era infatti una ghisa di scarsa qualità
dovuta alle impurità del minerale ferroso locale: solo la dispendiosa
importazione del ferro svedese, più puro, consentiva di ottenere un prodotto di
qualità accettabile. Neppure l'impiego del coke, risultato dalla distillazione
del carbone fossile, materia prima largamente disponibile in Gran Bretagna, era
riuscito a migliorare la qualità della ghisa data la difficoltà di raggiungere
le alte temperature necessarie negli altiforni.
La macchina a vapore e il sistema di Henry Cort per il puddellaggio, brevettato
nel 1783-84, mutarono totalmente questa situazione: permettendo non solo la
produzione di ghisa di buona qualità anche a partire dal minerale britannico, ma
soprattutto un notevole abbattimento dei costi di produzione. Infatti,
l'insufflazione di aria negli altiforni, assicurata dalle macchine a vapore,
consentiva la completa combustione del coke e il raggiungimento di temperature
tali da rendere possibile la raffinazione del ferro. La macchina a vapore
rendeva inoltre disponibili in modo continuo le grandi potenze necessarie per
modellare la ghisa con i magli e i laminatoi.
La produzione di ghisa crebbe costantemente dalle 68 mila tonnellate del 1788
alle 581 mila del 1825 e, dal 1812, la Gran Bretagna diventò un paese
esportatore. Il ferro assurse a simbolo della nuova civiltà della macchina e il
suo impiego, oltre che in ogni tipo di strumenti, si affermò nell'edilizia
pubblica e abitativa, in parte per le caratteristiche intrinseche e la
convenienza del materiale, ma in parte anche per il suo valore simbolico. Fra il
1775 e il 1779 veniva costruito a Coalbrookdale, sul fiume Severn, il primo
ponte interamente in ghisa con una luce di 30 metri. Il trionfo di questa
funzione celebrativa del ferro si sarebbe avuto con la costruzione del Crystal
Palace per l'Esposizione universale di Londra del 1851.
La nascita della fabbrica
La divisione dei lavoro
L'attività produttiva preindustriale si svolgeva nelle botteghe artigiane o più spesso nei sobborghi e nelle campagne, dove il metodo di produzione era prevalentemente quello a domicilio. Con l'introduzione delle macchine e del vapore questo sistema cambiò radicalmente: le fabbriche – soprattutto le filature tessili – erano grandi edifici a più piani sorti inizialmente lungo i corsi d'acqua anche in campagna (per sfruttare l'energia idrica). L'adozione delle macchine a vapore consentì lo spostamento delle fabbriche nelle città. Il lavoratore generico divenne un operaio salariato: abbandonò cioè tutte le altre attività che nell'impresa familiare continuava a svolgere, in particolare quella agricola, ed ebbe nella fabbrica il suo unico impiego. Inoltre, cominciò a eseguire solo l'operazione parziale – spesso molto semplice ma continuamente ripetuta – affidatagli sulla base di una crescente divisione del lavoro.
Lo sfruttamento dei lavoratori
L'avvento del sistema di fabbrica impose condizioni di lavoro molto gravose, che prevedevano orari oscillanti fra le 12 e le 16 ore giornaliere. La semplificazione del processo produttivo rese possibile il largo impiego, soprattutto nell'industria tessile, di donne e bambini che furono sottoposti a un duro sfruttamento. La condizione operaia era caratterizzata dalla estrema precarietà del posto di lavoro ed era inoltre aggravata da tutti i problemi connessi al processo di inurbamento. Gli operai erano costretti ad abitare in situazioni di sovraffollamento, in case fatiscenti e in pessime condizioni igieniche, potendo contare su un'alimentazione povera in quantità e qualità.
Le trasformazioni del paesaggio urbano crurale
Il sistema di fabbrica trasformò anche la distribuzione territoriale delle unità produttive e ridisegnò con essa l'immagine topografica e architettonica delle città e il paesaggio. L'attività lavorativa, infatti, si concentrò progressivamente nei centri urbani che crebbero in misura considerevole secondo tipologie edilizie di tipo intensivo, mentre anche la campagna circostante modificava le sue colture in funzione di una popolazione urbana in forte aumento. Manchester, che divenne il principale centro dell'industria cotoniera, sestuplicò la sua popolazione da 20 mila a 120 mila abitanti tra il 1760 e il 1830.
I Luddisti
La formazione dei grandi agglomerati di popolazione urbana e le nuove modalità di aggregazione sociale rappresentate dalla fabbrica e dal quartiere operaio da un lato resero più omogenei bisogni e condizioni di vita, dall'altro, attraverso l'intensificarsi dei contatti, diffusero la consapevolezza di un desti- no comune. Questi furono i presupposti per il sorgere di forme nuove di analisi e di azione politica. Tuttavia la consapevolezza del processo di trasformazione in atto nelle condizioni di lavoro e nel ruolo sociale dei lavoratori maturarono inizialmente negli strati tradizionali degli artigiani e non fra i nuovi operai di fabbrica. Fu tra i lavoranti a domicilio, gli artigiani e i giornalieri del settore tessile che si diffuse il luddismo, una delle prime manifestazioni di opposizione sociale. Questo movimento, organizzato in segrete e disciplinate "bande di guerriglia", prese il nome dal leggendario tessitore Ned Ludd che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio meccanico per la fabbricazione delle calze di lana. I luddisti contrastavano il diffondersi della prima meccanizzazione adottando come principale, anche se non unica, forma di lotta la distruzione delle macchine, nel cui impiego veniva individuata la causa fondamentale della disoccupazione e dei bassi salari. In questa elementare protesta trovavano espressione soprattutto il rifiuto del nuovo ordinamento della produzione e delle condizioni di vita che a questo si accompagnavano, ma anche la reazione alla politica governativa dei primi anni dell'800, improntata alla repressione di ogni fermento e di ogni spinta associativa dei ceti subalterni. La legislazione penale inglese, durissima non solo contro i distruttori di macchine ma contro qualsiasi forma di organizzazione, di sciopero e di rivendicazioni salariali, venne ulteriormente inasprita nel 1812 con l'introduzione della pena di morte contro i luddisti.
L'espansione dell'industria nell'Europa continentale
L'arretratezza dell'Europa continentale
Il nuovo sistema produttivo si affermò nel resto dell'Europa e negli Stati
Uniti a partire dal 1830 circa. Da allora il capitalismo industriale cominciò a
costituire il principale elemento propulsivo delle trasformazioni dell'intera
realtà economica e sociale. Fino a quella data l'Europa si presentava come
un'economia arretrata se paragonata ai contemporanei sviluppi della rivoluzione
industriale britannica.
L'economia dell'Europa continentale era essenzialmente agricola e l'agricoltura
era ancora, nella media, tecnicamente arretrata. 1 principali cambiamenti
introdotti in questo periodo – uso di aratri in grado di smuovere la terra più
in profondità, sistemi più complessi di rotazione, estensione delle colture
foraggiere che consentivano di integrare agricoltura e allevamento – si
limitavano al perfezionamento di tecniche già note. Le macchine agricole –
mietitrici, trebbiatrici –, già usate in Gran Bretagna, erano pressoché
sconosciute sul continente. Di concimi artificiali si cominciò a parlare solo
dopo il 1840, grazie all'opera pionieristica del grande chimico tedesco Justus
von Liebig (1803-1873).
In questo periodo si ebbero anche due gravi carestie, quella del 1816-17 e
quella del 1846-47, entrambe causate dai cattivi raccolti. La crisi del '46-47 –
l'ultima di questo genere nella storia europea – fu provocata soprattutto dal
diffondersi della peronospora, una malattia della patata, che in alcune zone,
come l'Irlanda e l'Europa centrale, era diventata la base dell'alimentazione. La
carestia colpì soprattutto la poverissima Irlanda, dove quasi un milione di
persone morirono – su un totale di circa 9 milioni – e almeno altrettante furono
costrette a emigrare in Nord America.
La ferrovia
Quando l'Europa continentale cominciò a entrare stabilmente nel sistema produttivo industriale, era già iniziata la rivoluzione dei trasporti legata alla macchina a vapore. La prima nave a vapore fu costruita nel 1803 dallo statunitense Robert Fulton. Le prime locomotive furono realizzate in Gran Bretagna più o meno negli stessi anni: il tipo più perfezionato – quello costruito da George Stephenson nel 1813 – fu subito usato per il trasporto del carbone in una miniera. L'invenzione della locomotiva e l'affermazione delle ferrovie si possono considerare come una conseguenza diretta del grande sviluppo assunto dall'industria carbonifera. Fu l'esigenza di trasportare quantità sempre maggiori di carbone dalle miniere ai luoghi di imbarco, o direttamente alle industrie consumatrici, a suggerire l'idea di far viaggiare i vagoni contenitori su rotaie fisse di ghisa e di farli trainare da macchine a vapore mobili, le locomotive. Il risparmio che così si otteneva, rispetto al trasporto su carri a trazione animale attraverso strade spesso accidentate e sconnesse, era tale da incoraggiare gli investimenti assai elevati che erano necessari per la costruzione di vere e proprie linee ferroviarie su percorsi sempre più lunghi, da adibire anche al trasporto dei passeggeri.
La costruzione della rete ferroviaria
Fra il 1830 e il 1850 furono costruiti in Gran Bretagna 11 mila km di ferrovie, che già costituivano l'ossatura di un'efficiente rete nazionale. Anche gli altri paesi del vecchio continente e gli Stati Uniti cominciarono in questi anni a progettare e a costruire treni e strade ferrate, ma con ritmi più lenti e con risultati meno significativi: solo dopo la metà del secolo le ferrovie conobbero un vero e proprio boom su scala europea. Comunque, già negli anni '30 e '40, la locomotiva e la ferrovia divennero — per le velocità, all'epoca quasi incredibili, che consentivano di raggiungere e per lo sconvolgimento traumatico che introducevano nel paesaggio rurale — un evidente simbolo del progresso. E costituirono anche un potente fattore per il diffondersi dell'industrializzazione: infatti lo sviluppo delle ferrovie, oltre a offrire nuove possibilità di trasportare merci, stimolava direttamente la produzione delle industrie siderurgiche e meccaniche.
I nuovi centri industriali
Nonostante la presenza di molti fattori sfavorevoli — come la scarsezza dei capitali e la propensione agli investimenti terrieri e immobiliari — alcuni nuclei di industria moderna — soprattutto nel settore tessile, ma anche in quello meccanico — riuscirono ad affermarsi già nell'età della Restaurazione, ossia dopo il 1815. Ciò avvenne in alcune zone "privilegiate", favorite dalle ricchezze del sottosuolo, dalla disponibilità di energia idrica — che restava, accanto al vapore, la principale forza motrice nelle fabbriche — e da particolari caratteristiche geografiche — presenza di vie d'acqua navigabili, vicinanza ai mercati dei grandi centri urbani — ma anche dalla crescita di una borghesia imprenditoriale. La più vasta di queste zone si estendeva dalle coste della Manica alle Alpi svizzere e comprendeva il Belgio, alcuni distretti della Francia nord-orientale — la zona di Lille e Roubaix —, l'Alsazia francese e la Renania tedesca. Altri nuclei industriali si trovavano in Sassonia, in Slesia, in Boemia e nelle regioni di Parigi, Berlino e Vienna.
Il Belgio e la Francia
Proprio grazie ai suoi stretti rapporti con la Gran Bretagna, oltre che alla ricchezza dei suoi giacimenti carboniferi, il Belgio riuscì ad assicurarsi in questo periodo un indiscusso primato in campo industriale fra i paesi dell'Europa continentale. La Francia ebbe invece una crescita più lenta. Progressi importanti si ebbero nel settore laniero e cotoniero e anche in quello siderurgico e meccanico: il numero delle macchine a vapore fisse passò da meno di 1000 nel 1833 a quasi 4500 nel 1846. Ma, ancora nel 1850, la potenza complessiva delle macchine installate in Francia era di 5-6 volte inferiore a quella della Gran Bretagna. A impedire un decollo più rapido, e probabilmente più traumatico, era la stessa struttura della società rurale francese, caratterizzata dalla diffusione della piccola e media proprietà contadina, che teneva legati alla terra capitali e forza-lavoro, anziché "liberarli", com'era avvenuto in Gran Bretagna, e renderli disponibili per l'industria.
La Germania e l'Impero asburgico
In Germania l'avvio dell'industrializzazione fu ancora più difficile. A metà
secolo, l'area tedesca era di parecchie lunghezze indietro rispetto alla Francia
per numero di macchine a vapore e per volume della produzione di ferro e di
carbone. Ancora più grave, poi, era il ritardo nel settore tessile. Però in
questi anni furono poste alcune premesse fondamentali: il completamento di
un'unione doganale tra i singoli Stati, la costruzione di una rete ferroviaria
abbastanza estesa, lo sviluppo dell'istruzione superiore e l'affermarsi di una
prestigiosa scuola scientifica, soprattutto nei campi dell'ingegneria e della
chimica. Diversa fu l'evoluzione dell'Impero asburgico, dove pure esistevano
alcuni promettenti nuclei di sviluppo industriale – in Austria e in Boemia – ed
erano presenti alcune condizioni favorevoli: una amministrazione efficiente, una
buona rete stradale, un discreto livello di istruzione.
Al di fuori dei paesi che abbiamo appena considerato – e di pochi isolati nuclei
nell'Italia settentrionale, nella Spagna del Nord (Barcellona) e in Russia (la
regione di Pietroburgo) – l'industria moderna era praticamente sconosciuta. I
paesi dell'Europa orientale e di quella mediterranea mancarono l'appuntamento
con la prima fase dell'industrializzazione. Alcuni di essi, come l'Italia e la
Russia, avrebbero tentato, ispirandosi al modello tedesco, di rientrare nel
gioco partendo dalle fasi successive. Ma le conseguenze del ritardo si sarebbero
fatte sentire per molto tempo.
LE IDEE, I SISTEMI
POLITICI
E I MOVIMENTI SOCIALI NELL'800
Il completamento dello Stato moderno
Durante gli anni del dominio napoleonico in Francia e nell'Europa
continentale i poteri dello Stato, il sistema di governo e l'organizzazione
amministrativa avevano raggiunto un livello elevato di efficienza: con la
scomparsa dei privilegi della Chiesa e dei ceti nobiliari, con la codificazione
delle norme giuridiche, con il rafforzamento dell'amministrazione, lo Stato
ottenne allora in modo definitivo quel monopolio della forza legittima che
costituiva la sua principale attribuzione.
Era il compimento di un processo plurisecolare di accentramento del quale si
possono ricordare alcuni passaggi particolarmente significativi. Gli intendenti
francesi del '600 con funzioni di controllo del prelievo fiscale, le varie forme
di codificazione giuridica in Prussia e nei domini asburgici, infine i prefetti
napoleonici dagli estesi poteri sulla società e sui ceti dirigenti locali: sono
altrettante tappe della costruzione dello Stato moderno nell'Europa
continentale.
In Gran Bretagna, invece, l'itinerario fu diverso per l'assenza di una
burocrazia tendenzialmente stabile e di forme di codificazione sistematica.
Furono invece le élites espressione dell'aristocrazia, della gentry – la piccola
nobiltà di provincia – e della nascente borghesia a governare il paese in virtù
dei collaudati meccanismi di patronage.
Lo stato burocratico-amministrativo
Al di fuori della Gran Bretagna, lo Stato moderno assunse la forma dello
Stato burocratico-amministrativo, emancipato da quel controllo della nobiltà e
delle assemblee dei ceti che aveva rallentato la prima affermazione
dell'assolutismo. I poteri tradizionali vennero sostituiti da un sistema di
potere legale, fondato su norme di legge, mentre il rispetto e l'applicazione
delle norme erano garantiti dalla burocrazia amministrativa. L'amministrazione e
il suo personale dirigente, la burocrazia, rappresentavano le ossa e i muscoli
dell'organismo statale. Il funzionario statale aveva in genere una formazione
giuridica e il suo reclutamento, inizialmente soggetto alla discrezionalità del
potere politico, sarà sempre più regolato da verifiche obiettive come i pubblici
concorsi.
In alcuni paesi, prima di ogni altro in Francia e successivamente in
Prussia, scuole superiori tecniche e militari formavano specialisti nel campo
delle costruzioni stradali, dell'ingegneria edilizia e dell'artiglieria, la più
"matematica" delle armi. L'amministrazione pubblica si dotava quindi di un
personale tecnico, che si aggiungeva a quello di formazione giuridica, e che
avrebbe accompagnato le nuove sfide nell'epoca dell'industrializzazione.
A
partire dal periodo napoleonico, fu la Francia a porsi all'avanguardia nelle
applicazioni della statistica, la nuova scienza al servizio dello Stato. Nel
corso dell'800 tutti gli Stati si dotarono di un'organizzazione di statistica la
cui principale attività sarà quella legata ai censimenti effettuati con uniformi
criteri scientifici, a partire da quello belga del 1846.
L'amministrazione, un potere neutrale?
L'ampliamento dei poteri e la tendenziale autonomia dell'amministrazione
contribuirono ben presto a innescare momenti di conflittualità con la nuova
classe politica rappresentativa. L'espansione dello Stato
burocratico-amministrativo nell'800, infatti, coincise con il progressivo
affermarsi delle istituzioni rappresentative e con la nascita dei partiti
politici.
In questa fase l'amministrazione non si configurò sempre come un
potere neutrale, al di sopra delle parti: fu invece il braccio più efficace dei
vari sistemi di governo.
Da sudditi a cittadini
Al momento culminante della costruzione dello Stato moderno, dunque,
corrispose la fase d'avvio dei primi sistemi politici rappresentativi fondati
sulla parità dei diritti civili e politici e su un parlamento elettivo.
La
Rivoluzione francese aveva trasformato i sudditi in cittadini. E questo
processo, esteso gradatamente al resto dell'Europa continentale sotto la spinta
delle armate napoleoniche, non sarebbe stato più arrestabile.
La sovranità non
apparteneva più al solo principe ma, insieme, al popolo e ai suoi
rappresentanti: questo era il carattere della monarchia costituzionale
rappresentativa.
Nei regimi repubblicani la sovranità apparterrà invece
interamente al popolo e ai suoi rappresentanti.
Lo Stato di diritto e lo sviluppo dei sistemi politici
Lo sviluppo dei sistemi politici era strettamente legato all'esistenza di una
costituzione. Quest'ultima, analogamente a quanto era accaduto con la
Rivoluzione americana e con la Rivoluzione francese, definisce il nuovo patto
che regge una comunità e fonda lo Stato come insieme di ordinamenti giuridici e
politici.
L'ordinamento politico retto da una legge fondamentale come la
costituzione, basato sul principio della separazione dei poteri – esecutivo,
legislativo, giudiziario – e sulla superiorità della legge su ogni forma di
privilegio e di arbitrio, si definisce come Stato di diritto.
Lo sviluppo dei
sistemi politici rappresentativi nell'800 si caratterizzò in Europa per la
presenza di due diverse forme di governo: il governo costituzionale, in genere
nelle monarchie costituzionali, in cui il capo dell'esecutivo – primo ministro o
presidente del Consiglio dei ministri – era responsabile solo di fronte al
sovrano che lo aveva nominato, e il governo parlamentare, in cui invece
l'esecutivo rispondeva al Parlamento che gli aveva concesso la fiducia.
Queste
due forme di governo si alternarono in Europa: l'affermarsi del governo
parlamentare fu determinato più da una prassi politica e da una consuetudine –
come in Gran Bretagna nel '700 e in Italia dopo l'unità – che da una norma
scritta.
Egualmente significativo fu, nello stesso arco di tempo, il contrasto
sui sistemi elettorali. Si confrontarono su questo tema il principio liberale,
sostenitore di un suffragio ristretto legato al censo e al livello culturale di
una circoscritta élite sociale, e il principio democratico, fautore del
suffragio universale maschile.
Del resto non fu questo il solo terreno su cui
liberalismo e democrazia si scontrarono: fu anzi proprio l'antagonismo fra
liberali e democratici – che invece oggi associamo nel modello
liberai-democratico – a caratterizzare la lotta politica per gran parte
dell'800.
Il Romanticismo
Le origini e la diffusione
Nei primi decenni dell'800 si affermò e si diffuse in tutta Europa la cultura
romantica. Essa si contrapponeva al razionalismo settecentesco, mostrando un
carattere antilluminista e anticlassicista: per un verso, infatti, il
Romanticismo esaltava la spontaneità dei sentimenti e degli stati emotivi, come
pure la libera creatività individuale, per l'altro rifiutava la compostezza e
l'equilibrio formale del mondo classico. Inoltre, nell'alveo della cultura
romantica assunsero particolare peso i valori della tradizione e della nazione.
I romantici cercarono nella storia la fonte di una nuova e più profonda
razionalità vedendo in tutte le epoche storiche – comprese quelle fin allora
ritenute «oscure» o barbariche, come il Medioevo – l'espressione di uno spirito
universale o la manifestazione di un disegno divino.
Come corrente letteraria,
artistica e filosofica, il Romanticismo era nato in Germania negli ultimi
decenni del '700. Aveva avuto i suoi primi assertori nel filosofo Herder e il
suo nucleo originario in quel gruppo di poeti e drammaturghi – fra gli altri, lo
stesso Herder, Goethe e Schiller – che diedero vita, attorno al 1780, al
movimento detto Sturm und Drang ('tempesta e impeto').
Una più organica
sistemazione teorica venne, negli anni tra la fine del '700 e l'inizio dell'800,
con la grande filosofia idealista di Fichte e Schelling. Romanticismo e
idealismo fornirono allora la base culturale a quel movimento di riscoperta
della nazione e di riscossa patriottica che coinvolse buona parte degli
intellettuali tedeschi, sull'onda delle lotte contro il dominio napoleonico.
In
quegli stessi anni a cavallo fra i due secoli, il Romanticismo si affermò in
Gran Bretagna – con la lirica di Coleridge e col romanzo storico di Walter Scott
– e cominciò a diffondersi anche in Francia, già patria dell'Illuminismo, nella
versione cattolica e tradizionalista di Chateaubriand. Un contributo decisivo
all'affermazione delle nuove tendenze anche nei paesi latini lo diede Madame de
Staël, brillante scrittrice ginevrina, col libro De l'Allemagne (Sulla
Germania), uscito nel 1810, che descriveva ed esaltava le esperienze
intellettuali fiorite in Germania negli ultimi decenni.
Fu soprattutto
attraverso le discussioni suscitate da questo libro che la cultura romantica
penetrò in Italia, dove trovò sostenitori entusiasti negli intellettuali
lombardi della rivista «Il Conciliatore».
A partire dal 1815, il Romanticismo si
diffuse un po' ovunque, fino a costituire il quadro di riferimento comune a
tutte le più importanti espressioni della cultura europea della prima metà
dell'800: dalla poesia al romanzo, dalla musica sinfonica al melodramma, dalla
storiografia alla filosofia, dalla pittura all'architettura.
La cultura che dominò un'epoca
L'influenza del Romanticismo si estese ben oltre il mondo delle lettere e
delle arti. Quella romantica fu una cultura nel senso più ampio del termine: fu
una mentalità diffusa, un fenomeno di costume che investi in modo decisivo il
modo di pensare, di agire e di apparire della minoranza colta, in particolare
dei giovani intellettuali.
Per le generazioni formatesi fra la fine del '700 e
l'inizio dell'800 – e in larga misura anche per quelle successive – il
Romanticismo fu anche uno stile di vita, un modo di atteggiarsi. Muoversi,
vestirsi, declamare (persino cercare il suicidio per amore) come il giovane
Werther, protagonista del celebre romanzo di Goethe, oppure imitare in ogni sua
forma quel singolare impasto di slanci eroici e di indolenza scettica e
malinconica che si incarnava nella figura del poeta inglese George Byron
appariva ai giovani inquieti come una prova della propria superiore sensibilità.
Una sensibilità che si esprimeva anche nell'attenzione ai dettagli esteriori,
considerati come spie di qualcosa di più profondo: un certo accostamento di
colori, un certo modo di incedere, di gestire o di indossare un abito (l'età
romantica coincise con un'autentica rivoluzione nell'abbigliamento maschile, con
l'abbandono delle parrucche settecentesche e dei pantaloni al ginocchio)
diventavano segni di riconoscimento e connotati di un nuovo modo di sentire.
Persino la malattia fisica poteva essere idealizzata in quanto contrassegno di
una personalità pura, non contaminata dalle convenzioni e dalle ipocrisie della
società.
Romanticismo, correnti di pensiero, movimenti politici
Cultura dominante di un'intera epoca, il Romanticismo non si identificò con
una determinata tendenza ideologica, ma contagiò quasi tutte le correnti di
pensiero e tutti i principali movimenti politici operanti all'inizio dell'800.
Romantici e reazionari, romantici e liberali, romantici e democratici: tutte le
combinazioni e gli intrecci erano possibili e praticati.
Certo, nella cultura
romantica c'erano molti elementi che si prestavano a essere fatti propri dai
fautori del ritorno al passato.
La critica al razionalismo illuminista dei
giacobini e alla sua pretesa di rifondare la società senza tener conto delle
tradizioni storiche e delle peculiarità nazionali – critica già presente negli
scritti di liberali moderati come Edmund Burke, britannico di origine irlandese,
o l'italiano Vincenzo Cuoco – fu una costante di tutta la polemica
antirivoluzionaria dell'epoca.
Il richiamo alla storia e alla tradizione si
trasformò non di rado nella pura e semplice nostalgia del passato e nel
tentativo di riportarne in vita questo o quell'aspetto. La riscoperta della
dimensione religiosa divenne spesso ritorno alle religioni positive, in
particolare al cattolicesimo con le sue gerarchie e i suoi culti tradizionali.
Se molti intellettuali vissero l'esperienza romantica come un ritorno al
passato, alla tradizione, all'autorità, molti altri vi trovarono le premesse per
scelte di tutt'altro genere. Romanticismo significava anche libertà, rottura di
norme consolidate, affermazione dell'individuo contro le convenzioni: gli stessi
valori che ispiravano le battaglie dei liberali, dei democratici e di quanti si
opponevano alla Restaurazione.
Per limitarci al caso della Francia, si deve
ricordare che fra i primi assertori del credo romantico vi erano, accanto al
cattolico e legittimista Chateaubriand, personaggi di orientamento liberale come
Madame de Staël, lo scrittore Benjamin Constant e lo storico Simonde de Sismondi;
e che anche in seguito si sarebbero richiamati al Romanticismo molti
intellettuali impegnati nelle lotte per il liberalismo e la democrazia.
Nazione e nazionalismi
L'idea di nazione
Strettamente legato alla cultura romantica fu l'affermarsi
dell'idea di nazione.
Sino alla fine del '700, il concetto di nazione aveva
infatti un contenuto generico e dei confini incerti e soprattutto non svolgeva
un ruolo centrale nella cultura politica e nel sentire comune. Il senso di
appartenenza a una nazione veniva, per importanza, dopo l'affiliazione a una
confessione religiosa e dopo l'identificazione con una comunità locale o
regionale: si era prima cristiani, poi lombardi (o bretoni o tirolesi), e solo
in terzo luogo italiani (o francesi o tedeschi).
Il principio che lo Stato
dovesse coincidere con una nazione era poi sostanzialmente estraneo alla cultura
dell'ancien régime, anche se Stati a base nazionale, come la Francia, la Spagna,
la Gran Bretagna, si erano costituiti già in età medievale.
L'idea moderna di
nazione nacque con Rousseau e con la sua concezione dello Stato come espressione
di un popolo, di una comunità di cittadini, di un «corpo morale e collettivo»
capace di esprimere una volontà comune: concezione che la Rivoluzione francese
avrebbe per la prima volta cercato di tradurre in realtà e che le guerre
napoleoniche avrebbero diffuso in tutta Europa determinando un doppio processo
di imitazione e di reazione.
Ma fu soprattutto la cultura romantica tedesca del
'700-800 a scoprire la nazione, a esaltarla in quanto comunità «naturale» –
unita da legami indissolubili di lingua, di cultura e di sangue – e a vedere in
essa il fondamento di ogni organizzazione sociale e politica.
Le due componenti
che stavano alla base dell'idea di nazione – quella democratica di origine rousseauiana e quella naturalistica dei romantici tedeschi – erano molto diverse
fra loro e furono alla base di tradizioni profondamente distinte.
Il nazionalismo conservatore
In Germania, il movimento nazionale cresciuto negli anni delle guerre
napoleoniche assunse spesso un carattere esclusivista e conservatore. Un
carattere ben visibile, per esempio, nei celebri Discorsi alla nazione tedesca
(1807- 8) del filosofo Johann Gottlieb Fichte – in cui si proclamava la
superiorità intellettuale e morale dei tedeschi sugli altri popoli e si
delineava il progetto di uno Stato nazionale dai tratti fortemente autoritari –,
o nelle stesse opere del grande filosofo Friedrich Hegel, che concepiva lo Stato
come un'entità organica e gerarchica, espressione degli interessi generali della
società al di là e al di sopra dei diritti individuali.
Anche in altri paesi,
particolarmente in quelli che avevano alle spalle una lunga storia unitaria,
l'idea di nazione poteva esprimersi in forme tradizionaliste o reazionarie:
nella stessa Francia, accanto al nazionalismo democratico, erede della
Rivoluzione, ne esisteva uno cattolico e legittimista (che rivendicava la
"legittimità" del potere dinastico dei sovrani spodestati in seguito alla
Rivoluzione.
Il nazionalismo democratico
In realtà, soprattutto nei movimenti nazionali di quei paesi in cui
l'indipendenza andava conquistata o riconquistata – la Polonia, la Grecia,
l'Ungheria e l'Italia –, il sentimento patriottico assumeva quasi
automaticamente una connotazione rivoluzionaria, tendeva a collegarsi con le
ideologie liberali e democratiche e acquistava spesso un respiro sovranazionale.
Tanto che nella storia delle rivoluzioni ottocentesche si incontra spesso la
figura del patriota che combatte per la libertà di altri popoli.
La stessa
distinzione fra i due principali filoni dell'idea nazionale finiva con
l'annullarsi nel pensiero e nell'opera dei grandi interpreti ottocenteschi della
nazionalità – il polacco Adam Mickiewicz, l'ungherese Lajos Kossuth, e
soprattutto l'italiano Giuseppe Mazzini –, che coniugavano la fede nella
democrazia col richiamo alle tradizioni nazionali e con la concezione, tutta
romantica, della nazione come comunità di sangue e di cultura.
Quasi tutti i
paesi europei coltivarono e talora inventarono una propria idea di nazione,
coniugandola con l'idea di un primato nazionale particolare – talora una vera e
propria missione – destinato a confrontarsi e ad affermarsi sugli altri popoli.
Questo elemento contribuirà agli aspri conflitti nazionalistici
di fine '800.
Le grandi ideologie dell'800: liberalismo e democrazia
Le differenze tra liberalismo e democrazia
C'è da chiedersi in che cosa differissero liberalismo e democrazia.
Il liberalismo era fondato
sull'idea di libertà quale si era venuta definendo nella cultura illuministica –
che si rifaceva a Locke e Montesquieu – e nelle concrete esperienze politiche e
costituzionali del '600-700: il parlamentarismo britannico, la Rivoluzione
americana, il 1789 francese.
I suoi fondamenti – la tolleranza e la libertà di
opinione, il principio rappresentativo e la divisione dei poteri, la difesa
dell'individuo contro gli abusi dell'autorità – coincidevano per gran parte con
i valori e gli interessi materiali della borghesia, ma anche con quelli di ampi
settori della nobiltà aperta alle nuove concezioni intellettuali e allo sviluppo
delle attività produttive. I privilegi di ceto e le monarchie assolute stavano
evidentemente agli antipodi del liberalismo.
Il modello istituzionale del
liberalismo europeo si ispirava a quello britannico. Un regime in cui i diritti
fondamentali del cittadino – libertà di pensiero, di stampa, di associazione –
fossero rispettati, in cui la proprietà, l'iniziativa privata e il libero
commercio fossero tutelati e incoraggiati, in cui l'autorità del potere centrale
fosse limitata e controllata da organismi rappresentativi espressi da una élite
più o meno ristretta di cittadini: coloro che, per posizione sociale, per
ricchezza o per istruzione, si supponeva fossero i soli realmente interessati al
buon andamento della cosa pubblica.
In questo senso il pensiero liberale si
distaccava nettamente da quello democratico, che ne rappresentava per molti
aspetti uno sviluppo.
La democrazia aveva come cardine l'idea di sovranità
popolare, intesa come governo di tutto il popolo, e che si riallacciava al
pensiero di Rousseau e all'esperienza della Rivoluzione francese. Per i
democratici la forma di governo ideale era la repubblica e il canale legittimo
di espressione della volontà popolare era l'assemblea eletta a suffragio
universale maschile.
Mentre i liberali si preoccupavano soprattutto di
costituire meccanismi giuridici e istituzionali atti a garantire i diritti
individuali, e dunque a limitare i pericoli insiti in qualsiasi forma di
esercizio del potere, i democratici, legati per lo più a una visione utopistica,
insistevano sulla libertà «in positivo» e vedevano nella politica il mezzo per
l'attuazione del «bene comune».
In parte coincidente ma per molti aspetti
diversa era la base sociale dei democratici: ai borghesi, nelle varie gradazioni
di reddito e di cultura, si aggiungevano ceti artigianali e anche popolari
alfabetizzati e/o dotati di una cultura di base.
Gli obiettivi comuni
La linea divisoria fra liberali e democratici, molto netta sul piano teorico,
era però assai più sfumata nella pratica della lotta contro i regimi
assolutisti.
La costituzione, il parlamento elettivo, la garanzia delle libertà
fondamentali erano obiettivi validi per gli uni come per gli altri.
Questi
obiettivi – che si possono genericamente definire "liberali" – costituirono il
programma minimo e il terreno comune di lotta per tutte le forze politiche che
si battevano contro quanti intendevano restaurare l'antico regime sconfitto
dalla Rivoluzione francese e da Napoleone.
John Stuart Mill
Il rapporto fra liberalismo e democrazia fu al centro della riflessione di
due fra i pensatori politici più importanti e originali del loro secolo:
l'inglese John Stuart Mill e il francese Alexis de Tocqueville.
Economista,
filosofo e politico impegnato, Mill partì dalle premesse teoriche comuni al
liberalismo inglese del primo '800 ma, nelle sue opere politiche più importanti,
uscite negli anni attorno alla metà del secolo, contestò l'ottimismo implicito
nelle tesi liberiste, sostenne la necessità di un intervento dei pubblici poteri
per risolvere i problemi delle classi più disagiate, si batté per tutte le
riforme politiche e sociali (ampliamento del suffragio esteso anche alle donne,
libertà sindacale, istruzione obbligatoria, tasse sulla proprietà fondiaria) che
consentissero una più equa distribuzione della ricchezza e una più ampia
partecipazione popolare al governo della cosa pubblica.
Alexis de Tocqueville
Diversamente da Mill, Alexis de Tocqueville non fu un teorico della politica
in senso stretto, né un riformatore impegnato sul terreno sociale. Fu piuttosto
un attentissimo osservatore della realtà del suo tempo e un lucido indagatore di
alcune tendenze di fondo della società moderna.
La sua opera più celebre, La
democrazia in America – uscita fra il 1835 e il 1840 e ispiratagli da un viaggio
negli Stati Uniti – contiene, oltre che una vivace descrizione della società
nordamericana, una acuta riflessione sulla democrazia, considerata come il
frutto di un processo inarrestabile.
Per Tocqueville, aristocratico di
orientamento liberai-moderato, il prevalere delle tendenze democratiche ed
egualitarie rischiava però di risolversi in un appiattimento delle diversità, in
una distruzione delle autonomie della società civile, ponendo le premesse per
nuove forme di autoritarismo. A questi pericoli, segnalati anche da Mill, non si
poteva reagire, a suo avviso, bloccando lo sviluppo della democrazia, impresa
del resto impossibile, ma incanalandola negli istituti del pluralismo liberale:
separazione dei poteri, libertà di stampa, autonomie locali.
Il cattolicesimo liberale e il cattolicesimo sociale
La chiusura della Chiesa nell'età delle rivoluzioni
Di fronte ai grandi rivolgimenti politici e ideologici dall'Illuminismo in
poi, la Chiesa cattolica e il cattolicesimo reagirono sia sul piano teorico che
su quello organizzativo.
Ma ci vorrà ben più di un secolo perché la più grande
organizzazione del cristianesimo cominciasse a venire a patti col mondo moderno.
Agli inizi buona parte del mondo cattolico si attestò su posizioni di radicale
rottura con la tradizione illuminista e con gli ideali liberali e democratici,
dando vita, in alcuni casi, a vere e proprie utopie reazionarie: come quella a
sfondo teocratico del savoiardo Joseph de Maistre, sostenitore di un assolutismo
monarchico fondato sul diritto divino dei re. De Maistre giunse a invocare, in
una celebre opera del 1819 intitolata Du Pape (Sul Papa), la sottomissione dei
sovrani all'autorità suprema del pontefice di Roma.
Il progressismo dei cattolici liberali
Non mancavano nemmeno allora tuttavia cattolici schierati su posizioni
progressiste o addirittura rivoluzionarie: in realtà le prime formulazioni di un
cattolicesimo liberale, che sosteneva la possibilità e l'opportunità di
affermare i valori della religione nel quadro delle libertà costituzionali, si
ebbero in Francia nei tardi anni '20, a opera di un gruppo di intellettuali
raccolti attorno all'abate Félicité de Lamennais, protagonista di una singolare
evoluzione che lo avrebbe fatto schierare su posizioni democratiche.
Nel 1830 Lamennais fondò una rivista intitolata «L'Avenir» («L'Avvenire»), che si
proponeva di suscitare un moto di riforma all'interno della Chiesa per indurla
ad abbandonare i progetti teocratici.
Intanto il cattolicesimo liberale si era
diffuso in altri paesi europei: soprattutto in Belgio – dove l'alleanza fra
liberali e cattolici fu una delle chiavi del successo della lotta per
l'indipendenza – ma anche in Italia, in Germania e in Irlanda. Il programma dei
cattolici liberali era generalmente improntato a notevole moderazione.
Il loro
principale obiettivo era quello di salvare la Chiesa dai pericoli derivanti da
una troppo stretta identificazione con il passato prerivoluzionario. Il loro
laicismo non si spingeva al punto di invocare la separazione fra Chiesa e Stato,
teorizzata invece da ampi settori del mondo protestante.
Per i cattolici
liberali lo Stato doveva non solo rispettare i diritti della Chiesa, ma anche
mantenere un carattere cristiano alla sua legislazione (in materia, per esempio,
di matrimonio e di istruzione), pur assicurando piena libertà alle altre
confessioni religiose.
Queste idee, per quanto moderate, non potevano però
essere accettate dai vertici ecclesiastici: in un'epoca caratterizzata da grandi
mutamenti sociali e dalla crescente diffusione delle ideologie laiche, la Chiesa
cattolica era infatti preoccupata soprattutto di riaffermare la sua autorità e
il suo magistero sulle masse popolari, in particolare su quelle contadine.
Il cattolicesimo sociale
Una parte dei cattolici liberali preferì trasferire il proprio
impegno sul terreno sociale: un impegno per certi aspetti nuovo – e reso attuale
dall'esplodere della questione operaia – ma per altri versi in linea con la
tradizione caritativa della Chiesa cattolica e, comunque, tale da evitare
problemi di ordine dottrinario o teologico.
Pioniere di questa nuova forma di
impegno fu ancora una volta un francese, Frédéric Antoine Ozanam, fondatore nel
1833 della Società di San Vincenzo de' Paoli che riuniva, con fini assistenziali
e caritativi, numerosi esponenti dell'aristocrazia e dell'alta borghesia.
Richiamando le classi agiate ai doveri della solidarietà, ma incoraggiando anche
la formazione di associazioni di mestiere sul modello delle corporazioni
medievali, Ozanam inaugurò una corrente – quella del cattolicesimo sociale –
destinata a notevoli sviluppi in molti paesi cattolici nella seconda metà
dell'800.
Il socialismo
Il socialismo utopistico
La diffusione in Europa delle ideologie socialiste rappresentò una risposta
al diffondersi dell'industrializzazione, alla crescita del proletariato e alle
nuove dimensioni assunte dalla questione sociale.
Il nucleo centrale del
pensiero socialista consisteva nella convinzione che, per superare i mali e le
ingiustizie del capitalismo industriale (in particolare quelli inerenti alla
condizione operaia), non era sufficiente la pratica delle riforme dall'alto né
tantomeno il ricorso alla carità e alle iniziative filantropiche. Era invece
necessario colpire alla radice i principi informatori della società capitalistico-borghese – l'individualismo, la concorrenza, il profitto – e
sostituirli con i valori della solidarietà e dell'uguaglianza: costruire insomma
una società completamente nuova, non solo nelle istituzioni politiche, ma anche
e soprattutto nelle strutture economiche.
Per questa sua carica utopica, il
pensiero socialista del primo '800 si collegava a progetti ed esperienze
maturati nell'ambito della società preindustriale, in particolare alle correnti
radicali ed egualitarie che si erano manifestate nel corso della prima
Rivoluzione inglese e della Rivoluzione francese, in parte confluite nelle
società segrete del periodo successivo.
Rispetto a tali esperienze il socialismo
ottocentesco si distingueva proprio per il suo costante riferirsi alla nuova
realtà dell'industrializzazione.
Questo legame con i problemi della rivoluzione
industriale è particolarmente evidente nell'esperienza dei due principali
antesignani del socialismo moderno: il gallese Robert Owen e il francese Claude-Henri de Saint-Simon.
Imbevuto di ideali illuministi e umanitari,
l'industriale cotoniero Robert Owen tentò dapprima (1800-25) di mettere in
pratica le proprie idee nel suo stabilimento modello di New Lanark, in Scozia,
poi si dedicò prevalentemente alla formazione delle prime organizzazioni
operaie, le Trade Unions, cercando di promuoverne l'unificazione a livello
nazionale. In una fase successiva, si fece promotore e organizzatore di
cooperative di consumo fra i lavoratori, dando vita a un movimento che avrebbe
conosciuto notevoli sviluppi soprattutto a partire dagli anni '50.
Per queste
sue iniziative nel campo dell'associazionismo, Owen ebbe un ruolo di
fondamentale importanza nella storia del movimento operaio inglese e mondiale.
Completamente diversa fu l'esperienza intellettuale di Saint-Simon.
Aristocratico formatosi nell'ancien régime (era nato nel 1760), Saint-Simon fu
uno dei primi a capire la novità dell'industrialismo e a esaltarne le
potenzialità di progresso. Negli ultimi anni della sua vita; fra il 1820 e il
1825, teorizzò l'avvento di una nuova società governata dai tecnici (personale
altamente specializzato nelle diverse discipline) e dai produttori – espressione
con cui erano accomunati industriali e operai – nell'interesse dell'intera
collettività.
Le teorie di Saint-Simon, che non si possono definire socialiste
in senso stretto, furono sviluppate dai suoi numerosi seguaci in direzioni
diverse e contrastanti. Alcuni ne colsero gli aspetti capitalistici e
tecnocratici e si impegnarono nelle attività bancarie e affaristiche. Altri le
interpretarono in senso socialistico e – riferendosi soprattutto all'ultima
opera di Saint-Simon, intitolata Il nuovo cristianesimo – cercarono di fondare
su di esse una vera e propria religione laica.
In questa seconda versione, il
sansimonismo esercitò una notevole influenza sul pensiero socialista successivo,
ma anche su alcuni settori della sinistra democratica, come per esempio i
mazziniani in Italia.
Gli sviluppi teorici in Francia
Fu nella Francia degli anni '30 e '40 dell'800 che il socialismo conobbe i
suoi più ampi sviluppi teorici: anche se, in assenza di un movimento operaio già
organizzato come quello che stava crescendo in Gran Bretagna, questi sviluppi
assunsero o una connotazione utopistica o una declinazione marcatamente
rivoluzionaria.
Auguste Blanqui (1805-1881) fu instancabile organizzatore di
trame rivoluzionarie per oltre un quarantennio. Blanqui si dedicò non tanto a
descrivere la futura società socialista, quanto a studiare i mezzi per abbattere
il sistema borghese tramite l'insurrezione che avrebbe consegnato il potere
nelle mani del popolo: fu lui a elaborare per primo il concetto di dittatura del
proletariato, che sarebbe poi stato ripreso da Karl Marx e Friedrich Engels.
Blanqui si definiva comunista.
Un altro francese, Louis Blanc (1811-1882), può
essere considerato sotto molti aspetti il capostipite del socialismo riformista.
Blanc era infatti convinto che la soluzione dei mali del capitalismo poteva
venire solo da un intervento dello Stato come regolatore, e al limite come
gestore in proprio, dei processi produttivi.
Il primo e più importante
intervento doveva consistere nella creazione di ateliers sociaux ('officine
sociali') che avrebbero avuto il doppio scopo di combattere la disoccupazione e
di soppiantare progressivamente le imprese private.
Un posto a parte nel
panorama del primo socialismo francese è occupato infine da Pierre-Joseph
Proudhon, che divenne celebre nel 1840 per un saggio intitolato Che cos'è la
proprietà?; la risposta, provocatoria, era: «la proprietà è un furto».
Successivamente Proudhon sviluppò il suo pensiero in direzione di un
cooperativismo a sfondo anarchico più che socialista destinato a esercitare una
forte influenza su strati consistenti del movimento operaio europeo.
In
particolare le idee proudhoniane influenzarono in modo significativo le
elaborazioni dei primi teorici socialisti italiani, soprattutto Carlo Pisacane e
Giuseppe Ferrari.
Marx ed Engels
Il socialismo tedesco
Negli anni '30 e '40, le idee socialiste conobbero una certa diffusione anche
in Germania, dove trovarono sostenitori non tanto nell'ancora scarso
proletariato industriale locale, quanto fra le comunità abbastanza numerose di
lavoratori tedeschi che operavano in Belgio, in Gran Bretagna e soprattutto in
Francia.
Nel 1847 uno di questi gruppi, la Lega dei comunisti, affidò l'incarico
di stendere il suo manifesto programmatico a due intellettuali non ancora
trentenni: Karl Marx e Friedrich Engels. Engels, nato nel 1820, era figlio di un
ricco industriale, aveva soggiornato a lungo in Gran Bretagna, aveva studiato le
opere degli economisti «classici» ed era noto soprattutto come autore di un
saggio sulle Condizioni della classe operaia in Inghilterra, uscito nel 1845.
Marx, più anziano di due anni, aveva una formazione essenzialmente filosofica ma
era insoddisfatto di un'attività puramente speculativa: era convinto che compito
degli intellettuali fosse non tanto «interpretare il mondo», come fino allora
avevano fatto i filosofi, quanto «cambiarlo».
Il Manifesto del Partito comunista
Nel Manifesto del Partito comunista, uscito a Londra in lingua tedesca
all'inizio del 1848, Marx ed Engels si fecero assertori di un nuovo socialismo –
da loro definito scientifico in contrapposizione a quello utopistico – che univa
una fortissima carica rivoluzionaria a un solido fondamento economico e
filosofico.
Il nucleo fondamentale del «socialismo scientifico» sta in una
concezione materialistica e dialettica della storia, vista essenzialmente come
un susseguirsi di lotte di classe, di scontri fra interessi economici. I
rapporti economici costituiscono, per gli autori del Manifesto, la base
portante, la «struttura» di ogni società. Le ideologie e le istituzioni
politiche, a cominciare dallo Stato, sono solo «sovrastrutture» che servono a
organizzare e a legittimare il dominio di una classe sulle altre.
Anche i regimi
liberali e democratici sono l'espressione di un dominio di classe, quello della
borghesia giunta alla fase matura della sua ascesa rivoluzionaria. Infatti,
dando vita al capitalismo industriale, la borghesia ha accresciuto enormemente
le capacità produttive dell'umanità e ha abbattuto le disuguaglianze giuridiche
della società feudale.
Ma, al tempo stesso, ha suscitato contraddizioni che non
riesce più a risolvere e ha prodotto il suo antagonista storico, il nuovo
soggetto sociale destinato a soppiantarla: il proletariato. È infatti la logica
stessa del sistema capitalistico-industriale che fa crescere continuamente il
numero dei proletari e, contemporaneamente, li riduce a una massa
indifferenziata, dequalificata, e fatalmente destinata a diventare sempre più
misera e pronta alla rivoluzione.
La rivoluzione proletaria
Secondo Marx ed Engels, ribellandosi al sistema capitalistico, il
proletariato non ha da perdere nulla «se non le proprie catene»: è dunque una
classe naturalmente rivoluzionaria, in quanto rappresenta, al contrario della
borghesia, gli interessi dell'enorme maggioranza della popolazione.
Per far
valere i suoi interessi, il proletariato deve organizzarsi non solo all'interno
dei singoli Stati, ma anche su scala sovranazionale, rifiutando la logica dei
nazionalismi: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!» è il celebre appello con
cui si conclude il Manifesto.
Una volta organizzata, la classe operaia
profitterà dell'inevitabile crisi del capitalismo – che colpirà per primi i
paesi più industrializzati – e assumerà il potere. In una prima fase, questo
potere prenderà le forme della dittatura, necessaria per contrastare i
prevedibili tentativi di reazione della borghesia e per assicurare il passaggio
alla vera società comunista: la società senza privilegi, senza classi, senza
proprietà privata e senza Stato, in cui le enormi potenzialità produttive di cui
la tecnica umana è capace saranno messe al servizio dell'intera collettività.
Queste proposte e queste indicazioni non trovarono un seguito ampio e immediato
in un movimento operaio europeo che era ancora disorganizzato e frammentato:
mantennero quindi un inevitabile carattere utopistico seppure sostenuto dalla
forza argomentativa derivante dalla filosofia dialettica tedesca.
Le rivoluzioni
del 1848 – scoppiate in coincidenza con l'uscita del Manifesto – se da un lato
avrebbero portato in primo piano, soprattutto in Francia, le istanze di una
classe operaia sempre meno disposta a subordinare i suoi obiettivi a quelli
della borghesia, dall'altro avrebbero rivelato quanto questa classe operaia
fosse debole e isolata e quanto la stessa borghesia fosse ancora lontana
dall'aver compiutamente realizzato i suoi progetti politici.
La questione operaia
Borghesi e proletari
Lo sviluppo e la diffusione dell'industria moderna provocarono in tutti i
paesi coinvolti in questo processo profonde trasformazioni anche nella struttura
sociale.
Al concetto di ceto, legato alla posizione occupata per nascita o al
godimento di particolari diritti, si venne sostituendo quello di classe,
definito soprattutto in rapporto al ruolo svolto nel processo produttivo in una
società che, almeno dal punto di vista formale, tendeva ad assicurare
l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
L'antagonismo fondamentale che
si veniva profilando non era più quello fra l'aristocrazia e il popolo, ma
quello fra il borghese, proprietario dei mezzi di produzione, e il proletario,
lavoratore salariato, dotato soltanto della forza delle sue braccia e della sua
capacità di riprodursi.
Il confronto sociale in Gran Bretagna
Nei paesi dell'Europa continentale questo dualismo, fino alla metà dell'800,
aveva aspetti marginali. Imprenditori e salariati erano invece protagonisti del
confronto sociale in Gran Bretagna. Qui la borghesia svolgeva, già negli anni
'30 e '40, un ruolo politico di primo piano e una parte della stessa
aristocrazia tendeva a farsi imprenditrice; lo sviluppo della grande fabbrica
stava concentrando in alcune città industriali una massa operaia sempre più
consistente e agguerrita.
Nel 1850, i lavoratori impiegati nelle manifatture e
nelle fabbriche inglesi erano 3.250.000. Il solo settore tessile impiegava oltre
un milione di operai.
Per la gran massa dei lavoratori dell'industria le
condizioni di vita rimanevano estremamente difficili. E il fatto che il lavoro
in fabbrica rappresentasse per molti un'alternativa alla fame o alla pubblica
carità e che il livello medio delle retribuzioni nell'industria risultasse,
nonostante tutto, superiore a quello dei lavoratori agricoli non toglieva nulla
alla drammaticità di una condizione tanto dura da apparire inumana anche a molti
osservatori contemporanei.
Le Trade Unions
Da questa realtà derivava da un lato l'impulso delle classi dirigenti a farsi
carico in qualche misura – seppur in forme sostanzialmente paternalistiche –
degli aspetti più gravi della questione operaia, dall'altro la spinta degli
operai stessi ad associarsi fra loro e a ribellarsi alla propria condizione. Quest'ultima era una tendenza favorita dal lavoro in fabbrica e dal fatto di
vivere a stretto, continuo contatto gli uni con gli altri.
I primi episodi di
ribellione contro il sistema di fabbrica avevano assunto la
forma del luddismo. Negli anni '20 gli operai inglesi, guidati per lo più da
leader democratico-radicali, avevano cominciato a sperimentare forme di
agitazione pacifica – manifestazioni, comizi, scioperi –, in cui le
rivendicazioni economiche si mescolavano a quelle politiche, e avevano lottato
per ottenere l'abrogazione di quelle leggi che – in Gran Bretagna come in altri
paesi – dichiaravano illegali le associazioni fra i lavoratori e proibivano il
ricorso allo sciopero.
Da queste lotte – in parte coronate da successo grazie
alla legge del 1824 che legalizzava le associazioni operaie – nacquero le prime
Trade Unions, nucleo originario di un movimento sindacale destinato a grandi
sviluppi.
Nei paesi dell'Europa continentale, il processo di formazione del
proletariato di fabbrica e di crescita delle organizzazioni operaie fu
naturalmente molto più lento. In Francia e in Germania, attorno alla metà del
secolo, gli occupati nell'industria erano circa un quarto della popolazione
attiva – mentre già raggiungevano il 50% in Gran Bretagna. E in questa
percentuale era compresa una quota consistente di addetti alle tradizionali
attività artigiane.
La questione operaia
Tuttavia, anche nei paesi "secondi arrivati" sulla via
dell'industrializzazione, la questione operaia si venne sempre più imponendo
all'attenzione dell'opinione pubblica e delle classi dirigenti.
L'addensarsi di
masse proletarie numerose e compatte in alcuni fra i maggiori centri urbani,
soprattutto nelle capitali, suscitava ovunque diffuse preoccupazioni di ordine
igienico-sanitario, crescenti timori per l'ordine pubblico, ma anche reazioni di
tipo moralistico. Nelle periferie operaie dilagavano infatti l'alcolismo e la
prostituzione, aumentavano le nascite illegittime, salivano gli indici della
criminalità.
Si diffondeva fra i ceti urbani benestanti l'equazione fra classi
lavoratrici e «classi pericolose». D'altro canto, cresceva il numero di coloro
che individuavano nella classe operaia non solo la principale vittima di un
ordine sociale ingiusto, ma anche la maggiore protagonista di un processo
rivoluzionario destinato a dar vita a un nuovo assetto economico e politico.
RESTAURAZIONE E RIVOLUZIONE IN EUROPA
La Restaurazione e il nuovo assetto europeo
Dopo la definitiva sconfitta di Napoleone, le potenze europee si accordarono
per la ricostituzione del vecchio ordine, infranto prima dall'ondata
rivoluzionaria poi dalle conquiste delle armate francesi: iniziava l'età della
Restaurazione.
Restaurazione in primo luogo dei sovrani spodestati, ma anche
delle gerarchie sociali tradizionali, degli ordinamenti prerivoluzionari, dei
modi di governare tipici dell'ancien régime.
Il progetto ottenne alcuni iniziali
successi politici, ma ben presto mobilitazioni rivoluzionarie e indipendentiste
avrebbero preso il sopravvento.
Un programma irrealizzabile
I cambiamenti intervenuti nelle istituzioni e le nuove spinte di una società
in mutamento avrebbero dimostrato che si trattava di un progetto velleitario.
Impossibili da rimuovere erano i risultati ottenuti sul piano della certezza del
diritto e dell'uguaglianza formale fra i cittadini, ma anche su quello
dell'organizzazione burocratica e della razionalizzazione delle attività
economiche.
Tutto ciò rispondeva alle aspirazioni e ai bisogni di una borghesia
— della proprietà terriera e delle professioni, del commercio e dell'industria —
che aveva acquisito una nuova consapevolezza del suo ruolo nella società.
Il congresso di Vienna
Il terreno su cui la volontà restauratrice si manifestò con maggior decisione
e con risultati più evidenti fu certamente quello dei rapporti internazionali
definiti dal congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815), il più affollato
consesso di sovrani e governanti che mai si fosse visto in Europa.
Le decisioni
più importanti, tuttavia, vennero prese tra i delegati delle quattro maggiori
potenze vincitrici: Gran Bretagna, Russia, Prussia, Austria. Il ministro degli
Esteri austriaco Metternich fu l'autentico regista dei lavori.
Ma in questo
gruppo riuscì a inserirsi anche il rappresentante della Francia sconfitta, Talleyrand, già ministro degli Esteri negli anni della Rivoluzione e
dell'Impero. Uomo di grande abilità, Talleyrand riuscì a far valere a vantaggio
del suo paese il principio di legittimità: il principio, cioè, in base al quale
dovevano essere anzitutto restaurati i diritti «legittimi» violati dalla
Rivoluzione e, dunque, anche quelli dei Borbone di Francia.
L'Europa nel 1815
Il nuovo assetto europeo
Era del resto interesse delle stesse potenze vincitrici fare della Francia
monarchica un pilastro del nuovo equilibrio conservatore piuttosto che
rischiare, umiliandola, di creare il terreno propizio per nuovi esperimenti
rivoluzionari. Per questo motivo la Francia non subì alcuna amputazione rispetto
alle frontiere del 1791.
Il nuovo assetto territoriale fu realizzato senza il
minimo riguardo per i principi di nazionalità, ma comportò ugualmente una certa
razionalizzazione della geografia politica europea in relazione ai rapporti di
forza che si erano consolidati nelle guerre antinapoleoniche.
Fu confermata
l'abolizione del Sacro romano impero, che era stato cancellato da Napoleone nel
1806, mentre i mutamenti più importanti rispetto alla situazione prerivoluzionaria si verificarono nel Centro e nel Nord dell'Europa.
La Russia
si espanse verso occidente, occupando la Finlandia e buona parte della Polonia.
Anche la Prussia si ingrandì a ovest, annettendo una serie di territori nella
zona del Reno che si sarebbero poi rivelati di decisiva importanza economica.
Gli Stati tedeschi si ridussero drasticamente di numero e furono riuniti in una
Confederazione germanica, la cui presidenza era tenuta dall'imperatore
d'Austria.
L'Impero asburgico, sotto l'abile guida di Metternich, si affermò
come il fulcro dell'equilibrio continentale ed ebbe riconosciuto un ruolo
egemone sull'intera Penisola italiana.
Il Belgio e il Lussemburgo, uniti
all'Olanda, formarono il Regno dei Paesi Bassi.
Nessun mutamento di rilievo si
ebbe nella Penisola iberica, né nei Balcani.
La Gran Bretagna non accampò
pretese territoriali sul continente, ma si preoccupò di assicurare in Europa un
equilibrio tale da impedire l'emergere di nuove ambizioni egemoniche.
L'Italia
Quanto all'Italia, essa fu riportata, con poche varianti, alla situazione
precedente alle guerre napoleoniche.
La maggiore novità fu il rafforzamento
dell'egemonia austriaca, ottenuta non solo con la sovranità sul L'Italia nel
1815 Lombardo-Veneto, ma anche attraverso una serie di legami militari e
dinastici con gli altri Stati della penisola, fra cui il Regno di Napoli,
ricostituito sotto la dinastia dei Borbone e ribattezzato Regno delle Due
Sicilie.
L'unico tra gli Stati italiani a mantenere una certa autonomia rispetto
all'Impero asburgico fu il Regno di Sardegna, ingranditosi con l'acquisto di
alcuni territori della Savoia e soprattutto di una regione ricca e popolosa come
la Liguria.
L'Italia nel 1815
Le nuove alleanze
A presidio di questi assetti furono varate due alleanze: la prima fu la Santa
alleanza, nata nel settembre 1815 da un'iniziativa dello zar Alessandro I, cui
aderirono anche l'imperatore d'Austria e il re di Prussia. Si trattava di una
sorta di alleanza personale fra i tre sovrani, il cui testo era ricco di
riferimenti alla religione cristiana.
Alla Santa alleanza aderirono
successivamente molti altri Stati europei, fra cui la Francia.
Non vi aderì
invece la Gran Bretagna che, nel novembre dello stesso anno, propose un secondo
accordo alle potenze vincitrici (Austria, Russia e Prussia), la cosiddetta
Quadruplice alleanza: i quattro contraenti si impegnavano a vigilare contro
possibili tentativi di rivincita da parte della Francia e a intervenire contro
ogni minaccia all'equilibrio europeo.
Questo sistema di alleanze dava vita a una
sorta di direttorio che aveva il compito di risolvere pacificamente eventuali
contrasti fra Stato e Stato. Nasceva così quello che fu chiamato il concerto
europeo, ossia un dialogo costante fra le grandi potenze che contribuì a ridurre
le tensioni sul continente e ad assicurare all'Europa un quarantennio di pace.
Il ritorno all'ordine
Dopo la gran ventata rivoluzionaria e napoleonica si ebbe, quasi ovunque in Europa, un assestamento degli equilibri interni in senso conservatore, sostenuto anche dall'alleanza tra i sovrani e il potere religioso delle Chiese.
In Gran Bretagna
Persino in Gran Bretagna, il paese in cui le istituzioni parlamentari erano
nate, gli anni successivi al 1815 videro il prevalere dell'ala destra del
partito conservatore: quella che aveva la sua base nell'aristocrazia terriera e
nell'alto clero anglicano.
Il dominio della destra tory si tradusse in una
politica volta a favorire gli interessi della grande proprietà terriera,
attraverso l'imposizione di un forte dazio di importazione sul grano, che
proteggeva la produzione interna e manteneva elevati i prezzi al consumo. Questa
politica sacrificava gli interessi dell'industria esportatrice — che costituiva
da tempo la vera base della potenza economica britannica — e inaspriva le
tensioni sociali, alzando il costo della vita.
Si ebbero infatti in questi anni
numerose agitazioni operaie, sempre duramente represse, come nel caso del
«massacro di Peterloo» a Manchester nel 1819.
In Spagna e nell'Europa del Nord
La Restaurazione assunse forme particolarmente dure in Spagna, dove il re
Ferdinando VII si affrettò ad abrogare la «Costituzione di Cadice» del 1812 e
mise in atto una durissima repressione nei confronti delle correnti liberali.
Regimi a base parzialmente rappresentativa (con parlamenti eletti a suffragio
ristretto e dotati di poteri assai limitati) furono invece mantenuti nel Regno
dei Paesi Bassi e in alcuni Stati della Confederazione germanica, oltre che in
Svezia, Danimarca e Svizzera.
In Francia
Il caso più interessante per i legami col passato e per gli sviluppi futuri
fu quello della Francia.
Appena insediato sul trono, nel giugno 1814, il nuovo
re Luigi XVIII aveva concesso una Costituzione, ma si preferì chiamarla col nome
generico di «Carta», che proclamava l'uguaglianza di tutti i francesi davanti
alla legge, garantiva le libertà fondamentali (di opinione, di stampa e di
culto) e prevedeva un Parlamento bicamerale, composto da una Camera dei pari di
nomina regia e da una Camera dei deputati elettiva.
Il limitato contenuto
liberale della Carta era ulteriormente diminuito sia dagli scarsi poteri di cui
godeva la Camera dei deputati, sia dal carattere restrittivo della legge
elettorale, che legava il diritto di voto all'età (30 anni) e al livello di
reddito: in pratica godevano di tale diritto non più di 100 mila cittadini.
Nonostante ciò, la Francia «restaurata» era pur sempre uno dei pochi regimi
costituzionali esistenti in Europa.
Vi furono inoltre mantenute molte delle più
importanti innovazioni del periodo napoleonico — dal Codice civile
all'ordinamento amministrativo, al sistema scolastico statale — e soprattutto fu
garantita l'inviolabilità di tutte le proprietà vecchie e nuove, comprese dunque
quelle derivate dall'acquisto di terre confiscate alla nobiltà e al clero.
La
moderazione del re scontentava naturalmente i legittimisti più intransigenti,
soprattutto quei nobili emigrati che, rientrati in patria, si aspettavano di
tornare interamente in possesso dei loro beni e di riprendere gli antichi usi
feudali.
In Italia
In Italia, la restaurazione dei vecchi Stati e delle vecchie dinastie
comportò un arresto del processo di sviluppo civile e politico che si era
avviato durante il periodo francese.
Nel Regno sabaudo
Il re Vittorio Emanuele I abrogò in blocco la legislazione napoleonica, epurò
drasticamente la pubblica amministrazione, ristabilì il controllo della Chiesa
sull'istruzione e riportò in vigore le discriminazioni contro le minoranze
religiose (ebrei e valdesi).
Nello Stato della Chiesa
La relativa moderazione del papa Pio VII fu presto sconfitta dalla linea di pura
restaurazione teocratica sostenuta dall'ala intransigente del collegio
cardinalizio e dalla Compagnia di Gesù (ricostituita nel 1814).
Nel Regno delle Due Sicilie
Nel Regno di Napoli la legislazione antifeudale fu mantenuta ed estesa anche
alla Sicilia. Lo Stato fu unificato dal punto di vista amministrativo, quando
assunse nel 1816 il nuovo nome di Regno delle Due Sicilie: un'opera di cauta
razionalizzazione, che però, oltre a suscitare la protesta autonomi stica della
nobiltà siciliana, non comportò alcuna liberalizzazione in campo politico e
culturale né alcun inizio di modernizzazione economica.
In Toscana e nei Ducati
Da questo punto di vista, le cose andavano meglio nei territori direttamente
amministrati dall'Austria e negli Stati minori del Centro-nord – Granducato di
Toscana, Ducati di Parma e Modena – da essa controllati. In Toscana, il governo
del granduca Ferdinando III si riallacciò alla miglior tradizione
dell'assolutismo illuminato. Particolari cure furono dedicate al progresso
dell'agricoltura, sempre caratterizzata dalla prevalenza della mezzadria.
Qualche segno di apertura politicoculturale poté svilupparsi in un clima di
relativa tolleranza: la rivista «L'Antologia», fondata nel 1821 da Gian Pietro
Vieusseux e Gino Capponi, sarebbe rimasta per oltre un decennio il principale
punto di riferimento per gli intellettuali liberali di tutta Italia.
Nel Lombardo-Veneto
Autoritarismo e buona amministrazione caratterizzarono il dominio austriaco nel
Lombardo-Veneto. La Lombardia continuò a essere la regione economicamente più
avanzata d'Italia, nonostante fosse sottoposta a un regime fiscale e doganale
che ne penalizzava lo sviluppo. Inoltre, lo stretto controllo esercitato dalle
autorità austriache sulla vita politica e intellettuale non impediva il
manifestarsi di una vivace attività culturale, che aveva le sue radici nella
tradizione dell'Illuminismo settecentesco. Dall'incontro fra questa tradizione e
i nuovi fermenti della cultura romantica ebbe origine l'esperienza, breve ma
significativa, della rivista «Il Conciliatore». Nata nel settembre 1818 e
soppressa un anno dopo per l'intervento della censura, la rivista svolse un
ruolo importante, come espressione delle correnti liberali e patriottiche, ma
anche per l'attenzione alle tendenze più avanzate della cultura europea.
Aristocrazia e borghesia nell'Europa restaurata
La borghesia e la proprietà terriera
Nei decenni della Restaurazione in Europa, al sistema di dominio politico ed
economico dell'aristocrazia, prevalentemente terriera, faceva ormai riscontro
l'ascesa della borghesia: una borghesia che, pur connotata da una vocazione
professionale, commerciale e imprenditoriale, cercava in molti casi di imitare
gli stili di vita e la propensione alla proprietà terriera tipica dei ceti
nobiliari.
Questa commistione avrebbe caratterizzato gran parte della storia
sociale dei ceti superiori nell'800.
Gli effetti della defeudalizzazione
Il periodo dagli anni '20 agli anni '40 del secolo rappresenta una fase
importante di questo processo perché vede il definitivo smantellamento del
sistema dei privilegi e vincoli feudali che ostacolavano la circolazione delle
proprietà.
Zone estese dominate da rapporti ancora feudali rimarranno ancora
nell'Europa orientale fino al 1848 e in Russia (dove la servitù della gleba
costituiva ancora il fulcro dell'ordine sociale delle campagne) fino al 1861, ma
nel resto del continente la defeudalizzazione era ormai molto avanzata.
In
Francia e nei paesi vicini passati attraverso la dominazione napoleonica come le
regioni occidentali della Germania, i Paesi Bassi, l'Italia settentrionale la
rivoluzione antifeudale si era compiuta in modo irreversibile e la borghesia
aveva aumentato considerevolmente la sua quota di partecipazione alla proprietà
della terra. Ma ciò non si era tradotto sempre in una generale modernizzazione
delle tecniche agricole né in un apprezzabile miglioramento delle condizioni di
vita delle masse rurali.
La vendita delle terre già appartenenti al clero e alla
nobiltà non aveva in genere avvantaggiato i piccoli coltivatori e i contadini
senza terra, ma era servita soprattutto a incrementare la grande proprietà
borghese.
Nell'Europa del Sud (Penisola iberica, Italia meridionale e insulare)
la defeudalizzazione fu più rapida, ma non intaccò se non in minima parte le
tradizionali gerarchie sociali né modificò la struttura della proprietà
terriera, caratterizzata dalla persistenza del latifondo e della grande
proprietà ecclesiastica.
I tempi diversi della modernità
Queste trasformazioni confermavano il permanente sovrapporsi di tradizione e
modernità nel mondo rurale, tanto nei rapporti economici che in quelli tra
proprietari e contadini: una considerazione che vale, in diversi gradi, per
tutta l'Europa se teniamo presenti i diversi livelli dei punti di partenza.
In
ogni caso la modernità politica non abitava le campagne, ma rimaneva espressione
prevalentemente urbana: è dalle città e dai ceti urbani, infatti, che si
sarebbero mosse tutte le iniziative rivoluzionarie degli anni successivi.
I moti rivoluzionari del 1820-21
A partire dall'inizio degli anni '20 l'ordine imposto all'Europa dalla
Restaurazione contrastato da tre successive ondate rivoluzionarie: nel 1820-21,
nel 1830 e nel 1848-49.
Limitate inizialmente ad alcuni paesi, soprattutto
dell'Europa meridionale, più estese nel 1830, culminarono nella "rivoluzione dei
popoli" del 1848-49.
Le sette nell'Europa restaurata
Come governi e regnanti erano uniti dalla trama delle alleanze, così quanti
lottavano contro l'ordine costituito, per l'affermazione degli ideali liberali,
democratici e nazionali, facevano inizialmente capo a organizzazioni clandestine
che, nate per lo più nel '700 o in età napoleonica, si diffusero in questo
periodo con grande rapidità: sette e società segrete divennero nell'età della
Restaurazione il principale strumento di lotta politica. più numerose e
importanti erano le sètte di tendenza democratica o liberale.
Alcune di esse
traevano origine e ispirazione dalla Massoneria: a essa era collegata la più
importante e la più diffusa fra quelle attive nell'età della Restaurazione, la
Carboneria, presente soprattutto in Italia e in Spagna.
I carbonari – che
riprendevano i loro simboli e i loro rituali dal lavoro, appunto, dei carbonai
(come i massoni da quello dei muratori) – ispiravano per lo più la loro azione a
ideali di costituzionalismo e di liberalismo moderato.
I moti del '20-'21
Ma i confini fra le società segrete erano spesso abbastanza incerti: sia
perché le diverse associazioni erano unite tra loro da molti legami, sia perché
la struttura verticistica e rigorosamente clandestina delle organizzazioni – i
cui aderenti erano per lo più tenuti all'oscuro sia del contenuto completo del
programma sia dell'identità dei capi – favoriva la coesistenza nella stessa
setta di diversi progetti politici, corrispondenti ai diversi gradi di
iniziazione.
A prescindere dai fini che si proponevano, queste associazioni
poggiavano tutte su una base piuttosto ristretta: pochissimi artigiani e
popolani, qualche membro dell'aristocrazia liberale, qualche esponente della
borghesia del commercio e delle professioni, ma soprattutto intellettuali,
studenti e militari.
Furono i militari, in particolare gli ufficiali e i
sottufficiali formatisi nel periodo napoleonico, a fornire alle sètte i nuclei
più preparati e intraprendenti: i soli che, potendo disporre di una «forza
armata», fossero in grado di minacciare seriamente la stabilità di troni e
governi.
Le rivoluzioni del '20-'21
Furono i militari a dare inizio alla prima ondata rivoluzionaria che scosse
l'Europa all'inizio degli anni '20.
Il moto parti dalla Spagna, dove era
cresciuta la tensione per la rivolta delle colonie latino-americane, che il re
Ferdinando VII cercò di soffocare inviando oltreoceano forti contingenti di
truppe. Il 1° gennaio 1820, alcuni reparti concentrati nel porto di Cadice in
attesa di essere imbarcati per l'America si ammutinarono. In pochi giorni la
rivolta si estese ad altri reparti, rendendo vani i tentativi di repressione e
costringendo il re a richiamare in vigore la Costituzione del 1812 e a indire le
elezioni per le Cortes (ossia la Camera elettiva).
In Spagna si costituiva così
un regime liberal-democratico, reso però fragile dall'ostilità del re e,
soprattutto, dallo scarso consenso di cui godeva presso le masse contadine,
influenzate dalla Chiesa.
Gli avvenimenti di Spagna ebbero come immediata
conseguenza una generale ripresa dell'attività rivoluzionaria. Nell'estate del
1820, moti insurrezionali, sempre iniziati da militari, scoppiarono a poche
settimane di distanza nel Regno delle Due Sicilie e in Portogallo. Nel marzo
1821 una rivolta scoppiò in Piemonte.
L'intervento delle potenze e la repressione
Le rivoluzioni costituzionali di Spagna e d'Italia rappresentavano una grave
minaccia per l'equilibrio uscito dal congresso di Vienna. Le potenze aderenti
alla Santa alleanza decisero così di intervenire militarmente.
Mentre l'Austria
restaurava il potere assoluto di Ferdinando I nel Regno delle Due Sicilie e
aiutava i Savoia a sconfiggere i rivoluzionari in Piemonte, la Francia si
assumeva il compito di restaurare l'ordine in Spagna sia per ragioni di politica
interna, sia per equilibrare il peso della presenza austriaca in Italia.
Il
fronte conservatore usciva rinsaldato dalla crisi, mentre le forze liberali
avevano dato prova di scarsa unità, di carenze sul piano dell'organizzazione e
soprattutto di un'assoluta mancanza di legami con le masse popolari.
L'indipendenza della Grecia
Patria e religione
L'insurrezione dei greci contro il dominio turco, cominciata nel 1821 e
protrattasi per quasi un decennio, fu l'unica tra le rivoluzioni degli anni '20
a concludersi con un sostanziale successo. Fu anche la sola che, pur essendo
nata dall'iniziativa delle società segrete, finì con l'assumere il carattere di
una guerra di popolo, nazionale a fondamento religioso ortodosso ancor prima che
politica.
Ma il successo della lotta per l'indipendenza greca si dovette anche e
soprattutto a fattori di carattere internazionale.
Se l'Impero ottomano era
considerato ancora da Austria e Gran Bretagna un prezioso elemento di equilibrio
continentale, altre potenze, come la Russia e la Francia, erano attratte dalle
possibilità di espansione che il suo indebolimento avrebbe aperto nell'area
mediterranea e nei Balcani.
La debolezza dell'Impero ottomano
In realtà l'antico Impero ottomano faticava sempre più a
tenere uniti i suoi vastissimi possedimenti. Sempre più problematico per il
governo turco era poi il controllo dei popoli balcanici (greci, serbi, macedoni,
albanesi, bulgari, romeni): qui mancava anche il legame religioso, dal momento
che la maggior parte della popolazione era formata da cristiani ortodossi. Nei
confronti di questi ultimi l'Impero aveva sempre praticato una politica
tollerante sul piano religioso, ma discriminatoria su quello politico e sociale.
In tutta la Penisola balcanica i cristiani si trovavano nella condizione di
popolo soggetto: non potendo accedere alla proprietà terriera, detenuta a titolo
feudale dai signori turchi, erano nella grande maggioranza servi della gleba,
contadini poveri, pastori nomadi dediti non di rado al brigantaggio, ma
formavano anche, coi loro strati superiori, la maggioranza del ceto mercantile e
una parte importante della burocrazia imperiale.
La rivolta
Nel 1815 già i serbi erano riusciti a conquistarsi un'ampia autonomia.
Nel
1821 insorsero i greci che svolgevano un ruolo chiave nella vita economica
dell'Impero ottomano, grazie a una forte borghesia mercantile che si era
sviluppata nelle isole dell'Egeo, a Smirne, a Salonicco e nella stessa Istanbul.
La setta patriottica greca Etería ('associazione, fratellanza'), che organizzò
l'insurrezione, contava numerosi aderenti tra le file di questa borghesia e
trovò immediato sostegno anche fra le masse popolari.
Per fermare la guerriglia,
i turchi ricorsero a una serie di durissime repressioni che suscitarono condanna
e riprovazione in tutta Europa. Si creò allora in favore degli insorti una forte
corrente di opinione pubblica internazionale, in cui confluivano motivazioni
politico-ideologiche (la solidarietà con chi combatteva per la libertà),
religiose (la difesa dei cristiani) e anche culturali, fondate sul mito della
Grecia classica.
Da tutta Europa accorsero volontari per unirsi alla guerra
contro i turchi: fra gli altri il poeta inglese Byron e l'italiano Santorre di
Santarosa, che trovarono entrambi la morte in Grecia.
La spinta dell'opinione
pubblica impose una svolta nella politica delle potenze. La Russia, che si
atteggiava a protettrice dei cristiani ortodossi, ruppe nel '22 le relazioni
diplomatiche con la Turchia. La Gran Bretagna riconobbe nello stesso anno la
Grecia come paese belligerante.
L'indipendenza
Fu proprio l'intervento delle potenze europee – che nel luglio '27
distrussero a Navarino una flotta turco-egiziana – a imporre all'Impero ottomano
la firma della pace di Adrianopoli (1829), con cui si riconosceva l'indipendenza
greca.
Al nuovo Stato – che nasceva con una estensione limitata a poco più del
Peloponneso e dell'Attica – le grandi potenze imposero un regime monarchico
costituzionale e come sovrano un principe della casa di Baviera.
La soluzione
della questione greca rappresentò un precedente di grande importanza per le
lotte di indipendenza nazionale dell'800 e un colpo letale per l'equilibrio
conservatore europeo. Per l'Impero ottomano – ulteriormente indebolito,
nell'estate del 1830, dall'occupazione di Algeri da parte della Francia – la sconfitta fu la conferma
di una lunga
crisi, in atto ormai da oltre un secolo e destinata a protrarsi per altri
cent'anni fino agli inizi del '900.
I moti rivoluzionari del 1830-31
Nel 1830, una nuova ondata rivoluzionaria partita dalla Francia portò a trasformazioni profonde e durature negli assetti politici europei: la cacciata della dinastia dei Borbone in Francia e l'indipendenza del Belgio.
La rivoluzione in Francia
La rivoluzione che scoppiò a Parigi nel luglio 1830 fu la diretta conseguenza
del tentativo messo in atto dal re Carlo X (salito al trono nel 1824) e dagli
ambienti ultrarealisti («ultras») di restringere il più possibile le libertà
costituzionali garantite dalla Carta del '14.
Contro la politica di Carlo X si
schierarono non solo i democratici e gli intellettuali liberalmoderati, ma anche
la grande borghesia degli affari e della finanza e un'ala consistente della
stessa aristocrazia.
Nelle elezioni del 1827, le forze di opposizione ottennero
una netta maggioranza alla Camera. Il re scelse allora la strada dello scontro
col potere legislativo e contemporaneamente cercò un diversivo in politica
estera inviando, all'inizio di luglio, un corpo di spedizione in Algeria.
L'occupazione di Algeri, che costituì la premessa per la successiva espansione
francese in Nord Africa, non ottenne però i risultati sperati. Nelle elezioni
che si tennero subito dopo, l'opposizione fece ulteriori progressi. A questo
punto Carlo X diede avvio a un vero e proprio colpo di Stato, emanando quattro
ordinanze che sospendevano la libertà di stampa, scioglievano la Camera appena
eletta, modificavano la legge elettorale rendendola ancora più restrittiva e
convocavano nuove elezioni.
Subito dopo la pubblicazione delle ordinanze, il
popolo di Parigi scese in piazza, come non accadeva più dai tempi della grande
Rivoluzione e, dopo tre giorni di duri scontri con le truppe regie (27, 28 e 29
luglio), costrinse Carlo X ad abbandonare la capitale.
Il 29 luglio le Camere
riunite in seduta comune dichiaravano la decadenza della dinastia borbonica e
nominavano luogotenente del regno Luigi Filippo d'Orléans, cugino del re appena
deposto.
La scelta di Luigi Filippo – che era stato, negli anni della
Restaurazione, uno dei punti di riferimento dell'aristocrazia «illuminata» e, in
genere, dei gruppi liberal-moderati – andava incontro in qualche modo alle
richieste della piazza, che chiedeva prima di tutto la cacciata dei Borbone. Ma
d'altra parte aveva lo scopo di bloccare un processo rivoluzionario di cui erano
in molti a temere gli sviluppi: protagoniste delle tre gloriose giornate di
luglio erano state infatti le masse popolari, soprattutto artigiane, guidate dai
club repubblicani e giacobini.
Il 9 agosto, Luigi Filippo fu proclamato dal
Parlamento «re dei francesi per volontà della nazione»: una formula che
conciliava il principio monarchico con quello della sovranità popolare. Il
tricolore della Francia rivoluzionaria – blu, bianco e rosso – tornò a essere la
bandiera nazionale.
Fu varata una nuova Costituzione che accresceva il controllo
del Parlamento sul potere esecutivo, allargava il diritto di voto, in misura
peraltro modesta, e realizzava una più netta separazione fra Stato e Chiesa.
I moti in Belgio, Italia e Polonia
Il successo dell'insurrezione di luglio aprì nuovi spazi all'iniziativa delle
forze liberali e democratiche europee: in agosto insorse il Belgio annesso, per
decisione del congresso di Vienna, al Reno dei Paesi Bassi.
L'Olanda chiese
l'aiuto delle grandi potenze, ma Francia e Gran Bretagna si opposero e
riconobbero l'indipendenza del Belgio.
Era una decisione di portata storica
perché segnava, col delinearsi dell'intesa franco-inglese, la fine del sistema
di rapporti disegnato nel 1815.
Esito diverso ebbero i moti rivoluzionari
scoppiati in Italia centrosettentrionale e in Polonia. Essi furono schiacciati
dall'intervento militare rispettivamente di Austria e Russia.
Moti del '30-'31
Liberalismo e autoritarismo
La scelta conservatrice della monarchia di luglio in Francia
Pur essendo nato da un'insurrezione popolare, il regime orleanista si resse
su una base di consenso piuttosto ristretta e precaria: la monarchia di luglio
finì per identificarsi gradatamente con i valori e con gli interessi dell'alta
borghesia degli affari, che vide costantemente crescere il suo peso economico e
la sua influenza politica.
L'alta borghesia e l'aristocrazia liberale a essa
alleata – che in pratica detenevano il monopolio della rappresentanza politica,
dato il carattere ristretto del suffragio – costituivano però uno strato esiguo
della società francese ed erano privi, peraltro, dell'appoggio del clero.
Sul
fronte dell'opposizione, particolarmente attivi furono i gruppi democratico-repubblicani che erano stati i protagonisti dell'insurrezione
parigina del '30 e che erano collegati ai primi nuclei socialisti già attivi nei
grandi centri urbani. Organizzati in una fitta rete di associazioni più o meno
clandestine, repubblicani e socialisti costituirono un costante pericolo per la
stabilità del regime orleanista, costretto a fronteggiare una lunga serie di
agitazioni e di veri e propri tentativi insurrezionali.
La ricorrente minaccia
rivoluzionaria provocò per contraccolpo un'involuzione conservatrice della
monarchia di luglio, che si tradusse in alcune misure limitative della libertà
di stampa e di associazione. Questa involuzione si accentuò a partire dal 1840,
quando François Guizot divenne la figura dominante della scena politica
francese.
Guizot attuò una politica sostanzialmente conservatrice, tutta centrata sulla ricerca dell'ordine e
della stabilità, volta a favorire le velleità speculative della borghesia degli
affari. Ciò finì con l'accentuare i caratteri oligarchici del regime, scavando
un fossato sempre più profondo fra il paese e la classe dirigente.
Il liberalismo in Gran Bretagna
Una svolta liberale si era aperta invece in Gran Bretagna fin dalla metà
degli anni '20, quando nelle file del partito conservatore (tory) si affermò la
figura di Robert Peel.
Fino alla metà dell'800 il paese fu guidato dal partito
whig e da quello conservatore alternativamente, sebbene il primo avesse
governato per ben 16 anni e il secondo per 5.
Il diritto di unirsi in libere associazioni
Con Peel furono attuate alcune importanti riforme interne, prima fra tutte quella del 1824, che riconosceva ai lavoratori il diritto di unirsi in libere associazioni. Sorsero così numerose unioni di mestiere, Trade Unions, organizzate su base di classe, formate cioè dai soli operai per la tutela dei loro diritti e per il sostegno alle loro rivendicazioni economiche.
La riforma elettorale e le misure per le classi disagiate
Il nodo principale da sciogliere
era tuttavia quello dell'ampliamento del diritto di voto, allora limitato a una
ristretta minoranza della popolazione (poco più del 3%). Un problema a sé era
poi quello delle circoscrizioni elettorali, che non tenevano ancora conto degli
sviluppi dell'urbanizzazione legati alla rivoluzione industriale. Accadeva così
che le circoscrizioni urbane fossero gravemente sacrificate nella distribuzione
dei seggi a vantaggio di quelle rurali: vi erano minuscoli collegi rurali, i
cosiddetti "borghi putridi" (rotten boroughs), in cui bastavano poche decine di
voti per mandare in Parlamento un deputato, con evidente vantaggio per gli
esponenti della grande proprietà terriera, visto che l'eletto era spesso il
signore del luogo.
La legge, approvata dal Parlamento nel giugno 1832 con un
governo a guida whig, allargava il corpo elettorale di oltre il 50% e, cosa
ancora più importante, ridisegnava le circoscrizioni, aumentando il numero di
quelle urbane. Il sistema restava censitario, ma era pur sempre il più aperto
nell'Europa di allora.
Alla riforma elettorale si accompagnarono, negli anni
'30, misure legislative per migliorare le condizioni delle classi più disagiate.
La legge sul lavoro nelle fabbriche, del 1833, fissava in dieci ore l'orario
massimo per i ragazzi sotto i diciotto anni e in otto per i bambini sotto i
dodici. La legge sui poveri, del 1834, affidava a istituzioni ed enti locali
l'assistenza ai bisognosi.
Il movimento cartista
Tentativi di modificare
ulteriormente il sistema politico britannico furono avanzati dall'opposizione
democratica, che faceva capo agli intellettuali radicali e agli operai
organizzati nelle Trade Unions. Proprio dai leader delle Trade Unions partì
l'iniziativa di una grande mobilitazione popolare per imporre alla classe
dirigente l'adozione del suffragio universale, il solo mezzo per far valere gli
interessi dei lavoratori nella Camera e nel governo.
Nel 1838 la Carta del
popolo chiedeva, tra l'altro, il suffragio universale maschile, la garanzia
della segretezza del voto e una nuova riforma dei collegi elettorali. Il
movimento cartista (così chiamato appunto dalla Carta del popolo) non riuscì a
ottenere tuttavia alcuno dei suoi obiettivi e, dopo un decennio di lotte, finì
con l'esaurirsi, anche perché i leader delle Trade Unions abbandonarono
progressivamente il terreno della mobilitazione politica per concentrarsi su
quello delle rivendicazioni economiche.
L'abolizione del dazio sul grano
Tra la
fine degli anni '30 e l'inizio degli anni '40, il centro dell'impegno dei
progressisti, appoggiati questa volta dai Whigs, fu quello per la riforma
doganale, e in particolare per l'abolizione del dazio sul grano (cioè delle Corn
Laws). Questa rivendicazione chiamava in causa i bisogni delle classi popolari,
poiché il dazio protettivo manteneva elevato il prezzo dei cereali – che sarebbe
sceso detassando le importazioni – a esclusivo vantaggio dei produttori interni
e a scapito dei consumatori. Essa esprimeva inoltre gli interessi del mondo
industriale, desideroso di veder rimossi tutti gli ostacoli che si opponevano
all'affermazione dei propri prodotti sui mercati stranieri.
Il dazio sul grano
era certamente uno di questi ostacoli, in quanto provocava l'imposizione, da
parte dei paesi esportatori di cereali, di analoghe tariffe sui prodotti
industriali inglesi. Non a caso il movimento per la riforma doganale ebbe il suo
centro a Manchester, capitale dell'industria tessile, e il suo principale
portavoce in Richard Cobden, industriale cotoniero e deputato liberale, leader
dal 1838 della Lega contro il dazio sul grano (Anti-Corn Law League), divenuto
in questi anni il più autorevole e popolare assertore delle teorie liberiste.
La
battaglia antiprotezionista fu vinta nel 1846 quando il governo, allora guidato
da Peel, sotto la pressione della grave carestia che stava imperversando in
Irlanda, prese la storica decisione di abolire il dazio di importazione sui
cereali.
Immobilismo e autoritarismo nelle monarchie dell'Europa centro-orientale
Al dinamismo politico e sociale manifestato dalla Gran Bretagna e, in minor
misura, dalla Francia negli anni 1830-48, faceva riscontro l'immobilismo
politico delle monarchie autoritarie dell'Europa centro-orientale, in
particolare dell'Austria e della Russia.
La chiusura a ogni fermento innovativo,
lo strapotere delle aristocrazie, il rifiuto di introdurre qualsiasi istituto
rappresentativo, la conservazione dei vecchi e arretrati ordinamenti agrari –
caratterizzati in Russia, ma anche in molte zone dell'Impero asburgico e della
Prussia orientale, dalla permanenza della servitù della gleba – bloccavano il
progresso civile e inasprivano le tensioni economiche e sociali.
Se per la
Russia il problema maggiore era costituito dalle continue rivolte contadine (a
carattere spontaneo e prive di qualsiasi direzione politica), l'Impero asburgico
cominciava a soffrire in questi anni delle tensioni che lo avrebbero
accompagnato sino alla sua dissoluzione: le spinte autonomistiche delle diverse
componenti nazionali – cechi e polacchi, italiani e ungheresi, croati e sloveni
– tutte divise fra loro, ma unite nell'avversione al centralismo di Vienna.
L'Unione doganale tedesca
Elemento di crisi per la monarchia asburgica, il nazionalismo costituì invece
un fattore di coesione per la Prussia e per gli Stati della Confederazione
germanica.
Deluse le speranze di unificazione coltivate negli anni delle guerre
napoleoniche, le aspirazioni della borghesia tedesca si concentrarono
soprattutto sull'attuazione di un'Unione doganale, Zollverein, fra tutti gli
Stati della Confederazione.
L'abolizione dei dazi doganali, avviata nel 1818,
accelerata dopo il 1830 e in gran parte compiuta nel 1834, rappresentò non solo
una tappa importante sulla via dell'unità politica degli Stati tedeschi.
Fu
anche un potente fattore di sviluppo economico, che avrebbe favorito il loro
decollo industriale su un ampio mercato nazionale, collegato da una fitta rete
di vie di comunicazione stradali e fluviali.
Le rivoluzioni del 1848-49
Le premesse e i caratteri comuni delle rivoluzioni
Nel 1848 l'Europa fu sconvolta da una crisi rivoluzionaria di ampiezza e
intensità straordinarie. Non a caso l'espressione "quarantotto" è diventata da
allora sinonimo di "disordine, sconvolgimento improvviso". Straordinaria fu
innanzitutto l'estensione dell'area geografica interessata dalle agitazioni. Ma
straordinaria fu anche la rapidità con cui il moto rivoluzionario si diffuse in
tutta l'Europa continentale, dalla Francia all'Italia, all'Impero asburgico e
alla Confederazione germanica.
Un moto così ampio non sarebbe stato possibile se
non fosse stato favorito da alcune premesse comuni, presenti nell'intera società
europea.
Un primo elemento comune era dato dalla situazione economica: nel
biennio 1846-47, l'Europa aveva attraversato una fase di crisi, che aveva
investito prima il settore agricolo, poi quello industriale e commerciale,
provocando carestie, miseria, disoccupazione.
Il disagio economico e
l'inquietudine sociale non sarebbero bastati di per sé a provocare una crisi di
così vaste proporzioni, se su di essi non si fosse inserita l'azione svolta dai
democratici di tutta Europa, in particolare dagli intellettuali, depositari di
una tradizione comune che affondava le sue origini nella Rivoluzione francese.
Rivoluzioni del '45-'48
Simile fu il contenuto dominante delle insurrezioni: la richiesta di libertà
politiche e di democrazia, variamente intrecciata – in Italia, in Germania e
nell'Impero asburgico – alla spinta verso l'emancipazione nazionale.
Simile fu
anche la dinamica dei moti, che si svilupparono tutti secondo lo schema delle
«giornate rivoluzionarie»: iniziarono cioè con grandi dimostrazioni popolari
nelle capitali, sfociate poi in scontri armati.
I moti del 1848-49
Il protagonismo delle masse popolari urbane
A Parigi come a Vienna, a Berlino come a Milano, furono gli artigiani e gli
operai a svolgere il ruolo principale nelle sommosse.
A Parigi la componente
popolare e operaia si mosse in relativa autonomia e, spesso in contrasto con le
forze democratico-borghesi, cercò di imporre propri specifici obiettivi di
lotta. Nel gennaio del '48, poche settimane prima dello scoppio dei moti, era
stato scritto il Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels, destinato a
diventare in seguito il testo-base della rivoluzione proletaria. Questa
convergenza di date spiega come mai il 1848 sia stato spesso
considerato l'anno ufficiale di nascita del movimento operaio.
Le cause della sconfitta democratica
Le rivoluzioni del 1848-49 si chiusero tutte con una sconfitta: la causa
principale di questo generale fallimento va individuata nelle profonde fratture
ideologiche e programmatiche che attraversavano al loro interno le forze del
cambiamento e della rivoluzione, dividendo sempre più le correnti
democratico-radicali dai gruppi liberai-moderati.
Questi ultimi, spaventati
dalla minaccia della rivoluzione sociale, si riaccostarono alle vecchie classi
dirigenti.
I democratici, lasciati soli a sostenere lo scontro politico e
militare con i governi e privi di una consistente base di massa, erano
inevitabilmente destinati a essere sconfitti.
Paradossalmente in Francia l'esito
fu, come vedremo nel paragrafo seguente, la nascita di un sistema politico
autoritario fondato su un ampio consenso popolare legato alla tradizione
rivoluzionaria di matrice napoleonica.
Altrove la sconfitta dell'ipotesi
rivoluzionaria non cancellò però quanto di nuovo era emerso dall'esperienza del
'48-49. Le aspirazioni verso una più ampia partecipazione al potere politico e
gli ideali di unificazione e di indipendenza nazionale costituivano ormai un
passaggio obbligato per alcuni paesi europei, come la Germania e l'Italia.
Il '48 in Francia. Dalla Seconda Repubblica al Secondo Impero
La caduta della monarchia liberale
In Francia, la rivoluzione prese avvio ancora una volta da Parigi.
I limiti
della monarchia borghese apparivano ormai intollerabili a un vasto fronte di
opposizione che andava dai liberali progressisti ai democratici, dai
bonapartisti ai socialisti. Per i democratici, in particolare, l'obiettivo da
raggiungere era il suffragio universale, ossia la concessione del diritto di
voto a tutti i cittadini maschi senza distinzione di reddito o di condizione
sociale.
Nettamente minoritari in Parlamento, i democratici cercarono di
trasferire la loro protesta nel «paese reale». Lo strumento scelto fu la
cosiddetta campagna dei banchetti: grandi riunioni svolte in forma privata che
aggiravano i divieti governativi di riunione e consentivano ai capi
dell'opposizione e ai loro seguaci di tenersi in contatto e di far propaganda
per la riforma elettorale.
L'insurrezione di febbraio
Fu proprio la proibizione di un banchetto, previsto per il 22 febbraio 1848 a
Parigi, a innescare la crisi rivoluzionaria.
Lavoratori e studenti parigini
organizzarono una grande manifestazione di protesta. Per impedirla, il governo
ricorse alla Guardia nazionale.
Espressione della borghesia cittadina, la
Guardia nazionale era stata impiegata più volte per reprimere agitazioni o
sommosse operaie. Ma questa volta, chiamata a difendere un governo largamente
impopolare, finì col fare causa comune con i dimostranti.
Dopo due giorni di
barricate e di violenti scontri, che provocarono più di 350 morti, gli insorti
erano padroni della città. Il 24 febbraio Luigi Filippo abbandonò Parigi. La
sera stessa veniva costituito un governo che si pronunciava decisamente a favore
della repubblica — la cosiddetta Seconda Repubblica, dopo quella rivoluzionaria
del 1792 – e annunciava la convocazione di un'Assemblea costituente da eleggere
a suffragio universale maschile.
Nel governo figuravano tutti i capi
dell'opposizione democratico-repubblicana ed erano presenti anche due socialisti:
Louis Blanc e l'operaio Alexandre Martin, detto Albert. L'inclusione di due
rappresentanti dei lavoratori nel governo – una novità assoluta nella storia
europea – rifletteva la forza del popolo parigino, protagonista delle giornate
di febbraio, e sottolineava il carattere "sociale" della nuova Repubblica.
Il diritto al lavoro
Già alla fine di febbraio il governo provvisorio aveva fissato in undici ore
la durata massima della giornata lavorativa e – cosa ancora più importante –
aveva stabilito il principio del diritto al lavoro: una decisione di portata
rivoluzionaria, che affrontava per la prima volta un nodo fondamentale
dell'economia capitalistica, quello del pieno impiego.
Per dare attuazione al
diritto al lavoro, furono istituiti degli ateliers nationaux (alla lettera:
'officine nazionali'). Il nome faceva pensare a quegli ateliers sociaux che
Louis Blanc aveva teorizzato, come vere e proprie cooperative di produzione,
capaci di sostituirsi all'impresa privata. Ma la realtà era più modesta, legata
com'era alla necessità immediata di aiutare i disoccupati.
Gli operai degli ateliers furono infatti impiegati in lavori di pubblica utilità (scavo di
canali, riparazione di strade) e posti alle dipendenze del ministero dei Lavori
pubblici.
Anche entro questi limiti, l'esperimento poneva gravi problemi alle
finanze statali e introduceva un motivo di profondo contrasto in seno allo
schieramento repubblicano, la cui ala moderata considerava incompatibile con i principi del liberismo economico un intervento diretto dello Stato nel mercato
del lavoro.
Il governo dei moderati e l'insurrezione di giugno
Una prima netta sconfitta per le correnti di estrema sinistra venne dalle
elezioni per l'Assemblea costituente, che si tennero in aprile, a suffragio
universale. I vincitori furono i repubblicani moderati, che costituirono
l'ossatura del nuovo governo dal quale vennero esclusi i socialisti Blanc e
Albert.
Il governo emanò subito un decreto con cui si stabiliva la chiusura
degli ateliers nationaux. La reazione dei lavoratori di Parigi fu immediata e
spontanea. Il 23 giugno, oltre 50 mila popolani (fra cui molti lavoratori degli
ateliers) scesero in piazza. Nei quartieri popolari ricomparvero le barricate.
In risposta, l'Assemblea costituente concesse pieni poteri all'esercito per
procedere alla repressione, che fu condotta nei giorni successivi con spietata
durezza.
Migliaia di insorti trovarono la morte sulle barricate o nelle
esecuzioni sommarie che seguirono gli scontri.
Le tragiche giornate di giugno
segnarono una svolta decisiva nella breve storia della Seconda Repubblica. Agli
occhi della borghesia di tutta Europa, la rivolta dei lavoratori parigini dava
corpo all'incubo della rivoluzione sociale, allo «spettro del comunismo».
Gran
parte della società francese – dalla borghesia urbana al clero, ai contadini
irritati per l'aumento delle tasse – fu attraversata da un'ondata di riflusso
conservatore.
L'ascesa di Luigi Napoleone Bonaparte
In novembre l'Assemblea costituente approvò a stragrande maggioranza la nuova
Costituzione: una costituzione democratica, ispirata al modello statunitense,
che prevedeva un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo per
la durata di quattro anni e un'unica Assemblea legislativa eletta anch'essa a
suffragio universale.
Ma alle elezioni presidenziali (10 dicembre) i
repubblicani si presentarono divisi, mentre i conservatori fecero blocco sulla
candidatura di Luigi Napoleone Bonaparte, figlio di un fratello dell'imperatore
(quel Luigi Bonaparte che aveva occupato il trono olandese).
Nonostante avesse
un passato da cospiratore, l'allora quarantenne Luigi Napoleone seppe offrire
ampie assicurazioni alla destra conservatrice e clericale mentre garantiva, per
la sola forza del suo nome, una sicura presa su vasti strati di elettorato
popolare.
Il calcolo si rivelò esatto: una vera e propria valanga di voti si
riversò su Bonaparte. Si chiudeva così definitivamente la fase democratica
della Seconda Repubblica.
La nascita del Secondo Impero di Napoleone III
Nel giro dei successivi tre anni le conquiste democratiche furono spazzate
via.
Intorno alla figura del presidente della Repubblica si raccolse un consenso
che poggiava sugli elementi conservatori, sui clericali e sulla mai sopita
tradizione napoleonica che recluta va aderenti in tutta la Francia urbana e
rurale.
Nel dicembre 1851, con un colpo d Stato sostenuto dall'esercito, la
Camera fu sciolta e diecimila oppositori arrestati deportati. Secondo la prassi
napoleonica un plebiscito a suffragio universale convalidi l'operato di
Bonaparte.
La Seconda Repubblica era ormai tale solo di nome. E la finzione fu
abolita, nel dicembre 1852, da un nuovo plebiscito che approvava, con una
maggioranza ancor più schiacciante di quella dell'anno precedente, la
restaurazione dell'Impero.
Luigi Napoleone assumeva così il nome di Napoleone III (veniva dunque incluso nella serie anche il figlio di Napoleone I, morto nel
1832 a Vienna) col diritto di trasmettere il titolo imperiale ai suoi eredi.
Il '48 nell'Europa centrale
La rivolta nell'impero asburgico
Il moto rivoluzionario iniziato a Parigi alla fine di febbraio si propagò in
poche settimane a gran parte dell'Europa.
Ma, diversamente da quanto era
accaduto in Francia, la componente «sociale» rimase in secondo piano e lo
scontro principale fu combattuto fra le borghesie liberali – con l'appoggio di
consistenti settori delle classi popolari – e le strutture politiche
tradizionali.
Il primo importante episodio insurrezionale ebbe luogo a Vienna,
il 13 marzo. L'occasione della rivolta fu una grande manifestazione di studenti
e lavoratori duramente repressa dall'esercito. Dopo due giorni di combattimenti,
la corte fu costretta ad allontanare il cancelliere Metternich: l'uomo-simbolo
dell'età della Restaurazione dovette rifugiarsi all'estero.
Le notizie
dell'insurrezione di Vienna e della fuga di Metternich fecero precipitare la
situazione nelle irrequiete province dell'Impero asburgico e nella vicina
Confederazione germanica.
Il 15 marzo vi furono tumulti a Budapest. Il 17 e il
18 si sollevavano Venezia e Milano. Negli stessi giorni una violenta sommossa
scoppiava a Berlino, capitale della Prussia. Il 19 marzo i cittadini di Praga
inviavano una petizione all'imperatore chiedendo autonomia e libertà politiche
per i cechi.
In maggio l'imperatore dovette abbandonare la capitale e promettere
la convocazione di un Parlamento dell'Impero, il Reichstag, eletto a suffragio
universale.
La rivoluzione a Budapest e a Praga
In Ungheria le promesse del governo imperiale di concedere una costituzione e
un Parlamento non riuscirono a fermare l'agitazione autonomista.
Sotto la spinta
dell'ala democratico-radicale, che faceva capo a Lajos Kossuth, i patrioti
ungheresi profittarono della crisi per creare a Budapest un governo nazionale e
per agire in totale autonomia da Vienna.
Fu decretata la fine dei rapporti
feudali nelle campagne, una misura che contribuì a ottenere l'appoggio dei
contadini. Fu eletto un nuovo Parlamento a suffragio universale. In luglio,
infine, Kossuth cominciò a organizzare un esercito nazionale, primo passo verso
la piena indipendenza, che costituiva ormai l'obiettivo finale degli insorti.
Anche a Praga, in aprile, venne formato un governo provvisorio. I patrioti
cechi, per lo più di orientamento liberale, non mettevano in discussione i
legami con la monarchia asburgica e si limitavano a chiedere più ampie
autonomie. Ma alcuni incidenti scoppiati fra la popolazione e i militari
fornirono all'esercito il pretesto per una dura repressione: Praga fu assediata
e bombardata e il governo ceco fu sciolto d'autorità.
La riscossa dell'Austria
La sottomissione di Praga segnò l'inizio della riscossa per il potere
imperiale. Essa mostrava che l'efficienza e la fedeltà dell'esercito non erano
state intaccate dagli ultimi rivolgimenti politici. Nel corso dell'estate la
svolta si consolidò.
Mentre il Reichstag, riunitosi per la prima volta in
luglio, era paralizzato dai contrasti fra le diverse nazionalità – l'unica
decisione di portata storica fu l'abolizione della servitù della gleba in tutti
i territori dell'Impero in cui era ancora in vigore –, il governo centrale
riprendeva gradualmente il controllo della situazione.
In agosto, sotto la
protezione dell'esercito, l'imperatore rientrava a Vienna. Ma ai primi di
ottobre nella capitale scoppiava una nuova insurrezione di studenti e lavoratori
per impedire la partenza di nuove truppe per il fronte ungherese. Alla fine del
mese Vienna fu cinta d'assedio e occupata dopo tre giorni di durissimi
combattimenti.
La rivoluzione nell'Impero asburgico veniva così stroncata nella
sua punta più avanzata. Poche settimane dopo, l'imperatore Ferdinando I abdicava
in favore del nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe.
Nel marzo 1849 il nuovo
imperatore sciolse d'autorità il Reichstag e promulgò una Costituzione che
prevedeva un Parlamento eletto a suffragio ristretto e dotato di poteri molto
limitati, e ribadiva al tempo stesso la struttura centralistica dell'Impero.
L'insurrezione di Berlino e l'Assemblea di Francoforte
Un corso simile ebbero gli avvenimenti in Germania.
A Berlino, il 18 marzo
del 1848, imponenti manifestazioni popolari costrinsero il re Federico Guglielmo IV a convocare un Parlamento prussiano (Landtag).
Intanto agitazioni e sommosse
erano scoppiate nella Confederazione germanica. Ne era scaturita, quasi
spontaneamente, la richiesta di un'Assemblea costituente dove fossero
rappresentati tutti gli Stati tedeschi, Austria compresa.
A metà maggio
l'Assemblea aprì i suoi lavori a Francoforte in un clima di generale entusiasmo.
Ben presto fu chiaro però che la Costituente di Francoforte non aveva i poteri
necessari per imporre le proprie decisioni ai sovrani degli Stati tedeschi e per
avviare un processo di unificazione nazionale. Le sue sorti non potevano che
dipendere da quanto accadeva nello Stato più importante, la Prussia. Ma proprio
in Prussia il movimento liberaidemocratico rientrò rapidamente, anche perché la
borghesia era spaventata dalle agitazioni sociali che nel frattempo si andavano
intensificando (in estate vi furono sommosse di lavoratori a Berlino, in Slesia
e a Francoforte).
Ai primi di dicembre Federico Guglielmo sciolse il Parlamento
prussiano ed emanò una Costituzione assai poco liberale.
Frattanto, i lavori
dell'Assemblea di Francoforte erano quasi completamente assorbiti dalle dispute
sulla questione nazionale e dalla contrapposizione fra «grandi tedeschi» e
«piccoli tedeschi»: i primi miravano a un'unione di tutti gli Stati germanici
intorno all'Austria imperiale, i secondi sostenevano invece uno Stato nazionale
più compatto, da costruirsi intorno al nucleo principale del Regno di Prussia.
A prevalere, dopo lunghe discussioni, fu alla fine la tesi «piccolo-tedesca».
Ma
quando, nell'aprile 1849, una delegazione offrì al re di Prussia la corona
imperiale, questi la rifiutò in quanto gli veniva offerta da un'assemblea
popolare, nata da un moto rivoluzionario.
Il rifiuto di Federico Guglielmo segnò
in pratica la fine della Costituente, che fu sciolta nel giugno 1849.
La repressione finale e la sconfitta dei democratici
Si andavano frattanto spegnendo gli ultimi fuochi della rivoluzione che, a
partire dal marzo 1848, aveva attraversato l'intero Impero asburgico compresa
l'Italia.
In marzo gli austriaci sconfiggevano definitivamente i piemontesi, in
luglio si concludeva, grazie all'intervento francese, l'esperienza della
Repubblica romana, in agosto le truppe imperiali schiacciavano l'ultima
resistenza di Venezia e dell'Ungheria.
Per aver ragione degli indipendentisti
magiari, che avevano ripreso il controllo del paese profittando anche
dell'impegno austriaco in Italia, il governo di Vienna dovette chiedere l'aiuto
militare della Russia.
La sconfitta dei democratici era a questo punto completa.
IL RISORGIMENTO ITALIANO
L'Italia e la questione nazionale
Il Risorgimento
Nella prima metà dell'800 prende avvio in Italia un processo di riscoperta e
di sempre più decisa rivendicazione della propria identità nazionale.
Questo processo, che avrebbe portato in pochi decenni alla conquista
dell'indipendenza, fu definito dai contemporanei, e poi dagli storici, col nome
di "Risorgimento": una definizione che ne sottolineava il carattere di rinascita
culturale e politica, di riscatto morale da una lunga condizione di servitù e di
decadenza, di ritorno a un passato glorioso e a un'unità dalle antichissime
origini.
Per la verità l'Italia era stata unita politicamente solo ai tempi dell'Impero
romano, ma all'interno di un'entità statale sovranazionale. In seguito, era
sempre rimasta divisa e, almeno in parte, subordinata a sovranità straniere
(Francia, Spagna, Austria).
La nazione italiana
Tuttavia, se uno Stato italiano non era mai esistito, una nazione italiana,
in quanto comunità linguistica, culturale, religiosa e in qualche parte anche
economica, esisteva almeno fin dall'età dei comuni. E l'idea di Italia come
entità unitaria, dai confini geografici ben definiti, era sempre stata viva nel
pensiero di molti autorevoli intellettuali italiani, da Petrarca a Machiavelli
ad Alfieri. Alla fine del '700, in alcune componenti della cultura illuminista,
questa consapevolezza si era fatta più viva e si era accentuata soprattutto
all'interno delle correnti più radicali del movimento giacobino.
Ma questi intenti erano rimasti soffocati dalla contraddizione tipica di tutto
il giacobinismo italiano: quella di dover legare la realizzazione delle proprie
idee alle sorti della potenza francese, alla politica nazionalista e assolutista
di Napoleone.
Ideali di libertà e questione nazionale
Con la Restaurazione, per i patrioti italiani la scelta diventava più
semplice: la lotta per gli ideali liberali e democratici poteva coincidere con
quella per la liberazione dal dominio straniero. Questo, però, non significava
ancora battersi per l'indipendenza e per l'unità italiana.
Nei primi moti rivoluzionari, nel 1820-21, la questione nazionale fu infatti
pressoché assente, o comunque subordinata alle rivendicazioni di ordine
costituzionale, alle spinte per un mutamento politico all'interno dei singoli
Stati.
I primi moti rivoluzionari
L'insurrezione nel Napoletano e in Sicilia
Nella prima ondata rivoluzionaria che scosse l'Europa all'inizio degli anni
'20 furono coinvolti, come abbiamo visto, il Regno delle Due Sicilie e il Regno
di Sardegna.
Il 1° luglio 1820, infatti, pochi mesi dopo l'insurrezione spagnola, la rivolta
scoppiò a Nola, nel Napoletano, ed ebbe subito l'adesione di numerosi alti
ufficiali ex murattiani, fra cui il generale Guglielmo Pepe. Il re Ferdinando I
fu costretto a concedere una Costituzione simile a quella spagnola del 1812.
Questa rivoluzione segui un corso analogo a quella di Spagna e si trovò ad
affrontare problemi molto simili: le divisioni fra democratici e moderati; il
comportamento ambiguo del re, profondamente ostile alla Costituzione; la
inevitabile opposizione del governo austriaco a un esperimento che sembrava
minacciare l'intero assetto politico della penisola.
A questi problemi si aggiunse la questione siciliana. Il 15 luglio, infatti,
anche Palermo diede vita a una violenta ribellione che, al contrario di quella
del Napoletano, registrò un'ampia partecipazione di popolo. Agli operai e agli
artigiani si unirono anche gli esponenti dell'aristocrazia locale, delusi dalla
politica accentratrice della monarchia napoletana che aveva fatto perdere a
Palermo il rango di capitale, e la rivolta assunse subito un chiaro carattere
separatista.
A queste velleità indipendentiste dei palermitani il governo di Napoli reagì
inviando in Sicilia un corpo di spedizione e la rivolta palermitana fu domata in
pochi giorni, alla fine di ottobre.
In Piemonte e nel Lombardo-Veneto
Il successo della rivoluzione napoletana accese le speranze dei liberali
italiani, attivi soprattutto in Piemonte e in Lombardia.
Questi avevano l'obiettivo di una costituzione e soprattutto della cacciata
degli austriaci dal Lombardo-Veneto per la formazione di un regno costituzionale
indipendente nell'Italia settentrionale.
In Lombardia ogni ipotesi insurrezionale fu però stroncata dalla scoperta,
nell'ottobre 1820, di un'organizzazione carbonara e dal conseguente arresto dei
suoi capi, Silvio Pellico e Pietro Maroncelli, condannati poi a pesanti pene
detentive. Dopo molte esitazioni dovute soprattutto ai contrasti fra i
democratici e i moderati, il moto scoppiò nel marzo 1821, quando alcuni reparti
dell'esercito si ammutinarono, costringendo il re Vittorio Emanuele I ad
abdicare in favore del fratello Carlo Felice. Dato che il nuovo re si trovava
lontano dal regno, la reggenza fu affidata al nipote Carlo Alberto, che aveva
manifestato qualche simpatia per la causa liberale. Carlo Alberto si impegnò
dapprima a concedere una costituzione simile a quella spagnola ma poi,
sconfessato e richiamato all'ordine da Carlo Felice, si unì alle truppe lealiste
che, all'inizio di aprile, con l'aiuto di contingenti austriaci, sconfissero a
Novara i rivoluzionari guidati dal conte Santorre di Santarosa.
La repressione militare
La fine dell'esperienza liberale piemontese si inquadrava nella generale
sconfitta delle correnti costituzionali e patriottiche, delineatasi già alla
fine del marzo 1821 con la conclusione della rivoluzione napoletana.
Era stato il cancelliere austriaco Metternich a decidere un intervento armato:
l'Austria, infatti, egemone nella penisola, aveva imposto una serie di legami
militari e politici anche al Regno delle Due Sicilie. Così gli austriaci
entrarono a Napoli e restaurarono il potere assoluto di Ferdinando I, che mise
in atto una dura repressione contro i protagonisti della rivoluzione. Anche in
Piemonte la fine del moto costituzionale fu seguita da una serie di condanne
contro i militari ribelli e da un massiccio esodo all'estero di patrioti.
Le rivolte del 1831
Anche la seconda fase delle insurrezioni italiane fini rapidamente con la
repressione militare ad opera degli austriaci e con la condanna dei principali
promotori.
Questa volta la cospirazione prese avvio nel Ducato di Modena dove lo stesso
duca Francesco IV sembrava appoggiare i cospiratori: il duca sperava infatti di
profittare di un eventuale sommovimento politico per diventare sovrano di un
Regno dell'Italia centro-settentrionale. Per questo entrò in contatto con alcuni
esponenti delle società segrete, fra cui Ciro Menotti, imprenditore e
industriale, che lavorò per allargare allo Stato pontificio e alla Toscana la
trama di una cospirazione destinata a porre le premesse per un'Italia unita
sotto una monarchia costituzionale. Francesco IV non era però l'uomo più adatto
per realizzare progetti di questo genere.
Quando si rese conto che l'Austria si sarebbe opposta con le armi a qualsiasi
mutamento politico in Italia, abbandonò rapidamente ogni idea di cospirazione e
fece arrestare, nel febbraio 1831, i capi della congiura riuniti in casa di
Menotti. La rivolta tuttavia si era ormai estesa a Bologna e a tutti i centri
principali delle Legazioni pontificie, ossia la Romagna con Pesaro e Urbino,
oltre alle attuali province di Bologna e Ferrara (territori amministrati dai
rappresentanti del pontefice, i «cardinali legati»): dalle Legazioni il moto
dilagò nel Ducato di Parma e in quello di Modena.
Tentativi unitari e repressione
Rispetto ai moti del '20-21, le insurrezioni dell'Italia
centro-settentrionale del '31 presentarono alcuni caratteri di novità.
Questa volta a muoversi non furono tanto i militari, quanto i ceti borghesi
appoggiati dall'aristocrazia liberale e sostenuti in qualche caso da una non
trascurabile mobilitazione popolare, soprattutto nelle Legazioni, dove molto
forte e diffuso era lo scontento nei confronti del malgoverno pontificio. Sia a
Bologna sia nei Ducati, questa mobilitazione fu sufficiente per aver ragione di
un potere debole e poco preparato a una repressione militare.
Nonostante i tentativi di dare alla rivolta un carattere unitario, le
persistenti divisioni municipali e il contrasto tra democratici e moderati
indebolirono le iniziative insurrezionali.
L'ipotesi di un intervento della Francia orleanista in favore dei ribelli si
rivelò un'illusione, mentre l'esercito austriaco sconfisse a Rimini le forze
degli insorti (marzo 1831).
Il ritorno al vecchio ordine fu accompagnato dall'inevitabile repressione. Ciro
Menotti fu condannato a morte e impiccato. Anche gli insorti emiliani e
romagnoli furono condannati a lunghissime pene detentive, quando non riuscirono
a riparare all'estero per ingrossare le file dell'ormai numerosa emigrazione
politica italiana.
Immobilismo politico e arretratezza economica degli Stati italiani
I quasi due decenni successivi ai moti insurrezionali furono caratterizzati ovunque da un ritorno a forme di assolutismo autoritario, non solo in Piemonte o nello Stato della Chiesa, ma anche nella più illuminata Toscana.
L'economia e le infrastrutture
Qualche novità si registrò invece nel settore economico che, nonostante una
tendenza alla crescita produttiva, continuava comunque a essere caratterizzato
da una condizione di notevole arretratezza rispetto alle zone più progredite
d'Europa.
Il settore agricolo, infatti, restava per lo più legato alle tecniche e ai
sistemi di conduzione tradizionali: solo in alcune zone della Lombardia e, in
minor misura, del Piemonte si erano realizzati progressi consistenti nella
cerealicoltura e nell'allevamento. L'industria, poi, era rimasta sostanzialmente
estranea alla tecnologia delle macchine: il settore tessile, in particolare, si
fondava ancora sulla manifattura tradizionale e sul lavoro a domicilio. Anche le
ferrovie ebbero un inizio assai lento e ritardato: solo nel corso degli anni '40
la costruzione di strade ferrate assunse un carattere sistematico, limitatamente
al Piemonte, al Lombardo-Veneto e alla Toscana.
Questo avvio delle costruzioni ferroviarie fu comunque uno degli elementi che
contribuirono a dare nuovo slancio all'economia degli Stati italiani. Altri
fattori furono i progressi del sistema bancario (soprattutto in Toscana e in
Piemonte), lo sviluppo dei porti e della marina mercantile, il generale
incremento del commercio internazionale che ebbe ricadute positive anche
sull'Italia.
La mancanza di un mercato nazionale
Si trattava, nel complesso, di progressi limitati, non tali da
permettere agli Stati italiani di ridurre il ritardo che stavano accumulando nei
confronti dell'Europa in via di industrializzazione.
Ma furono sufficienti a far riflettere la parte più avvertita dell'opinione
pubblica sui danni derivanti all'economia dalla mancanza di un mercato nazionale
e di un efficiente sistema di comunicazioni: venne così riproposto il progetto
di una unione doganale italiana da realizzare sul modello dello Zollverein
tedesco e divennero argomenti centrali di discussione il confronto con gli altri
paesi europei e la necessità di elaborare un nuovo e più razionale assetto
politico di tutta la penisola.
Il progetto mazziniano
Una nuova strategia
L'esito negativo delle insurrezioni nell'Italia centro-settentrionale segnò
la crisi irreversibile della Carboneria e, più in generale, mise in evidenza i
limiti della strategia che aveva fin allora guidato le rivoluzioni italiane: la
necessità di affidarsi all'appoggio di sovrani rivelatisi poi inaffidabili; la
segretezza delle trame settarie che ostacolava una più ampia partecipazione; e
soprattutto l'assenza di una direzione unitaria, capace di agire in una
prospettiva autenticamente nazionale.
Progetti unitari e repubblicani si erano affacciati negli ambienti
dell'emigrazione italiana già nel decennio 1820-30, ma solo all'inizio degli
anni '30 l'ideale dell'unità italiana da conseguirsi attraverso un'autentica
lotta di popolo si diffuse fra i patrioti di orientamento democratico e si
tradusse in concreto programma d'azione, grazie soprattutto all'opera di
Giuseppe Mazzini.
Il giovane Mazzini
Mazzini era nato a Genova nel 1805 da una famiglia della borghesia medio-alta.
Si era accostato fin dagli anni giovanili alle idee democratiche e patriottiche
e aveva aderito alla Carboneria. Arrestato nel 1830, era stato costretto a
emigrare a Marsiglia. Nell'esilio francese, Mazzini entrò in contatto con i
maggiori esponenti dell'emigrazione democratica, in particolare con Buonarroti,
ma subì anche l'influenza di molte fra le voci più importanti della cultura
politica dell'epoca, da Lamennais ai sansimoniani.
Venne così prendendo corpo, fin dai primi anni '30, una concezione politica in
cui all'originaria ispirazione democratica si univa una forte componente
mistico-religiosa.
Una religione politica
Quella di Mazzini era una religiosità tipicamente romantica, dove Dio si
identificava con lo spirito insito nella storia e, in ultima analisi, con la
stessa umanità.
La fede nella libertà e nel progresso umano doveva dunque essere vissuta come
una fede religiosa. La rivendicazione dei diritti degli individui e delle
nazioni non poteva essere separata dalla consapevolezza dei doveri dell'uomo e
dalla coscienza di una missione spettante ai popoli quali strumenti di un
disegno divino: di qui la celebre formula mazziniana «Dio e popolo».
Nemico dell'individualismo settecentesco, Mazzini credeva invece fermamente nel
principio di associazione. Al di sopra dell'individuo c'era la famiglia, al di
sopra della famiglia la nazione, al di sopra di tutto l'umanità. Così come gli
individui, anche le nazioni dovevano associarsi per cooperare al bene comune.
L'idea di nazione e la missione dell'Italia
L'idea di nazione aveva, nel pensiero di Mazzini, un posto fondamentale.
La nazione – intesa come entità culturale e spirituale, prima ancora che
naturale e geografica – era la cellula fondamentale attraverso cui si sarebbe
realizzato il sogno di un'umanità libera e affratellata.
All'Italia, in particolare, spettava il compito di porsi alla testa delle
nazioni oppresse, di abbattere i fondamenti principali del vecchio ordine –
l'Impero asburgico e lo Stato della Chiesa – e di farsi iniziatrice di un
generale movimento di emancipazione. Se la Roma dei Cesari aveva unificato
politicamente l'Europa, se la Roma dei papi l'aveva assoggettata a un'unica
autorità religiosa, la Terza Roma sarebbe stata il centro di una nuova e più
alta unità morale e sociale di tutti i popoli della terra.
Come si può notare c'era molto di utopistico (e anche di velleitario) in queste
posizioni.
La questione sociale
Nelle idee di Mazzini non c'era posto né per le teorie materialistiche
(fondate sull'idea che la realtà derivi unicamente dalla materia e che dunque
non possa spiegarsi con l'intervento divino) né per le tematiche legate alla
lotta di classe (il contrasto permanente fra borghesia e proletariato, secondo
Marx ed Engels). Mazzini non ignorava certo i problemi sociali ed era favorevole
a riforme anche audaci (tra cui la divisione tra i contadini delle terre
incolte), ma difendeva il diritto di proprietà come base dell'ordine sociale,
considerando pericolosa qualsiasi teoria che tendesse a dividere la collettività
nazionale e a incrinare l'unità spirituale del popolo.
Per lui anche la questione sociale si sarebbe dovuta risolvere attraverso il
principio di associazione: lui stesso, infatti, si impegnò nella promozione di
cooperative e società di mutuo soccorso fra gli operai.
Indipendenza, unità, repubblica
Se queste formulazioni ideologiche potevano apparire poco concrete, il
programma politico era invece di un'estrema chiarezza.
L'Italia doveva rendersi indipendente e darsi una forma di governo unitaria e
repubblicana. Erede della tradizione giacobina, Mazzini non ammetteva alcun
compromesso con il principio monarchico e rifiutava ogni soluzione di tipo
federalistico, pur prevedendo ampie autonomie per i comuni.
La via per giungere all'unità e all'indipendenza era solo una: l'insurrezione di
popolo, di tutto il popolo senza distinzioni di classe.
La Giovine Italia
Lo strumento per realizzare l'insurrezione di popolo era una nuova
organizzazione che, anziché nascondere agli affiliati i suoi scopi ultimi, li
rendesse subito evidenti e propagandasse apertamente i suoi principi
fondamentali svolgendo così, accanto all'azione cospirativa, un'opera di
continua educazione politica.
La nuova organizzazione nacque a Marsiglia, nell'estate del '31, si chiamò
Giovine Italia, adottò la bandiera tricolore – bianca, rossa e verde – e riunì
attorno a Mazzini numerosi emigrati politici dell'ultima generazione e molti
giovani democratici che operavano in Italia.
I tentativi insurrezionali
Convinti della necessità di un legame strettissimo tra «pensiero e azione»
(la famosa formula mazziniana), Mazzini e i suoi seguaci non aspettarono il
maturare di condizioni internazionali favorevoli per mettere in atto i loro
progetti e organizzarono, negli anni '30-40, una serie di tentativi
insurrezionali in Italia.
Nell'aprile del 1833 fu scoperta una congiura in Piemonte, dove la Giovine
Italia aveva numerosi seguaci tra le file dell'esercito: vi furono decine di
arresti e 12 fucilati, mentre oltre 200 patrioti furono costretti a fuggire
all'estero.
Nel febbraio 1834, invece, fu bloccato sul nascere un progetto rivoluzionario
basato su una spedizione di un corpo di volontari che sarebbe dovuto penetrare
in Savoia dalla Svizzera e su una contemporanea insurrezione da organizzare a
Genova. In questo piano ebbe una parte attiva anche Giuseppe Garibaldi, allora
venticinquenne marinaio di Nizza che, sfuggito miracolosamente alla cattura e
condannato a morte in contumacia, dovette riparare in Sud America.
La crisi della Giovine Italia e i dubbi di Mazzini
L'esito fallimentare della spedizione in Savoia rappresentò un duro colpo per
il prestigio di Mazzini e per l'attività della Giovine Italia.
Privato, nel giro di pochi mesi, di molti dei suoi migliori collaboratori,
Mazzini dovette affrontare in questi anni una vera e propria crisi di coscienza
e notevoli difficoltà personali (espulso prima dalla Francia e poi dalla
Svizzera, si trasferì a Londra).
La «tempesta del dubbio» (così la chiamò Mazzini stesso) fu in breve superata.
Come i grandi rivoluzionari di ogni tempo, Mazzini era convinto che la «santità»
della causa per cui lottava giustificasse anche i sacrifici più dolorosi.
Nell'aprile del '34, poco dopo il fallimento della spedizione in Savoia, aveva
dato vita, assieme a esuli di altre nazionalità, alla Giovine Europa:
un'iniziativa che aveva però un valore soprattutto simbolico e che ebbe scarsi
effetti sul piano operativo.
La spedizione dei fratelli Bandiera
Nella prima metà degli anni '40 ci furono altri tentativi di insurrezione.
Nel 1843 e nel 1845 furono soffocati due moti nelle Legazioni pontificie.
Nel giugno-luglio 1844, invece, falli una spedizione in Calabria organizzata da
due giovani veneziani, i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, ufficiali della
marina austriaca aderenti alla Giovine Italia, che avevano sperato di far
sollevare i contadini contro il governo borbonico: la popolazione locale rimase
indifferente e i due fratelli vennero catturati e fucilati insieme con altri sei
compagni.
In realtà, né i moti nelle Legazioni né la spedizione dei Bandiera erano stati
organizzati da Mazzini, che anzi aveva espresso un parere negativo sulla
opportunità di queste iniziative.
Ma il ripetersi di episodi insurrezionali ispirati dai repubblicani e
immancabilmente destinati al fallimento contribuì ad alimentare le critiche nei
confronti dei metodi mazziniani e fornì nuovi argomenti alle polemiche dei
moderati contro le strategie rivoluzionarie.
Moderati, cattolici e federalisti
I moderati e il cattolicesimo liberale
Negli anni '40, il dibattito politico italiano si ampliò e si arricchì di
nuove voci.
La principale novità fu l'emergere di un orientamento moderato, che si
differenziava nettamente sia dal conservatorismo tradizionale e legittimista
sia, ovviamente, dal radicalismo repubblicano di Mazzini.
Per il problema italiano i moderati miravano a soluzioni gradualistiche, tali da
non comportare l'uso della violenza e lo scontro con le autorità costituite. La
base principale del pensiero moderato stava nel tentativo di conciliare la causa
liberale e patriottica con la religione cattolica – considerata il più
importante fattore di unità della nazione italiana – e con la Chiesa di Roma.
Una corrente cattolico-liberale esisteva in Italia fin dagli anni della
Restaurazione e aveva i suoi esponenti più illustri in Alessandro Manzoni e nel
filosofo Antonio Rosmini, fautore di una riforma interna alla Chiesa, nel solco
dell'ortodossia cattolica. Su posizioni analoghe erano quegli intellettuali
toscani – come Gino Capponi e Bettino Ricasoli – che si erano formati attorno
all'«Antologia» di Vieusseux.
La condanna papale del 1832 del cattolicesimo liberale, per quanto fosse rivolta
soprattutto contro il gruppo francese dell'«Avenir», si ripercosse anche sul
movimento italiano, limitandone gli spunti più apertamente riformatori. Ma non
impedì al pensiero cattolico-moderato di esprimersi per altre vie: come i
romanzi, per lo più di ambiente medievale, di Cesare Cantù; o come le opere
storiche del piemontese Cesare Balbo, che rivalutavano il ruolo della Chiesa e
del papato nella storia nazionale e ne esaltavano il ruolo di difensori delle
«libertà d'Italia».
Definiti "neoguelfi", con un termine tratto dalla storia medievale, suscitarono,
per reazione, la nascita dei "neoghibellini", tra cui emerse uno scrittore
toscano di orientamento repubblicano e anticlericale come Francesco Domenico
Guerrazzi.
Gioberti
Il neoguelfismo conobbe il suo momento di maggior popolarità dopo il 1843,
con la pubblicazione del Primato morale e civile degli italiani, un libro
dell'abate torinese Vincenzo Gioberti. Riprendendo da Mazzini il concetto di una
speciale «missione» spettante al popolo italiano, Gioberti ne capovolse il
significato, identificando questa missione col ruolo della Chiesa.
Il "primato" era quello che veniva all'Italia dall'essere sede del papato e
dall'averne condiviso nel corso dei secoli la missione di civiltà. Gioberti era
convinto che, per tornare alle glorie passate, l'Italia avesse bisogno di ampie
riforme politiche e amministrative. Ma riteneva che per raggiungere questo scopo
non fosse necessario puntare all'unità politica: la soluzione da lui proposta
era una confederazione fra gli Stati italiani, fondata sull'autorità superiore
del papa (che ne avrebbe assunto la presidenza) e sulla forza militare del Regno
di Sardegna.
Era un'ipotesi non meno utopistica di quella mazziniana, anche perché puntava su
un'evoluzione liberale e nazionale della Chiesa al momento inimmaginabile. Ma
presentava all'opinione pubblica moderata un progetto che non prevedeva
rivoluzioni, si accordava con il sentimento cattolico dominante e soddisfaceva
al tempo stesso gli ideali patriottici, poiché rivendicava all'Italia un
«primato morale e civile» fra le nazioni europee.
Balbo e d'Azeglio
L'opera di Gioberti apri un intenso dibattito politico e fu seguita da una
serie di altre proposte che ne riecheggiavano, pur con notevoli varianti, i temi
fondamentali.
Nel 1844 uscì Le speranze d'Italia di Cesare Balbo, che auspicava
anch'esso la formazione di una lega – doganale e militare – fra gli Stati
italiani.
A differenza di Gioberti, però, Balbo si poneva il problema della presenza
dell'Austria, principale ostacolo per qualsiasi ipotesi indipendentista, e
proponeva di risolvere la questione con mezzi diplomatici, assecondando la
tendenza dell'Impero asburgico a spostare il centro dei suoi interessi verso
l'Europa centro-orientale.
Un altro esponente del liberalismo moderato piemontese, Massimo d'Azeglio,
prendendo spunto dal fallimento dei moti del '45 nelle Legazioni pontificie,
espresse in un opuscolo uscito all'inizio del 1846, Gli ultimi casi di
Romagna, una dura critica sia del malgoverno pontificio sia delle iniziative
insurrezionali, giudicate inutili e persino dannose per la causa nazionale.
In alternativa, indicava la via delle riforme graduali, senza escludere, in
prospettiva, una soluzione militare affidata alle armi del Regno sabaudo.
Il federalismo di Cattaneo
La scelta a favore delle riforme e la tendenza alle soluzioni federalistiche
non erano patrimonio esclusivo dei moderati.
Negli stessi anni in cui il neoguelfismo conosceva i suoi maggiori successi e i
moderati piemontesi proponevano la candidatura del Regno sardo al ruolo di guida
del Risorgimento nazionale, una corrente federalista, democratica e repubblicana
si sviluppava in Lombardia.
Principale esponente di questa tendenza era il milanese Carlo Cattaneo,
direttore dal '39 al '45 della rivista «Il Politecnico», erede della tradizione
di pragmatismo e di riformismo tipica della cultura illuminista dei Verri e di
Beccaria.
Cattaneo aveva interessi culturali vastissimi, orientati soprattutto verso il
campo economico e sociale. Da una parte la sua formazione laica e illuminista lo
portava a diffidare della mistica romantica di Mazzini, dall'altra la profonda
avversione che nutriva per il dominio austriaco non gli impediva di considerare
con ostilità la prospettiva di un assorbimento del Lombardo-Veneto da parte di
un Piemonte assolutista e clericale.
La via da lui indicata per la soluzione del problema italiano non si discostava
nella sostanza da quella dei moderati, in quanto puntava sulle riforme politiche
e sullo sviluppo economico all'interno dei singoli Stati, con particolare
insistenza sui temi del liberismo doganale, delle vie di comunicazione e
dell'istruzione pubblica. Ma molto diverso era l'obiettivo finale, che
consisteva in una confederazione repubblicana, sul modello degli Stati Uniti o
della Svizzera, che lasciasse ampi spazi di autonomia a tutte le istanze della
vita locale e fosse la premessa per la costituzione degli Stati Uniti d'Europa.
Un altro esponente del federalismo repubblicano fu Giuseppe Ferrari.
Milanese, emigrato a Parigi alla fine degli anni '30, Ferrari criticò sia il
moderatismo cattolico dei neoguelfi sia il nazionalismo unitario dei mazziniani,
sostenendo la necessità di inserire la soluzione del caso italiano nel quadro di
una rivoluzione europea che avrebbe dovuto avere il suo centro in Francia.
Nell'esilio parigino Ferrari si accostò anche alle teorie socialiste
(soprattutto quelle di Proudhon) e fu tra i primi a collegare strettamente la
questione nazionale ai temi della questione sociale.
Pio IX e il movimento per le riforme
Le riforme di Pio IX
Tra il 1846 e il 1847 l'opinione pubblica italiana visse un periodo di
intensa mobilitazione e di febbrile attesa di grandi mutamenti.
L'evento decisivo fu l'elezione, nel giugno 1846, di papa Pio IX, l'arcivescovo
di Imola Giovanni Maria Mastai Ferretti (sul soglio pontificio fino al 1878).
Il nuovo papa era noto soprattutto come un pastore di anime, dalla religiosità
sincera e profonda. Aveva un tratto umano bonario che lo aveva reso popolare
nella sua diocesi, ma non sembrava avere una personalità politica molto
spiccata, né gli si riconoscevano simpatie liberali.
I primi atti del suo pontificato – in particolare la concessione di un'ampia
amnistia per i detenuti politici – suscitarono però un vero e proprio
entusiasmo. Liberali e moderati di tutta Italia credettero di aver trovato in
Pio IX il loro eroe, l'uomo capace di dar corpo al programma neoguelfo. Anche da
parte democratica vennero al nuovo papa aperture e riconoscimenti.
Le piazze delle principali città italiane si riempirono di manifestazioni
inneggianti al pontefice. Questo clima di entusiasmo finì per coinvolgere lo
stesso Pio IX e spingerlo a una serie di concessioni che probabilmente non
rientravano nei suoi programmi iniziali. Nella primavera-estate del '47, fu
convocata una Consulta di Stato, formata da rappresentanti delle province scelti
dall'autorità centrale, venne istituita una Guardia civica e fu attenuata la
censura sulla stampa.
Questi provvedimenti, tutt'altro che rivoluzionari, ebbero un effetto superiore
al loro valore reale, dando ulteriore stimolo alla mobilitazione per le riforme
e alla propaganda patriottica in tutti gli Stati italiani e nello stesso
Lombardo-Veneto.
Negli altri Stati italiani
Fra l'estate e l'autunno del '47, il movimento per le riforme dilagò in tutta
Italia, accompagnato da una mobilitazione popolare a sfondo sociale, legata alle
conseguenze della crisi economica europea che, in questo periodo, fece salire
anche in Italia i prezzi dei generi alimentari. Sovrani e governanti —
preoccupati dal rischio di una svolta democratica — furono indotti a prudenti
concessioni.
In ottobre, Carlo Alberto varò un nuovo ordinamento amministrativo, che rendeva
elettivi i consigli comunali e provinciali, e allentò i controlli sulla stampa.
In novembre, Piemonte, Toscana e Stato della Chiesa sottoscrissero gli accordi
preliminari per una Lega doganale italiana.
Estraneo al progetto di Lega — e a tutto il moto riformatore — rimase il Regno
delle Due Sicilie, che godeva dell'appoggio dell'Austria ma doveva fare i conti
con la crescente ostilità dell'opinione pubblica nazionale e internazionale.
Proprio nel Regno borbonico sarebbe iniziata l'ondata insurrezionale che avrebbe
coinvolto l'Italia intera, nel più ampio quadro delle rivoluzioni europee del
1848.
Il '48 italiano. La guerra contro l'Austria
L'inizio dalle sollevazioni
In Italia la rivoluzione del '48 ebbe, nella sua fase iniziale, uno sviluppo
autonomo rispetto agli altri paesi europei.
Già all'inizio dell'anno, tutti gli Stati italiani apparivano percorsi da un
generale fermento. Primo e fondamentale obiettivo comune a tutte le correnti
politiche era la concessione di costituzioni o statuti fondati sul sistema
rappresentativo.
Fu la sollevazione di Palermo del 12 gennaio 1848 (legata soprattutto alle
rivendicazioni autonomistiche dei siciliani) a determinare il primo successo in
questa direzione, inducendo Ferdinando II di Borbone — il più retrogrado di
tutti i regnanti della penisola — ad annunciare la concessione di una
Costituzione nel Regno delle Due Sicilie.
La mossa inattesa di Ferdinando II non bastò a spegnere l'autonomismo siciliano
ed ebbe inoltre l'effetto di rafforzare la mobilitazione per le costituzioni in
tutta Italia.
Le costituzioni
Spinti dalla pressione dell'opinione pubblica e dalle continue dimostrazioni
di piazza, prima Carlo Alberto di Savoia, poi Leopoldo II di Toscana, infine lo
stesso Pio IX decisero di concedere la Costituzione.
Annunciate — salvo quella di Pio IX — prima dello scoppio della rivoluzione di
febbraio in Francia, le costituzioni del '48 avevano tutte un carattere moderato
ed erano ispirate al modello di quella francese del 1830.
La più importante di tutte, lo Statuto albertino, promulgato da Carlo Alberto il
4 marzo 1848, sarebbe poi diventato la legge fondamentale del Regno d'Italia,
rimasta in vigore per un secolo fino alla costituzione repubblicana del 1°
gennaio 1948. Prevedeva una Camera dei deputati — le cui modalità di elezione,
definite da apposita legge, legavano il diritto di voto a un censo piuttosto
elevato —, un Senato nominato dal re e una stretta dipendenza del governo dal
sovrano.
Una soluzione costituzionale-moderata si andava dunque delineando nei maggiori
Stati italiani, quando lo scoppio della rivoluzione in Francia e nell'Impero
asburgico giunse a mutare i termini del problema, dando nuovo spazio
all'iniziativa dei democratici e riportando in primo piano la questione
nazionale, fin allora rimasta in ombra.
Le rivolte di Venezia e Milano
Nei giorni immediatamente successivi alla rivolta di Vienna, si sollevarono
anche Venezia e Milano.
A Venezia, il 17 marzo, una grande manifestazione popolare aveva imposto al
governatore austriaco la liberazione dei detenuti politici, fra cui era il capo
dei democratici, l'avvocato Daniele Manin. Pochi giorni dopo, una rivolta degli
operai dell'Arsenale militare cui si unirono numerosi marinai e ufficiali (la
marina asburgica era composta in larga parte da veneti) costringeva i reparti
austriaci a capitolare. Il 23 marzo un governo provvisorio presieduto da Manin
proclamava la Costituzione della Repubblica veneta.
A Milano l'insurrezione iniziò il 18 marzo, con un assalto al palazzo del
governo, e si protrasse per cinque giorni, le celebri «cinque giornate»
milanesi. Borghesi e popolani combatterono, fianco a fianco, sulle barricate
contro i soldati austriaci del maresciallo Joseph Radetzky. Ma furono
soprattutto gli operai e gli artigiani a sostenere il peso degli scontri, che
costarono agli insorti circa 400 vittime. La direzione delle operazioni fu
assunta da un consiglio di guerra composto prevalentemente da democratici e
guidato da Carlo Cattaneo. Anche gli esponenti dell'aristocrazia liberale
finirono, dopo molte esitazioni, per appoggiare la causa degli insorti e
formarono, il 22 marzo, un governo provvisorio.
Il giorno stesso Radetzky, preoccupato per l'eventualità di un intervento del
Piemonte, decise di ritirare le sue truppe all'interno del cosiddetto
quadrilatero, l'area definita dal perimetro delle fortezze di Verona, Legnago,
Mantova e Peschiera.
La prima guerra d'indipendenza
Il 23 marzo, all'indomani della cacciata degli austriaci da Venezia e da
Milano, il Piemonte dichiarava guerra all'Austria.
Diverse furono le ragioni che spinsero Carlo Alberto a questa decisione: la
pressione congiunta dei liberali e dei democratici, che vedevano nella crisi
dell'Impero asburgico l'occasione per liberare l'Italia dagli austriaci; la
tradizionale aspirazione della monarchia dei Savoia ad ampliare verso est i
confini del Regno; infine il timore che il Lombardo-Veneto diventasse un centro
di propaganda repubblicana.
Anche in questo caso, com'era avvenuto per la concessione degli statuti,
l'esempio di un sovrano finì col condizionare le decisioni degli altri.
Preoccupati dal diffondersi dell'agitazione democratica e patriottica che
minacciava la stabilità dei loro troni, Ferdinando II di Napoli, Leopoldo II di
Toscana e Pio IX decisero di unirsi alla guerra antiaustriaca e inviarono truppe
regolari che partirono, in un'atmosfera di grande entusiasmo popolare,
affiancate da numerosi contingenti di volontari.
La guerra piemontese si trasformava così nella prima guerra di indipendenza
nazionale, benedetta dal papa e combattuta da tutte le forze patriottiche.
La crisi dell'alleanza e la sconfitta
Ma l'illusione durò poco. Carlo Alberto mostrò scarsa risolutezza nel
condurre le operazioni militari e si preoccupò soprattutto di preparare
l'annessione del Lombardo-Veneto al Piemonte, suscitando l'irritazione dei
democratici e la diffidenza degli altri sovrani, già poco entusiasti della
partecipazione al conflitto.
Particolarmente imbarazzante era la posizione di Pio IX, che si trovava in
guerra contro una grande potenza cattolica.
Il 29 aprile il papa annunciò il ritiro delle sue truppe. Pochi giorni dopo lo
imitava il granduca di Toscana. A metà maggio Ferdinando di Borbone richiamò il
suo esercito. Rimasero a combattere contro l'Austria, disobbedendo agli ordini
dei sovrani, molti fra i componenti dei corpi di spedizione regolari. Rimasero i
volontari toscani, guidati da Giuseppe Montanelli, che furono protagonisti, in
maggio, di un glorioso scontro a Curtatone e Montanara.
Accorse dal Sud America Giuseppe Garibaldi, che si mise a disposizione del
governo provvisorio lombardo.
Ma il contributo dei volontari fu poco e male utilizzato da Carlo Alberto,
deciso a combattere la «sua guerra» e a non lasciare spazio all'azione dei
democratici. Dopo alcuni modesti successi iniziali dei piemontesi, l'iniziativa
tornò nelle mani dell'esercito asburgico.
Il 23-25 luglio, nella prima grande battaglia campale che si combatté a Custoza,
presso Verona, le truppe di Carlo Alberto furono nettamente sconfitte e si
ritirarono oltre il Ticino. Il 9 agosto fu firmato l'armistizio con gli
austriaci.
La sconfitta dei democratici
Gli obiettivi dei democratici
Dopo la sconfitta del Piemonte, a combattere contro gli austriaci restavano
solo i democratici italiani e ungheresi.
Mentre in Ungheria lo scontro assunse il carattere di una vera e propria guerra
nazionale, in Italia i patrioti democratici dovettero combattere una serie di
battaglie locali – a Roma e a Venezia, in Toscana e in Sicilia – geograficamente
divisi e senza poter dare alla loro lotta una dimensione autenticamente
popolare.
L'ideale di una guerra di popolo che unisse la prospettiva della liberazione
nazionale a quella dell'emancipazione politica e sociale contrastava con la
ristrettezza della loro base sociale formata dalla piccola e media borghesia
urbana, soprattutto quella intellettuale, e dai ceti artigiani delle città. Le
masse contadine, ossia la stragrande maggioranza della popolazione italiana,
rimasero invece estranee, e spesso apertamente ostili alle loro battaglie.
La fase democratica della rivoluzione italiana
Tuttavia, nell'autunno del '48, la situazione in Italia rimaneva incerta.
La Sicilia era sotto il controllo dei separatisti, che si erano dati un proprio
governo e una propria costituzione democratica.
A Venezia, in mano degli insorti
anche dopo la sconfitta di Custoza, Manin aveva nuovamente proclamato la
Repubblica.
In Toscana, alla fine di ottobre, il granduca fu costretto dalla
pressione popolare a formare un ministero democratico, capeggiato da Giuseppe
Montanelli e da Francesco Domenico Guerrazzi, leader dei repubblicani livornesi.
A Roma, in novembre, l'uccisione in un attentato del primo ministro pontificio,
il liberale moderato Pellegrino Rossi, aveva indotto il papa ad abbandonare la
città e a rifugiarsi a Gaeta sotto la protezione dei Borbone. Nella capitale,
rimasta senza governo, presero il sopravvento i gruppi democratici. Nel gennaio
del 1849, in tutti i territori dell'ex Stato della Chiesa, si tennero le
elezioni a suffragio universale per l'Assemblea costituente. Fra gli eletti, in
maggioranza democratici, c'erano anche Mazzini e Garibaldi. A febbraio
l'Assemblea proclamò la decadenza del potere temporale dei papi e annunciò che
lo Stato avrebbe assunto «il nome glorioso di Repubblica romana», avrebbe
adottato come forma di governo «la democrazia pura» e avrebbe stabilito col
resto d'Italia «le relazioni che esige la nazionalità comune», in vista
dell'unità nazionale, da realizzare su basi democratiche e non dinastiche.
Gli sviluppi della situazione nello Stato della Chiesa ebbero immediate
ripercussioni in Toscana.
A febbraio il granduca Leopoldo II abbandonò il paese e venne convocata
un'Assemblea costituente: i poteri, intanto, passarono a un triumvirato composto
da Montanelli, Guerrazzi e Mazzini.
La sconfitta di Novara e la restaurazione dell'ordine
Anche in Piemonte i democratici ripresero l'iniziativa.
Il 20 marzo 1849 Carlo Alberto, schiacciato tra la pressione di questi ultimi e
l'intransigenza degli austriaci che ponevano condizioni molto pesanti per la
firma della pace, decise di entrare di nuovo in guerra. Ma le truppe di Radetzky,
penetrate in territorio piemontese, affrontarono l'esercito sabaudo il 22-23
marzo nei pressi di Novara e gli inflissero una gravissima sconfitta.
La stessa sera del 23 marzo, Carlo Alberto, per non mettere in pericolo le sorti
della dinastia, abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Il giorno
dopo, il nuovo re firmò un nuovo armistizio con gli austriaci.
Una rivolta democratica scoppiata a Genova fu duramente repressa dall'esercito.
Sconfitto il Regno sabaudo, gli austriaci potevano ora procedere alla
restaurazione dell'ordine in tutta la penisola.
Alla fine di marzo, un'insurrezione a Brescia fu schiacciata dopo durissimi
combattimenti, le «dieci giornate» di Brescia. In aprile, le truppe imperiali
strinsero d'assedio Venezia, che avrebbe resistito eroicamente per quasi cinque
mesi e si sarebbe arresa per fame solo alla fine di agosto. In maggio, mentre
Ferdinando di Borbone riusciva finalmente a riconquistare la Sicilia, gli
austriaci occuparono il territorio delle Legazioni pontificie e
contemporaneamente posero fine all'esperienza della Repubblica toscana.
La resistenza della Repubblica romana
Più lunga e gloriosa fu la resistenza della Repubblica romana, dove erano
affluiti esuli e patrioti da tutta Italia: da Mazzini e Garibaldi al romagnolo
Aurelio Saffi, al genovese Mameli (che scrisse l'inno Fratelli d'Italia), al
napoletano Pisacane, ai milanesi Cernuschi e Manara, eroi delle «cinque gíornate».
Fin dai suoi primi atti, il governo repubblicano romano, sotto la guida di
Mazzini, si qualificò per l'energia con cui cercò di portare avanti l'opera di
laicizzazione dello Stato e di rinnovamento politico e sociale.
Furono aboliti i tribunali ecclesiastici e venne decretata la confisca dei beni
del clero.
Fu varato – caso unico nella storia delle rivoluzioni italiane dell'800 – un
progetto di riforma agraria che prevedeva la concessione in affitto perpetuo
alle famiglie più povere di parte delle terre confiscate al clero.
Frattanto però, dal suo esilio di Gaeta, Pio IX si era rivolto alle potenze
cattoliche per essere ristabilito nei suoi territori. A questo appello avevano
risposto non solo l'Austria, la Spagna e il Regno di Napoli, ma anche la
Repubblica francese, ormai dominata dalle forze cattoliche e conservatrici.
La fine degli esperimenti democratici
Il presidente Bonaparte si riservò il ruolo principale nella restaurazione
pontificia, inviando nel Lazio un corpo di spedizione che all'inizio di giugno
attaccò la capitale.
I repubblicani – che avevano affidato i pieni poteri a un triumvirato composto
da Mazzini, Saffi e dal romano Carlo Armellini – organizzarono una difesa
efficace ma destinata inevitabilmente a soccombere.
Il 4 luglio, subito prima della capitolazione, fu promulgata la Costituzione
della Repubblica romana che, sebbene rimasta come pura enunciazione, divenne il
documento-simbolo degli ideali democratici e un modello alternativo rispetto
alle costituzioni liberali e moderate.
Mentre i francesi entravano a Roma, Garibaldi lasciò la città con qualche
centinaio di volontari, nel tentativo di raggiungere Venezia. Ma il 26 agosto
gli austriaci, dopo aver soffocato la rivolta in Ungheria riuscirono a spegnere
anche la resistenza della città veneta.
Si concludeva così, con la duplice sconfitta sia dell'ipotesi liberali e
moderata, sia di quella democratica, la stagione rivoluzionaria del 1848-49.
Il patriottismo risorgimentale
Chi erano i patrioti
Le insurrezioni, le lotte rivoluzionarie e la guerra contro l'Austria avevano
visto all'opera, accanto agli eserciti regolari, un numero sempre maggiore di
patrioti disposti a mettere in gioco la propria vita nella lotta per
l'indipendenza dallo straniero e insieme per la nascita di nuovi organismi
politici.
Per gran parte giovani o nella prima età matura si erano formati, i più anziani,
nelle organizzazioni segrete, eredi del giacobinismo, salvo trovare motivi di
aggregazione comune nelle nuove ideologie politiche sia sul fronte moderato
neoguelfo o liberale, sia, soprattutto i più giovani, nell'adesione al
mazzinianesimo.
Queste adesioni e queste militanze erano sostenute da un discorso patriottico
nazionale che si era venuto costruendo non solo sul terreno ideologico e
politico, ma anche avvalendosi, e talora prevalentemente, di elementi letterari,
musicali e delle arti figurative.
Le memorie di Silvio Pellico, I sepolcri di Foscolo, le poesie di
Giovanni Berchet, le opere musicali o singoli brani di Giuseppe Verdi, alcuni
quadri di Francesco Hayez costituivano un repertorio collettivo di parole, suoni
e immagini in grado di diffondere il messaggio nazionale.
In particolare il melodramma, ascoltato e riproposto in chiave patriottica,
forniva un terreno comune ad ampi strati sociali, dalla nobiltà ai ceti popolari
urbani, come principale mezzo di comunicazione, veicolo degli ideali
risorgimentali e di formazione politica e civile.
La nascita di una tradizione
Privo di riferimenti consolidati a un comune passato nazionale, se non a
quello "inventato" della continuità con l'antica Roma o con l'Italia dei comuni,
il patriottismo italiano riprendeva singoli episodi di rivalsa contro lo
straniero dove si era manifestato vincente l'orgoglio ferito degli italiani: la
battaglia di Legnano (tra i comuni italiani e l'imperatore Federico Barbarossa,
1176), i Vespri siciliani (la rivolta scoppiata a Palermo contro gli Angiò che
determinò la cacciata dei francesi dall'isola, 1282), la disfida di Barletta (il
duello tra cavalieri italiani e francesi in terra di Puglia, 1503).
Si veniva costruendo nel suo farsi, proprio lungo il filo degli avvenimenti, una
tradizione patriottica con i suoi martiri da celebrare — i fratelli Bandiera, i
volontari di Curtatone e Montanara, i caduti nella difesa della Repubblica
romana — e da portare come esempio.
Una tradizione che esaltava gli elementi di fratellanza e di valore guerresco —
come nelle esplicite strofe dell'inno Fratelli d'Italia di Goffredo
Mameli (1827-1849) — per rovesciare l'immagine diffusa in Europa, lo stereotipo
degli italiani «che non sanno battersi».
Una tradizione che aveva dei riferimenti obbligati in alcune figure
carismatiche: Mazzini e in seguito soprattutto Garibaldi.
IL PROCESSO DI UNIFICAZIONE
Preliminari
L'Italia unita e l'Europa
Dopo le sconfitte del 1848-49 l'Italia rimaneva divisa in sei Stati: il Regno
di Sardegna, il Ducato di Parma e Piacenza, quello di Modena, lo Stato
pontificio, il Granducato di Toscana, il Regno delle Due Sicilie.
Inoltre Lombardia e Veneto fino a Trieste erano sotto il diretto dominio
dell'Austria, principale ostacolo all'unificazione e all'indipendenza
dell'Italia.
Nel giro di un ventennio questo assetto risultò profondamente modificato.
Nel 1861, dopo la seconda guerra d'indipendenza e la spedizione dei Mille di
Garibaldi, il nuovo Parlamento poteva proclamare l'unità d'Italia sotto la
monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II.
Dopo la conquista del Veneto del 1866, nel 1870 la presa di Roma suggellava il
processo di unificazione nazionale.
L'unità d'Italia modificava profondamente il quadro europeo inserendo un nuovo
organismo statale in un assetto politico-geografico consolidato da secoli. Salvo
il breve periodo della dominazione napoleonica — che aveva contribuito a far
germogliare le ipotesi unitarie —, l'Italia era rimasta divisa dai tempi della
caduta dell'Impero romano. Anche se il ceto colto aveva continuato a immaginare
un'unità culturale, linguistica e geografica dell'Italia, dalle Alpi alla
Sicilia, e tutto il movimento nazionale — e in particolare quello democratico
guidato da Mazzini — aveva raccolto e rafforzato questa visione dando corpo a
una risorta identità italiana.
La presenza del nuovo Stato alterava gli equilibri tra le potenze e nei sistemi
di alleanze presenti sulla scena europea e insieme suscitava, grazie alla
sconfitta dell'Austria, nuove aspettative tra i movimenti nazionali dell'Impero
asburgico, già attivi nel rivendicare la propria autonomia.
L'Italia nel 1861
I fattori dell'unificazione
Molti fattori avevano concorso a realizzare lo straordinario
successo politico dell'unificazione:
- una dinastia come quella sabauda, orientata da secoli a un'espansione dei
propri territori verso la Pianura padana da conseguire per via diplomatica e
militare;
- un ceto politico liberale sostenuto nei suoi progetti da un sistema
istituzionale rappresentativo sancito, in Piemonte, dallo Statuto del 1848;
- la presenza di un abile e determinato leader politico come il conte di
Cavour, in grado di guidare un processo di riforme economiche e politiche che
trasformarono il Piemonte in una piccola potenza regionale;
- la sistematica sconfitta delle iniziative mazziniane e lo spostamento di
larga parte del movimento nazionale al fianco del Regno di Sardegna;
- l'alleanza con la Francia cercata e trovata da Cavour facendo leva sulle
ambizioni egemoniche sull'Italia di Napoleone III;
- le vittorie sull'Austria del 1859 durante la seconda guerra d'indipendenza e
le sollevazioni in Emilia-Romagna e in Toscana, seguite dalle rapide annessioni
al Piemonte;
- infine i successi di Garibaldi in Sicilia e nel Meridione.
L'abilità e determinazione di Cavour, il rilancio dell'iniziativa democratica e
l'audacia unita al carisma di Garibaldi fecero sì che questi fattori si
disponessero in una sequenza tutta positiva ottenendo, tra il '59 e il '60, un
risultato inizialmente impensabile e insperato. Tanto più insperato date le
difficoltà di conciliare l'iniziativa politica e militare dall'alto del Regno di
Sardegna con l'iniziativa dal basso dei democratici e dei garibaldini.
Decisiva era stata nel 1859 l'alleanza con la Francia nella guerra contro
l'Austria, come decisiva fu quella con la Prussia nel 1866. Ed egualmente
determinante fu la vittoria della Prussia sulla Francia nel 1870 che diede via
libera alla conquista di Roma.
L'unificazione italiana non è separabile quindi dal contributo che le due grandi
potenze europee diedero al movimento nazionale a conferma della capacità di
Cavour e dei suoi successori di cogliere tutte le opportunità che la situazione
europea era in grado di offrire.
I risultati dell'unificazione
Con l'unità prendeva avvio un processo di modernizzazione
complessiva del paese legato strettamente alle istituzioni rappresentative e
alla connotazione laica e liberale del nuovo Stato.
Aveva anche inizio la graduale formazione di un mercato nazionale, premessa
indispensabile dello sviluppo economico, mentre cospicui investimenti venivano
compiuti – col sostegno di un duro prelievo fiscale – nelle grandi
infrastrutture (ferrovie e strade) e nell'alfabetizzazione dei cittadini.
L'unificazione italiana e la quasi coeva unificazione tedesca (1871)
rappresentarono la maggiore novità politica europea della seconda metà dell'800.
Consapevole del suo nuovo ruolo, l'Italia, dopo una prima fase di prudente
realismo, avrebbe cercato di trovare una sua collocazione tra le potenze
ponendosi obiettivi spesso superiori alle sue forze e con risultati inferiori
alle sue ambizioni, come si sarebbe visto nella politica di espansione coloniale
di fine secolo.
Il ritardo italiano e il divario tra Nord e Sud
Al momento dell'unificazione, l'Italia nel suo insieme appariva,
nel confronto con l'Europa più sviluppata, un paese arretrato dal punto di vista
economico e civile: questa distanza era anche il frutto di secoli di sudditanza
straniera e della presenza dello Stato della Chiesa che sanciva la divisione
della penisola.
Una presenza tutelata dalle potenze cattoliche e dal ruolo cosmopolita di Roma
capitale religiosa del cattolicesimo e sede dei pontefici.
Questo ritardo e questa diversità sembravano riscattarsi nella contemplazione di
un passato glorioso e nelle tante testimonianze di questo passato disseminate
nelle città e nel paesaggio italiano. Proprio questa dimensione costituiva
l'immagine prediletta dagli stranieri che accorrevano in Italia nei loro viaggi
di formazione artistica e culturale, di scoperta dell'antico e del bello, ma
anche del caratteristico e del diverso, e che ora si mostravano delusi di fronte
alla inedita modernità italiana.
Ben più significativa era la spaccatura che l'unificazione aveva creato in larga
parte del paese tra i settori politicamente e culturalmente più avanzati e i
difensori della tradizione e degli antichi sistemi di potere. Tra questi
primeggiavano le gerarchie ecclesiastiche e i cattolici fedeli al pontefice cui
era stato fatto divieto di partecipare alle elezioni politiche con la formula
del non expedit ('non giova') che Pio IX pronunciò nel 1874.
Consapevole dell'incompiutezza dell'unificazione e del ritardo italiano, la
classe politica avviò la costruzione del nuovo Stato seguendo i principi di una
forte centralizzazione amministrativa da applicare in maniera uniforme a tutto
il paese, soprattutto nel tentativo di colmare il divario Nord e Sud, che si
palesava non solo in termini di diverso sviluppo economico ma anche come
opposizione politica. Il brigantaggio meridionale e la guerriglia contadina
degli anni 1861-65, a sfondo sociale e filoborbonico, ne furono l'esempio più
evidente.
Il Risorgimento aveva visto come protagonisti del successo lo Stato più moderno
del paese – il Piemonte sabaudo – e un'élite politica, liberale e
democratica, certamente ristretta ma sufficientemente ampia, diffusa nei ceti
medi e negli strati popolari urbani, in grado di dare un contributo decisivo
politico e anche militare, come nel volontariato garibaldino, al raggiungimento
dell'unità e dell'indipendenza.
Da molti punti di vista l'unificazione rappresentava una soluzione troppo
avanzata per le condizioni civili, sociali ed economiche del paese. Si trattava
ora di coinvolgere la maggioranza degli italiani nei valori di libertà e di
modernità a cui si era ispirato il Risorgimento e di colmare le molte distanze e
diversità che erano presenti nel nuovo Stato nazionale: un'impresa difficile da
compiere in tempi brevi e che avrebbe lasciato, in parte fino ad oggi, molti
problemi irrisolti.
Il Piemonte liberale del conte di Cavour
Nel marzo 1861 fu proclamata a Torino l'unità d'Italia.
Questo risultato, imprevedibile dopo le sconfitte delle rivoluzioni del '48-49,
fu dovuto al successo dell'iniziativa diplomatica e militare del Piemonte
guidata dal conte di Cavour e alle vittorie sul Regno borbonico della spedizione
dei Mille comandata da Garibaldi.
Il governo d'Azeglio e le leggi Siccardi
In Piemonte, dopo la sconfitta di Novara del '49, il re Vittorio
Emanuele II mantenne l'ordinamento costituzionale e il sistema parlamentare
definito dallo Statuto del 1848 mentre il governo liberale moderato, presieduto
da Massimo d'Azeglio, continuò lungo la linea di ammodernamento delle
istituzioni avviata negli ultimi anni di regno di Carlo Alberto.
Una decisione di grande rilievo fu quella di porre fine agli anacronistici
privilegi di cui il clero ancora godeva – tribunali riservati, diritto d'asilo
per le chiese e i conventi, censura sui libri –, adeguando la legislazione
ecclesiastica del Piemonte a quella degli altri Stati cattolici europei.
Nella battaglia parlamentare per l'approvazione di queste norme, note come
"leggi Siccardi" dal nome del ministro della Giustizia, emerse nelle file della
maggioranza liberai-moderata la figura di un nuovo e dinamico leader: il conte
Camillo Benso di Cavour, aristocratico e uomo d'affari, proprietario terriero e
giornalista, direttore di un combattivo organo di stampa dal titolo «Il
Risorgimento».
Cavaour politico e imprenditore
Liberalismo e intraprendenza borghese furono le due componenti
decisive nella formazione di Cavour.
Il suo era un liberalismo moderato dai tratti fortemente pragmatici, molto
lontano dai programmi della democrazia ottocentesca.
Cavour era infatti convinto che l'ampliamento della partecipazione politica
doveva essere attuato con gradualità nell'ambito di un sistema
monarchico-costituzionale promotore di riforme e trasformazioni: l'unico
antidoto, a suo giudizio, contro la rivoluzione e il disordine sociale.
Alla concreta esperienza di uomo d'affari e di imprenditore agricolo, Cavour
univa una buona conoscenza delle teorie economiche e vedeva nello sviluppo
produttivo la premessa indispensabile per il progresso civile e politico:
ammiratore del liberalismo britannico, nutriva quella fiducia pressoché
illimitata nella libertà economica che era tipica della moderna cultura
borghese.
Il «connubio» e il sistema parlamentare
Cavour entrò a far parte del governo d'Azeglio nel 1850, come ministro per
l'Agricoltura e il Commercio. Due anni dopo fu incaricato di formare un nuovo
governo (novembre 1852).
Prima ancora di diventare presidente del Consiglio dei ministri, Cavour si era
reso protagonista di un rovesciamento degli equilibri politici, promuovendo un
accordo fra l'ala più progressista della maggioranza moderata, il cosiddetto
«centro-destra», di cui egli stesso era il leader, e la componente più moderata
della sinistra democratica, il «centro-sinistra» capeggiato da Urbano Rattazzi.
Dal «connubio» (come fu allora definito), nacque una nuova maggioranza di
centro, che emarginava sia i clericali-conservatori sia i democratici più
radicali.
In questo modo Cavour poté ampliare la base parlamentare del suo governo e
spostarne l'asse verso sinistra: il che gli consenti non solo di far propria la
politica patriottica e antiaustriaca sostenuta fin allora dai democratici, ma
anche di rendere più incisiva la sua azione riformatrice in campo politico ed
economico.
Negli stessi anni si affermò in Piemonte un sistema di governo di tipo
parlamentare (analogo a quello britannico), che modificava nella prassi lo
Statuto albertino facendo dipendere il governo non più esclusivamente dalla
fiducia accordatagli dal sovrano, ma anche e soprattutto dal sostegno di una
maggioranza in Parlamento.
I successi della politica economica
Cavour si adoperò per sviluppare l'economia del suo paese e per integrarla
nel più ampio contesto europeo. Premessa essenziale fu l'adozione di una
politica decisamente liberoscambista: furono stipulati trattati commerciali con
Francia, Belgio, Austria e Gran Bretagna e, fra il '51 e il '54, venne
gradualmente abolito il dazio sul grano. Notevoli progressi si registrarono
anche nel campo delle opere pubbliche: furono costruiti strade e canali ma
soprattutto venne sviluppato il sistema dei trasporti ferroviari, favorendo
l'espansione del commercio e dell'industria meccanica.
Alla vigilia dell'unità, dopo dodici anni di regime liberale, il Piemonte poteva
vantare un'agricoltura in fase di espansione e di modernizzazione, tanto da
reggere il confronto con quella della Lombardia; un'industria che poneva il
Piemonte all'avanguardia degli Stati italiani; un sistema creditizio potenziato
intorno a una banca centrale, la Banca nazionale; una rete di trasporti
efficiente e collegata con l'Europa tramite l'avvio della costruzione del
traforo del Fréjus; un volume di scambi commerciali con l'estero che, rapportato
alla popolazione, era quasi il doppio di quello medio del resto d'Italia.
Con il progresso economico e politico il Piemonte divenne inevitabilmente il
polo di attrazione di moltissimi esuli politici e di intellettuali dal resto
d'Italia. Gli emigrati parteciparono alla vita politica del regno, inserendosi
nella classe dirigente piemontese che diventava così sempre più rappresentativa
dell'intero paese.
La sconfitta dei repubblicani
I mazziniani e il Partito d'azione
L'attività cospirativa dei mazziniani, guidati dal loro leader in esilio a
Londra, prosegui nonostante le sconfitte del '48-49. Ma la repressione austriaca
ebbe la meglio come nel drammatico caso delle nove impiccagioni avvenute nella
fortezza di Belfiore, presso Mantova, fra la fine del '52 e l'inizio del '53.
Allora Mazzini, sempre convinto che l'unità d'Italia dovesse ottenersi
attraverso l'insurrezione di popolo, ritenne opportuno correggere la sua
strategia rafforzando gli aspetti organizzativi e fondando nel 1853, a Ginevra,
una nuova formazione politica cui diede il nome di Partito d'azione, quasi a
sottolinearne il carattere di puro strumento di battaglia. Nel contempo
intensificò i suoi sforzi per crearsi una base fra gli artigiani e gli operai
delle città del Nord: molte fra le società operaie di mutuo soccorso nate in
questo periodo, soprattutto in Piemonte e in Liguria grazie alla libertà di
associazione garantita dallo Statuto, furono infatti controllate dai mazziniani.
L' ipotesi socialista
Nel frattempo tra i democratici si diffondeva il dissenso sulla fallimentare
strategia mazziniana: vi era chi riteneva ormai necessario evitare un
atteggiamento intransigente e puntare su una più ampia collaborazione con tutte
le forze interessate al conseguimento dell'unità e chi pensava che si dovesse
mirare invece a un programma socialista aperto ai problemi sociali e alle
esigenze delle classi subalterne.
Nel 1851 due libri — La Federazione repubblicana del milanese Giuseppe
Ferrari e La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 del
napoletano Carlo Pisacane – introdussero il tema del socialismo nel dibattito
interno al movimento risorgimentale. Sostenevano entrambi che la lotta per
l'indipendenza nazionale avrebbe potuto aver successo solo se avesse saputo
legare a sé le classi popolari, identificandosi con la loro lotta per
l'emancipazione economica e sociale. In particolare Pisacane pensava che
l'Italia meridionale offrisse, per le sue caratteristiche di paese arretrato con
una borghesia ancora debole, il terreno più adatto per la rivoluzione. Si
trattava in realtà di una visione utopistica e velleitaria, come si vide quando
cercò di mettere in atto il suo progetto insurrezionale.
Il fallimento della spedizione di Sapri e la Società nazionale
Nel giugno del 1857 Pisacane si imbarcò a Genova con alcuni compagni su un
piroscafo di linea, se ne impadronì e con esso fece rotta verso l'isola di
Ponza, sede di un penitenziario borbonico. Accresciuta da circa 300 detenuti
liberati dal carcere, la spedizione si diresse verso le coste meridionali della
Campania e sbarcò a Sapri, iniziando la marcia verso l'interno. Ma qui i
rivoluzionari furono rapidamente sbaragliati dalle truppe borboniche subendo
anche la violenza dei contadini che li trattarono come briganti. Pisacane,
ferito, si uccise per non cadere prigioniero.
Il fallimento della spedizione di Sapri coincise con la nascita di un movimento
indipendentista filopiemontese promosso da Daniele Manin – il capo del governo
repubblicano di Venezia nel '48-49 – che puntava all'unione di tutte le
correnti, moderate e democratiche, intorno all'unica forza in grado di
raggiungere l'obiettivo dell'unità: la monarchia di Vittorio Emanuele II. Alla
proposta di Manin, oltre a numerosi esponenti democratici emigrati in Piemonte
aderì anche Giuseppe Garibaldi, rientrato in Italia nel '55 dal Sud America.
Nel luglio 1857 il movimento si diede una struttura organizzativa e assunse il
nome di Società nazionale. L'associazione dichiarava nel suo manifesto
costitutivo di anteporre la causa dell'unità ad ogni altro obiettivo e di
ritenere indispensabile il «concorso governativo piemontese»: di appoggiare
quindi la monarchia sabauda per l'affermazione della causa italiana.
L'alleanza con la Francia e la seconda guerra di indipendenza
La politica estera di Cavour
Inizialmente la politica estera di Cavour rimase legata agli obiettivi
tradizionali della monarchia sabauda: ampliare i confini del Piemonte verso
l'Italia settentrionale, a scapito dei domini austriaci. Cavour, però, persegui
questa strategia con insolita abilità e spregiudicatezza ottenendo risultati
imprevedibili, al di là delle sue originarie intenzioni.
Sfruttando al massimo le ambizioni politiche di Napoleone III, riuscì a
trascinare la Francia in una guerra contro l'Austria a tutto vantaggio per il
Piemonte.
Questo esito fu ottenuto attraverso alcuni passaggi decisivi. Il primo fu quello
di inviare un contingente militare in Crimea al fianco della Gran Bretagna e
della Francia impegnate a difendere l'Impero ottomano dall'espansionismo russo,
che rischiava di alterare l'equilibrio tra le potenze e minacciava gli interessi
inglesi e francesi in quella zona.
In questo modo il Piemonte poté partecipare come Stato vincitore al congresso di
Parigi del 1856. In quella sede Cavour sollevò la questione italiana,
protestando contro la presenza militare austriaca nelle Legazioni pontificie e
denunciando il malgoverno dello Stato della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie
come causa di tensioni rivoluzionarie e, dunque, come minaccia alla pace.
A questo punto Cavour poté puntare sulle ambizioni egemoniche di Napoleone III,
desideroso di riprendere la politica italiana del primo Napoleone, e anche sulla
paura suscitata in lui dalle agitazioni mazziniane. Questi timori sarebbero
stati confermati, infatti, nel gennaio del 1858 dal fallito attentato contro di
lui compiuto dal repubblicano romagnolo, Felice Orsini, reduce dalla difesa di
Roma.
A quel punto Napoleone III era già convinto della necessità di una iniziativa
francese in Italia per soppiantare l'egemonia austriaca, eliminando al tempo
stesso un pericoloso nucleo di tensione rivoluzionaria.
L'alleanza con la Francia
La strada era ormai aperta per la conclusione di un'alleanza
franco-piemontese, che fu definita in un incontro segreto fra l'imperatore e
Cavour svoltosi nel luglio 1858 nella cittadina termale di Plombières.
Gli accordi ipotizzavano una nuova sistemazione dell'intera Penisola italiana,
che avrebbe dovuto essere divisa in tre Stati: un regno dell'Alta Italia
comprendente, oltre al Piemonte, il Lombardo-Veneto e l'Emilia-Romagna, sotto la
monarchia sabauda, che in cambio avrebbe ceduto alla Francia i territori di
Nizza e della Savoia; un regno dell'Italia centrale formato dalla Toscana e
dalle province pontificie; un regno meridionale liberato dalla dinastia
borbonica.
Al papa, che avrebbe conservato la sovranità su Roma e dintorni, sarebbe stata
offerta la presidenza della futura Confederazione italiana.
I guadagni territoriali erano prevalentemente a vantaggio del Piemonte in cambio
di un'ipotetica egemonia esercitata dalla Francia sulla nuova sistemazione
italiana.
Ma per raggiungere questi obiettivi era indispensabile la guerra contro
l'Austria. Anzi, era necessario che la guerra apparisse provocata dall'Impero
asburgico perché l'alleanza con la Francia potesse diventare operativa.
La guerra del 1859
Il governo piemontese fece il possibile per far salire la tensione con lo
Stato vicino: particolare effetto suscitarono le manovre militari al confine e
l'armamento di corpi volontari, i Cacciatori delle Alpi, comandati da Garibaldi.
E il governo asburgico finì col cadere nella provocazione inviando, nell'aprile
1859, un duro ultimatum al Piemonte, respinto da Cavour.
Scoppiata la guerra (la seconda guerra d'indipendenza), le truppe
franco-piemontesi sconfissero gli austriaci a Magenta, aprendosi la via per
Milano. Un successivo contrattacco austriaco fu respinto, il 24 giugno, nelle
due contemporanee, sanguinose battaglie di Solferino e San Martino, dove le
vittime francesi furono il doppio di quelle italiane.
A questo punto, nonostante la vittoria, Napoleone III, impressionato dai costi
umani della guerra, timoroso delle reazioni ostili dell'opinione pubblica
francese e del possibile intervento della Confederazione germanica, offrì un
armistizio agli austriaci che fu accettato e firmato a Villafranca, presso
Verona, l'11 luglio.
Con questo accordo l'Impero asburgico rinunciava alla Lombardia e la cedeva alla
Francia che l'avrebbe poi «girata» al Piemonte, mantenendo il Veneto e le
fortezze di Mantova e Peschiera.
Per il resto d'Italia, il trattato prevedeva il ripristino della situazione
precedente lo scoppio della guerra: tra aprile e giugno, infatti, una serie di
insurrezioni nelle regioni centro-settentrionali della penisola – a Modena, a
Bologna, in Romagna e Toscana – aveva costretto alla fuga i vecchi sovrani.
La notizia dell'armistizio suscitò lo sdegno dei democratici italiani e colse di
sorpresa lo stesso Cavour, che rassegnò subito le dimissioni.
La campagna del 1859
Le annessioni dell'Italia centro-settentrionale
A differenza di quanto era accaduto nel '48, i moti della prima vera del '59
furono saldamente controllati dai moderati e dagli uomini della Società
nazionale, e i governi provvisori che subito si costituirono si pronunciarono
per l'annessione al Piemonte.
Di fronte a questa situazione, dopo alcuni mesi Napoleone III decise di
accettare il fatto compiuto capendo che la nuova situazione nell'Italia
centro-settentrionale vanificava il progetto definito a Plombières.
Cavour, tornato a capo del governo nel gennaio 1860, poté così negoziare la
cessione alla Francia di Nizza e della Savoia – cui il Piemonte non era più
tenuto dopo Villafranca – in cambio dell'assenso francese alle annessioni del
Granducato di Toscana, dei Ducati di Modena e di Parma, delle Legazioni
pontificie. Nel marzo dello stesso anno, le popolazioni di Emilia, Romagna e
Toscana, chiamate a scegliere, nella forma del plebiscito, fra l'annessione al
Piemonte e la creazione di regni separati, si pronunciarono a schiacciante
maggioranza per la soluzione unitaria.
I Mille e la conquista dei Mezzogiorno
L'organizzazione della spedizione in Sicilia
Con la cessione alla Francia dei suoi territori d'oltralpe – in particolare
della Savoia, terra di origine della casa regnante, ma abitata da popolazioni di
lingua francese – e dopo le annessioni della Lombardia, dell'Emilia-Romagna e
della Toscana, lo Stato sabaudo aveva posto le premesse di uno Stato nazionale
italiano. Questi risultati sollecitarono i democratici a rilanciare l'iniziativa
rivoluzionaria nel Mezzogiorno e nello Stato della Chiesa.
Esclusa l'opportunità di un'azione nei confronti di Roma, protetta da truppe
francesi, si ripropose l'idea di una spedizione di volontari nel Regno delle Due
Sicilie dove, nel maggio del '59, era salito al trono il giovane Francesco II.
Furono due mazziniani siciliani esuli in Piemonte, Francesco Crispi e Rosolino
Pilo, a concepire il progetto di una spedizione in Sicilia come prima tappa di
un movimento insurrezionale che avrebbe dovuto estendersi al continente. I due
cercarono da una parte di organizzare una rivolta locale prima dello sbarco dei
volontari, dall'altra di assicurarsi un'efficiente guida politica e militare e
di garantirsi nel contempo un qualche appoggio del governo piemontese.
Ai primi di aprile del 1860, un'insurrezione popolare scoppiava a Palermo.
Mentre Pilo accorreva in Sicilia per assumere la direzione del moto, che fu
sanguinosamente represso nel capoluogo ma si estese alle campagne dando luogo a
una diffusa guerriglia contadina, Crispi riuscì a convincere un esitante
Garibaldi ad assumere la guida della spedizione.
Il ruolo di Garibaldi
Garibaldi era non solo il capo militare più prestigioso di cui disponesse il
movimento nazionale, ma anche l'unico leader capace di unificare attorno a sé le
diverse componenti dello schieramento unitario, dai democratici intransigenti ai
moderati filocavouriani.
Quando accettò di capeggiare la spedizione in Sicilia, Garibaldi era l'unico fra
i leader democratici in grado di assicurare qualche possibilità di riuscita
all'impresa, ritenuta estremamente rischiosa.
Cavour, che temeva le complicazioni internazionali e vedeva nella spedizione
un'occasione di rilancio per i mazziniani, la avversò pur senza far nulla per
impedirla.
Vittorio Emanuele II, che guardava invece con favore al tentativo di Garibaldi,
non poté intervenire concretamente in suo aiuto.
La spedizione dei Mille
La spedizione fu così preparata in fretta, con scarso equipaggiamento e
pessimo armamento.
Nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860, poco più di mille volontari,
provenienti da diverse regioni – ma in maggioranza settentrionali – e di varia
estrazione sociale (borghese-intellettuale, operaia o artigiana), in larga parte
veterani delle campagne del '48 e del '59, partirono da Quarto presso Genova,
dopo essersi impadroniti di due navi a vapore, il Piemonte e il Lombardo.
Pochi giorni dopo, eludendo la sorveglianza della flotta borbonica, i volontari
sbarcavano a Marsala, nell'estremità occidentale della Sicilia e penetravano
nell'interno, accolti con entusiasmo dalla popolazione.
Il 15 maggio, a Calatafimi, le colonne garibaldine, accresciute da poche
centinaia di insorti siciliani, nonostante l'inferiorità numerica, riuscirono a
battere un contingente borbonico. Galvanizzati dal successo, i volontari
puntarono su Palermo e la raggiunsero dopo una difficile marcia fra le montagne.
All'arrivo delle avanguardie garibaldine, la città insorse contro i Borbone.
Alla fine di maggio, dopo tre giorni di combattimenti, le truppe governative
furono costrette ad abbandonare la città dove Garibaldi – che appena sbarcato in
Sicilia aveva assunto la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II – proclamò la
decadenza della monarchia borbonica.
Mentre nell'isola si formava un governo civile provvisorio sotto la guida di
Crispi e si tentava di mettere in moto un primo processo di riforma sociale
(riduzione del carico fiscale, assegnazione di terre ai contadini combattenti
nelle file garibaldine), nell'Italia settentrionale si raccoglievano uomini e
mezzi da inviare in Sicilia: fra giugno e luglio sbarcarono a Palermo quasi 15
mila volontari. Col loro apporto, Garibaldi poté muovere all'attacco delle
truppe borboniche e sconfiggerle, il 20 luglio, a Milazzo, costringendole a
rifugiarsi sul continente.
Nel giro di poche settimane, l'impresa garibaldina aveva assunto le dimensioni
di una vera e propria epopea, cui gran parte dell'opinione pubblica europea
guardava con simpatia e ammirazione. La rapidità con cui era stato abbattuto il
regime borbonico in Sicilia aveva inoltre colto di sorpresa la diplomazia delle
grandi potenze e aveva costretto Cavour e i moderati italiani a rivedere la loro
strategia e a immaginare un'ulteriore politica di annessioni.
I contrasti con i contadini in Sicilia
Il clima di entusiastica concordia che aveva accolto i garibaldini al loro
sbarco in Sicilia si era dissolto quando i contadini avevano intravisto la
possibilità di liberarsi non solo dal malgoverno borbonico, ma anche dal
secolare sfruttamento cui li condannava una struttura sociale ancora
semifeudale: era tosi scoppiata una serie di violente agitazioni. Dal canto
loro, Garibaldi e i suoi collaboratori avevano cercato di venire incontro alle
esigenze dei contadini, ma senza mettere in discussione il quadro dei rapporti
di proprietà.
Nacque così un contrasto insanabile, sfociato in episodi di dura repressione: il
più noto si verificò ai primi di agosto nella cittadina di Bronte, ai piedi
dell'Etna.
Dopo alcuni giorni di rivolta, incendi e saccheggi, e il massacro di alcuni
notabili, i supposti capi dei ribelli furono sommariamente processati e fucilati
per ordine di Nino Bixio, braccio destro di Garibaldi.
Intanto i proprietari terrieri, spaventati dalle agitazioni agrarie, guardavano
sempre più all'annessione al Piemonte come all'unica efficace garanzia per la
tutela dell'ordine sociale.
La conquista di Napoli
Fino a tutta l'estate del 1860, l'iniziativa restò nelle mani di Garibaldi
che riuscì a sbarcare in Calabria e poi risali rapidamente la penisola senza che
l'esercito borbonico, ormai in via di disgregazione, fosse in grado di opporgli
un'efficace resistenza.
Il 6 settembre, Francesco II abbandonò la capitale per rifugiarsi nella fortezza
di Gaeta. Il giorno dopo Garibaldi fece il suo ingresso trionfale a Napoli.
Cavour si trovò ancora una volta battuto sul tempo.
Napoli liberata rischiava di trasformarsi in un quartier generale dei
democratici – dove giunsero anche Mazzini e Cattaneo – e di diventare la base
per una spedizione nello Stato della Chiesa. Un'impresa che avrebbe provocato
l'intervento francese e che, se avesse avuto successo, avrebbe potuto mettere in
discussione l'assetto monarchico e moderato dello stesso Regno sabaudo.
L'intervento militare piemontese e i plebisciti di annessione
Non restava, per il governo piemontese, altra scelta se non quella di
prevenire l'iniziativa garibaldina con un intervento militare. In settembre –
dopo che Cavour ebbe ottenuto l'assenso di Napoleone III, impegnandosi a non
minacciare Roma e il Lazio – le truppe regie invasero l'Umbria e le Marche e
sconfissero l'esercito pontificio nella battaglia di Castelfidardo.
Ai primi di ottobre, mentre Garibaldi batteva i borbonici nella grande battaglia
campale del Volturno, l'esercito sabaudo iniziò la marcia verso il Sud. Pochi
giorni dopo, il Parlamento piemontese approvò quasi all'unanimità una legge
proposta da Cavour, che autorizzava il governo a decretare l'annessione, senza
condizioni, di altre regioni italiane allo Stato sabaudo, purché le popolazioni
interessate esprimessero la loro volontà in tal senso mediante plebisciti.
L'iniziativa tornava così – e questa volta definitivamente – nelle mani di
Cavour e dei moderati.
Il 21 ottobre, in tutte le province del Mezzogiorno continentale e in Sicilia –
e, due settimane dopo, anche nelle Marche e in Umbria – si tennero plebisciti a
suffragio universale maschile nella forma voluta da Cavour: agli elettori non
veniva lasciata altra scelta che quella di accettare o respingere «in blocco»
l'annessione allo Stato sabaudo con la sua forma di governo, i suoi ordinamenti,
le sue leggi.
Molto ampia (75-80%) fu l'affluenza alle urne e addirittura schiacciante – tanto
da giustificare qualche sospetto sulla regolarità delle operazioni di voto e di
scrutinio – la maggioranza dei «sì».
A Garibaldi non restò che attendere l'arrivo dei piemontesi – l'incontro con
Vittorio Emanuele II avvenne a Teano, presso Caserta, il 25 ottobre – per cedere
loro ogni responsabilità nel governo delle province liberate.
Mentre Garibaldi si ritirava sull'isola di Caprera in volontario isolamento
rinunciando a ogni progetto di liberare Roma e Mazzini partiva per l'ennesimo
esilio, l'esercito sabaudo eliminava le ultime resistenze borboniche.
La spedizione dei Mille e l'unità
L'unità d'Italia: caratteri e limiti
Il Regno d'Italia
Il 17 marzo 1861, il primo Parlamento proclamava Vittorio Emanuele II re
d'Italia «per grazia di Dio e volontà della nazione».
L'Italia era ormai uno Stato unitario, con capitale Torino, ma al suo
completamento territoriale mancava tutto il Veneto (il confine con l'Austria
correva lungo il lago di Garda e il fiume Mincio) e il Lazio con Roma.
Grazie alle annessioni l'Italia unita si presentava come il risultato
dell'ampliamento di uno Stato regionale rivelatosi forte e dinamico al punto da
poter assorbire territori di gran lunga più ampi e popolazioni molto più
numerose rispetto al suo nucleo originario, imponendo all'intero paese il
proprio sovrano e le proprie istituzioni, leggi e ordinamenti. A questo
risultato si era arrivati non solo per l'iniziativa militare e diplomatica del
Piemonte o per l'azione di un uomo politico geniale come Cavour, ma anche per
l'ampia mobilitazione di un'opinione pubblica che coinvolgeva gli strati sociali
più attivi e più dinamici d'Italia, seppur minoritari: intellettuali, studenti,
ceti popolari urbani politicizzati e soprattutto una borghesia produttiva
desiderosa di creare quel mercato nazionale che era considerato una premessa
indispensabile allo sviluppo economico.
Per quanto minoritaria nel paese, questa opinione pubblica era largamente
disseminata anche per la presenza degli innumerevoli centri urbani, grandi e
piccoli, che da secoli caratterizzavano l'Italia e che ospitavano élites
illuminate e favorevoli al risorgimento nazionale.
I caratteri dell'unificazione
In Italia, dunque, lo Stato nazionale nacque dalla combinazione di
un'iniziativa dall'alto – la politica di Cavour e l'egemonia del Piemonte
sabaudo – e di un'iniziativa dal basso – le insurrezioni nell'Italia centrale e
la spedizione garibaldina nel Sud.
E l'esito dei plebisciti, per quanto forzati dagli avvenimenti e solo
parzialmente rispettosi dei reali orientamenti delle popolazioni coinvolte,
rappresentò un omaggio all'idea della sovranità popolare.
Nell'incontro fra la componente democratica e la componente moderata e
dinastica, quest'ultima alla fine risultò nettamente vincente: ma senza le
rivoluzioni democratiche che l'avevano preceduto, l'esito dell'unità non sarebbe
stato possibile.
Un ruolo decisivo ebbero anche i fattori internazionali: in primo luogo
l'intervento della Francia di Napoleone III, che combatté nel '59 una guerra a
totale beneficio del Piemonte, a cui si aggiunsero l'isolamento del Regno delle
Due Sicilie e dello stesso Impero asburgico, e, infine, la sostanziale
neutralità della Gran Bretagna.
Vincitori e vinti
Se dunque la mobilitazione risorgimentale aveva riportato un indiscutibile
successo proprio in virtù dell'intreccio positivo delle sue due principali
componenti, una parte consistente degli italiani aveva subito o si era adattata
di malavoglia al nuovo corso.
In primo luogo il cattolicesimo organizzato della Chiesa romana e delle
istituzioni ecclesiastiche, che avrebbero visto di lì a poco (1866-67) la
requisizione e la vendita delle loro proprietà a vantaggio delle finanze del
nuovo Stato. Incombeva inoltre la conquista di Roma, acclamata capitale italiana
dal Parlamento già il 27 marzo 1861, il che avrebbe segnato la fine di quel che
rimaneva dello Stato pontificio e del secolare potere temporale dei papi.
Tra gli sconfitti vanno ricordati anche tutti i nostalgici degli antichi regimi
assolutisti e i difensori delle dinastie abbattute: tra questi si contavano
molti nobili, ufficiali e funzionari, ma anche strati di popolo minuto e di
contadini, legati alla monarchia borbonica.
Le campagne erano rimaste in tutta Italia, come sappiamo, sostanzialmente
estranee al movimento nazionale. Quando le agitazioni contadine, spesso
violente, esplosero in Sicilia alimentate dalle speranze che il cambiamento
legato alla spedizione garibaldina favorisse il recupero delle terre comuni
usurpate dalla nobiltà e dalla borghesia, la repressione apparve giustificata e
inevitabile, non solo a Bronte, come abbiamo visto, ma anche in altre località
del catanese. Del resto persisteva un'estraneità incolmabile tra le agitazioni
sociali ed economiche di quella parte del mondo contadino — così diversa dal
resto d'Italia — e il programma politico di moderati e democratici volti a
realizzare l'obiettivo primario della loro azione, l'unità e l'indipendenza. A
ciò si aggiungeva il timore del possibile ripetersi di rivolte sociali nelle
campagne (come era già accaduto in Sicilia nel 1820 e nel 1848) col rischio di
una loro evoluzione reazionaria e filoborbonica, mentre andava evitata
accuratamente una cesura con le classi dirigenti locali.
L'Italia in Europa
Per l'Italia unita cominciava allora a porsi il problema di un confronto con
il resto d'Europa, innanzitutto per garantire la continuità del nuovo Stato
unitario, per trovare un proprio ruolo tra le potenze e per ottenere senza
troppi contrasti il completamento dell'unità.
Rispondere alle ambizioni, spesso dense di retorica nazionale, di un paese
politicamente giovane si sarebbe rivelato meno agevole del previsto, mentre
duratura e spesso radicale rimase la divisione tra i vincitori e gli sconfitti
del Risorgimento.
L'unità rappresentò in ogni caso una decisiva svolta modernizzatrice per
l'Italia, tanto sul piano delle istituzioni politiche quanto su quello delle
prospettive economiche, anche se la costruzione del nuovo Stato avrebbe
richiesto scelte difficili e altri momenti conflittuali.
I PRIMI ANNI DELL'ITALIA UNITA
Demografia, economia e società
Popolazione e alfabetizzazione
Al momento dell'unità gli italiani erano circa 22 milioni (arrivavano a poco
più di 25 calcolando anche il Veneto e il Lazio). La percentuale degli
analfabeti, di quanti cioè non sapevano né leggere né scrivere, era del 72%: nei
decenni successivi diminuì costantemente.
L'analfabetismo era inoltre molto più diffuso tra le donne.
Solo il 10% degli italiani era da considerare «italofono», ossia parlante lingua
italiana, mentre tutti gli altri comunicavano attraverso i dialetti, di cui la
stessa minoranza colta si serviva nella comunicazione familiare e nei rapporti
con la gente del popolo (pratica largamente diffusa fino a tempi recenti).
Inoltre, nonostante da tempo l'italiano fosse impiegato dalla Chiesa nella
predicazione, i dialetti si sarebbero mantenuti a lungo, affiancando la lingua
colta, nelle scuole elementari. Nell'insieme la grande maggioranza degli
italiani non possedeva ancora una lingua comune. Misurata sul terreno delle
conoscenze di base, l'Italia era dunque molto meno istruita di paesi come la
Prussia e la Francia dove gli alfabetizzati erano rispettivamente il 70% e il
50% della popolazione.
Città e campagne
Intorno al 1860 l'Italia era, come già in passato, uno dei paesi europei con
il maggior numero di città. Una decina erano i centri con più di 100 mila
abitanti – il più grande era Napoli con 450 mila, seguivano Torino, Palermo,
Milano e Roma con circa 200 mila – e la popolazione urbana propriamente detta
(quella che viveva in comuni con oltre 20 mila abitanti) era pari al 20% del
totale. La grande maggioranza degli italiani viveva nelle campagne e nei piccoli
centri rurali e traeva i suoi mezzi di sostentamento dalle attività agricole:
era quindi costituita prevalentemente da contadini. L'agricoltura occupava
infatti il 70% della popolazione attiva (cioè di quelli in età lavorativa)
contro il 18% dell'industria e dell'artigianato e il 12% del settore terziario
(che comprende commercio e servizi), contribuendo per il 58% al prodotto interno
lordo di tutto il paese, mentre industria e terziario vi contribuivano ciascuno
per il 20% circa. E le attività agricole fornivano i principali prodotti di
esportazione: seta grezza dalle regioni settentrionali, e i prodotti delle
colture specializzate come agrumi, frutta secca, vino e olio (per fini
industriali) da quelle meridionali.
Contrariamente a quanto una tradizione, prevalentemente letteraria, aveva
tramandato, l'agricoltura italiana nel suo complesso non era affatto favorita
dalle condizioni naturali. Le zone pianeggianti, le più adatte all'agricoltura
intensiva, costituivano poco più del 20%, mentre tutto il resto era terreno
collinare o montagnoso. Inoltre il 20% della superficie del paese era occupato
da terre incolte o da terreni paludosi infestati dalla malaria. Anche nelle zone
coltivabili di pianura e di collina, quella italiana era prevalentemente
un'agricoltura povera, caratterizzata da una grande varietà di colture e di
assetti produttivi.
Aziende moderne, mezzadria e latifondo
Solo nella zona irrigua della Pianura padana si erano ormai sviluppate
numerose aziende agricole moderne che univano l'agricoltura all'allevamento
bovino, erano condotte con criteri capitalistici, producevano per il mercato e
impiegavano soprattutto manodopera salariata.
Accanto a esse coesistevano, nelle regioni del Nord, le grandi proprietà
coltivate a cereali e le piccole unità produttive in affitto a conduzione
familiare, diffuse queste ultime soprattutto nelle zone collinari del Piemonte,
della Lombardia e del Veneto.
Nell'Appennino e in tutta l'Italia centrale, in particolare in Toscana, Marche e
Umbria, dominava invece la mezzadria. La terra era divisa in poderi,
prevalentemente di piccole e medie dimensioni, dove le colture cerealicole si
mescolavano agli olivi, alle viti e agli alberi da frutta.
Ciascun podere produceva quanto era necessario per il mantenimento della
famiglia che viveva sul fondo e per il pagamento del canone in natura, pari alla
metà del prodotto, dovuto al padrone. Il mezzadro era tenuto inoltre a
concorrere alle spese di manutenzione e a quelle per gli attrezzi agricoli e il
bestiame. Il contratto di mezzadria, con la sua rigida ripartizione delle spese,
non favoriva gli investimenti e le innovazioni tecniche in funzione dello
sviluppo di un'agricoltura moderna, orientata verso il mercato. In compenso
consentiva una relativa pace sociale – per questo era apprezzato da molti
conservatori – e assicurava un certo grado di tutela del territorio: ne è
testimonianza il tipico paesaggio vario e ordinato, che ancora oggi sopravvive
in buona parte dell'Italia centrale. In molte zone dell'Italia meridionale,
oltre che nella vasta campagna intorno a Roma, la coltivazione prevalente era il
latifondo: grandi distese, per lo più seminate a grano o lasciate alla
pastorizia, con la popolazione concentrata in pochi e grossi borghi rurali. Le
tracce dell'ordinamento feudale si facevano sentire pesantemente negli arcaici
contratti agrari – basati spesso su compensi di quota parte del raccolto – e nei
rapporti fra i signori e i contadini, caratterizzati da forme di dipendenza
personale, ma anche dai ricorrenti contrasti derivanti dall'irrisolto problema
della utilizzazione contadina delle terre soggette agli usi civici. Non
mancavano tuttavia nel Mezzogiorno zone fertili e pianeggianti, in Campania, in
Puglia e in Sicilia dove era diffusa la produzione specializzata destinata
all'esportazione.
Una parte molto estesa dell'Italia, soprattutto nelle zone altocollinari o
montane, continuava a praticare un'agricoltura di pura sussistenza, dove
l'autoconsumo era la regola. L'alimentazione era spesso insufficiente, limitata
al pane e a pochi legumi. Lo scarso apporto di vitamine determinava poi, in
alcune zone del Nord, dove la polenta di mais era l'alimento prevalente, la
diffusione di gravi malattie come la pellagra.
Nord e Sud
Il quadro complessivo dell'agricoltura italiana, principale attività
economica del paese, al di là delle zone di alta produttività, era quello di una
diffusa arretratezza: una realtà poco nota alla classe dirigente del paese, così
come per gran parte sconosciute erano le condizioni economiche e sociali del
Mezzogiorno. Lo stesso Cavour non si era mai spinto a sud di Firenze. Il
romagnolo Farini, quando, nell'autunno del 1860, fu inviato nelle province
meridionali in qualità di luogotenente generale, non seppe nascondere il proprio
stupore e il proprio disprezzo: «Che barbarie! – scriveva in una lettera a
Cavour – Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi
caffoni, sono fior di virtù civili». Queste impressioni segnalavano pregiudizi e
incomprensioni destinati a durare nel tempo, ma anche la distanza culturale e la
diversità di comportamenti e di mentalità che peraltro poggiavano su un reale
divario tra Nord e Sud del paese.
Al momento dell'unità questo divario si misurava sul piano della disponibilità
di infrastrutture, della produttività agricola e dell'istruzione di base.
Se al Nord, nella Pianura padana e in particolare in Piemonte esisteva già una
rete ferroviaria sviluppata, al Sud, salvo qualche breve tratto intorno a
Napoli, le ferrovie erano inesistenti. Il valore della produzione agricola per
ettaro era al Sud pari a un terzo di quello della Lombardia e a metà di quello
del Piemonte. Molto significativo risultava inoltre il differenziale di
alfabetizzazione: in Piemonte e in Lombardia gli analfabeti erano intorno al
54%, in Puglia salivano all'86% e in Sicilia all'89%.
Il divario tra Nord e Sud segnalava già l'emergere di un problema nazionale che
sarebbe stato definito in seguito come «questione meridionale»: tuttavia allora
nel confronto con l'Europa le differenze tra le "due Italie" risultavano
appiattite e accomunate da una generale arretratezza rispetto ai paesi più
sviluppati del continente.
Governare l'Italia unita
Tutt'altro che agevole fu governare l'Italia dopo la sua unificazione. L'improvvisa e precoce morte di Cavour (giugno 1861) lasciava priva di guida la classe dirigente moderata, anche se i successori di Cavour si attennero sostanzialmente alla politica da lui già impostata nelle grandi linee: una politica rispettosa delle libertà costituzionali e insieme accentratrice, liberista in campo economico, laica in materia di rapporti fra Stato e Chiesa.
La Destra storica
Il gruppo dirigente che governò ininterrottamente il paese nel primo quindicennio non era molto diverso da quello che si era venuto formando dopo il '49 nel Piemonte costituzionale. Il nucleo centrale era costituito da piemontesi, cioè dalla vecchia maggioranza subalpina. A essa si erano uniti i gruppi moderati lombardi, emiliani e toscani. Meno numerosa era la rappresentanza delle regioni meridionali, che pure contava personalità di tutto rilievo. Diversi per provenienza geografica, per formazione culturale e per esperienze politiche, questi uomini formavano tuttavia un gruppo abbastanza omogeneo, sia dal punto di vista sociale – appartenevano prevalentemente ai ceti superiori – sia sotto il profilo politico. Nei primi parlamenti dell'Italia unita, la maggioranza si collocava a destra e come Destra essa venne definita nel linguaggio politico corrente (l'aggettivo «storica» fu aggiunto più tardi, per sottolineare la funzione decisiva svolta da quella classe dirigente nella storia d'Italia). In realtà, più che una forza di destra, essa costituiva un gruppo di centro moderato: la vera destra – quella dei clericali e dei nostalgici dei vecchi regimi – si era infatti autoesclusa dalle istituzioni in quanto non riconosceva la legittimità del nuovo Stato.
La Sinistra
Anche i mazziniani di stretta osservanza e, in genere, i repubblicani intransigenti rifiutarono di partecipare all'attività politica ufficiale. Tuttavia, sui banchi dell'opposizione in Parlamento sedette, assieme agli esponenti della vecchia sinistra piemontese, un numero sempre crescente di patrioti mazziniani o garibaldini decisi a inserirsi nelle istituzioni monarchiche. Rispetto alla Destra, la Sinistra si appoggiava su una base sociale più ampia e composita, formata essenzialmente dai gruppi borghesi delle città – professionisti e intellettuali, ma anche commercianti e imprenditori – e comprendeva anche gruppi di operai e artigiani del Nord, esclusi dall'elettorato. Nei primi anni dopo l'unità, la Sinistra si contrappose nettamente alla maggioranza moderata facendo proprie le rivendicazioni democratiche risorgimentali: il suffragio universale, il decentramento amministrativo (che comportava la concessione di margini di autonomia alle comunità locali) e soprattutto il completamento dell'unità, da raggiungersi tramite la ripresa dell'iniziativa popolare.
Il sistema elettorale
Destra e Sinistra erano entrambe espressione di una classe dirigente molto ristretta, di un «paese legale» assai poco rappresentativo del «paese reale». La legge elettorale piemontese, estesa a tutto il Regno, concedeva infatti il diritto di voto solo a quei cittadini che avessero compiuto i 25 anni, sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte all'anno. Nelle prime elezioni dell'Italia unita gli iscritti nelle liste elettorali erano circa 400 mila, meno del 2% della popolazione totale e del 7% dei maschi adulti. Se poi si calcola che la percentuale di coloro che si astenevano era molto elevata – sfiorando spesso il 50% – si capirà come, grazie anche al sistema del collegio uninominale, bastassero poche centinaia o addirittura poche decine di voti per eleggere un deputato. La vita politica assumeva così un carattere oligarchico e personalistico e, nell'assenza di partiti organizzati nel senso moderno del termine, era dominata da pochi notabili in grado di sfruttare la propria influenza e le proprie relazioni per ottenere i suffragi necessari all'elezione. Il potere esecutivo poteva poi facilmente a favorire la riuscita dei candidati «governativi», indirizzando il voto dei militari e degli impiegati nella pubblica amministrazione.
La scelta dell'accentramento
Per quanto ristretta, la classe dirigente era tuttavia convinta di
rappresentare la parte migliore del paese: e, in effetti, gli uomini della
Destra storica si distinsero per onestà e per rigore, tanto da costituire, da
questo punto di vista, un esempio mai più superato nella storia dell'Italia
unita. Essi furono però portati a identificare le sorti del proprio gruppo
politico con quelle delle istituzioni statali, sottoposte alla duplice minaccia
dei «neri» e dei «rossi», ossia dei clericali reazionari e dei repubblicani
rivoluzionari, e a considerare i fermenti e le inquietudini della società come
attentati al bene supremo dell'unità appena raggiunta. Per questi motivi furono
spinti a stabilire un controllo il più possibile stretto e capillare su tutto il
paese e dunque a scegliere un modello di Stato accentrato molto vicino a quello
napoleonico: basato cioè su ordinamenti uniformi per tutto il regno e
su una rigida gerarchia di funzionari dipendenti dal centro.
L'accentramento era anche il risultato inevitabile delle successive annessioni
al Regno di Sardegna con la relativa adesione al suo impianto istituzionale e
alle sue leggi. Inoltre, tra il giugno '59 e il gennaio '60, grazie ai poteri
straordinari conferiti al governo dallo stato di guerra con l'Austria, erano
state varate senza alcun controllo parlamentare numerose leggi riguardanti i
settori chiave della vita del paese. In aggiunta all'estensione delle leggi
piemontesi alle province appena annesse (così fu, ad esempio, per la legge
elettorale) furono emanate leggi nuove: come la legge Casati sull'istruzione,
che creava un sistema scolastico nazionale e stabiliva il principio
dell'istruzione elementare obbligatoria (demandandone però l'attuazione ai
comuni); o come la legge Rattazzi sull'ordinamento comunale e provinciale, che
affidava il governo dei comuni a un consiglio eletto a suffragio ristretto e a
un sindaco di nomina regia e faceva delle province le circoscrizioni
amministrative più importanti, ponendole sotto lo stretto controllo dei
prefetti, rappresentanti del potere esecutivo. Anche questa legge fu
successivamente estesa, con poche modifiche, a tutto il regno.
Le rivolte contro l'unità e il brigantaggio
L'ostilità dei contadini meridionali
Tra i motivi che spinsero la classe politica a scegliere l'accentramento e ad
accantonare ogni progetto di decentramento amministrativo, il principale fu
costituito certamente dalla situazione che si era venuta a creare nel
Mezzogiorno. Nelle province meridionali liberate dal regime borbonico, il
malessere antico delle masse contadine si sommò a una diffusa ostilità verso il
nuovo ordine politico, che non aveva portato alcun mutamento radicale nella
sfera dei rapporti sociali, anzi aveva visto la borghesia rurale schierarsi
dalla parte dei «conquistatori».
E a questo si erano aggiunte la nuova pesante fiscalità e la leva militare
obbligatoria osteggiate duramente dal mondo contadino. Già nell'ultima fase
dell'impresa garibaldina erano scoppiate, soprattutto in Campania, rivolte
contadine di una certa gravità: rapidamente i disordini si fecero più estesi e
più frequenti, fino a trasformarsi in una generale insorgenza, incoraggiata da
una parte del clero e finanziata dalla corte borbonica in esilio a Roma.
Il brigantaggio
Dall'estate del 1861, tutte le regioni del Mezzogiorno continentale erano
percorse da bande di irregolari, dove i banditi veri e propri si mescolavano ai
contadini insorti, agli ex militari borbonici (per i quali la fine del Regno
delle due Sicilie si era trasformata in una catastrofe personale), ai
cospiratori legittimisti italiani e stranieri. Le bande assalivano di preferenza
i piccoli centri e li occupavano per giorni, massacrando i notabili liberali e
incendiando gli archivi comunali: quindi si ritiravano sulle montagne per
attaccare subito dopo altrove. A queste aggressioni, che parevano mettere in
gioco il controllo territoriale di intere regioni, il governo reagì con spietata
energia, rafforzando in primo luogo la presenza militare nel Sud. Fin dai primi
tempi di queste sollevazioni si registrarono, in risposta agli eccidi delle
bande, rappresaglie indiscriminate compiute dall'esercito: come quella di
Pontelandolfo, nei pressi di Benevento, dove nell'agosto 1861 furono uccisi 400
civili e incendiato il paese.
Nel 1863 il Parlamento approvò una legge che istituiva, nelle province
dichiarate «in stato di brigantaggio», un vero e proprio regime di guerra:
tribunali militari per giudicare i ribelli e fucilazione immediata per chi
avesse opposto resistenza con le armi. Sia per l'efficacia delle misure
repressive, sia per la stanchezza della popolazione, il «grande brigantaggio» fu
sconfitto nel giro di qualche anno, e nel 1865 le bande più importanti erano
state isolate e distrutte.
Il problema della terra
Tra le principali cause della mobilitazione contadina rimaneva irrisolta la
questione della proprietà della terra e in particolare quella della divisione
dei terreni demaniali – ossia delle terre pubbliche di origine feudale – e di
quelle soggette agli usi civici, passate di fatto nelle mani della nobiltà e
della borghesia terriera. Neppure la liquidazione dei beni ecclesiastici,
avviata fra il 1866 e il 1867, riuscì a migliorare la condizione dei piccoli
proprietari e dei contadini senza terra, impediti dalla mancanza di capitali a
concorrere all'acquisto dei fondi messi all'asta.
L'operazione si risolse (non solo nel Mezzogiorno, ma in tutta Italia) in un
rafforzamento della grande proprietà.
L'economia e la politica fiscale
L'unificazione economica
Parallelamente all'unificazione amministrativa e legislativa, i governi della
Destra dovettero affrontare il complesso problema dell'unificazione economica
del paese. Vennero uniformati a quelli del Piemonte i sistemi monetari e fiscali
ed estesa a tutta l'Italia la legislazione doganale liberista vigente nel Regno
sardo, penalizzando il Mezzogiorno fino allora inserito in un sistema
protezionistico. Molto rapido fu lo sviluppo delle vie di comunicazione: in
particolare della rete ferroviaria che nel primo decennio unitario passò da poco
più di 2000 a circa 6000 chilometri, collegando il Nord al Sud, premessa
indispensabile per la formazione di un mercato nazionale.
Anche se la nuova rete ferroviaria, per gli alti costi, rimase inizialmente poco
utilizzata: per le lunghe distanze si continuò a preferire il trasporto delle
merci via mare.
L'industria e l'agricoltura
Nei primi decenni dopo l'unità il settore agricolo conobbe un significativo
incremento di produttività di cui si avvantaggiarono soprattutto le colture
specializzate del Mezzogiorno e la produzione di bozzoli da seta, principali
voci dell'esportazione italiana. Invece il settore industriale fu nel complesso
penalizzato dall'accresciuta concorrenza internazionale favorita dalla politica
liberista (basata su dazi di entrata molto bassi). Declinarono la produzione
laniera e, cosa ancora più grave, i settori siderurgico e meccanico, ancora
lontanissimi dal potersi giovare dell'occasione che in altri paesi era stata
offerta dallo sviluppo delle ferrovie, la cui costruzione si avvalse di
materiali d'importazione e di imprese prevalentemente straniere. Gli effetti
negativi della scelta liberista colpirono soprattutto i pochi nuclei industriali
del Mezzogiorno, inesorabilmente cancellati dalla caduta dei dazi protettivi che
ne avevano sostenuto lo sviluppo.
Le attività industriali non erano del resto al centro dell'attenzione degli
uomini politici italiani, tanto della Destra quanto della Sinistra, convinti che
la vocazione dell'Italia risiedesse nell'agricoltura, base del suo sviluppo
economico, mentre lo sviluppo industriale sarebbe venuto semmai più tardi.
L'espansione dell'agricoltura degli anni '60 e '70, derivante da queste scelte,
consentì un'accumulazione di capitali che, grazie anche al prelievo fiscale,
rese possibile un potenziamento delle infrastrutture (strade, ferrovie),
indispensabile per il futuro industriale del paese. Ma nel complesso, dopo un
ventennio di vita unitaria, l'Italia aveva perso terreno nei confronti dei paesi
più progrediti e il tenore di vita della maggioranza dei suoi abitanti non aveva
registrato mutamenti di rilievo: anzi, in alcuni casi, era addirittura
peggiorato.
Una pesante fiscalità
Responsabile principale di questa situazione fu la durissima politica
fiscale, legata alla necessità di coprire i costi dell'unificazione. La
costruzione del nuovo Stato aveva infatti comportato spese altissime, sia nel
campo delle comunicazioni sia in quelli dell'amministrazione pubblica,
dell'istruzione e dell'esercito. Per far fronte a queste spese, i governi della
Destra dovettero ricorrere a una serie di inasprimenti fiscali, che colpivano
sia i redditi e i patrimoni sia i consumi (tasse su sali e tabacchi, dazi locali
sui generi alimentari). La situazione si aggravò ulteriormente dopo il 1866, in
conseguenza delle spese sostenute per la guerra contro l'Austria (la terza
guerra d'indipendenza, di cui si dirà nel paragrafo successivo).
Nell'estate del 1868 fu introdotta infatti una tassa sulla macinazione dei
cereali, meglio nota come tassa sul macinato: si trattava in pratica di una
tassa sul pane, cioè sul consumo popolare per eccellenza, che colpiva duramente
le classi più povere, tanto da scatenare all'inizio del 1869 le prime agitazioni
sociali su scala nazionale della storia dell'Italia unita. Scoppiati
spontaneamente un po' in tutto il paese, i moti contro la tassa sul macinato
assunsero dimensioni preoccupanti soprattutto nelle campagne padane. La
repressione fu anche in questo caso durissima.
La conquista del Veneto e la presa di Roma
A pochi anni dalla proclamazione dell'Italia unita la Destra e la Sinistra
avevano il comune obiettivo di completare il processo di unificazione annettendo
il Veneto e soprattutto il Lazio con Roma. Ma, mentre i leader della Destra si
affidavano ai tempi lunghi delle vie diplomatiche, la Sinistra restava fedele
all'idea della guerra popolare e vedeva nella lotta per la liberazione di Roma
l'occasione per un rilancio dell'iniziativa democratica.
Le acquisizioni del Veneto e di Roma, che pure avvennero rispettivamente nel
1866 e nel 1870, sarebbero state però fortemente condizionate dal mutare degli
equilibri europei sui quali pesò il rinnovato dinamismo politico e militare
della Prussia.
La questione romana
Il nodo più difficile da sciogliere era rappresentato dalla questione di Roma, proclamata capitale del nuovo Stato già nel marzo 1861, ma sede di un pontificato ostile all'unità e difesa dalle truppe francesi. La questione romana andava risolta con prudenza perché da un lato la Francia rimaneva l'alleato più sicuro e il principale partner economico dell'Italia, dall'altro il paese era cattolico al 99% e il clero continuava a svolgere un ruolo decisivo nel controllo sociale e culturale delle campagne. Lo stesso Cavour era stato dell'avviso di muoversi con cautela: fedele al principio «libera Chiesa in libero Stato», aveva cercato una soluzione che assicurasse al papa e al clero piena libertà di esercitare il proprio magistero spirituale. Su questa stessa linea si mossero i governi italiani anche in seguito, registrando tuttavia l'impraticabilità di una conciliazione osteggiata fermamente da Pio IX.
Il fallimento dei tentativi garibaldini
Di fronte a questa situazione di stallo apparve possibile una ripresa della
mobilitazione patriottica democratica guidata ancora una volta da Garibaldi. Ma
i due tentativi del 1862 e del 1867 si rivelarono male organizzati, in larga
misura velleitari e destinati all'insuccesso. Nel 1862 Garibaldi raccolse in
Sicilia qualche migliaio di volontari, varcò lo stretto di Messina ma fu fermato
(e ferito) sull'Aspromonte dalle truppe regie intervenute ad arrestare la
spedizione che minacciava di provocare un intervento militare della Francia di
Napoleone III.
Due anni dopo, nel 1864, fu trovato un accordo con la Francia – la cosiddetta
Convenzione di settembre – in base al quale l'Italia si impegnava a garantire il
rispetto dei confini dello Stato della Chiesa, ottenendo in cambio il ritiro
delle truppe francesi dal Lazio. A garanzia del suo impegno, il governo decideva
di trasferire la capitale da Torino a Firenze (suscitando nella città piemontese
violenti disordini popolari) in quella che sembrava una rinuncia a Roma.
Nel 1867 prese avvio una nuova iniziativa garibaldina, che avrebbe dovuto
appoggiarsi su un'insurrezione preparata dai patrioti romani. Si sperava in tal
modo di giustificare il colpo di mano, presentandolo come un atto di volontà
popolare, e di evitare l'intervento francese.
Napoleone III inviò invece un corpo di spedizione nel Lazio, mentre
l'insurrezione a Roma falliva per la sorveglianza della polizia e per la scarsa
partecipazione popolare. Il 3 novembre 1867, le truppe francesi da poco sbarcate
a Civitavecchia si scontrarono presso Mentana, alle porte di Roma, con i
volontari garibaldini e li sconfissero dopo un duro combattimento.
La terza guerra d'indipendenza e la conquista del Veneto
L'anno precedente alla sconfitta di Mentana l'Italia era riuscita ad
assicurarsi il possesso del Veneto. Nel 1866 il governo italiano aveva infatti
accettato l'alleanza militare con la Prussia che si apprestava allora ad
affrontare la guerra con l'Impero asburgico. La partecipazione italiana fu
decisiva per l'esito del conflitto, in quanto impegnò una parte dell'esercito
austriaco agevolando la vittoria prussiana. Ma, per le forze armate nazionali
chiamate alla loro prima prova impegnativa, la guerra si risolse in un clamoroso
insuccesso. Gli italiani, infatti, furono sconfitti sia per terra, a Custoza,
sia per mare, presso l'isola di Lissa, nonostante le forze austriache fossero
inferiori di numero: gravi errori di valutazione dei comandi trasformarono in
dure sconfitte quelli che in realtà erano stati degli scontri brevi e confusi,
con perdite limitate da ambo le parti. Solo Garibaldi, con i suoi volontari, era
riuscito ad aprirsi la via verso Trento, ma aveva dovuto fermarsi perché i
prussiani, raggiunti i loro obiettivi, avevano stipulato l'armistizio con gli
austriaci. Dalla successiva pace di Vienna (ottobre 1866) l'Italia ottenne, non
direttamente ma con la mediazione della Francia, solo il Veneto e i territori
del Friuli fino a Udine.
L'ultima delle guerre di indipendenza si concludeva così con un bilancio
deludente: rimanevano sotto l'Austria il Trentino e la Venezia Giulia. Ciò
avrebbe costituito, ancora per mezzo secolo, un ricorrente motivo di agitazione
patriottica. La sconfitta, poi, non solo aveva chiaramente dimostrato
l'impreparazione militare italiana, ma aveva diffuso in larga parte
dell'opinione pubblica l'amara convinzione che il nuovo Stato non era ancora
pronto a inserirsi fra le potenze europee su un piano di parità.
Roma capitale
Anche la presa di Roma dipese direttamente dai successi militari della
Prussia. Questa volta fu la Francia a essere sconfitta. Nel settembre 1870,
subito dopo la battaglia di Sedan, il governo italiano, non sentendosi più
vincolato ai patti sottoscritti con Napoleone III, decise di inviare un corpo di
spedizione nel Lazio. Contemporaneamente cercò un accordo col pontefice, ma Pio
IX respinse ogni proposta, deciso a mostrare al mondo intero di essere stato
costretto a cedere alla violenza. Il 20 settembre le truppe italiane, dopo aver
aperto con l'artiglieria una breccia nelle mura presso Porta Pia e dopo un breve
combattimento, entravano in città accolte festosamente dalla popolazione. Pochi
giorni dopo, un plebiscito confermava a schiacciante maggioranza l'annessione di
Roma e del Lazio.
Il 20 settembre 1870 rappresenta una data epocale non solo per l'Italia unita
che otteneva la sua capitale, ma soprattutto per la Chiesa cattolica. Quel
giorno poneva fine al potere temporale dei papi durato oltre un millennio – dal
752 – e dava inizio a una nuova storia per il cattolicesimo romano.
Il trasferimento della capitale e il non expedit
Nell'estate del 1871 la capitale con tutte le sue strutture politiche e
amministrative – Parlamento, governo, ministeri – fu trasferita da Firenze a
Roma. Nel frattempo era stata approvata una legge detta delle Guarentigie, cioè
delle garanzie, in quanto con essa il Regno d'Italia si impegnava
unilateralmente a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento
del suo magistero spirituale, secondo le linee del progetto cavouriano. Al papa
venivano riconosciute prerogative simili a quelle di un capo di Stato: onori
sovrani, facoltà di tenere un corpo di guardie armate, diritto di rappresentanza
diplomatica, extraterritorialità per i palazzi del Vaticano e del Laterano,
libertà di comunicazioni postali e telegrafiche col resto del mondo. Pur
rifiutando la legge e con essa la somma annuale che lo Stato italiano aveva
previsto di corrispondere alla Santa Sede, Pio IX di fatto si avvalse delle
prerogative assicurate dalle Guarentigie.
Non per questo si ridusse l'ostilità di Pio IX nei confronti del Regno d'Italia.
Anzi, l'invito ad astenersi da ogni partecipazione alla vita politica dello
Stato si trasformò, nel 1874, in un esplicito divieto con la formula del non
expedit, 'non giova', che significava 'non è opportuno' che i cattolici
partecipino alle elezioni politiche. L'acquisto di Roma, nel momento stesso in
cui coronava il processo di unificazione nazionale, lasciava aperto un conflitto
con la Chiesa che sarebbe stato sanato solo nel 1929 con i Patti lateranensi.
LE GRANDI POTENZE EUROPEE
L'età degli imperi
Nell'ultimo volume della trilogia dedicata al «lungo '800», lo storico
inglese Eric J. Hobsbawm definisce «età degli imperi» il periodo dal 1875 al
1914: un'epoca in cui l'espansione imperialista e coloniale raggiunse il suo
apice, mentre si registravano molte altre significative trasformazioni politiche
e sociali destinate a produrre effetti duraturi lungo tutto il corso del '900.
Le conquiste coloniali europee avevano caratterizzato tutta l'età moderna, in
tempi diversi e con diversi protagonisti. Agli spagnoli e ai portoghesi,
spintisi nelle Americhe nel '500, si erano aggiunti in seguito olandesi, inglesi
e francesi, muovendosi sia verso l'America centrale e settentrionale, sia verso
l'India e i grandi arcipelaghi asiatici. Il '700 aveva visto il grande scontro
tra Gran Bretagna e Francia per il dominio dei mari e per i nuovi possedimenti
in America settentrionale e in India, scontro terminato con il trionfo
britannico nel 1763.
Alla fine dell'800, Francia e Gran Bretagna trovarono un accordo di fatto nella
loro espansione imperialistica di fine '800 sia per il consolidamento dei
possessi asiatici — in Indocina la Francia, in India e in Birmania il Regno
Unito —, sia per la spartizione dell'Africa che si concluse col protettorato
francese sul Marocco nel 1911 e con la successiva conquista italiana della Libia
nel 1912. Nel frattempo anche gli Stati Uniti e il Giappone si erano inseriti
nella contesa imperialistica. Se i primi estesero la propria egemonia nei
Caraibi, con il controllo di Cuba e del Canale di Panama, e si spinsero nel
Pacifico annettendo le Hawaii e sottraendo alla Spagna le Filippine, l'impero
giapponese — che aveva avviato il suo processo di modernizzazione nel 1868 —
diede avvio a un'espansione territoriale a spese della Cina in Manciuria, Corea
e nell'isola di Formosa.
Gli imperi continentali
Il quadro geopolitico vedeva profilarsi, accanto ai grandi imperi coloniali dei relativamente piccoli Stati europei, la presenza di due grandi entità, la Russia e gli Stati Uniti, estese su un intero continente, forti demograficamente e dotate di grandi riserve di materie prime. La Russia attraversava una fase di crisi profonda legata alla struttura agricola arretrata, al ritardo nell'industrializzazione e a un sistema politico autocratico: elementi di debolezza confermati, sul fronte interno, dalla rivoluzione del 1905 e, su quello esterno, dalla drammatica sconfitta ad opera del Giappone nello stesso anno. Gli Stati Uniti, invece, superata la difficile prova della guerra civile (1861-65), si erano subito imposti sulla ribalta mondiale. I primi segni di questa ascesa erano allora appena percepiti ma via via avrebbero portato la potenza americana a dominare il mondo nel '900 e nei primi anni del secolo successivo: un dominio che proprio l'Unione Sovietica, l'erede della Russia imperiale, avrebbe cercato invano di contrastare.
La pacificazione europea
Una delle principali ragioni che consentirono, accanto allo sviluppo economico e industriale, la rinnovata espansione coloniale di fine '800 fu la pacificazione europea seguita alla vittoria della Prussia sulla Francia nel 1870. La guerra franco-prussiana chiudeva il conflitto secolare per l'egemonia nell'Europa continentale: dalla pace di Vestfalia (1648) infatti la frammentazione degli Stati tedeschi ai confini orientali del grande Stato unitario francese aveva garantito alla Francia un primato politico e geopolitico sul continente. La sconfitta ad opera dei prussiani e la nascita dell'Impero tedesco rovesciò i rapporti di forza affidando all'abile e determinato cancelliere tedesco Bismarck il ruolo di arbitro della politica europea. Bismarck esercitò questo ruolo stemperando gli attriti tra Austria e Russia nei Balcani, e contribuendo alla definizione di nuove regole per la spartizione dell'Africa, un continente nel quale anche i tedeschi ottennero le loro colonie negli anni '80 e '90.
Le guerre coloniali
Se per più di quarant'anni il continente europeo fu risparmiato dai conflitti
tra le grandi potenze e conobbe solo le brevi guerre balcaniche del 1912-13,
l'espansione coloniale fu accompagnata dall'indispensabile sostegno militare non
solo nelle operazioni di conquista ma nella repressione delle numerose
sollevazioni dei popoli colonizzati. Scontri e vere proprie guerre si ebbero in
Asia: in India, nella Penisola indocinese, nelle Filippine e, a più riprese, in
Cina. Qui le grandi potenze europee con gli Stati Uniti e il Giappone non si
limitarono a intervenire per garantirsi il controllo degli scali marittimi e
commerciali, ma cercarono anche di evitare il rafforzamento statale e militare
del grande Impero cinese.
Un obiettivo solo parzialmente raggiunto perché, con la rivoluzione del 1911 e
la nascita della repubblica, la Cina avviò un lungo processo di liberazione dal
controllo europeo e americano salvo rimanere, per tutta la prima metà del '900,
sotto la costante minaccia del Giappone, divenuto la maggiore potenza militare e
navale tra Manciuria, Corea e Nord-est cinese.
In Africa si possono contare, accanto a una miriade di episodi minori, tre
momenti di forte conflittualità bellica.
A sud le guerre boere (1880-81 e 1899-1902) che consentirono alla Gran Bretagna
di ottenere il dominio del Sudafrica a spese degli antichi coloni olandesi; a
est la dura sconfitta degli italiani ad Adua (1896) nella guerra contro
l'Abissinia (l'Etiopia), l'unico Stato rimasto indipendente in Africa; infine la
conquista italiana della Libia sottratta ai turchi nel 1912.
L'imperialismo e il "secolo europeo"
Quasi l'intera Africa, una parte rilevante dell'Asia – eccetto la Cina e il
Giappone – e tutta l'Oceania erano, agli inizi del '900, sotto il controllo di
quella parte d'Europa che rappresentava il nucleo più sviluppato dell'economia
mondiale e disponeva anche di una larga supremazia tecnologica e culturale. In
nessun altro momento della sua storia millenaria l'Europa aveva esercitato un
dominio così esteso sul resto del mondo.
Le ideologie imperialiste trovavano un largo sostegno tra i diversi ceti sociali
nella diffusa convinzione di una superiorità culturale e razziale sui popoli di
colore da sottomettere alla missione civilizzatrice europea. Da tutti i punti di
vista si può parlare di quegli anni come del culmine del "secolo europeo" per
eccellenza.
Elementi di crisi
Tuttavia, questi successi e il diffuso consenso che li accompagnava
nell'opinione pubblica, non riuscivano ad occultare molti elementi di crisi. Non
solo sul piano della politica internazionale europea, con le permanenti tensioni
nei Balcani e quelle tra le diverse nazionalità della duplice monarchia
d'Austria-Ungheria, ma anche nella politica interna, nelle contrapposizioni
ideologiche e nei rapporti tra le classi rivali della nascente società di massa.
Come ha ricordato Hobsbawm nell'Età degli imperi, «fu un'èra di profonda crisi
d'identità e di trasformazione profonda per una borghesia i cui tradizionali
fondamenti morali si sgretolavano sotto il peso stesso della ricchezza e del
benessere da essa accumulati». Il liberalismo borghese imboccò la via di un
drammatico declino proprio quando raggiunse il suo apogeo «e a causa proprio
delle contraddizioni insite in questa sua avanzata».
Un'Italia simile e diversa
L'Italia, la più recente e la più piccola delle potenze europee, attraversò
negli anni dal 1870 al 1914 una fase per molti aspetti simile a quella degli
altri grandi Stati dell'Europa continentale. Simile fu la tendenza alla
democratizzazione e all'estensione del suffragio, simile la vocazione
imperialista accompagnata dal sorgere delle correnti nazionaliste, e simili
furono i contrasti politici interni con il rischio di derive autoritarie (come
in Francia e in Germania). Diverse erano in realtà le basi economiche di
partenza – con un reddito pro capite degli italiani che nel 1870 era la metà di
quello britannico e l'80% di quello francese e tedesco –, con una profonda
diversità nello sviluppo tra Nord e Sud e con tardivo avvio del processo di
industrializzazione anche se in significativo recupero dalla fine dell'800.
Più alta degli altri paesi occidentali rimase la conflittualità sociale
soprattutto nelle campagne mentre tardava ancora a trovare soluzione il
conflitto tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica anche se, negli anni
iniziali del nuovo secolo, fu avviato l'incontro – in chiave antisocialista –
tra i liberali moderati e gli esponenti cattolici.
Anche l'Italia partecipava al diffondersi delle tendenze antidemocratiche e
antiparlamentari presenti nei grandi paesi dell'Europa continentale, ma non
conosceva le derive antisemite presenti in Francia, Germania e Austria.
L'Italia era ormai inserita a pieno titolo nella politica europea all'avvio del
nuovo secolo e soprattutto alla vigilia di una guerra mondiale che avrebbe
cancellato molte certezze e molte illusioni decretando il declino dell'Europa
nel contesto internazionale e nei rapporti di forza mondiali.
Le potenze continentali
Il ventennio 1850-70 fu caratterizzato da un elevato tasso di conflittualità e di instabilità: instabilità originata soprattutto dal tentativo della Francia di Napoleone III di riaffermare la sua posizione di massima potenza continentale (sullo scacchiere mondiale la superiorità britannica era fuori discussione), rovesciando il sistema uscito dal congresso di Vienna e contrapponendosi all'Impero asburgico, che di quel sistema era il cardine principale. Ma l'indebolimento dell'Austria, derivato da un sostanziale immobilismo politico e sociale, favorì l'ascesa della potenza prussiana. La crescita della Prussia e la sua aspirazione a riunire attorno a sé un grande Stato nazionale tedesco costituivano una minaccia intollerabile per la Francia, che dalla pace di Vestfalia del 1648 aveva fondato la sua egemonia continentale proprio sulla debolezza e sulla frammentazione politica della Germania: la strada dell'unità tedesca passava quindi inevitabilmente attraverso lo scontro con la Francia.
La Francia di Napoleone III
Nell'Europa di metà '800 la Francia di Napoleone III rappresentava un caso
anomalo. Per molti aspetti, il nuovo regime (instaurato nel 1852) – che pure
ricalcava le forme istituzionali del primo Impero napoleonico – inaugurò un
modello politico di nuovo genere, che da allora fu detto "bonapartismo". Nel
bonapartismo l'omaggio formale al principio della sovranità popolare – espressa
attraverso i plebisciti – legittimava un potere fondato in realtà sulla forza
delle armi, il centralismo autoritario si univa a una certa dose di riformismo
sociale e il conservatorismo si mescolava con la demagogia: tutti elementi che
ritroveremo in molti regimi autoritari tipici delle moderne società di massa.
L'autoritarismo e il centralismo di Napoleone III si fondavano su un vasto
consenso popolare, fondato anche sulla tradizione napoleonica che si manteneva
viva in tutta la Francia. Oltre al sostegno delle campagne l'imperatore cercò e
ottenne quello della borghesia urbana, del mondo degli affari, della finanza e
dell'industria. Questa borghesia fu, negli anni del Secondo Impero, attiva e
influente come non era mai stata prima.
Le costruzioni ferroviarie e le grandi opere pubbliche promosse dal regime
svolsero la funzione di motore dello sviluppo, sia per l'edilizia sia per i
settori di punta come il siderurgico e il meccanico.
Ma la tradizione bonapartista portava inevitabilmente la Francia a intraprendere
una politica estera ambiziosa e aggressiva. La prima occasione fu la guerra di
Crimea, quando Gran Bretagna e Francia si impegnarono a difendere l'Impero
ottomano dall'espansionismo russo.
Nell'estate del 1854 una flotta anglo-francese penetrò nel Mar Nero: gli
eserciti alleati sbarcarono nella penisola di Crimea e posero l'assedio alla
piazzaforte russa di Sebastopoli.
La spedizione in Crimea
La guerra, alla quale partecipò anche il Piemonte con un corpo di spedizione,
si risolse nel lunghissimo assedio di Sebastopoli, durato circa un anno e
conclusosi nel settembre 1855 con la caduta della città. Il successivo congresso
di Parigi confermò la neutralizzazione del Mar Nero, stabilendo che restasse
chiuso alle navi da guerra di tutti i paesi, compresa la Russia. L'Impero
ottomano vide garantita la sua integrità e confermata la sua sovranità nominale
sui Principati autonomi di Serbia, Moldavia e Valacchia: questi ultimi due si
sarebbero uniti nel 1859 per formare il nuovo Stato di Romania.
Una seconda occasione fu quella della vittoriosa guerra all'Austria al fianco
del Piemonte cavouriano nel 1859.
Ma il risultato principale della guerra – la formazione di uno Stato nazionale
italiano sotto la guida del Piemonte – fu ben lontano dai progetti di Napoleone
III, che mirava a subentrare all'Austria come potenza egemone in un'Italia che
doveva rimanere divisa.
La debolezza dell'Impero d'Austria
Dopo le rivoluzioni del '48-49, l'Impero asburgico si riorganizzò sulla base
del vecchio sistema assolutistico.
Del resto, nonostante il persistere dei contrasti di nazionalità – che erano
stati aggravati dalle vicende del '48 – il potere imperiale poteva contare sul
sostegno della maggioranza dei contadini, favoriti dall'abolizione della servitù
della gleba, e su quello della Chiesa cattolica.
Appoggiandosi su queste forze, lo Stato sacrificò le esigenze dei settori
industriali (soprattutto quelli delle zone più progredite, come la Boemia e la
Lombardia), chiamati a pagare i costi di un imponente apparato amministrativo e
militare, e mancò in sostanza l'appuntamento con lo sviluppo economico degli
anni '50 e '60 senza peraltro mantenere, anche a causa delle ripetute sconfitte
militari, il ruolo da protagonista della scena europea che aveva prima del '48.
La forza della Prussia
La Prussia si era sviluppata, a partire dagli anni '50, a un ritmo che non
aveva uguali in Europa. Questa espansione industriale e la crescita di una forte
borghesia si concentrarono soprattutto nella parte occidentale dello Stato
prussiano (cioè nella Renania-Vestfalia). Lo sviluppo economico non era stato
accompagnato, però, da un'evoluzione delle istituzioni in senso
liberaiparlamentare: al contrario i vertici dello Stato continuavano a essere
occupati dagli esponenti degli Junker, gli aristocratici proprietari terrieri.
Proprio il conservatorismo sociale si rivelò una componente essenziale di quella
"via prussiana" allo sviluppo, guidato dall'alto e legato al potenziamento
militare, che avrebbe finito col costituire una sorta di modello alternativo a
quello britannico. Inoltre, elementi di modernità come un efficiente sistema di
comunicazioni interne (strade, canali), una rete ferroviaria relativamente
sviluppata e un'alta diffusione dell'istruzione rappresentarono un fattore
decisivo per i successi della Prussia nel campo economico come in quello
militare. Così il tradizionalismo degli Junker e le aspirazioni nazionali della
borghesia finirono col trovare un terreno di convergenza nella politica di
potenza dello Stato prussiano e nel suo necessario complemento, ossia lo
sviluppo di un'adeguata forza militare.
L'artefice principale di questa politica fu Otto von Bismarck, un tipico
rappresentante degli Junker che non aveva mai fatto mistero della sua avversione
alla democrazia e al liberalismo. Nominato primo ministro nel 1862 dal re
Guglielmo I, Bismarck si impegnò nel rafforzamento dell'esercito, anche contro
le riserve del Parlamento, in funzione dell'obiettivo dell'unificazione.
Per raggiungere questo obiettivo la Prussia doveva sconfiggere sul campo di
battaglia Austria e Francia, i due nemici di un'unità tedesca a guida prussiana.
Del resto il programma politico di Bismarck era stato chiaramente enunciato
quando aveva sostenuto che le grandi questioni si sarebbero risolte «non con
discorsi né con deliberazioni della maggioranza – questo era stato l'errore del
'48-49 – bensì col ferro e col sangue».
Gli esiti del conflitto fra Austria e Prussia
Gli attriti tra Austria e Prussia relativi all'amministrazione dei ducati di
Schleswig, Holstein e Lauenburg, sottratti dalle due potenze alla Danimarca nel
1864, costituirono il pretesto della guerra agli austriaci nel 1866. Garantitasi
la neutralità della Russia e della Francia, e alleatasi con l'Italia, la Prussia
sconfisse l'Austria nella grande battaglia campale di Sadowa in Boemia (3
luglio). A conferma della preponderante superiorità militare prussiana, la
guerra era durata solo tre settimane. Nella successiva pace di Praga l'Austria
non subì mutilazioni territoriali, salvo quella del Veneto ceduto all'Italia. Ma
dovette accettare lo scioglimento della vecchia Confederazione germanica, e
dunque la fine di ogni sua influenza nell'Europa centrosettentrionale, dove a
nord del fiume Meno si formò la nuova Confederazione della Germania del Nord a
guida prussiana.
I nuovi equilibri spinsero l'Impero asburgico a spostare il centro dei suoi
interessi verso l'area danubiano-balcanica e a cercare una nuova soluzione per
il problema delle nazionalità che convivevano al suo interno. Nel 1867 l'Impero
fu diviso in due Stati, l'uno austriaco, l'altro ungherese (da ora in poi si
parlerà infatti di Impero austro-ungarico), uniti fra loro nella persona del
sovrano, ma ciascuno con un proprio Parlamento e un proprio governo, salvo che
per i ministeri preposti agli affari di interesse comune (Esteri, Guerra e
Finanze). Col "compromesso" del '67, la dinastia asburgica si accordava col
gruppo nazionale più forte e compatto, ma scontentava soprattutto gli slavi che
avrebbero rappresentato da allora il pericolo più grave per l'unità dell'Impero.
La sconfitta della Francia e l'unità tedesca
La guerra franco-prussiana
Il cammino verso l'unificazione tedesca procedeva secondo un programma di
politica di potenza che la borghesia liberale era costretta ormai a subire e che
era fuori dal controllo del Parlamento, nel quale le posizioni liberali erano
state sconfitte dal rapporto diretto del cancelliere con il sovrano: sulle spese
militari Bismarck decise infatti di scavalcare il Parlamento e di farle
approvare per decreto reale. L'ultimo ostacolo sulla via dell'unità era
rappresentato dalla Francia di Napoleone III, deciso a non consentire ulteriori
ingrandimenti alla Prussia.
L'occasione per il conflitto fu offerta da una questione dinastica. Nel 1868 il
trono di Spagna era rimasto vacante e la corona era stata offerta a un parente
del re di Prussia.
La prospettiva di un principe tedesco sul trono di Spagna spaventava ovviamente
la Francia, che si sentiva minacciata di accerchiamento. L'opinione pubblica
francese insorse compatta e la reazione del governo fu fermissima. Bismarck
esasperò abilmente queste tendenze bellicose rilasciando, all'indomani di un
incontro fra Guglielmo I e l'ambasciatore francese, un comunicato stampa
formulato in modo volutamente provocatorio: vi si lasciava intendere che
l'ambasciatore era stato messo alla porta dal re. Quel comunicato provocò in
Francia, e soprattutto a Parigi, un'ondata di furore nazionalistico. Il governo
e lo stesso imperatore, fin allora esitante, si lasciarono trascinare dalla
spinta dell'opinione pubblica e, il 19 luglio 1870, dichiararono guerra alla
Prussia.
La Francia affrontò il conflitto in un clima di grande entusiasmo, ma con scarsa
preparazione militare.
L'esercito, che pure poteva contare su un armamento moderno ed efficiente, era
nettamente inferiore a quello prussiano sia per il numero degli effettivi sia
per l'organizzazione. Come nella guerra contro l'Austria del '66, le truppe
comandate dal generale von Moltke si mossero con grande rapidità: il 1°
settembre, mentre metà dell'esercito francese non riusciva ad arretrare sotto
l'attacco tedesco in Lorena, l'altra metà venne accerchiata a Sedan, presso il
confine col Belgio, e costretta ad arrendersi. Lo stesso imperatore fu preso
prigioniero dai tedeschi.
Pochi giorni dopo, nella capitale ormai minacciata dai prussiani, abbattuto
l'impero e proclamata la repubblica, si formava un governo provvisorio. Invano
il ministro della Guerra Léon Gambetta, fuggito con un pallone aerostatico da
Parigi assediata, tentò di rianimare la resistenza organizzando la leva in massa
nelle province e mobilitando il popolo contro gli invasori (in questa occasione
intervenne in difesa della nuova Francia repubblicana anche un corpo di
volontari italiano comandato da Garibaldi). Dopo una serie di sconfitte il
governo fu costretto a chiedere l'armistizio nel gennaio 1871.
L'unificazione tedesca e il desiderio di rivincita francese
Nel frattempo, il 9 dicembre 1870, era stato proclamato l'Impero tedesco (il
Reich) che nasceva dalla fusione della Prussia e degli Stati della
Confederazione del Nord con gli Stati della Germania meridionale tra cui il
regno di Baviera. Il 18 gennaio 1871 nella reggia di Versailles, luogo-simbolo
della potenza dei re di Francia, Guglielmo I fu incoronato imperatore tedesco (Deutscher
Kaiser).
L'unità tedesca era compiuta: un'unità calata dall'alto, attuata, in seguito a
una guerra combattuta contro il nemico tradizionale, soprattutto per
l'iniziativa di uno statista abile e autoritario, mai ratificata da un
plebiscito o da una qualsiasi forma di consultazione popolare.
Con la successiva pace di Francoforte non solo la Francia fu costretta a
corrispondere una pesante indennità di guerra. ma dovette cedere al Reich
l'Alsazia e la Lorena.
due regioni di confine di notevole importanza economica e strategica. La
disfatta di Sedan, l'invasione del paese, la caduta di Parigi e la perdita dell'Alsazia-Lorena
rappresentarono per la Francia molto più che una sconfitta militare. Si trattò
di una vera e propria umiliazione nazionale. li desiderio di riparare a questa
umiliazione – il cosiddetto "revanscismo", dal francese revanche, 'rivincita' –
avrebbe condizionato per quasi mezzo secolo la politica francese determinando
un'insanabile rivalità.
La Comune di Parigi
Lo scontro tra la capitale e la Francia rurale
Dopo la battaglia di Sedan che sancì la vittoria prussiana, era stato il
popolo della capitale francese a insorgere, a costituire una Guardia nazionale e
a decretare la fine del regime napoleonico. Parigi aveva vissuto la caduta
dell'Impero come una nuova occasione rivoluzionaria e al tempo stesso come
l'inizio di una riscossa nazionale.
Molto diverso era l'orientamento nelle campagne e nei centri minori, dove
prevalevano le tendenze conservatrici.
La frattura si delineò con chiarezza dopo le elezioni della nuova Assemblea
nazionale, che si tennero nel febbraio 1871. Grazie al voto delle campagne
l'Assemblea, che tenne le sue prime riunioni a Bordeaux, risultò composta in
stragrande maggioranza da moderati e conservatori. A presiedere il governo fu
chiamato Adolphe Thiers, un esponente della Francia moderata, già ministro di
Luigi Filippo d'Orléans. Appena entrato in carica, il nuovo governo si affrettò
ad aprire trattative di pace.
Ma, quando furono note le durissime condizioni imposte da Bismarck (che
prevedevano fra l'altro l'ingresso delle truppe tedesche nella capitale), il
popolo di Parigi protestò in massa e decise di difendere la città. Lo scontro
fra la Parigi rivoluzionaria e la Francia rurale e conservatrice diventava
inevitabile, né Thiers fece nulla per evitarlo.
Quando, a metà marzo, il governo ordinò la consegna delle armi raccolte per la
difesa della capitale, il comando della Guardia nazionale rifiutò di obbedire e
indisse le elezioni per il Consiglio della Comune.
L'esperienza rivoluzionaria della Comune
In queste elezioni, tenutesi in marzo, l'elettorato conservatore si astenne
in gran parte dalle urne — anche perché i ricchi avevano abbandonato in massa la
capitale — e il potere restò nelle mani dei gruppi di estrema sinistra,
democratico-giacobini ma anche socialisti e anarchici. Per quanto divisi da seri
contrasti, i dirigenti della Comune diedero vita nel giro di poche settimane a
un esperimento radicale di democrazia diretta.
Fu abolita la distinzione fra potere esecutivo e legislativo, tutti i funzionari
furono resi elettivi e continuamente revocabili, l'esercito venne sostituito da
milizie popolari armate. Queste misure provocarono l'allarme dei conservatori e
dei moderati e suscitarono l'entusiasmo dei rivoluzionari di tutta Europa. Marx
e Bakunin videro nella Comune il primo esempio di gestione diretta del potere da
parte delle masse, quasi un modello per la futura società socialista.
Racchiusa entro i confini di una sola città, isolata dal resto del paese,
occupato per giunta da truppe straniere, la Comune non riuscì a coinvolgere
anche i piccoli centri e le campagne. Gli appelli lanciati da Parigi agli altri
comuni di Francia perché si associassero alla capitale in una libera federazione
caddero nel vuoto. E l'esperienza della Comune durò non più di due mesi: il
tempo necessario a Thiers per raccogliere, con l'assenso degli occupanti
tedeschi, un esercito abbastanza forte per muovere alla conquista della
capitale. Fra il 21 e il 28 maggio le truppe governative procedettero
all'assalto di Parigi, che fu difesa strada per strada dalle milizie popolari.
La battaglia fu condotta da ambo le parti con estrema determinazione. Alle
esecuzioni sommarie – circa 20 mila uomini furono passati per le armi senza
processo durante la "settimana di sangue" – i difensori della Comune risposero
con sanguinose rappresaglie, che contribuirono ad accentuare nell'opinione
pubblica moderata i sentimenti di paura e odio per i rivoluzionari.
Per la seconda volta in poco più di vent'anni, il movimento rivoluzionario
francese si ritrovava alla fine sconfitto e decimato.
L'Impero tedesco e la politica di Bismarck
Istituzioni politiche e blocco sociale dominante
Con 40 milioni di abitanti, una vasta disponibilità di materie prime, un'economia in continua crescita, un esercito di provata efficienza e un sistema di istruzione altrettanto qualificato, il nuovo Stato tedesco nato dalla vittoria sulla Francia si presentava come la maggiore potenza continentale europea. Dal punto di vista istituzionale, il Reich ereditava la struttura della vecchia Confederazione germanica: era infatti diviso in venticinque Stati – alcuni vastissimi, come la Prussia, altri piccoli o piccolissimi – con propri governi e parlamenti (che avevano però funzioni prevalentemente amministrative) e in qualche caso un proprio esercito, come la Baviera.
La formazione del Reich
La grande politica era di competenza del governo centrale, presieduto da un cancelliere responsabile di fronte all'imperatore. Il potere legislativo era esercitato dal Parlamento, diviso in due camere, una camera elettiva, il Reichstag, eletta a suffragio universale e un Consiglio federale, il Bundesrat, composto da rappresentanti dei singoli Stati. Come nella Prussia preunitaria, il Parlamento aveva limitate possibilità di condizionare il potere esecutivo, concentrato nelle mani dell'imperatore e del cancelliere. Come in Prussia, il blocco sociale dominante era costituito da una solida alleanza fra il mondo industriale e bancario e l'aristocrazia terriera e militare: un blocco che fu rinsaldato dalla politica protezionista adottata da Bismarck, a vantaggio soprattutto dell'industria pesante e della cerealicoltura.
I partiti politici
Una vivace dialettica politica caratterizzò la Germania con la nascita di
nuovi e forti movimenti politici di massa.
Alle tradizionali formazioni liberali e conservatrici che avevano dominato la
scena parlamentare in Prussia negli anni '60 – il Partito conservatore,
espressione degli Junker, il Partito nazional-liberale, che rappresentava la
borghesia industriale e commerciale, e il piccolo raggruppamento degli
intellettuali liberai-progressisti –si aggiunse, nel 1871, il partito cattolico
del Centro. Nel 1875, dall'accordo fra la corrente marxista e quella che si
ispirava a Lassalle, nacque il Partito socialdemocratico tedesco (Spd). Mentre
la socialdemocrazia traeva la sua forza dalla massiccia adesione operaia delle
regioni e città industriali, il Centro poggiava su una base sociale formata per
lo più da agricoltori e ceti medi urbani presenti in Renania e in Baviera.
Bismarck contro i cattolici e i socialdemocratici
Nei primi anni '70 Bismarck iniziò una politica duramente anticattolica — il
Kulturkampf, la 'battaglia per la civiltà' — emanando una serie di misure
volte non solo ad affermare il carattere laico dello Stato (obbligo del
matrimonio civile, abolizione di ogni controllo religioso sull'insegnamento), ma
anche a porre sotto sorveglianza l'attività del clero cattolico. La lotta
scatenata da Bismarck ebbe però l'effetto di stimolare l'orgoglio e la
compattezza dei cattolici tedeschi, che riuscirono nel giro di pochi anni a
raddoppiare la loro rappresentanza parlamentare.
Bismarck fu costretto, così, ad attenuare le misure anticattoliche e a varare
una nuova legislazione ecclesiastica, molto più moderata della precedente.
L'abbandono del Kulturkampf fu imposto al cancelliere anche dalla
necessità di fronteggiare la minaccia che veniva dall'ascesa della
socialdemocrazia. Già nel 1878, traendo pretesto da due attentati falliti contro
l'imperatore, il governo varò una serie di leggi eccezionali specificamente
rivolte contro il movimento socialdemocratico. Le «leggi contro le tendenze
sovvertitrici» ponevano gravi limitazioni alla libertà di stampa e di riunione e
dichiaravano illegali tutte le associazioni «aventi lo scopo di provocare il
rovesciamento dell'ordinamento statale o sociale esistente», costringendo così
la socialdemocrazia a una condizione di semiclandestinità.
Nel tentativo di soffocare sul nascere lo sviluppo del movimento operaio,
Bismarck non si limitò però alle misure repressive. Fra il 1883 e il 1889 il
Parlamento approvò, su proposta del governo, alcune importanti leggi di tutela
delle classi lavoratrici, che istituivano assicurazioni obbligatorie per gli
infortuni sul lavoro, le malattie e la vecchiaia, facendone gravare il peso in
parte sugli imprenditori, in parte sullo Stato, in parte sui lavoratori stessi.
In un'epoca in cui le attività previdenziali e assistenziali erano affidate
all'iniziativa dei privati o delle istituzioni religiose, la legislazione
sociale varata da Bismarck era obiettivamente molto avanzata. Dando
soddisfazione ad alcune delle esigenze più sentite dalla classe operaia e al
tempo stesso rifiutando di riconoscere legittimità alla sua rappresentanza
organizzata, Bismarck mirava a integrare le masse lavoratrici nello Stato in una
posizione subalterna.
I successi della socialdemocrazia
Questa operazione andò però incontro a un insuccesso politico analogo a quello subito nella lotta contro i cattolici. Il varo della legislazione sociale non impedì la nascita, alla fine degli anni '80, di un forte movimento sindacale guidato dai socialdemocratici. D'altra parte le leggi eccezionali, prorogate periodicamente fino al 1890, non riuscirono a bloccare la crescita elettorale della socialdemocrazia, che passò dai circa 500 mila voti del 1878 a quasi 1 milione e mezzo (il 18% dei suffragi, con 35 deputati al Reichstag) nel 1890. L'affermazione socialdemocratica sancì il fallimento della politica bismarckiana nei confronti del movimento operaio e contribuì a provocare, nel 1890, l'allontanamento dal governo dell'onnipotente cancelliere.
La politica estera e il sistema bismarckiano
Nel ventennio in cui rimase al potere Bismarck fu l'arbitro dell'equilibrio
europeo. Dopo la vittoria sulla Francia, infatti, il cancelliere tedesco costruì
un sistema di alleanze che aveva come scopo principale quello di impedire che la
Francia potesse uscire dal suo isolamento politicodiplomatico.
A questo fine si alleò con l'Austria-Ungheria, con la Russia e con l'Italia,
contando sul fatto che la Gran Bretagna non si sarebbe mai avvicinata alla
Francia, sia per la sua riluttanza a impegnarsi sul continente europeo, sia per
la rivalità che opponeva le due potenze nell'espansione coloniale in Africa.
Fulcro iniziale del sistema bismarckiano fu il patto dei tre imperatori,
stipulato nel 1873 fra Germania, Austria- Ungheria e Russia: un patto difensivo
che si fondava soprattutto sulla solidarietà fra le tre monarchie autoritarie e
aveva per obiettivo palese la tutela degli equilibri conservatori all'interno
dei singoli Stati. L'alleanza aveva però un punto debole: la vecchia rivalità
fra Austria e Russia nella Penisola balcanica, dove le popolazioni slave erano
in perenne ribellione contro il dominio ottomano.
Fra il 1875 e il 1876 il governo turco represse con grande spargimento di sangue
una serie di rivolte scoppiate in Bosnia, in Erzegovina e in Bulgaria. Nella
primavera del '77 la Russia, grande protettrice dei popoli slavi, dichiarò
guerra alla Turchia ottomana e la sconfisse, imponendole una pace quanto mai
onerosa, che in pratica avrebbe sancito l'egemonia russa nei Balcani. Come era
avvenuto nel 1854, questa prospettiva allarmò le altre potenze europee.
Austria-Ungheria e Gran Bretagna, in particolare, minacciarono di intervenire
contro la Russia.
Dal congresso di Berlino alla Triplice alleanza
A questo punto fu Bismarck a prendere l'iniziativa, nel ruolo del mediatore.
Un congresso delle potenze europee fu convocato a Berlino nell'estate del '78
dove si giunse a un accordo che limitava notevolmente i vantaggi ottenuti dalla
Russia, pur ridisegnando radicalmente gli equilibri della Penisola balcanica. La
Bulgaria ottenne l'indipendenza, ma entro confini assai più ristretti rispetto a
quelli determinati dall'esito del conflitto russo-turco dell'anno precedente. La
Bosnia e l'Erzegovina furono dichiarate autonome, ma affidate in
"amministrazione temporanea" all'Austria. La Gran Bretagna ottenne l'isola di
Cipro, in posizione strategica per il controllo del canale di Suez che collega
ancora oggi il Mediterraneo al Mar Rosso. La Francia ebbe mano libera per una
eventuale espansione in Tunisia nel Nord Africa. In questo modo Bismarck non
solo indirizzava verso obiettivi extraeuropei le velleità espansionistiche della
Francia, ma creava le premesse per un contrasto con l'Italia.
Scongiurato il pericolo di un conflitto, Bismarck cercò di ricucire l'alleanza
con l'Austria e la Russia. Ci riuscì nel 1881, quando fu rinnovato il patto dei
tre imperatori. Un anno dopo l'edificio fu completato con la stipulazione della
Triplice alleanza, che inseriva nel sistema bismarckiano anche l'Italia come
alleata della Germania e dell'Austria.
La Repubblica in Francia
Dopo i traumi della sconfitta e la "settimana di sangue" con cui si chiuse
l'esperienza della Comune, la Francia non tardò a rivelare segni di ripresa. Nel
luglio del '72, quasi a dimostrare la volontà di rivincita del paese,
l'Assemblea nazionale decise l'introduzione del servizio militare obbligatorio.
Nel settembre '73 fu ultimato il pagamento dell'indennità di guerra dovuta ai
tedeschi.
Alla fine degli anni '70 la Francia aveva già recuperato buona parte del suo
prestigio internazionale, disponeva di un forte esercito e cominciava a
incamminarsi con decisione sulla strada delle conquiste coloniali.
La Terza Repubblica
Più travagliato fu il processo di stabilizzazione politica.
La stessa forma repubblicana di governo fu a lungo in forse, dato che i membri
dell'Assemblea nazionale, incaricata di redigere la nuova costituzione, erano in
maggioranza favorevoli alla restaurazione della monarchia. Solo le fratture
interne allo schieramento monarchico – diviso fra i legittimisti, fautori di un
ritorno dei Borbone, e gli orleanisti, che volevano sul trono gli eredi di Luigi
Filippo – e un accordo raggiunto in extremis fra orleanisti e repubblicani
moderati consentirono il varo di una costituzione repubblicana. La Costituzione
della Terza Repubblica del 1875 prevedeva che il potere legislativo fosse
esercitato da una Camera eletta a suffragio universale maschile e da un Senato
composto da membri in parte vitalizi e in parte elettivi.
Un elemento di stabilità era costituito dalla figura del presidente della
Repubblica, capo dell'esecutivo, che veniva eletto dalle Camere riunite e godeva
in teoria di poteri molto ampi. La carta costituzionale, così concepita,
rappresentava un compromesso fra una soluzione di tipo presidenziale,
all'americana, preferita dai moderati, e una di stampo parlamentare, sostenuta
dai democratici: la prima avrebbe conferito amplissimi poteri al presidente
della Repubblica, la seconda maggiori poteri al Parlamento. La Costituzione del
1875 rappresentò un indubbio successo per i repubblicani francesi che, nelle
elezioni del 1876, riuscirono a capovolgere la tendenza conservatrice fin allora
prevalente nell'elettorato e ad assicurarsi una solida maggioranza.
Opportunisti e radicali
A dominare la scena politica furono i repubblicani dell'ala moderata, i cosiddetti opportunisti, la cui forza stava essenzialmente in un solido legame con l'elettorato "medio", quello dei commercianti, degli impiegati e soprattutto dei piccoli agricoltori. Di questo elettorato essi seppero interpretare la generica aspirazione al progresso, ma anche le tendenze conservatrici in materia di rapporti sociali. Di qui le critiche dei repubblicani più avanzati – o radicali, come allora si definirono in contrapposizione agli opportunisti – che costituirono un forte raggruppamento autonomo capeggiato da Georges Clemenceau.
L'operato dei governi repubblicani
Fu comunque sotto la guida dei governi repubblicanomoderati che la Francia
poté consolidare le sue istituzioni democratiche e superare gradualmente le
fratture provocate dalla Comune del '71. Nel 1880 fu approvata un'amnistia per i
comunardi incarcerati o deportati, che permise al movimento operaio francese di
ricostituire lentamente le sue file. Nel 1884 il Senato divenne completamente
elettivo. Sempre nel 1884, furono approvate tre leggi di notevole importanza:
quella che garantiva la libertà di associazione sindacale, quella che ampliava
le autonomie locali, stabilendo fra l'altro l'elettività dei sindaci, e quella
che introduceva il divorzio.
L'azione dei governi repubblicani fu incisiva soprattutto nell'affermazione
della laicità dello Stato, in particolare nel settore della scuola, tradizionale
terreno di scontro fra cattolici e laici, fra democratici e conservatori. Con
una serie di leggi approvate fra 1'80 e 1'85, l'istruzione elementare fu resa
obbligatoria e gratuita e posta sotto il controllo statale, mentre le università
e gli istituti superiori gestiti dal clero furono privati del diritto di
rilasciare titoli legali di studio.
Corruzione politica e speculazione finanziaria
L'indebolimento dei poteri del presidente della Repubblica e l'instaurarsi di una prassi parlamentare di governo ebbero come conseguenza negativa un'altissima instabilità degli esecutivi, aggravata dalla mancanza di schieramenti politici compatti. Un altro male storico della Terza Repubblica fu la corruzione diffusa nelle alte sfere del potere. Una corruzione che – come già nella monarchia di Luigi Filippo e nel Secondo Impero – affondava le sue radici nello stretto legame tra il mondo politico e gli ambienti della speculazione finanziaria, e che trovava nuovo alimento nelle rapide possibilità di guadagno offerte dall'espansione coloniale. Il susseguirsi di scandali politico-finanziari mise spesso a dura prova la solidità delle istituzioni e seminò disagio e sfiducia in larghi settori dell'opinione pubblica.
L'imperialismo in Gran Bretagna
La Gran Bretagna a metà '800
La Gran Bretagna rimaneva, alla metà dell'800, la più progredita fra le
grandi potenze europee. Produceva i due terzi del carbone e la metà del ferro di
tutto il mondo.
Aveva la rete ferroviaria più sviluppata in relazione al territorio e una flotta
mercantile pari alla metà di quella di tutti gli altri paesi europei messi
insieme. Era il centro commerciale e finanziario cui facevano capo i traffici di
tutti i continenti. Possedeva un impero coloniale già vasto e, come vedremo, in
via di ulteriore espansione. Aveva un tasso di analfabetismo fra i più bassi del
mondo. Aveva infine le istituzioni politiche più libere d'Europa.
Il ventennio '46-66, caratterizzato dalla presenza quasi ininterrotta dei
liberali al governo, segnò un ulteriore consolidamento del sistema parlamentare,
cioè di quel sistema, nato proprio in Gran Bretagna, che subordinava la vita di
un governo alla fiducia del Parlamento e faceva di quest'ultimo l'arbitro
indiscusso della vita politica. Alla Corona era invece affidato un ruolo
essenzialmente simbolico di personificazione dell'identità nazionale, ruolo che
si manifestò pienamente nel corso del lunghissimo regno della regina Vittoria
(dal 1837 al 1901).
Il sistema parlamentare non era però sinonimo di democrazia. In Gran Bretagna
molti poteri spettavano ancora alla Camera alta, ossia alla Camera dei Lords,
alla quale si accedeva per diritto ereditario o per nomina regia.
La stessa Camera elettiva, la Camera dei Comuni, era espressione di uno strato
piuttosto ristretto della popolazione: in base alla legge elettorale del 1832,
avevano diritto al voto negli anni '60 circa 1.300.000 persone, ossia il 15% del
totale dei maschi adulti. Inoltre la pratica del voto palese, che sarebbe stata
abolita solo nel 1872, rappresentava, soprattutto nelle zone rurali, un potente
mezzo di condizionamento a vantaggio dell'aristocrazia terriera.
Riforma elettorale e alternanza al governo di liberali e conservatori
Nel 1865 il leader dei liberali William Gladstone, facendosi interprete della
parte più dinamica della società britannica – la borghesia industriale alleata
con le frange più qualificate della classe operaia –, presentò un progetto di
legge che prevedeva una limitata estensione del diritto di voto. La proposta
provocò però, nel 1866, la caduta del governo liberale e il ritorno al potere
dei conservatori. Ma furono proprio i conservatori, sotto la spinta di un nuovo
e dinamico leader, Benjamin Disraeli (un ebreo di origine veneziana convertito
adolescente all'anglicanesimo), ad assumere l'iniziativa di una riforma
elettorale più avanzata di quella proposta da Gladstone. La nuova legge, o
Reform Act, varata nel 1867, aumentava di quasi un milione la consistenza del
corpo elettorale, ammettendo al voto i lavoratori urbani a reddito più elevato.
Spingendo i conservatori a farsi promotori della riforma, Disraeli mostrava di
riconoscere il peso che i lavoratori dell'industria avevano assunto nella
società britannica e cercava di allargare in quella direzione la base di
consenso del suo partito.
Fino alla fine degli anni '70 Gladstone e Disraeli si alternarono al governo,
distinguendosi soprattutto per lo stile politico e per la diversa impostazione
della politica estera: più legato Gladstone agli ideali del liberalismo, più
proiettato Disraeli sugli obiettivi imperiali della politica britannica, cui
cercò di assicurare un solido consenso popolare, promuovendo importanti riforme
sociali in tema di salute pubblica e di edilizia popolare. A partire dal 1880 i
liberali tornarono a dominare la scena politica promuovendo, nel 1884, una nuova
riforma elettorale che allargava ulteriormente il diritto di voto estendendolo
alla maggioranza dei lavoratori agricoli.
Il problema irlandese
In questa fase, però, il governo liberale fu costretto a dedicare buona parte
delle sue energie alla "questione irlandese". Negli irlandesi convivevano
infatti fedeltà al cattolicesimo (e alla Chiesa di Roma) e tendenze
indipendentiste di marca nazionalista, entrambi fattori che mettevano in
discussione l'appartenenza al Regno Unito.
Alla fine degli anni '70, inoltre, l'Irlanda aveva visto aggravare le sue già
disagiate condizioni economiche a causa della grave crisi che aveva colpito
l'agricoltura europea. Alla pressione del movimento indipendentista – che si
esprimeva sia con le lotte parlamentari sia con gli atti terroristici –
Gladstone rispose presentando in Parlamento un progetto che prevedeva la
concessione di ampie autonomie all'isola seppure nella cornice istituzionale del
Regno Unito. Questo progetto (Home
Rule) provocò una forte opposizione nello stesso partito liberale e la
secessione degli esponenti unionisti, cioè contrari alla autonomia dell'Irlanda,
guidati da Joseph Chamberlain, leader della corrente di sinistra, che vantava
forti legami con l'elettorato operaio. La scelta degli unionisti di confluire
nelle fila dei conservatori consentì a questi ultimi di affermarsi nelle
elezioni del 1886 e di mantenere a lungo il potere rinnovando il tentativo, che
era stato già di Disraeli, di coniugare la politica imperialistica con una certa
dose di riformismo sociale.
L'autocrazia russa
Nella seconda metà dell'800, la Russia conservava, fra le grandi potenze europee, il primato dell'arretratezza politica e civile. Era ancora uno Stato autocratico, il cui controllo supremo era riposto nelle mani dello zar. Inoltre, all'inizio degli anni '50 più del 90% della popolazione era occupato nell'agricoltura e oltre 20 milioni di contadini (su un totale di circa 60 milioni di abitanti) erano soggetti alla servitù della gleba: erano cioè legati alla terra che coltivavano – dunque comprati e venduti assieme a essa – e subordinati personalmente ai proprietari. Un'aristocrazia terriera assenteista, propensa a consumare le proprie rendite in spese di prestigio più che a investirle in impieghi produttivi, dominava ancora incontrastata come nell'Europa dell'ancien régime. All'immobilismo delle strutture politiche e sociali faceva singolare riscontro l'eccezionale livello della vita intellettuale. L'800 fu il secolo d'oro della letteratura russa: grandi scrittori come Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij, Cechov ci offrono un quadro vivissimo di una società diversa in ogni suo aspetto da quella dell'Europa occidentale e ci restituiscono gli echi di un dibattito ideologico quanto mai vivace.
Lo zar Alessandro II
Nel 1855 salì sul trono imperiale Alessandro II. Il nuovo zar iniziò il suo regno concedendo un'amnistia ai detenuti politici e varando una serie di riforme che avevano lo scopo di introdurre elementi di modernizzazione nella burocrazia, nella scuola, nel sistema giudiziario e nell'esercito. Ma la riforma di gran lunga più importante cui Alessandro II legò il suo nome fu l'abolizione della servitù della gleba. Grazie a una serie di decreti imperiali emanati nel febbraio 1861, i servi acquistarono la libertà personale e la parità giuridica con gli altri cittadini e, contemporaneamente, ebbero la possibilità di riscattare le terre che coltivavano e di trasformarsi così in piccoli proprietari. L'assegnazione delle terre agli ex servi, tuttavia, avvenne con criteri non uniformi, e comunque tali da salvaguardare le grandi proprietà. Agli entusiasmi che avevano accompagnato l'inizio della riforma subentrò ben presto nelle campagne un clima di delusione e di malcontento, rivolto soprattutto contro i signori accusati (a torto) di aver deliberatamente travisato e tradito l'autentica volontà dello zar. Vi furono proteste e vere e proprie ribellioni, represse con l'intervento dell'esercito.
I populisti
Con le travagliate vicende legate all'emancipazione dei servi si chiuse la
breve stagione liberalizzante del regno di Alessandro II. Dopo il 1861 si
assisté, infatti, a un appesantimento del clima politico e a un nuovo
inasprimento dei controlli polizieschi, che accentuarono la frattura fra il
potere statale e la borghesia colta. Fra le giovani generazioni andò
diffondendosi un atteggiamento di rifiuto totale dell'ordine costituito, unito a
uno sforzo sincero di avvicinarsi ai problemi delle classi subalterne.
Fu questo il senso della parola d'ordine «andare al popolo» che ebbe ampia eco
fra i giovani negli anni '60 e '70: da questo slogan derivò il nome di populisti
(narodniki, da narod, 'popolo') col quale vennero designati gli
intellettuali rivoluzionari che in questo periodo tentarono, senza troppa
fortuna, di compiere opera di educazione culturale e di proselitismo politico
fra le masse. Base fondamentale del loro programma era l'utopia di un socialismo
agrario che facesse leva sul proletariato delle campagne e si inserisse nella
tradizione comunitaria della società rurale russa. L'incomprensione delle masse
contadine e la durezza della repressione poliziesca finirono però con l'isolare
sempre più i narodniki e con lo spingerli verso la pratica cospiratoria.
Quando, nel 1881, Alessandro II fu ucciso da un attentatore anarchico, le
speranze che avevano accompagnato i suoi primi anni di regno non erano ormai che
un lontano ricordo.
STATI UNITI E
GIAPPONE
Quanto avvenne oltreoceano, negli Stati Uniti e in Giappone, nella seconda metà dell'800 rivestì un'importanza pari alle trasformazioni dell'Europa continentale descritte nel capitolo precedente, soprattutto in relazione agli sviluppi successivi dei rapporti internazionali, alle guerre e alle alleanze. Dopo una durissima guerra civile gli Stati Uniti approdarono, alla fine del secolo – ormai esaurita la spinta verso la conquista della nuova frontiera continentale –, al ruolo di grande potenza proiettata sui mari, nei Caraibi e nel Pacifico. Il Giappone iniziò nel 1868 una fase di modernizzazione uscendo da un regime feudale e approdando anch'esso al ruolo di grande potenza economica e militare sul finire del secolo.
Gli Stati Uniti a metà '800
Lo sviluppo economico
Alla metà dell'800, gli Stati Uniti d'America erano un paese in
crescente espansione con una popolazione in costante aumento (23 milioni nel
1850, oltre 30 dieci anni dopo), grazie soprattutto all'ininterrotto flusso
migratorio proveniente dall'Europa. I confini dell'Unione continuavano a
spostarsi verso ovest, includendo vasti territori ben presto attraversati da
strade e linee ferroviarie. La produzione agricola progrediva con ritmi molto
elevati, sia per la messa a coltura di nuove terre nelle regioni di recente
colonizzazione, sia per lo sviluppo di una moderna agricoltura negli Stati del
Vicino Ovest (Midwest), di più antica colonizzazione. Contemporaneamente, la
regione del Nord-Est – in particolare la zona della costa atlantica – conosceva
un rapido sviluppo industriale. Ma a questa straordinaria espansione
dell'economia facevano riscontro profonde fratture interne. Negli Stati Uniti
coesistevano infatti tre diverse società, corrispondenti alle diverse zone del
paese, ciascuna col suo sistema economico, i suoi valori, le sue tradizioni
culturali.
- Il Nord-est C'erano innanzitutto gli Stati del Nord-Est, sede delle prime
colonie britanniche e nucleo originario dell'Unione. Era la zona più progredita,
più ricca e più industrializzata, dove sorgevano i maggiori centri urbani (New
York, Boston, Philadelphia), dove si concentravano i commerci con l'Europa e
dove principalmente si indirizzava l'ondata migratoria proveniente dal Vecchio
Continente. Un ambiente in continua trasformazione, profondamente influenzato
dai valori del capitalismo imprenditoriale, dominato dai gruppi industriali,
commerciali e bancari, e dalla presenza di un numeroso proletariato urbano.
- Il Sud delle piantagioni Quella degli Stati del Sud era invece una società
agricola e profondamente tradizionalista, che fondava la sua economia e la sua
organizzazione sociale sulle grandi piantagioni di cotone e, in minor misura, di
tabacco e canna da zucchero. La manodopera che vi lavorava era costituita in
gran parte da schiavi neri, discendenti da quelli che erano stati forzatamente
trapiantati in America nel '700 (la tratta era stata ufficialmente vietata negli
Stati Uniti solo nel 1808). Nel 1860 vivevano negli Stati del Sud quasi 4
milioni di schiavi neri, contro circa 6 milioni di bianchi, in maggioranza
piccoli e medi coltivatori. Il ceto dei grandi proprietari – che impiegavano il
grosso della manodopera servile – contava non più di 2000 famiglie: una
ristretta minoranza, che però dominava la vita politica e sociale, forniva i
migliori ufficiali all'esercito federale e svolgeva, in un paese in cui non era
mai esistita una vera nobiltà, una funzione sociale simile a quella di
un'aristocrazia. I grandi proprietari vivevano in case ampie e lussuose, avevano
il culto della tradizione e il gusto delle buone maniere, si ispiravano a
un'etica patriarcale e paternalistica. La stessa istituzione della schiavitù
veniva giustificata in questo contesto: anzi, la vita nella piantagione, dove
allo schiavo erano assicurati l'abitazione, il vitto giornaliero e l'istruzione
religiosa, era polemicamente contrapposta – trascurando di ricordarne il
durissimo sfruttamento e il diffuso abuso sessuale delle donne – alla venalità e
all'insicurezza che caratterizzavano i rapporti di lavoro delle realtà
industriali.
- Il West dei contadini e degli allevatori A queste due società così diverse
fra loro se ne contrapponeva una terza: quella dei liberi agricoltori e
allevatori di bestiame che popolavano gli Stati dell'Ovest. Era una società in
rapida evoluzione: man mano che la frontiera si spostava verso il West, le
aziende stabili si sostituivano agli insediamenti isolati dei pionieri
introducendo un'agricoltura mercantile che forniva derrate alimentari, carne e
cereali, alle città del Nord-Est. Nonostante tutto ciò, la società agricola
dell'Ovest restava legata all'etica e ai valori della frontiera: l'iniziativa
individuale, l'indipendenza, l'uguaglianza delle opportunità.
Lo scontro sulla schiavitù
Le differenze tra Nord e Sud erano profonde e destinate inevitabilmente ad accentuarsi fino a divenire insanabile contrasto. L'idea stessa
della schiavitù non si conciliava con la mentalità democratica diffusa fra le
popolazioni del Nord dove era attivo da tempo un vivace movimento abolizionista,
ma era anche incompatibile con la filosofia di un capitalismo moderno e con la
sua esigenza di disporre di una manodopera mobile per un mercato interno in
espansione.
Quando, negli anni '40 e '50, lo sviluppo industriale si allargò a nuovi
settori, in particolare quello meccanico, nel complesso dell'economia americana
diminuì l'importanza della produzione cotoniera, cruciale per il Sud, e si
fecero più strette le relazioni fra il Nord-est industriale e l'Ovest agricolo:
quest'ultimo trovava infatti nelle aree urbane in continua espansione ampi
sbocchi per i suoi prodotti e costituiva a sua volta un largo mercato per
l'industria meccanica, che vi collocava soprattutto macchine agricole. Su queste
premesse si acutizzò lo scontro sulla schiavitù. L'estensione dell'economia
delle piantagioni – e dunque del lavoro servile – ai nuovi territori era
richiesta dai piantatori del Sud, che volevano portare la coltura del cotone
nelle terre vergini, ma incontrava forti opposizioni nell'opinione pubblica del
Nord e fra i coloni dell'Ovest, che chiedevano terre a buon mercato, o
addirittura in uso gratuito, per diffondervi la coltivazione dei cereali.
Il Partito repubblicano e Lincoln
Alle divisioni della società si aggiunsero i contrasti fra le forze
politiche. Con l'inizio degli anni '50 i partiti tradizionali – democratici e
Whigs (liberali) – entrarono in una profonda crisi. I democratici si
identificarono sempre più con la causa dei grandi proprietari schiavisti, mentre
dall'ala progressista del partito whig nacque nel 1854 una nuova formazione
politica, il Partito repubblicano, che assunse una posizione decisamente
antischiavista e accolse nella sua piattaforma politica sia le rivendicazioni
della borghesia del Nord (dazi doganali più alti, che avrebbero favorito la
produzione industriale, ma danneggiato le esportazioni di cotone dal Sud), sia
quelle dei coloni dell'Ovest (distribuzione gratuita dei terreni demaniali). Il
nuovo partito conquistò un seguito sempre crescente finché, nelle elezioni del
1860, riuscì a portare alla presidenza un tipico uomo dell'Ovest, Abraham
Lincoln, un avvocato di salde convinzioni democratiche, proveniente da una
famiglia di modesti agricoltori del Kentucky.
Nonostante fosse un convinto avversario della schiavitù, Lincoln non era un
abolizionista radicale. Nella sua campagna elettorale aveva anzi negato
qualsiasi intenzione di abolire la schiavitù dove esisteva. Tuttavia, la
vittoria repubblicana nelle elezioni del '60 fu sentita da una parte
dell'opinione pubblica del Sud come l'inizio di un processo irreversibile che
avrebbe portato alla vittoria degli interessi industriali, al rafforzamento del
potere centrale, alla progressiva emarginazione degli Stati schiavisti.
La guerra civile americana
Dalla nascita della Confederazione del Sud al conflitto
Tra il dicembre '60 e il febbraio '61 dieci Stati del Sud decisero
di staccarsi dall'Unione e di costituirsi in una Confederazione indipendente.
Questa scelta secessionista, imposta da una minoranza intransigente a una
popolazione incerta e divisa, non poteva non suscitare la reazione del potere
federale: non vi era dunque alternativa alla guerra civile, che ebbe inizio
nell'aprile 1861. Scegliendo la strada dello scontro, i confederati facevano
assegnamento sulla migliore qualità delle loro forze armate. Ma speravano anche
in un intervento a loro favore della Gran Bretagna, che era la principale
importatrice del cotone del Sud e osteggiava i programmi protezionisti dei
repubblicani. Gli Stati del Nord confidavano invece nella schiacciante
superiorità numerica della loro popolazione e sul loro maggior potenziale
economico.
Nelle fasi iniziali della guerra, il miglior addestramento delle forze sudiste e
le notevoli capacità del loro comandante, il generale Robert Lee, diedero ai
confederati una netta prevalenza. Ma, quando fu chiaro che gli Stati del Sud
avrebbero dovuto contare solo sulle loro forze - la Gran Bretagna e le altre
potenze europee si astennero infatti da ogni intervento – e che la guerra
sarebbe stata lunga e logorante, il fattore numerico e quello economico si
rivelarono decisivi. La guerra si concluse infatti nell'aprile del 1865 con la
resa dei confederati al generale Ulysses Grant, comandante delle forze del Nord.
Pochi giorni dopo, il presidente Lincoln cadeva vittima di un attentato per mano
di un fanatico sudista.
Le conseguenze della guerra
La guerra era durata ben quattro anni, aveva visto impegnati nelle operazioni belliche circa 3 milioni di uomini, era costata oltre 600 mila morti e aveva conosciuto battaglie durissime come quella di Gettysburg vinta dai nordisti (luglio 1863). Era stata senza dubbio la prima guerra totale dei nostri tempi: la prima che avesse coinvolto così a lungo la società civile di un grande paese moderno, la prima in cui fossero stati utilizzati sistematicamente i nuovi mezzi offerti dallo sviluppo tecnologico e industriale, a cominciare dalla ferrovia e dal telegrafo. Per vincerla, i nordisti dovettero non solo fare appello a tutte le loro risorse economiche, ma anche a spingersi oltre i programmi iniziali del presidente Lincoln. Nel 1862 fu approvata una legge che assegnava gratuitamente quote di terre del demanio statale ai cittadini che ne facessero richiesta. Lo stesso anno fu decretata a partire dal 1° gennaio del 1863 la liberazione degli schiavi in tutti gli Stati del Sud, anche per consentirne l'arruolamento nell'esercito dell'Unione.
Una rivoluzione sociale mancata
In realtà, la rivoluzione sociale implicita nell'esito della guerra di secessione fu ben lontana dal compiersi interamente. La legge del '62 sulla distribuzione delle terre libere fu revocata pochi anni dopo la fine della guerra. Gli schiavi acquistarono la libertà, ma le loro condizioni economiche non migliorarono. La vittoria nordista e le innovazioni legislative non valsero a colmare le disuguaglianze sociali, né poterono cancellare i pregiudizi razziali profondamente radicati nella società del Sud. Certo non giovarono alla causa della democrazia e dell'integrazione razziale i metodi sbrigativi e lo spirito talvolta vendicativo con cui i vincitori condussero l'opera di riunificazione del paese. Negli anni successivi alla fine della guerra, il Sud fu sottoposto a un regime di vera e propria occupazione militare. Il risultato fu una reazione di rigetto, che prima si espresse in forma di lotta clandestina – fu creata allora l'organizzazione paramilitare e razzista del Ku Klux Klan – e che più tardi determinò la riscossa del Partito democratico negli Stati del Sud. Il ritorno alla normalità nel Sud, che poté considerarsi compiuto solo alla fine degli anni '70, significò anche il ritorno all'indiscussa supremazia dei bianchi e ad un regime di segregazione razziale di fatto, destinato a protrarsi, in molti Stati, per buona parte del '900.
La formazione di una potenza mondiale
La colonizzazione dell'Ovest
All'indomani della guerra di secessione e della ricostruzione
post-bellica, riprese con rinnovato slancio la colonizzazione dei territori
dell'Ovest, ora favorita dallo sviluppo della rete ferroviaria che nel 1869
raggiunse le coste della California. Intorno al 1890 la conquista del West
poteva considerarsi compiuta: la frontiera coincideva ormai col Pacifico e gli
Stati Uniti avevano raggiunto l'estensione attuale.
Vittime principali della corsa all'Ovest furono le tribù dei pellerossa, che
videro restringersi progressivamente gli spazi, un tempo sconfinati, in cui
potevano muoversi in libertà. I pellerossa cercarono di resistere alla conquista
bianca e riuscirono anche a riportare qualche isolato successo, ma dopo il 1890,
decimati dalle guerre (il loro numero alla fine del secolo non superava i 250
mila individui), furono confinati nelle riserve e ridotti a un corpo estraneo e
marginale in una società che stava attraversando una fase di impetuoso sviluppo
capitalistico.
Le grandi concentrazioni industriali e finanziarie
La crescita più imponente si verificò nell'industria, in particolare in alcuni settori-guida come il siderurgico, il meccanico, l'elettrico e il petrolifero, dove dominavano le grandi concentrazioni (corporations) industriali e finanziarie: come la Generai Electric, la American Telephon Company, la Standard Oil nel settore petrolifero, la DuPont in quello chimico e degli esplosivi o come il gigantesco trust dell'acciaio, la United Steel, costituitosi nel 1901. Alla fine dell'800, gli Stati Uniti non solo avevano superato Gran Bretagna e Germania nel volume della produzione industriale (raggiungendo quindi il primato mondiale), ma erano anche diventati un paese esportatore di capitali e di prodotti industriali.
Immigrazione e tensioni sociali
Questo sviluppo fu reso possibile, oltre che dall'abbondanza di
risorse naturali, anche dall'esistenza di un mercato interno in continua
espansione, grazie all'afflusso di immigrati provenienti dall'Europa. Tale era
il bisogno di manodopera che, nel 1882, il governo federale spalancò le porte
all'immigrazione rendendo l'ingresso negli Stati Uniti libero a tutti, con le
sole eccezioni dei criminali comuni e dei malati di mente. La società americana
diventò così un immenso crogiolo, un melting pot, dove andarono a fondersi
culture, tradizioni ed energie di tutti i paesi del vecchio continente.
Il grande sviluppo materiale degli ultimi anni del secolo non fu privo di
tensioni sociali. Lo strapotere delle corporations e il rigido protezionismo
alimentarono il malcontento dei contadini del Midwest, danneggiati dagli alti
prezzi dei manufatti. Notevole sviluppo ebbero in questo periodo anche le
organizzazioni operaie: nel 1886 venne fondata l'American Federation of Labor,
una grande confederazione di sindacati autonomi priva di una precisa
caratterizzazione politica. Ma né la maggioranza delle organizzazioni sindacali
né il movimento dei contadini adottarono la strategia di classe dei movimenti
socialisti europei o si posero come obiettivo il rovesciamento del sistema
capitalistico.
L'espansionismo nei Caraibi e nel Pacifico
È in questo contesto che va considerata la nuova politica espansionistica messa in atto dagli Stati Uniti a partire dalla fine dell'800. La prima importante manifestazione di questa politica si ebbe con l'intervento a Cuba dove, dal 1895, era in corso una violenta rivolta contro i dominatori spagnoli. Questi ultimi avevano avviato una dura repressione che aveva suscitato vivaci reazioni nell'opinione pubblica americana, ma anche notevoli preoccupazioni per la sorte dei cospicui interessi economici che gli Stati Uniti avevano nelle piantagioni di canna da zucchero dell'isola. Così, nel febbraio 1898, l'affondamento di una nave da guerra americana nel porto dell'Avana portò alla guerra con la Spagna, che fu rapidamente sconfitta sia nelle Antille sia nel Pacifico. Cuba divenne una repubblica indipendente, sottoposta tuttavia al controllo politico ed economico degli Stati Uniti. La Spagna fu inoltre costretta a cedere Portorico e l'intero arcipelago delle Filippine. In questo modo gli Stati Uniti si assicurarono, oltre all'egemonia nei Caraibi, anche un vasto dominio in Asia orientale. Sempre nel '98 la presenza americana nel Pacifico fu rafforzata dall'annessione delle isole Hawaii, da tempo un importante punto di appoggio nelle rotte oceaniche. Nel giro di pochi mesi gli Stati Uniti avevano compiuto un salto decisivo nella loro posizione internazionale, assumendo a tutti gli effetti il ruolo di potenza mondiale.
La via giapponese alla modernità
La fine dell'isolamento
Il Giappone, alla metà dell'800, conservava la struttura politica
di tipo feudale che si era consolidata con l'ascesa al potere degli shogun
Tokugawa all'inizio del '600. E dal 1639 aveva scelto l'isolamento commerciale
dai paesi occidentali, salvo mantenere una linea di scambi con la Cina.
L'isolamento fu rotto, verso la metà dell'800, dall'iniziativa degli Stati Uniti
che, nel 1854, inviarono una squadra navale nelle acque giapponesi e chiesero
formalmente allo shogun il libero accesso nei porti e l'apertura di relazioni
commerciali.
L'iniziativa americana – cui subito si unirono Gran Bretagna, Francia e Russia –
trovò il Giappone del tutto impreparato. Lo shogun fu costretto a firmare nel
1858 una serie di accordi commerciali che assicuravano alle potenze occidentali
ampie possibilità di penetrazione economica. La firma dei "trattati ineguali"
del '58 suscitò in tutto il paese un'ondata di risentimento nazionalistico, che
fu guidata dai grandi feudatari (daimyo) e da una parte dei samurai, e si
indirizzò contro lo shogun, principale responsabile della capitolazione. A esso
fu contrapposta la figura dell'imperatore, che in teoria rappresentava ancora la
vera fonte del potere.
La restaurazione Meiji e la modernizzazione
I daimyo si resero sempre più indipendenti dal governo
centrale e, nel gennaio del 1868, dichiararono decaduto lo shogun. dando vita
a un governo che aveva sede a Tokyo e si richiamava all'autorità
dell'imperatore, un ragazzo di quindici anni, Mutsuhito, salito da poco al
trono. Ma la cosiddetta "restaurazione Meiji", dal nome dato all'imperatore dopo
la sua morte nel 1912, non si limitò a sostituire il potere dello shogun con
quello dell'imperatore o a rafforzare l'autorità dei daimyo. La nuova
élite dirigente – intellettuali, militari, funzionari provenienti dal ceto dei
samurai – era ben consapevole del legame esistente fra l'inferiorità politica e
militare del Giappone rispetto alle potenze occidentali e l'arretratezza delle
sue strutture economico-sociali: era dunque decisa a colmare il dislivello in
tempi il più possibile rapidi, senza paura di ricalcare i modelli degli Stati
europei più avanzati.
L'operazione fu condotta con risolutezza eccezionale. Nel giro di pochi anni,
senza violenti sommovimenti sociali, il Giappone compì quella transizione dal
sistema feudale allo Stato moderno, che nella maggior parte dei paesi europei si
era realizzata in tempi lunghissimi, accelerati solo da traumatiche svolte
rivoluzionarie. Nel 1871 furono proclamate l'uguaglianza giuridica di tutti i
cittadini, l'abolizione dei diritti feudali e la trasformazione dei feudi in
circoscrizioni amministrative. I feudatari vennero indennizzati, mentre ai
samurai fu assegnata una pensione vitalizia. Negli anni seguenti fu introdotto
l'obbligo dell'istruzione elementare, venne unificata la moneta, fu creato un
sistema fiscale moderno in luogo dei vecchi tributi in natura, venne organizzato
un esercito nazionale basato sulla coscrizione obbligatoria. Eccezionale fu la
crescita dell'industria, che si sviluppò praticamente da zero grazie al
massiccio investimento di capitali statali – ricavati in parte dalla vendita
delle terre sequestrate allo shogun – e alla rapidissima importazione di
tecnologia straniera (acquisto di brevetti, assunzione di esperti occidentali,
invio di giovani all'estero per soggiorni di studio). Non meno rapida fu la
crescita delle infrastrutture: dalle ferrovie – la prima linea fu aperta nel '71
– alle comunicazioni telegrafiche, all'organizzazione bancaria. Nell'ultimo
ventennio del secolo il Giappone vantava un tasso di crescita del prodotto
interno lordo fra i più alti del mondo e, pur restando ancora distante dai paesi
occidentali più avanzati, aveva sviluppato un suo consistente nucleo di
industrie moderne, soprattutto nei settori tessile e meccanico.
Il modello giapponese
Quella che si compì in Giappone dopo il 1868 fu una vera e propria
"rivoluzione dall'alto", realizzata senza alcuna partecipazione attiva delle
classi inferiori, non preparata, com'era avvenuto in Occidente, da un'autonoma
crescita della borghesia e non seguita da uno sviluppo delle istituzioni
liberali e della democrazia politica: solo nel 1889 il Giappone ebbe un suo
Parlamento, eletto a suffragio ristretto e con poteri molto limitati. Furono le
classi dirigenti tradizionali a guidare la trasformazione e a gestirla in prima
persona, spogliandosi spontaneamente dei loro antichi diritti, senza per questo
perdere la loro posizione privilegiata nella società, investendo le loro rendite
nella terra, nelle banche o nell'industria protetta, convertendosi insomma da
oligarchia feudale in oligarchia industriale e finanziaria. Il processo di
rapida modernizzazione sul piano delle strutture economiche e politiche risultò
tanto più straordinario in quanto si accompagnò alla conservazione dei
tradizionali valori culturali e religiosi.
Per alcuni aspetti l'esperienza giapponese è stata accostata a quella della
Germania bismarckiana, dove il passaggio dalle strutture tradizionali a quelle
della società industriale si effettuò senza che fosse messo in pericolo il
potere dell'aristocrazia terriera e militare. Ma, per quante analogie si possano
istituire, l'esperienza del Giappone dopo la "restaurazione Meiji" resta un caso
assolutamente unico. Non era mai accaduto che un paese passasse, in pochi
decenni, da una condizione di estrema debolezza e di assoluta emarginazione a
una realtà di grande potenza, quale il Giappone si sarebbe rivelato già alla
fine dell'800.
L'IMPERIALISMO EUROPEO
Il nuovo colonialismo
Fin dai tempi delle grandi scoperte geografiche, l'Europa si era
lanciata alla conquista del mondo, disseminando in tutti i continenti soldati e
missionari, commercianti e coloni. Ma, negli ultimi decenni dell'800, questo
processo raggiunse il suo apice, con dimensioni nuove e diverse. I territori
ancora controllati dalle compagnie mercantili furono trasformati in domini
diretti degli Stati coloniali mentre estesi territori in Asia e soprattutto in
Africa vennero assoggettati alle potenze europee.
Nel giro di pochi decenni, tra il 1876 e il 1914 la Gran Bretagna aggiunse al
suo già vastissimo impero 11 milioni di km2 (con 142 milioni di
abitanti), raggiungendo così un'estensione complessiva di circa 30 milioni di km2,
quasi cento volte la superficie del Regno Unito. Nello stesso periodo la Francia
acquistò nuovi possedimenti per 10 milioni di km2 (con 50 milioni di
abitanti). Alla competizione coloniale si unirono anche Stati privi di una
tradizione imperiale o con una storia unitaria molto recente: la Germania,
malgrado l'iniziale scetticismo di Bismarck sull'utilità delle colonie, il
Belgio, l'Italia – fra le potenze europee, l'unica assente di rilievo fu
l'Austria-Ungheria – e, negli ultimi anni del secolo, anche il Giappone e gli
Stati Uniti.
Interessi economici e motivazioni politico ideologiche
Le ragioni di questo fenomeno erano numerose e complesse. Gli
interessi economici giocarono senza dubbio un ruolo notevole. C'era la spinta
all'accaparramento di materie prime a basso costo. C'era la ricerca di sbocchi
commerciali, che era sempre stata uno dei moventi principali della politica
coloniale e che venne assumendo un nuovo peso in coincidenza con la svolta
protezionistica adottata dai paesi europei. Più recente era la spinta
proveniente dall'accumulazione di capitali finanziari disponibili per
investimenti ad alto profitto nei territori d'oltremare. Questi aspetti non
devono però essere sopravvalutati: alla vigilia della prima guerra mondiale
(1914-18), la Gran Bretagna indirizzava verso le nuove colonie conquistate dopo
il 1870 appena il 3% dei suoi investimenti all'estero, la Francia il 9%.
Inoltre, anche nell'età dell'imperialismo, gran parte del commercio mondiale si
svolse tra i paesi industrializzati. Ciò non toglie nulla al fatto che proprio
la prospettiva dei benefici economici ottenibili dalle colonie – teorizzati
nelle opere di illustri economisti e al centro delle discussioni politiche e
dell'opinione pubblica – finì con l'influenzare in modo decisivo le scelte dei
governanti europei.
Le motivazioni politico-ideologiche ebbero spesso un'importanza pari a quelle
economiche. Esse affondavano le loro radici in una mescolanza di nazionalismo e
di politica di potenza, di razzismo e di spirito missionario. In Gran Bretagna,
per esempio, l'idea di appartenere a una nazione eletta, a quella che il premier
conservatore Disraeli chiamava «una razza dominatrice, destinata dalle sue virtù
a spargersi per il mondo», fu comune a scrittori come Thomas Carlyle e Rudyard
Kipling e a uomini politici anche di estrazione liberale, come Joseph
Chamberlain. Questo mito di una vocazione imperiale delle singole nazioni si
legò a quello di una missione nel mondo della civiltà europea nel suo complesso.
Kipling, per esempio, parlava di un «fardello dell'uomo bianco», ovvero del
dovere dei bianchi europei di redimere le "popolazioni selvagge". Così, il
paternalismo si univa a un razzismo di matrice positivistica.
Spesso l'azione coloniale era determinata dall'intento di prevenire e
controbattere le iniziative di potenze concorrenti, senza che ciò rispondesse a
un piano di conquista prestabilito. Il risultato fu comunque che, alla fine del
processo di espansione, il mondo intero risultò spartito in imperi e zone di
influenza fra le maggiori potenze.
L'esplorazione dell'Africa
L'interesse dell'opinione pubblica europea nei confronti delle colonie – già sollecitato dall'opera, per molti versi anticipatrice, dei missionari, da tempo impegnati nell'evangelizzazione dei popoli non cristiani – fu inoltre fortemente alimentato dall'eco delle grandi esplorazioni che, a partire dalla metà del secolo, ebbero per teatro soprattutto l'Africa. In questo interesse confluivano la prospettiva di grandi ricchezze nascoste nei territori da esplorare, la curiosità scientifico-geografica tipica della cultura del positivismo, la moda dell'esotismo presente in molta letteratura della seconda metà dell'800, l'alone romantico da cui erano circondate – grazie anche all'amplificazione che la stampa faceva delle loro imprese – le figure dei grandi esploratori: come il missionario scozzese David Livingstone che, già all'inizio degli anni '50, esplorò per primo la zona del fiume Zambesi, nel cuore dell'Africa meridionale, e, nei vent'anni successivi, attraversò tutta l'Africa centro-meridionale, da un oceano all'altro; e come il giornalista americano di origine britannica Henry Morton Stanley che negli anni '70 esplorò, per incarico del re del Belgio, il bacino del fiume Congo e pose le basi per la successiva conquista belga della regione, di cui divenne governatore.
La conquista dell'Africa
Gli sviluppi più spettacolari dell'espansione coloniale di fine '800 si ebbero nel continente africano. Nel 1870 i paesi europei ne controllavano appena un decimo: i francesi occupavano l'Algeria e il Senegal, i portoghesi l'Angola e il Mozambico, i britannici la Colonia del Capo, ossia la parte meridionale dell'odierna Repubblica Sudafricana. Meno di quarant'anni dopo, i possedimenti europei comprendevano più dei nove decimi del continente.
L'Africa settentrionale: Tunisia ed Egitto
I primi atti della nuova espansione, che contribuirono in buona
parte a innescare la gara di conquista che seguì, furono l'occupazione francese
della Tunisia, nel 1881, e quella britannica dell'Egitto, nell'anno successivo.
In entrambi i paesi, che nominalmente dipendevano ancora dall'Impero ottomano,
anche se i loro governanti (il bey di Tunisi e il khedivè
d'Egitto) avevano da tempo acquisito un'indipendenza di fatto, le potenze
europee avevano consistenti interessi economici e strategici. La Tunisia era
rivendicata dalla Francia, già padrona della vicina Algeria, nonostante la
presenza di consistenti interessi italiani. L'Egitto era anch'esso oggetto delle
mire francesi, che risalivano al periodo napoleonico, ma aveva acquistato
un'importanza fondamentale per la Gran Bretagna dopo che, nel 1869, era stato
aperto il Canale di Suez tra il Mediterraneo e il Mar Rosso. Negli anni '70 sia
l'Egitto sia la Tunisia si erano lanciati in ambiziosi programmi di
modernizzazione che però avevano finito per provocare il dissesto delle finanze
dei due paesi costringendo i governi, tra le proteste popolari, ad aumentare la
pressione fiscale per far fronte ai debiti contratti con le banche europee.
Proprio per tutelarsi contro il rischio di una bancarotta, Francia e Gran
Bretagna, principali paesi creditori, scelsero la strada dell'intervento
militare. La prima a muoversi fu la Francia che, avendo avuto mano libera dalle
altre grandi potenze nel congresso di Berlino del 1878, trasse pretesto da un
incidente avvenuto nel 1881 alla frontiera con l'Algeria per inviare un
contingente militare a Tunisi e imporre al bey un regime di protettorato.
Gli avvenimenti tunisini ebbero immediate ripercussioni in Egitto, dove la
nascita di un forte movimento nazionalista sembrò mettere in pericolo non solo
il recupero dei crediti esteri, ma anche il controllo internazionale sul Canale
di Suez. Nell'estate 1882, in seguito allo scoppio di moti anti-europei ad
Alessandria, il governo britannico inviò in Egitto un corpo di spedizione che
sconfisse gli egiziani e assunse il controllo del paese. Da allora l'Egitto, pur
conservando la sua indipendenza formale, divenne di fatto una sorta di colonia
britannica.
Il Sudan
Ben presto la Gran Bretagna si trovò impegnata nel Sudan, un vastissimo territorio sotto il controllo egiziano, dove era scoppiata una rivolta capeggiata dal Mahdi (profeta) Mohammed Ahmed, un carismatico leader islamico, fautore di una teocrazia musulmana che mirava ad allargare a tutto il mondo arabo. Il Mandi lanciò le truppe sudanesi in una guerra santa contro le forze anglo-egiziane sconfiggendole a più riprese, conquistando la città di Khartum nel 1885 e fondando un proprio Stato che i britannici sarebbero riusciti a rovesciare solo nel 1898.
La conquista belga del Congo
L'azione unilaterale della Gran Bretagna in Egitto provocò il risentimento della Francia, suscitando tra le due potenze una rivalità destinata a durare per quasi un ventennio, e contribuì a scatenare la corsa alla conquista dell'Africa nera. 1 primi contrasti tra i conquistatori europei si delinearono nel bacino del Congo. Qui re Leopoldo II del Belgio, dietro la copertura di una Associazione internazionale africana fondata nel 1876 con scopi apparentemente umanitari (evangelizzazione e lotta contro la tratta degli schiavi), si era costruito una sorta di impero personale. Dopo la scoperta di importanti giacimenti minerari nella regione del Katanga, il sovrano belga cercò di consolidare il suo dominio attraverso uno sbocco sull'Atlantico ma suscitò l'opposizione del Portogallo, che rivendicava la foce del Congo per la contiguità con la sua antica colonia dell'Angola.
La spartizione dell'Africa
La questione del Congo fu oggetto di una conferenza internazionale
convocata a Berlino, per iniziativa di Bismarck, nel 1884-85. Questa conferenza,
oltre a dare una prima sanzione alla spartizione dell'Africa, codificò le norme
che avrebbero dovuto regolarla anche nell'avvenire. Il principio adottato fu
quello dell'effettiva occupazione, ufficialmente notificata agli altri Stati,
come unico titolo valido per legittimare il possesso di un territorio. Questo
principio, in realtà, lasciava larghi margini di incertezza – allora le
occupazioni "effettive" si limitavano spesso a pochi scali commerciali posti
nelle zone costiere – e stimolò anche un'accelerazione della corsa
all'occupazione di territori ritenuti di qualche interesse economico o
strategico. In concreto, la conferenza di Berlino riconobbe la sovranità
personale di re Leopoldo sull'immenso territorio che poi sarebbe stato
denominato Congo belga (dopo l'indipendenza Zaire e nel 1996 Repubblica
democratica del Congo), ma che allora venne chiamato Stato libero del Congo – un
paradossale eufemismo per indicare quella che fu, per il trattamento delle
popolazioni e lo sfruttamento delle risorse, una delle forme più rapaci e
disumane di dominio coloniale – e gli assegnò un piccolo sbocco sull'Atlantico.
Alla Francia andarono i territori sulla riva destra del fiume (l'attuale
Repubblica del Congo). In Africa occidentale, la Germania, ultima arrivata nella
corsa alle colonie, si vide riconosciuto il protettorato sul Togo e sul Camerun.
La Gran Bretagna ebbe il controllo del basso Niger (l'attuale Nigeria), mentre
la Francia si assicurò il possesso dell'alto corso del fiume. Partendo da questa
regione, in dieci anni di sanguinose guerre di conquista contro gli Stati
musulmani del Sahara, i francesi riuscirono ad assicurarsi il possesso di
territori immensi, anche se in gran parte desertici, che si estendevano
dall'Atlantico al Sudan, dal bacino del Congo al Mediterraneo.
La Gran Bretagna non si oppose alle conquiste francesi, che considerava di
scarso interesse, e concentrò invece le sue mire sull'Africa sud-orientale,
importante per il controllo dell' Oceano Indiano – e dunque per la sicurezza dei
traffici con l'India. Fra il 1885 e il 1895, partendo dalla Colonia del Capo e
muovendosi per lo più in appoggio alle iniziative delle grandi compagnie
private, i britannici risalirono il continente fino al bacino dello Zambesi e al
lago Niassa, mentre più a nord si impadronivano del Kenya e dell'Uganda, ossia
dei territori compresi fra le sorgenti del Nilo, il lago Vittoria e l'Oceano
Indiano. La tendenza era quella di saldare i possedimenti britannici a sud
dell'equatore con quelli della regione del Nilo, assicurandosi un dominio
ininterrotto dall'estremità meridionale a quella settentrionale del continente.
Questo disegno, però, si scontrava con la presenza della Germania che dal 1885
si era assicurata il controllo dell'area a est del lago Tanganika e a sud del
lago Vittoria. Il contrasto fu regolato da un accordo nel 1890: la Gran Bretagna
riconobbe l'Africa orientale tedesca, rinunciando al sogno del dominio «dal Capo
al Cairo», ricevendo in compenso l'isola di Zanzibar, nodo importantissimo delle
rotte commerciali nell'Oceano Indiano, e ottenendo di tener lontana la Germania
dalla regione dell'alto Nilo, considerata essenziale per il controllo
dell'Egitto.
Tensioni tra Francia e Gran Bretagna
Proprio in questa regione i britannici si trovarono in rotta di collisione con i francesi che, nella loro marcia dalla costa atlantica verso l'interno dell'Africa, si erano spinti fino al Sudan. Nel settembre del 1898 un contingente dell'esercito britannico, allora impegnato nella riconquista del Sudan, si incontrò con una colonna francese che aveva occupato la fortezza di Fashoda sul Nilo. L'incontro rischiò di trasformarsi in un conflitto dalle conseguenze imprevedibili. Ma il governo francese, che non era preparato a una guerra, ritirò le sue truppe e rinunciò alle sue mire sulla regione. Ne seguì una distensione nei rapporti franco-britannici, che avrebbe poi aperto la strada a una più stretta intesa fra le due potenze.
L'Africa nel 1914
All'inizio del '900 la spartizione dell'Africa era pressoché completa. Oltre alla piccola repubblica di Liberia (fondata nel 1822 da ex schiavi neri degli Stati Uniti, restavano indipendenti solo l'Impero etiopico e, ancora per non molto, la Libia (sotto il dominio ottomano), il Marocco e le repubbliche boere del Sud Africa. Tutto il resto del continente era diviso in colonie e in protettorati di nome o di fatto, separati da confini spesso arbitrari, tracciati sulla carta geografica – a volte in corrispondenza di meridiani e paralleli – senza tenere alcun conto delle divisioni tribali e delle preesistenti realtà etnico-linguistiche.
Le guerre boere
In Africa australe (o meridionale) l'imperialismo della Gran Bretagna si scontrò con un nazionalismo locale anch'esso di origine europea, quello boero, scatenando un inedito conflitto coloniale tra due popoli bianchi e cristiani.
L'interesse britannico per le repubbliche boere
I boeri, discendenti dagli agricoltori olandesi che nel '600 avevano colonizzato la regione del Capo di Buona Speranza, e ai quali si erano aggiunti immigrati ugonotti francesi, erano caduti sotto la sovranità della Gran Bretagna quando questa aveva ottenuto la colonia al tempo delle guerre napoleoniche. Per sfuggire alla sottomissione, molti di loro avevano dato vita a un massiccio esodo verso nord – il cosiddetto Grande Trek, ossia grande marcia –, dove avevano fondato le due repubbliche dell'Orange (1845) e del Transvaal (1852).
L'Africa del sud nel 1899
Alla fine degli anni '60 la scoperta di importanti giacimenti di
diamanti nel Transvaal risvegliò l'interesse della Gran Bretagna, che lasciò
mano libera alla politica aggressiva della classe dirigente della Colonia del
Capo, minacciata dalla crescita economica delle due repubbliche. Nella prima
guerra boera (1880-81) i britannici vennero sconfitti e il Transvaal riuscì a
mantenere una propria autonomia.
Protagonista e promotore principale della fase successiva di aggressione alle
repubbliche boere fu Cecil Rhodes, politico e uomo d'affari, presidente e
padrone della British South Africa Company, primo ministro della Colonia del
Capo fra il 1890 e il 1898. Rhodes mise una colossale fortuna personale,
accumulata con il quasi monopolio della produzione diamantifera, al servizio di
un disegno imperiale: sua fu l'idea di estendere la sovranità britannica «dal
Capo al Cairo». Proprio grazie alla sua frenetica attività, la Gran Bretagna
poté espandere i suoi domini in buona parte dell'Africa meridionale, fino alla
zona dello Zambesi – che appunto da Rhodes avrebbe avuto il nome di Rhodesia –,
circondando completamente le due repubbliche boere. Un ulteriore elemento di
tensione fu costituito dalla scoperta, nel 1885-86, di nuovi giacimenti auriferi
nell'Orango e nel Transvaal, che attirò nelle due repubbliche un gran numero di
immigrati (uitlanders), soprattutto di origine britannica. In questo
afflusso di forestieri i boeri videro l'inizio di un processo che minacciava di
stravolgere il carattere patriarcale e contadino della loro società: una società
che coltivava il mito della propria indipendenza e superiorità, che si ispirava
a un calvinismo rigidamente conservatore e si fondava sull'imposizione agli
indigeni di un regime di semischiavitù, avversato invece dai britannici. Gli
uitlanders furono duramente discriminati e Rhodes ne appoggiò la protesta.
La sconfitta dei boeri
La tensione crebbe ulteriormente finché, nell'ottobre del 1899, il presidente del Transvaal, Paul Krüger, dichiarò guerra alla Gran Bretagna. La seconda guerra boera fu lunga e sanguinosa. I boeri combatterono con grande tenacia, riportando all'inizio notevoli successi e suscitando un'ondata di simpatie nell'opinione pubblica europea, soprattutto in quella tedesca. Anche dopo la sconfitta – che si consumò nel maggio 1902 e fu seguita dall'annessione del Transvaal e dell'Orango all'Impero britannico – i boeri condussero un'accanita lotta di resistenza che durò vari anni e fu piegata dai britannici solo con una serie di spietate azioni antiguerriglia. In seguito l'Orango e il Transvaal ottennero uno statuto di autonomia simile a quello della Colonia del Capo, alla quale vennero uniti nel 1910, dando vita all'Unione Sudafricana. Britannici e boeri avrebbero poi trovato un terreno concreto di collaborazione nello sfruttamento delle immense risorse del paese e nella politica di dura segregazione praticata ai danni della popolazione nera.
La conquista dell'Asia
A differenza di quanto accadeva in Africa, agli inizi dell'età dell'imperialismo gli europei avevano già messo radici profonde nel continente asiatico. I britannici, oltre all'India, possedevano Ceylon (attuale Sri-Lanka), Hong Kong, Singapore e numerose basi nell'Oceano Indiano e nel Sud-est asiatico. Gli olandesi dominavano l'arcipelago indonesiano. I portoghesi controllavano Macao in Cina, Goa in India e una parte dell'isola di Timor. La Spagna possedeva le Filippine (che passarono agli Stati Uniti nel 1898). La Russia aveva avviato da oltre un secolo la sua espansione verso la Siberia e l'Asia centrale. La Francia, ultima a giungere sul continente, aveva gettato negli anni '50 le basi di un vasto dominio nella Penisola indocinese. A dare nuovo impulso alla corsa verso oriente contribuì potentemente l'inaugurazione del Canale di Suez, avvenuta nel novembre 1869 dopo dieci anni di lavori: questo canale artificiale, che tagliò l'istmo di Suez, mise in comunicazione il Mediterraneo con il Mar Rosso, abbreviando di parecchie settimane i collegamenti marittimi fra l'Europa e l'Asia. La nuova via d'acqua, gestita da una compagnia internazionale controllata da Francia e Gran Bretagna, sanzionava e simboleggiava la supremazia tecnica e commerciale dell'Europa e ne facilitava l'espansione verso il continente asiatico.
L'India britannica
L'India fu a lungo amministrata dalla Compagnia delle Indie
orientali, che agiva come un rappresentante del governo britannico. A metà '800
il territorio controllato era vastissimo – si estendeva su buona parte dell'area
oggi occupata da India, Pakistan e Bangladesh – e, con una popolazione in
continua crescita (130 milioni nel 1845, oltre 200 nel 1881), offriva ampi sbocchi
di mercato per i manufatti provenienti dalla Gran Bretagna, verso la quale
venivano invece esportati grandi quantità di tè e di cotone. Cent'anni di
dominazione britannica non avevano mutato di molto i caratteri della società
indiana. L'effetto principale della presenza britannica era stato quello di
distruggere, con l'importazione di tessuti dal Regno Unito, l'industria
cotoniera locale, abbastanza estesa anche se a livello artigianale. Il potere
statale era carente o addirittura assente: il senso dell'appartenenza alla casta
o alla comunità locale prevaleva su qualsiasi legame con l'autorità centrale.
I colonizzatori britannici si erano appoggiati sulle gerarchie sociali
preesistenti – i signori locali, i sacerdoti induisti (brahmini) – per
assicurare il mantenimento dell'ordine e la riscossione delle imposte. I loro
tentativi di avviare un prudente processo di modernizzazione, diffondendo la
cultura occidentale e combattendo alcune delle pratiche più crudeli della
tradizione induista – come l'usanza di bruciare le vedove insieme con i cadaveri
dei mariti –, provocarono reazioni di stampo tradizionalistico-religioso. La più
importante fu la cosiddetta rivolta dei Sepoys, scatenata nel 1857 da un
ammutinamento dei reparti indigeni dell'esercito (chiamati appunto Sepoys).
Questa rivolta, che richiese una lunga e sanguinosa repressione, indusse il
governo britannico a riorganizzare la propria presenza in India. Nel 1858 la
Compagnia delle Indie fu soppressa e il paese passò sotto la diretta
amministrazione della Corona, rappresentata da un viceré. L'esercito e la
burocrazia vennero ristrutturati: furono promossi gli elementi indigeni e i
notabili fedeli al Regno Unito, affiancandoli a elementi britannici. La
costruzione di nuove ferrovie consentì non solo un incremento degli scambi, ma
anche un più stretto controllo militare su tutto il territorio indiano. Nel
1876, a coronamento di quest'opera di riorganizzazione, la regina Vittoria fu
proclamata imperatrice delle Indie.
La Francia in Indocina
Negli anni '50 i francesi, spinti dalla concorrenza con i
britannici, cominciarono ad avanzare in Indocina. La Penisola indocinese,
abitata da popolazioni di religione buddista, era divisa in una serie di regni
dipendenti dall'Impero cinese: i più importanti erano quello dell'Annam (oggi
Vietnam), quello del Siam (oggi Thailandia) e quello della Cambogia. All'inizio
i francesi si limitarono a costruire qualche stazione commerciale accanto alle
numerose missioni cattoliche già da tempo presenti nella regione. Furono proprio
le persecuzioni contro i missionari a fornire alla Francia il pretesto per un
intervento militare: nel 1862 venne occupata la Cocincina, ossia la parte
meridionale del Regno dell'Annam e, l'anno dopo, fu imposto il protettorato alla
Cambogia.
Una seconda fase dell'espansione francese in Indocina si aprì all'inizio degli
anni '80. Dopo una guerra con la Cina (1883-85), la Francia riuscì a estendere
il suo protettorato a tutto l'Annam. Dal canto suo la Gran Bretagna, per evitare
che i possedimenti francesi giungessero a ridosso dell'India, procedette
all'occupazione del Regno di Birmania tra il 1885 e il 1887. La Francia rispose,
nel 1893, assicurandosi il controllo del Laos. Quanto al Siam, Gran Bretagna e
Francia si accordarono per mantenerlo indipendente come Stato-cuscinetto.
L'Asia nel 1914
La colonizzazione russa e la spartizione degli arcipelaghi del Pacifico
Intanto l'Impero russo seguiva in Asia due direttrici di espansione:
la prima verso la Siberia e l'Estremo Oriente, la seconda verso l'Asia centrale.
La colonizzazione della Siberia, che ebbe un decisivo impulso già a partire
dagli anni '30, fu realizzata soprattutto sotto la spinta e il controllo
dell'autorità statale, contrariamente a quanto avveniva negli Stati Uniti, dove
l'espansione verso ovest era dovuta alla libera iniziativa individuale. I
risultati furono comunque notevoli: nella prima metà dell'800 la Siberia vide
più che raddoppiata la sua popolazione e notevolmente incrementate le attività
produttive e commerciali. La Russia cercò anche di consolidare le proprie
posizioni strategiche verso la Cina e il Pacifico: nel 1860 impose alla Cina la
cessione di due distretti – Ussuri e Amur – e avviò la costruzione del porto di
Vladivostok sul Mar del Giappone. Il governo zarista ritenne invece opportuno
rinunciare all'Alaska, dove fin dal 1799 operava una compagnia privata russa: il
territorio, il cui controllo fu giudicato troppo costoso dal punto di vista
economico e militare, venne venduto agli Stati Uniti nel 1867 per 7 milioni di
dollari. Nel 1891, quasi a sancire il completamento di uno sterminato impero che
si estendeva senza soluzione di continuità dal Baltico al Pacifico, fu avviata
la costruzione della ferrovia Transiberiana, la più lunga del mondo che, una
volta completata nel 1904, collegò Mosca a Vladivostok con un percorso di oltre
9000 km. In Asia centrale l'Impero zarista riuscì a incamerare, fra 1876 e 1885,
l'intera regione del Turchestan: una zona importante in quanto forte produttrice
di cotone, ma pericolosamente vicina alle frontiere dell'India. Proprio in
questa area, tra Turchestan, Afghanistan e Pakistan, Russia e Gran Bretagna si
fronteggiarono a lungo, in una sorta di guerra per procura combattuta dalle
tribù locali. Nel 1885 le due potenze giunsero a un accordo per definire le
frontiere tra il Turchestan e il Regno dell'Afghanistan. Quest'ultimo venne
mantenuto indipendente, ma assegnato alla sfera di influenza britannica.
Mentre si compiva la spartizione dell'Asia, anche gli arcipelaghi del Pacifico
vennero inglobati negli imperi coloniali, soprattutto in quelli britannico e
tedesco. La Gran Bretagna, che già dominava su Australia e Nuova Zelanda, occupò
le isole Fiji, le Salomone e le Marianne, mentre la Nuova Guinea fu divisa fra
tedeschi e britannici. Inoltre alla colonizzazione nell'area del Pacifico
parteciparono anche gli Stati Uniti e il Giappone.
Gli europei in Cina
L'isolamento cinese
L'isolamento cinese Dall'inizio dell'800 l'Impero cinese era rimasto pressoché inaccessibile ai viaggiatori e ai commercianti occidentali. Non aveva neanche relazioni diplomatiche con l'esterno, in omaggio all'idea che l'imperatore fosse l'unica fonte di potere sulla Terra e che gli altri sovrani potessero avere con lui solo rapporti di vassallaggio. Agli stranieri era consentito di operare solo nel porto di Canton, nella Cina meridionale. Questo orgoglioso isolamento mascherava in realtà una profonda debolezza. Da tempo ormai la società cinese, irrigidita e chiusa in sé stessa, aveva perso quel primato scientifico e tecnologico di cui aveva goduto fino al '700. Il ceto burocratico dei mandarini, profondamente tradizionalista e legato alla propria formazione filosofico-letteraria, ostacolava ogni mutamento nelle tecniche produttive e nei sistemi di governo. Il risultato fu che, al primo traumatico scontro con l'Occidente, la Cina imperiale entrò in una crisi irreversibile.
Le guerre dell'oppio
Occasione dello scontro fu il contrasto scoppiato alla fine degli
anni '30 fra il governo imperiale e la Gran Bretagna a proposito del commercio
dell'oppio. La droga, prodotta in grandi quantità nelle piantagioni indiane,
veniva esportata clandestinamente in Cina, dove il suo consumo era largamente
diffuso, benché ufficialmente proibito da oltre un secolo. Era nata così
un'acuta tensione tra la Cina e la Gran Bretagna, la principale responsabile e
beneficiaria del traffico. Quando, alla fine del 1839, un funzionario cinese
fece sequestrare il carico di tutte le navi straniere nel porto di Canton, il
governo britannico decise di intervenire militarmente.
Dopo una guerra durata più di due anni, i britannici ebbero partita vinta,
conquistando tutti gli accessi agli estuari dei grandi fiumi e dei porti cinesi.
Con il trattato di Nanchino del 1842, la Cina dovette cedere alla Gran Bretagna
la città di Hong Kong, situata su un'isola prospiciente il porto di Canton, e
aprire al commercio straniero altri quattro porti, fra cui Shangai. Questa prima
guerra dell'oppio, mettendo a nudo la debolezza militare della Cina e aprendola
alla penetrazione commerciale europea, ebbe il duplice effetto di sconvolgere
gli equilibri sociali su cui si reggeva l'Impero e di far convergere su di esso
le mire espansionistiche di altre potenze.
Così, nel decennio 1850-60, la Cina si trovò ad affrontare contemporaneamente
una gravissima crisi interna – culminata nella lunga e sanguinosissima
ribellione contadina nota come rivolta dei Taiping – e un nuovo sfortunato
scontro con la Gran Bretagna, coadiuvata questa volta dalla Francia. Il
conflitto, chiamato impropriamente seconda guerra dell'oppio, cominciò nel 1856
in seguito all'attacco a una nave britannica nel porto di Canton e si concluse
quattro anni dopo con una nuova capitolazione della Cina, costretta ad aprire al
commercio straniero anche le vie fluviali interne e a stabilire normali rapporti
diplomatici con gli Stati occidentali.
Il conflitto con il Giappone e la rivolta dei boxers
Alla fine dell'800 la Cina subì anche l'aggressione del Giappone,
divenuto uno dei protagonisti sulla scena della competizione imperialistica in
Asia. Nel 1894, in seguito a contrasti sul controllo della Corea, fino ad allora
Stato vassallo della Cina, i giapponesi attaccarono l'Impero cinese e
rapidamente lo sconfissero per terra e per mare. La Cina dovette rinunciare a
ogni influenza sulla Corea e cedere al Giappone vari territori, fra cui l'isola
di Formosa (poi Taiwan). Le potenze occidentali da un lato cercarono di
contenere i successi del Giappone, dall'altro profittarono dell'ennesima
sconfitta della Cina per ritagliarsi nel paese nuove zone di influenza
economica.
La prospettiva di uno sgretolamento dell'Impero celeste provocò per reazione la
nascita di un movimento conservatore, nazionalista e xenofobo (cioè
indiscriminatamente ostile verso lo straniero) che si proponeva la restaurazione
integrale delle antiche tradizioni imperiali. Questo movimento trovò il suo
braccio armato in una società segreta a carattere paramilitare, nota in
Occidente come movimento dei boxers, ossia pugili, dal nome di un'antica società
ginnica chiamata «Pugni della giustizia e dell'armonia». Nel 1900, dopo una
serie di violenze compiute dai boxers contro i simboli e gli stessi
rappresentanti della presenza straniera, le grandi potenze europee (tra cui
l'Italia), gli Stati Uniti e il Giappone si accordarono per un intervento
militare congiunto. In due settimane la rivolta fu sedata e Pechino venne
occupata dalle truppe alleate. Le potenze, compresa l'Italia, ottennero in
seguito nella città di Tientsin (oggi Tianjin) – la città portuale di Pechino –
concessioni territoriali e autonomie amministrative dove vennero costruiti
quartieri separati attribuiti ai singoli paesi, con edifici pubblici, caserme e
una costante presenza militare.
La rivolta dei boxers non rimase senza effetti. Da un lato, essa mostrò la
persistenza di un nazionalismo cinese che rendeva impraticabile una spartizione
politica dell'Impero. Dall'altro, la sconfitta del nazionalismo tradizionalista
diede l'avvio a un periodo di riforme e preparò il terreno alla nascita di un
movimento di ispirazione democratica e "occidentalizzante", che avrebbe cercato
di collegare la lotta contro gli stranieri a quella per la modernizzazione del
paese.
Il dominio coloniale
I caratteri della conquista
Nel corso della sua espansione coloniale, l'Europa portò in tutto il mondo l'impronta della sua tecnica, della sua economia e, più in generale, della sua civiltà. Di solito non ne portò la faccia migliore. Quasi tutte le conquiste coloniali furono segnate dall'uso sistematico e indiscriminato della violenza contro le popolazioni indigene, da un campionario di crudeltà sconosciuto agli ultimi conflitti combattuti sul vecchio continente. Soprattutto nell'Africa nera, dove più schiacciante era la superiorità tecnologica degli europei, le frequenti rivolte delle popolazioni locali contro i nuovi dominatori si concludevano spesso con veri e propri massacri: fu terribile, per esempio, quello perpetrato dai tedeschi nell'Africa del Sud-ovest ai danni della tribù bantu degli Herero, che venne quasi completamente sterminata.
Sviluppo e sfruttamento
Dal punto di vista economico, l'esperienza coloniale ebbe alcuni effetti positivi sui paesi che ne furono investiti: vennero messe a coltura nuove terre, introdotte nuove tecniche agricole, costruite infrastrutture, avviate attività industriali e commerciali, esportati migliori ordinamenti amministrativi e finanziari. Ma tutto ciò avveniva a prezzo di un continuo impoverimento di risorse materiali e umane, ovvero di un vero e proprio sfruttamento coloniale: i lavoratori indigeni, infatti, venivano pagati per lo più con salari irrisori, quando non erano costretti a forme di lavoro forzato. La trasformazione delle economie dei paesi sottomessi, che furono generalmente orientate verso l'esportazione, portò in molti casi alla rottura di sistemi economici di pura sussistenza, basati sul circolo vizioso dell'autoconsumo e della povertà. In altri casi, invece, il cambiamento stravolse un meccanismo produttivo modellato in funzione del mercato interno. Fu comunque messo in moto un processo di sviluppo, in funzione però degli interessi dei colonizzatori. Nuovi paesi entrarono in un più vasto mercato mondiale, ma vi entrarono in una posizione dipendente: passarono cioè dalla povertà al sottosviluppo.
Politica della razza e stratificazioni sociali
Il razzismo condizionò la politica degli Stati europei nelle
colonie. Ovunque furono "censite le razze" e accentuate le divisioni all'interno
delle società indigene anche allo scopo di controllare meglio i colonizzati. Le
nuove città coloniali furono spesso caratterizzate da quartieri separati e dalla
creazione di "confini" che dividevano la vita degli indigeni da quella degli
europei: anche in alcuni centri fondati dagli italiani in Eritrea e Libia, per
esempio, furono tracciate "linee" per separare gli spazi destinati agli africani
da quelli destinati ai bianchi. In generale, dunque, il razzismo era largamente
diffuso nelle società coloniali.
Non bisogna però immaginare i rapporti tra colonizzatori e colonizzati dominati
esclusivamente da pregiudizi razzisti. Nelle colonie, a volte, si instaurarono
legami di solidarietà trai funzionari europei e i notabili locali proprio in
virtù della comune appartenenza agli strati superiori delle rispettive società.
Accadde così, per esempio, nell'India britannica di fine'800, dove gli
aristocratici inglesi inviati dalla Corona ad amministrare la colonia non
esitavano a considerare i notabili indiani "superiori" agli inglesi di basso
ceto. Per molti aspetti, infatti, i governatori britannici cercarono di
riprodurre in India la stessa rigida struttura di distinzione di classe presente
nel Regno Unito, preoccupandosi di trattare con riguardo gli indigeni che
consideravano loro pari rango.
L'impatto sociale e culturale della Colonizzazione
Gli effetti della colonizzazione sulle culture dei paesi afro-asiatici furono drammatici, pur variando a seconda delle diverse realtà locali e delle diverse politiche attuate dai paesi colonizzatori: quella britannica, per esempio, fu più rispettosa degli usi locali, mentre quella francese risultò più oppressiva nel tentativo di introdurre elementi di modernizzazione forzata. I sistemi culturali legati a strutture politico-sociali e religiose bene organizzate e con una solida tradizione alle spalle – come quelli dell'Asia e del Nord Africa – si difesero meglio, opponendo una resistenza più consapevole e assimilando in qualche misura gli apporti esterni. Ben diverso, invece, fu il caso dell'Africa più arcaica e animista. Qui l'effetto dell'incontro con la civiltà del colonizzatore fu dirompente: le trasformazioni economiche, tecnologiche, sociali, religiose e linguistiche prodotte dalla presenza degli europei alterarono dalle fondamenta non solo gli equilibri secolari delle comunità di tribù e di villaggio, ma gli stessi universi culturali che ne erano espressione. Interi sistemi di vita, di riti e di credenze, di costumi e di valori entrarono rapidamente in crisi. Nei molti casi in cui mancava una tradizione, scritta rimasero a malapena tracce delle culture "cancellate". Sul piano politico, però, l'espansione coloniale finì per favorire, in tempi più o meno lunghi, la formazione o il risveglio di nazionalismi locali a opera soprattutto di nuovi dirigenti formatisi proprio nelle scuole europee, dove avevano avuto la possibilità di assorbire gli ideali democratici e i principi del nazionalismo. L'Europa si trovò così a esportare quello che meno avrebbe desiderato: il bisogno di autogovernarsi e di decidere il proprio destino.
L'EUROPA E IL MONDO AGLI INIZI DEL '900
I contrasti in Europa e il risveglio dell'Estremo Oriente
I due blocchi europei
Dopo il 1890, con le dimissioni di Bismarck i rapporti fra le grandi potenze che dominavano la politica europea e mondiale subirono radicali mutamenti. Si ruppero infatti gli equilibri internazionali, che nei vent'anni precedenti erano rimasti inseriti in una rete di alleanze che faceva perno sulla Germania bismarckiana, e si formò un nuovo assetto bipolare fondato sulla contrapposizione fra due blocchi di potenze europee: la Germania, l'Impero austro-ungarico con l'Italia da una parte, la Francia, la Russia e la Gran Bretagna dall'altra. A mettere in crisi il vecchio sistema di alleanze furono soprattutto due fattori: la scelta del nuovo imperatore tedesco Guglielmo II in favore di una politica più dinamica e aggressiva di quella praticata da Bismarck dopo il 1870, e la crescente, obiettiva difficoltà per la Germania di tenere uniti i suoi due maggiori alleati, gli Imperi austro-ungarico e russo, in perenne contrasto nel settore balcanico.
Gli inizi del declino europeo
Inoltre, nel primo quindicennio del '900 si cominciarono ad
avvertire i sintomi di un ridimensionamento della posizione del vecchio
continente in rapporto al resto del mondo. L'idea di una minaccia portata alla
supremazia europea dall'emergere di nuovi popoli e nuove nazioni cominciò a
farsi strada nell'opinione pubblica. A suggerire questi timori non era tanto
l'ascesa degli Stati Uniti, visti pur sempre come un'appendice dell'Europa,
quanto il risveglio dei popoli dell'Estremo Oriente: il Giappone innanzitutto,
ormai lanciato in una politica imperiale che lo avrebbe portato a scontrarsi con
la Russia; ma anche la Cina, sempre più insofferente dello stato di
subordinazione impostole dalle grandi potenze.
Alle preoccupazioni di ordine politico-militare si aggiungevano quelle indotte
dalle tendenze dello sviluppo demografico. La popolazione europea continuava a
crescere, ma non al punto da ridurre significativamente il divario con i
popolosissimi paesi asiatici: la crescita di questi ultimi fu sentita da molti
come una minaccia demografica all'egemonia europea e, più in generale, alla
supremazia dei popoli "bianchi". Fu allora che in Europa si cominciò a parlare
sempre più insistentemente di un «pericolo giallo»: un'espressione coniata
dall'imperatore di Germania Guglielmo II ai tempi della rivolta cinese dei
boxers e diventata d'attualità soprattutto dopo la guerra russo-giapponese del
1904-5.
Nuove alleanze e nuovi conflitti
La Triplice intesa
I successori di Bismarck scelsero di privilegiare l'alleanza con l'Austria e non rinnovarono quella con i russi, nella convinzione che l'Impero zarista non si sarebbe mai alleato con la Francia repubblicana. Accadde invece che la necessità per Francia e Russia di uscire dall'isolamento portò nel 1894 a una alleanza militare fra i due paesi. Dal canto suo anche la Gran Bretagna, sistemate le vertenze coloniali sia con la Francia in Africa sia con la Russia in Asia centrale, stipulò accordi con entrambe: nel 1904 con la Francia – l'Intesa cordiale – e nel 1907 con la Russia. Nasceva così, in contrapposizione al blocco austro-tedesco con l'appendice dell'Italia – la Triplice alleanza –, un accordo fra Gran Bretagna, Francia e Russia, che fu poi chiamato Triplice intesa, determinato dalla preoccupazione comune per la crescente potenza tedesca.
La contesa tra Francia e Germania per il Marocco
Due furono in questo periodo i più pericolosi punti di frizione. Il primo e il più importante riguardava l'assetto dei Balcani. Il secondo era costituito dal Marocco, uno degli ultimi Stati africani indipendenti (da secoli governato senza interruzione da dinastie islamiche), oggetto da tempo delle mire francesi e proprio per questo scelto dalla Germania come ultimo possibile terreno di scontro per contrastare lo strapotere delle potenze rivali in campo coloniale. Per due volte, nel 1905 e nel 1911, il contrasto franco-tedesco sul Marocco sembrò portare l'Europa sull'orlo della guerra. Alla fine la Francia riuscì a spuntarla, grazie alla solidarietà dei suoi alleati, e si vide riconosciuto un formale protettorato sul territorio conteso.
La rivoluzione in Turchia
Tuttavia i pericoli maggiori per la pace sul continente vennero in questo periodo dalla zona balcanica. A mettere in movimento una situazione già precaria fu, nel 1908, una profonda trasformazione interna dell'Impero ottomano: la cosiddetta rivoluzione dei "Giovani turchi", un movimento composto in prevalenza da intellettuali e da ufficiali che si proponevano la trasformazione dell'Impero, retto da istituzioni autocratiche e arretratissimo sul piano economico, in una moderna monarchia costituzionale. Nell'estate del 1908, un gruppo di ufficiali marciò con le proprie truppe sulla capitale, costringendo il sultano Abdul Hamid a concedere una costituzione e, l'anno successivo, a lasciare il trono al fratello Maometto V. Il nuovo regime tentò di realizzare, con qualche successo, un'opera di modernizzazione dello Stato. Ma non seppe avviare a soluzione il problema dei rapporti con i popoli europei ancora soggetti all'Impero, in stato di endemica rivolta. Al contrario, i "Giovani turchi" cercarono di attuare un ordinamento amministrativo più centralistico di quello, largamente inefficiente, del vecchio regime; ma ottennero l'effetto di accentuare le spinte indipendentiste e di accelerare la dissoluzione di quanto restava della presenza turca in Europa.
Le guerre balcaniche
Della crisi interna all'Impero ottomano profittò subito l'Austria-Ungheria per procedere, nell'ottobre 1908, all'annessione della Bosnia e dell'Erzegovina, che le erano state affidate in amministrazione temporanea al congresso di Berlino del 1878: ciò provocò un immediato inasprimento dei rapporti con la Serbia — che mirava a unificare sotto il suo regno gli slavi del Sud — e con la stessa Russia, che della Serbia era la grande protettrice. Pochi anni dopo (1912), l'occupazione italiana della Tripolitania (Libia) in Nord Africa provocò una guerra fra l'Italia e la Turchia, che subì l'ennesima sconfitta. La sconfitta turca favorì a sua volta le mire degli Stati balcanici (Grecia, Serbia, Montenegro, Bulgaria e Romania), che prima si coalizzarono per strappare alla Turchia i residui territori europei nella prima guerra balcanica (1912), poi si scontrarono fra loro per la divisione del bottino nella seconda guerra balcanica (1913).
I Balcani nel 1913
Nello stesso periodo, sulla costa meridionale dell'Adriatico
nasceva un nuovo piccolo Stato, il principato di Albania, voluto dall'Austria e
dall'Italia per impedire alla Serbia lo sbocco al mare.
Le rivalità fra gli Stati minori del Sud-est europeo si intrecciavano
pericolosamente col confronto fra i due blocchi contrapposti delle grandi
potenze, in particolare col tradizionale attrito fra Austria e Russia.
La belle époque e le sue contraddizioni
Negli anni a cavallo fra i due secoli, i nuovi orientamenti
dell'alta cultura e la critica di molti intellettuali al positivismo
progressista ottocentesco non scalfirono, se non in parte, il sostanziale
ottimismo della borghesia europea: un ottimismo giustificato dal rinnovato
slancio dell'economia e da un progresso materiale che mai come allora era parso
alla portata di tutti.
Per questo, gli anni che precedettero la prima guerra mondiale (1914-18)
sarebbero stati ricordati in seguito, dopo i disastri di questo conflitto, come
la belle époque, l'epoca bella per eccellenza. Si trattava, anche in
questo caso, di un'immagine eccessivamente semplificata, fondata anche sul
primato che, nella vita mondana e nelle arti, esercitava Parigi, la capitale
francese. La belle époque fu in realtà un periodo di crescita complessiva
della società europea, ma anche di forti contrasti politici e di grandi
conflitti sociali. Le spinte alla democratizzazione incontrarono dappertutto la
resistenza ostinata dei gruppi conservatori e in alcuni casi furono duramente
represse, come in Russia, o bloccate entro le vecchie strutture autoritarie,
come in Germania e nell'Impero asburgico. Né si possono sottovalutare le
tensioni sociali e internazionali originate in quegli anni dalla gara degli
imperialismi e dalla corsa agli armamenti.
La Francia dal "caso Dreyfus" all'alleanza tra radicali e socialisti
Negli ultimi decenni dell'800 la Francia aveva compiuto pro-gressi
sostanziali sulla strada della democrazia. Eppure le istituzioni repubblicane
continuavano a essere oggetto di una insidiosa contestazione, che ora prendeva
le forme di un esasperato nazionalismo, ora quelle della reazione clericale, ora
quelle di un demagogico antisemitismo. Alla fine dell'800 queste correnti,
facendo blocco con una parte delle forze moderate, misero a serio repentaglio la
vita stessa della Terza Repubblica.
L'alleanza tra nazionalisti, clericali e antisemiti fu evidente in occasione di
un clamoroso caso giudiziario: quello di Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo
ingiustamente condannato ai lavori forzati nel 1894 sotto l'accusa di aver
fornito documenti riservati all'ambasciata tedesca. Quando cominciarono a
emergere i primi dubbi sulla colpevolezza del condannato, le alte sfere militari
si rifiutarono di procedere a una revisione del processo. Socialisti, radicali e
una parte dei repubblicani moderati, sotto l'impulso del famoso scrittore Émile
Zola, si batterono perché venisse riconosciuta l'innocenza dell'ufficiale.
Clericali, monarchici, nazionalisti di destra e non pochi repubblicani moderati
insistettero sulla tesi della colpevolezza. Il contrasto superò ben presto i
confini del caso giudiziario per trasformarsi in uno scontro politico che aveva
per oggetto le stesse istituzioni repubblicane. Dreyfus fu infine graziato dal
presidente della Repubblica e poi ufficialmente riabilitato nel 1906. I
sostenitori di Dreyfus ebbero partita vinta anche sul terreno politico. L'esito
delle elezioni del 1899 fu favorevole alle forze progressiste e consentì la
formazione di un governo di coalizione repubblicana appoggiato anche dai
socialisti. Alcune associazioni di estrema destra vennero sciolte e i loro capi
arrestati. Fu avviata un'epurazione negli alti gradi dell'esercito e,
soprattutto, riprese con rinnovato vigore (e non senza qualche eccesso) la
battaglia contro le posizioni di potere ancora detenute dal clero cattolico.
I governi a direzione radicale che si succedettero fra il 1906 e il 1910, sotto
la guida di Georges Clemenceau e del socialista Aristide Briand, condussero in
porto alcune importanti riforme sociali, come la limitazione dell'orario di
lavoro, la legge sul riposo settimanale e le pensioni di vecchiaia. Tuttavia
l'impossibilità di condurre a compimento alcune riforme e lo spostamento a
sinistra del movimento sindacale provocarono la rottura dell'alleanza fra
socialisti e radicali e, alla lunga, ridiedero spazio alle correnti
repubblicano-moderate che riuscirono a tornare al potere fra il 1912 e il 1914
con il loro leader più prestigioso, Raymond Poincaré. Il dibattito politico,
accantonati i temi delle riforme, si sarebbe concentrato sul problema delle
spese militari e del rafforzamento dell'esercito.
Conservatori e liberali in Gran Bretagna
Negli anni a cavallo fra i due secoli la Gran Bretagna fu governata
dalla coalizione fra i conservatori e i liberali unionisti di Joseph
Chamberlain. Fra il 1897 e il 1905 furono varate leggi che aumentavano i
finanziamenti per le scuole elementari e medie e favorivano il collocamento dei
lavoratori disoccupati. A mettere in crisi l'egemonia della coalizione
conservatrice fu il progetto, sostenuto da Chamberlain, sotto la pressione di
una parte degli industriali, di introdurre anche nell'Impero britannico il
protezionismo doganale, sconvolgendo così una tradizione liberoscambista che
durava ormai da più di mezzo secolo.
Nelle elezioni del 1906 i liberali conquistarono un'ampia maggioranza, che
consentì al loro governo una linea meno aggressiva in campo coloniale e una più
energica e organica politica di riforme sociali. Ma l'aspetto più nuovo e
coraggioso della loro azione fu la proposta di introdurre una politica fiscale
fortemente progressiva, che imponeva cioè una tassazione via via più onerosa in
rapporto alle dimensioni della ricchezza e mirava a colpire soprattutto i grandi
patrimoni. Il tentativo si scontrò con la reazione della Camera dei Lords,
roccaforte dell'aristocrazia, che respinse il bilancio preventivo presentato dal
governo liberale. Nel 1911, dopo un braccio di ferro durato due anni e dopo due
successive elezioni anticipate vinte (sia pure di stretta misura) dai liberali,
i Lords, grazie anche alle pressioni del nuovo re Giorgio V, si piegarono ad
accettare la riforma costituzionale che impediva loro di respingere leggi di
bilancio. Nello stesso anno, il governo decise di affrontare la questione
irlandese e presentò un nuovo progetto di Home Rule (autogoverno), che
prevedeva un'Irlanda autonoma, con un proprio governo e un proprio parlamento,
ma pur sempre legata alla Corona britannica. Dopo un lungo e tormentato
dibattito, il progetto, avversato anche da una parte dei liberali, fu approvato
nel maggio 1914, ma la sua applicazione fu subito sospesa a causa dello scoppio
della guerra.
La Germania guglielmina
La nuova politica della Germania
La fine del lunghissimo cancellierato di Bismarck, nel 1890, parve
segnare una svolta anche nella politica interna tedesca. Tuttavia, nonostante le
dichiarazioni di Guglielmo II (1888-1918) relative alla volontà di inaugurare un
"nuovo corso" una volta divenuto imperatore, di fatto non si registrò nella
politica tedesca alcun effettivo mutamento di indirizzi: le speranze di
un'evoluzione liberale del sistema, suscitate da talune aperture iniziali,
andarono presto deluse, lasciando il posto alla tendenza del nuovo sovrano
all'esercizio personale e autoritario del potere. Anche i nuovi orientamenti di
politica estera, affermatisi soprattutto a partire dagli ultimi anni dell'800 –
quando la Germania imboccò la via della Weltpolitik ('politica mondiale')
e diede il via al riarmo navale –, contribuirono a rinsaldare l'alleanza tra il
ceto degli Junker e gli ambienti della grande industria. Un'industria che
era sempre più dominata dai cartelli o dalle imprese giganti come la Krupp nel
settore siderurgico e degli armamenti e che vantava ritmi di sviluppo
tecnologico e di crescita produttiva paragonabili solo ai contemporanei
progressi dell'industria statunitense.
La coscienza di questa superiorità accentuò nella classe dirigente, ma anche nel
popolo, le tendenze nazionaliste e imperialiste. Pur essendo un paese ricco di
risorse naturali, la Germania, priva com'era di un grande impero coloniale, non
aveva una disponibilità di materie prime paragonabile a quella dell'Impero
britannico, degli Stati Uniti o dello stesso Impero russo. Di qui la volontà di
modificare a proprio vantaggio la distribuzione mondiale delle risorse e gli
equilibri sullo scacchiere planetario: un'ambizione che, essendo ormai compiuta
la spartizione dei continenti extraeuropei, portava fatalmente la Germania ad
assumere una posizione antagonistica rispetto alle altre potenze imperialiste.
La socialdemocrazia tedesca
La spinta nazionalista e aggressiva insita nella politica estera finì col coinvolgere in varia misura tutte le maggiori forze politiche. L'unica autentica forza di opposizione, la socialdemocrazia, restò per tutta l'età guglielmina in una condizione di assoluto isola- mento che le precludeva qualsiasi influenza sulla condotta degli affari di Stato, anche se non le impediva di aumentare continuamente la massa dei propri iscritti (più di un milione nel 1914), di incrementare il proprio seguito elettorale (nel 1913 la Spd si affermò addirittura come gruppo di maggioranza relativa col 34% dei voti e 110 seggi al Reichstag), di controllare lo sviluppo imponente delle organizzazioni collaterali (sindacati, cooperative, circoli ricreativi e culturali). A lungo andare però – nonostante la riaffermata fedeltà ai principi della dottrina marxista – anche la socialdemocrazia finì con l'ammorbidire i toni e le forme della sua opposizione e col venire tacitamente a patti con le ideologie nazional-imperialistiche cui nemmeno la classe operaia era del tutto insensibile.
I conflitti di nazionalità nell'Impero austro-ungarico
Nei decenni che precedettero la prima guerra mondiale, l'Impero asburgico vide aggravarsi il declino delineatosi a partire dal 1848 e dovuto, oltre che al ritardo nello sviluppo dell'economia, ai sempre più forti contrasti fra le diverse nazionalità.
Sviluppo e arretratezza
Dal punto di vista economico, l'Impero era ancora un paese complessivamente più povero della Germania e della Francia e poco più ricco dell'Italia, ma con alcune isole altamente urbanizzate e industrializzate: la regione gravitante attorno alla capitale Vienna, la Boemia (in particolare la zona di Praga), il porto di Trieste, nodo commerciale di primaria importanza fra il Centro Europa e il Mediterraneo. Allo sviluppo economico e civile dei grandi centri, alla eccezionale vitalità culturale che si manifestò in questo periodo a Vienna – una delle maggiori capitali europee della musica, delle arti figurative e della letteratura –, alla crescita dei grandi partiti di massa (socialdemocratici e cristiano-sociali) facevano riscontro il sostanziale immobilismo del sistema politico e la persistenza delle strutture sociali tradizionali nelle provincie contadine, dominate dalla Chiesa e dai grandi proprietari.
I conflitti nazionali
Ma il principale motivo di crisi era costituito dai conflitti nazionali. Mentre l'Impero tedesco trovava nel nazionalismo di una popolazione compattamente tedesca un potentissimo elemento di coesione, in Austria-Ungheria le tensioni fra i diversi gruppi etnici costituivano un fattore di logoramento e di disgregazione per una compagine statale che aveva come principali elementi unificanti la Corona, l'esercito e la burocrazia. Con la soluzione "dualistica" varata nel 1867 (la divisione in due Stati), la monarchia asburgica aveva scelto la strada del compromesso col gruppo nazionale più forte, quello ungherese, che aveva conquistato nella parte sud-occidentale dell'Impero una posizione privilegiata simile a quella detenuta dagli austriaci nella parte nord-occidentale.
Le popolazioni nell'Austria-Ungheria
Fino alla fine del secolo il potere imperiale riuscì a controllare la situazione appoggiandosi agli elementi conservatori e all'aristocrazia agraria delle varie nazionalità, con qualche concessione alle masse contadine. Ma tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 si assisté a una crescita dei movimenti nazionali: tutti in forte contrasto gli uni con gli altri, ma uniti dall'ostilità al centralismo imperiale e dalla tendenza a radicalizzarsi, passando dal piano delle rivendicazioni autonomistiche a quello dell'indipendentismo. I più irrequieti erano naturalmente i popoli slavi, i grandi sacrificati dal compromesso del '67. Fra i cechi della Boemia e della Moravia – che erano inclusi nella zona di competenza austriaca – si affermò, nell'ultimo decennio dell'800, il movimento dei "giovani cechi" che si batteva contro la politica di germanizzazione del governo di Vienna. Tendenze nazionaliste ancora più radicali si cominciarono a manifestare nello stesso periodo fra gli "slavi del Sud", serbi e croati, che erano soggetti al dominio ungherese (più duro di quello austriaco) e subivano l'attrazione del vicino Regno di Serbia. Persino fra gli ungheresi sorse, all'inizio del '900, un movimento che rivendicava totale autonomia dall'Austria anche in materia di tariffe doganali e di organizzazione dell'esercito.
Il progetto trialistico
Una parte della classe dirigente e dei circoli di corte si orientò verso l'idea di trasformare la monarchia da "dualistica" in "trialistica": di staccare cioè gli slavi del Sud dall'Ungheria e di creare così un terzo polo nazionale accanto a quelli tedesco e magiaro. Questo progetto, che aveva il suo sostenitore più autorevole nell'arciduca ereditario Francesco Ferdinando (nipote di Francesco Giuseppe), si scontrava però con l'opposizione degli ungheresi e con quella dei nazionalisti serbi e croati, che miravano con tutti i mezzi – compresi quelli terroristici – alla fondazione di un unico Stato slavo indipendente ed erano palesemente appoggiati dalla Serbia (a sua volta protetta dalla Russia). Da questo pericoloso focolaio di tensione sarebbe scoccata nel 1914 la scintilla che portò allo scoppio della prima guerra mondiale e alla dissoluzione dell'Impero austro-ungarico.
La Russia: la rivoluzione del 1905 e la guerra col Giappone
Autocrazia e sviluppo industriale
Fra le grandi potenze europee la Russia era la sola che, alla fine dell'800, si reggesse ancora su un sistema autocratico, nemmeno temperato da forme di limitato costituzionalismo simili a quelle vigenti in Germania e in Austria-Ungheria. Mentre restava immobile o addirittura procedeva a ritroso sul piano delle strutture politiche, all'inizio degli anni '90 l'Impero zarista compiva tuttavia il suo primo tentativo di decollo industriale, affidato all'iniziativa dello Stato e del capitale straniero (soprattutto francese) più che all'autonoma crescita di una borghesia imprenditoriale. In Russia l'industrializzazione risultò come calata dall'alto e fortemente concentrata sia per la dislocazione geografica sia per le dimensioni delle imprese. Pertanto anche la classe operaia russa si concentrò in poche zone – la capitale Pietroburgo, la zona di Mosca, i distretti minerari degli Urali, la regione petrolifera di Baku sul Mar Caspio – e rimase isolata in un contesto sociale ancora dominato dall'agricoltura, che occupava circa il 70% della popolazione attiva e versava ancora in uno stato di estrema arretratezza.
I gruppi rivoluzionari
In queste condizioni era naturale che la tensione politica crescesse pericolosamente e che le manifestazioni di malcontento, anche violente, si moltiplicassero in tutti i settori della società. Del resto, in questi stessi anni si accentuò in modo determinante la penetrazione delle correnti rivoluzionarie fra i ceti popolari. Mentre la classe operaia subiva l'influenza del Partito socialdemocratico, fondato nel 1898 da Georgij Plechanov, fra i contadini riscuoteva qualche successo la propaganda del Partito socialista rivoluzionario, nato nel 1900 dalla confluenza di gruppi anarchici e populisti, dai quali riprendeva il progetto di un socialismo agrario legato alle tradizioni russe. A far precipitare gli eventi contribuì, nel 1904, lo scoppio della guerra col Giappone (per il controllo del Nord-est asiatico) che fece immediatamente salire la tensione sociale nelle città provocando fra l'altro un brusco aumento dei prezzi.
La "domenica di sangue" e la nascita dei soviet
In una domenica di gennaio del 1905, a Pietroburgo, un corteo di 150 mila persone diretto verso il Palazzo d'Inverno, residenza dello zar Nicola II, per presentare al sovrano una petizione – vi si chiedevano maggiori libertà politiche e interventi per alleviare il disagio delle classi popolari – fu accolto a fucilate dall'esercito: i morti furono più di 100 e oltre 2000 i feriti. La brutale repressione scatenò in tutto il paese un'ondata di agitazioni, di vere e proprie sommosse, di ammutinamenti nelle stesse forze armate. Fra la primavera e l'autunno del 1905, la Russia visse in uno stato di semianarchia. Di fronte alla crisi dei poteri costituiti sorsero spontaneamente in molti centri nuovi organismi rivoluzionari, i soviet (consigli), rappresentanze popolari elette sui luoghi di lavoro. Il più importante di questi soviet, quello di Pietroburgo, assunse la guida del movimento rivoluzionario. Fra novembre e dicembre però – dopo che era stata conclusa la pace col Giappone e le truppe erano rientrate dal fronte – la Corona e il governo passarono risolutamente alla controffensiva facendo arrestare quasi tutti i membri del soviet di Pietroburgo e schiacciando con durezza le rivolte successivamente scoppiate nella capitale e a Mosca.
La restaurazione e la riforma agraria
Una volta ristabilito l'ordine, anche l'unico risultato del moto rivoluzionario, ossia l'impegno dello zar di convocare un'assemblea rappresentativa, la Duma, fu sabotato dai poteri costituiti. Nell'estate 1907 il governo modificò la legge elettorale in senso smaccatamente classista: ora il voto di un grande proprietario contava cinquecento volte quello di un operaio. Così il governo poté disporre di un'assemblea più docile, composta in gran parte da aristocratici. Artefice principale della restaurazione fu il conte Pétr Stolypin, diventato primo ministro nel 1906. Stolypin legò il suo nome alla spietata repressione di ogni opposizione politica, ma al tempo stesso si pose il problema di riguadagnare al regime una base di consenso e avviò una riforma agraria, in base alla quale i contadini ebbero la facoltà di divenire proprietari della terra che coltivavano, e di godere di facilitazioni creditizie per l'acquisto di altre terre sottratte al demanio statale o cedute dai latifondisti. Lo scopo, in gran parte mancato poiché i più non trovarono nei loro piccoli appezzamenti la possibilità di condizioni di vita accettabili, era quello di creare un ceto di piccola borghesia rurale che fosse al tempo stesso fattore di modernizzazione economica e di stabilità politica.
La guerra col Giappone e la sconfitta
Nel difficile anno della rivoluzione del 1905, la Russia dovette
subire una dura sconfitta militare ad opera del Giappone. Come abbiamo visto,
già alla fine dell'800, il Giappone si era affacciato prepotentemente sulla
scena della competizione imperialistica in Asia: aveva infatti mosso guerra
all'Impero cinese (1894) e lo aveva sconfitto dando una prima prova della sua
efficienza bellica. Subito dopo il Giappone entrò in diretta concorrenza con la
Russia per il controllo delle regioni del Nord-est asiatico. Nel 1903, le due
potenze non trovarono un accordo sulla spartizione della Manciuria. Nel febbraio
del 1904, senza alcuna dichiarazione di guerra, la flotta nipponica attaccò
quella russa nel Mar Giallo e strinse d'assedio la base di Port Arthur,
all'estremità meridionale della Manciuria. All'inizio del 1905, caduta Port
Arthur, le forze giapponesi penetrarono in Manciuria e, in marzo, sconfissero
l'esercito russo nella battaglia di Mukden. Quando, in maggio, giunse sul teatro
di operazioni la flotta russa del Mar Baltico fu anch'essa distrutta in una
grande battaglia navale nello stretto di Tsushima, tra il Giappone e la Corea.
Alla Russia non restò che accettare la mediazione offerta dagli Stati Uniti e
firmare in settembre il trattato di Portsmouth, in base al quale il Giappone
otteneva la Manciuria meridionale e una parte dell'isola di Sakhalin, situata di
fronte alle coste della Siberia, e si vedeva riconosciuto il protettorato sulla
Corea (che già deteneva di fatto dal 1895).
Per l'Europa intera, la secca sconfitta della Russia determinò la distruzione in
un solo colpo del mito della supremazia militare e tecnologica del vecchio
continente, nonché di una presunta superiorità della "razza bianca". Per
l'Impero zarista la sfortunata guerra contro il Giappone significò un
ridimensionamento della propria posizione internazionale e, come abbiamo appena
visto, un immediato aggravamento delle tensioni interne.
La Repubblica in Cina
L'avvio delle riforme e Sun Yat-sen
Dopo la vittoria del Giappone sulla Russia nel 1905, presero vi- gore le lotte nazionali e anticoloniali dei popoli asiatici. Movimenti indipendentisti si svilupparono nell'Indocina francese, nell'Indonesia olandese, nelle Filippine, da poco passate sotto il controllo degli Stati Uniti, e nell'India britannica. Ma fu soprattutto la Cina a subire in maniera determinante l'influsso del vicino Giappone, visto a un tempo come minaccia all'indipendenza nazionale e come modello da imitare sul piano dello sviluppo economico e dell'emancipazione politica. Fallito con la rivolta dei boxers il tentativo di condurre la lotta per l'indipendenza all'insegna del tradizionalismo reazionario, alla fine dell'800 e all'inizio del nuovo secolo importanti riforme, come la libertà di espressione e di stampa, oltre a un limitato diritto di voto, furono introdotte dalla imperatrice vedova Cixi (o Tzu-hsi, che governò il paese fino al 1908). In coincidenza con questo rinnovamento politico e civile, nel 1905 nacque il Tung meng hui (Lega di alleanza giurata), una organizzazione segreta fondata da un medico di Canton, Sun Yat-sen, che aveva soggiornato a lungo in Europa e in Giappone. Il programma era basato sui tre principi del popolo: l'indipendenza nazionale, la democrazia rappresentativa, il benessere del popolo, vale a dire l'essenza della tradizione democratica occidentale. La lega di Sun Yat-sen fece proseliti soprattutto fra gli intellettuali, gli ufficiali dell'esercito e i nuclei di proletariato industriale. Al movimento andarono anche le simpatie di una parte della ancora esigua borghesia imprenditoriale, quella meno legata agli interessi commerciali delle potenze straniere.
La rivoluzione del 1911
Nell'ottobre del 1911 la decisione del governo di affidare a imprese straniere il controllo della rete ferroviaria cinese provocò una serie di sommosse nelle province centro-meridionali e l'ammutinamento di alcuni reparti dell'esercito. Nel gennaio del 1912 un'assemblea rivoluzionaria dichiarò decaduta la dinastia Qing ed elesse Sun Yat-sen alla presidenza della Repubblica. In aprile il generale Yuan Shi-kai, inviato dal governo di Pechino a domare la rivolta, si schierò dalla parte dei repubblicani e ottenne in cambio di essere nominato presidente in luogo di Sun Yat-sen. Il fragile compromesso raggiunto tra le forze democratiche organizzate nel nuovo Partito nazionale – Kuomintang – e i gruppi conservatori che facevano capo a Yuan Shi-kai, ostili a ogni riforma che minacciasse i tradizionali equilibri sociali nelle campagne, si ruppe nel giro di pochi mesi. Nel 1913 il nuovo presidente sciolse il Parlamento appena eletto, mise fuori legge il Kuomintang, costrinse Sun Yat-sen all'esilio e instaurò una dittatura personale appoggiata dalle potenze straniere, i cui privilegi rimasero naturalmente intatti. Cominciava per la Cina una lunga stagione di guerre civili che si sarebbe conclusa solo nel 1949 con la vittoria della rivoluzione comunista.
L'imperialismo statunitense
La presidenza Roosevelt
Dopo l'espansione nel Pacifico con la conquista delle Filippine e
l'annessione delle Hawaii, fino alla prima guerra mondiale l'imperialismo
statunitense si rivolse soprattutto verso l'America centrale. Qui la presenza
degli Stati Uniti si fece sentire in forme quanto mai pesanti, soprattutto negli
anni della presidenza di Theodore Roosevelt. Esponente dell'ala progressista del
Partito repubblicano, salito al potere nel 1901, Roosevelt mostrò grande
decisione nella difesa degli interessi americani nel mondo, alternando con
disinvoltura la pressione economica alle minacce di interventi armati, la
"diplomazia del dollaro" alla politica del "grosso bastone" (big stick),
secondo un'eloquente espressione da lui stesso coniata.
Un esempio lampante di questa politica fu la vicenda del Canale di Panama. Nel
1901 gli Stati Uniti avevano ottenuto dal governo della Colombia
l'autorizzazione a costruire e a gestire per un periodo di cento anni un canale
che tagliasse l'istmo di Panama (allora facente parte della Repubblica
colombiana), aprendo un passaggio fra il Pacifico e il Mar dei Caraibi. Quando,
nel 1903, la Colombia, in un sussulto di orgoglio nazionale, rifiutò di
ratificare l'accordo, gli Stati Uniti organizzarono una sommossa a Panama e
minacciarono un intervento armato. Panama, come già Cuba, divenne una repubblica
indipendente sotto la tutela americana. Il canale fu realizzato nel giro di
dieci anni e la sua apertura, nel 1914, consentì di mettere in comunicazione i
due settori – l'Oceano Pacifico e i mari del Centro America – su cui si
esercitava allora la spinta espansionistica degli Stati Uniti. Imperialista e
aggressiva all'estero, la linea di Roosevelt si caratterizzò in politica interna
per un'apertura ai problemi sociali sconosciuta alle precedenti amministrazioni,
sia repubblicane sia democratiche. Si dovettero a Roosevelt i primi, limitati
provvedimenti del governo federale nel campo della legislazione sociale e le
prime energiche affermazioni del diritto di intervento dei pubblici poteri nel
mondo dell'economia.
L'elezione di Wilson
Ma, una volta che Roosevelt ebbe lasciato la presidenza, nel 1908, il Partito repubblicano si spaccò in un'ala progressista e una conservatrice. Nelle elezioni del 1912, la divisione tra le file repubblicane favorì il successo del candidato democratico, Woodrow Wilson. Intellettuale di solide convinzioni democratiche, molto lontano da Roosevelt per formazione e per temperamento, Wilson ne riprese l'impegno sociale inserendolo però in un quadro ideologico e poli- tico completamente diverso. Mentre Roosevelt aveva lasciato inalterato il regime doganale protezionistico, Wilson impostò la lotta contro i grandi monopoli sull'abbassamento delle tariffe protettive, che furono considerevolmente ridotte nel 1913. Anche nella politica estera Wilson portò uno stile nuovo, più prudente e rispettoso delle norme della convivenza internazionale, anche se non meno attento alla tutela degli interessi statunitensi nel mondo. Era infatti convinto che il ruolo degli Stati Uniti dovesse fondarsi, più che sulla forza delle armi, sulla capacità espansiva dell'economia e sulla fedeltà ai principi basilari della tradizione democratica. Paradossalmente fu proprio in base a questi principi che, nel 1917, Wilson avrebbe condotto il suo paese a intervenire per la prima volta in un conflitto fra potenze europee, la prima guerra mondiale.
L'America latina e la rivoluzione messicana
La dipendenza economica
Nel trentennio che precedette la prima guerra mondiale (1914-18), i paesi dell'America Latina conobbero uno sviluppo economico di notevoli proporzioni, basato principalmente sull'esportazione di materie prime e di prodotti agricoli verso l'Europa industrializzata. Questo sviluppo attirò un consistente flusso migratorio dall'Europa e favorì la crescita di grandi centri urbani come Buenos Aires, Rio de Janeiro e Città del Messico. L'aumento delle esportazioni, però, finì con l'accentuare il carattere di subalternità dell'economia latino-americana, sempre più dipendente dagli investimenti e dai mercati esteri. Fu infatti favorita la tendenza delle agricolture dei singoli paesi a concentrarsi sulle monocolture, scelte in base alla richiesta del mercato internazionale: il caffè in Brasile, il grano in Argentina, la canna da zucchero a Cuba. E, dal momento che l'industria manifatturiera era assente quasi ovunque, mentre il settore estrattivo era in gran parte controllato da compagnie straniere, l'oligarchia terriera riuscì a mantenere una posizione dominante nella vita sociale e politica.
I sistemi politici
Dal punto di vista istituzionale, gli Stati latino-americani erano retti da regimi parlamentari e repubblicani ispirati ai modelli del liberalismo ottocentesco: l'ultima monarchia, quella brasiliana, fu rovesciata da un colpo di Stato nel 1889. La facciata istituzionale liberai-parlamentare, però, copriva una realtà di corruzione e di esclusione delle masse dalla vita politica che, in alcuni casi, degenerò in forme più o meno evidenti di dittatura personale. Negli anni immediatamente precedenti alla prima guerra mondiale, importanti rivolgimenti politici ebbero luogo in due fra gli Stati più vasti e popolosi: l'Argentina e il Messico. Nel caso dell'Argentina si trattò di un rivolgimento pacifico, originato dall'introduzione del suffragio universale, nel 1912, e dalla successiva ascesa al potere dell'Unione radicale, espressione delle classi medie di orientamento progressista. In Messico, invece, la spinta alla democratizzazione politica e sociale sfociò in una lotta rivoluzionaria fra le più lunghe e sanguinose della storia del '900.
La rivoluzione messicana
Nel 1910 scoppiò la rivolta contro il regime semidittatoriale del
presidente Porfirio Diaz, un generale che governava dal 1876 appoggiandosi
soprattutto sull'oligarchia terriera. Promotori dell'insurrezione furono i
gruppi liberai-progressisti guidati da Francisco Madero, subito affiancati però
da un vasto moto contadino, organizzato da improvvisati e popolarissimi capi
rivoluzionari come Emiliano Zapata e Pancho Villa. Nell'autunno del 1911, Diaz
fu costretto ad abbandonare il paese mentre Madero venne eletto presidente. A
questo punto però cominciò a manifestarsi in modo drammatico il contrasto fra le
due componenti del fronte rivoluzionario: quella borghese e moderata, che mirava
soprattutto a una liberalizzazione delle istituzioni politiche, e quella
contadina, che aveva come obiettivo fondamentale una radicale riforma agraria.
Un tema fortemente sentito, e altrettanto fortemente temuto, in un paese in cui
la proprietà della terra era concentrata nelle mani di un migliaio di
latifondisti, mentre circa tre quarti della popolazione erano costituiti da
braccianti senza terra (peones), quasi tutti analfabeti e poverissimi.
Nel 1913 il presidente Madero fu ucciso durane un colpo di Stato militare che
portò al potere il generale Victoriano Huerta e aprì la strada a un regime di
spietata reazione. La guerra civile riprese da allora con rinnovata violenza e
si protrasse, in un susseguirsi di rivolte e colpi di Stato, fino all'inizio
degli anni '20, per concludersi infine con l'assunzione della presidenza (1921)
da parte del progressista Alvaro Obregón e con il varo di una Costituzione
democratica e laica aperta alle istanze di riforma sociale, la cui attuazione si
sarebbe però rivelata lenta e difficile.
L'ITALIA DAL 1870 AL 1914
L'Italia liberale
Il periodo che va dal completamento dell'unità nel 1870, con la presa di
Roma, al 1914, l'anno dello scoppio della prima guerra mondiale, viene
convenzionalmente ricordato come quello dell'«Italia liberale». È una
definizione che coglie innanzitutto l'ideologia prevalente della classe
dirigente al potere, ma non registra tutte le diverse tendenze e pratiche di
governo racchiuse in quel lungo arco di tempo. E soprattutto, nel limitarsi alla
dimensione politica, coglie appena la varietà delle trasformazioni che l'Italia
conobbe in quasi un cinquantennio.
Sono almeno tre le fasi principali di questa evoluzione politica:
la prima (1870-87) vede dapprima il declino della Destra storica, poi il
passaggio del governo alla Sinistra, infine l'avvio della pratica del
"trasformismo" che di fatto annulla i tradizionali confini fra maggioranza e
opposizione;
la seconda (1887-1901) è quella degli esperimenti autoritari, imposti
prima dalla forte personalità di Francesco Crispi, poi tradotti in progetti
volti ad accrescere i poteri dell'esecutivo e della Corona a scapito di quelli
del Parlamento;
la terza (1901-14) è determinata dalla risposta del liberalismo
riformatore di Giovanni Giolitti: una fase – l'età giolittiana – che si chiude,
dopo un decennio di progressi economici e civili, con momenti di forte
conflittualità sociale, premessa dei contrasti che precedono l'entrata in guerra
del 1915.
L'uscita di scena di molti protagonisti del periodo risorgimentale (Mazzini morì
nel 1872, Pio 1X e Vittorio Emanuele II nel 1878, Garibaldi nel 1882) portò a un
graduale rinnovamento della classe politica, anche se quasi tutti i presidenti
del Consiglio dell'Italia liberale erano uomini anziani, talora molto anziani.
Non si trattò dunque di un ringiovanimento anagrafico ma dell'apporto che venne
dalla nascita di nuovi partiti e movimenti – socialisti, cattolici e
nazionalisti – divenuti via via protagonisti tra la fine dell'800 e il primo
decennio del '900.
L'Italia si sviluppava lungo un percorso segnato dal progressivo allargamento
del suffragio e da una graduale democratizzazione: ma non era un percorso
lineare, quanto piuttosto un itinerario intervallato da momenti di crisi
profonda tanto nella politica interna – lo scandalo della Banca Romana, i moti
del '98 – che in quella internazionale.
Le iniziali ambizioni coloniali vennero duramente sconfitte nel 1896 (nella
guerra italo-abissina) salvo rivalersi con la conquista della Libia nel 1912. In
questo campo l'Italia tentò a fatica di inserirsi nella dominante politica
imperialista, riuscendo a garantirsi alcuni possessi coloniali in Eritrea, in
Somalia e, appunto, in Libia.
Anche la politica economica seguì l'esempio degli altri grandi paesi europei con
l'adozione del protezionismo volto a tutelare le prime fasi di sviluppo
industriale che sarebbe decollato tardivamente a partire dal 1896.
Nel confronto col resto dell'Europa, nonostante i grandi progressi dell'età
giolittiana, l'Italia scontava l'antica arretratezza e una permanente
conflittualità sociale a cui si aggiungevano gli strascichi dei difficili
rapporti con la Chiesa di Roma: contrasti solo parzialmente superati con
l'ingresso in Parlamento, nel 1913, di cattolici alleati ai liberali per
ostacolare la minaccia dell'ascesa socialista nella prima applicazione del
suffragio universale maschile.
Ma già allora il sistema liberale, e in particolare la politica dell'ultimo
decennio guidata da Giolitti, vedeva, come in altri paesi europei, l'emergere di
forze ostili a quel sistema rappresentativo parlamentare che fino allora, grazie
anche al trasformismo, era riuscito a superare molte fasi difficili e a
garantire la modernizzazione del paese.
Dalla Destra alla Sinistra
La fine del governo della Destra
Nel 1876 il governo passò dalla Destra alla Sinistra.
L'anno precedente, grazie alla severa politica fiscale impostata dal ministro
delle Finanze Quintino Sella, era stato raggiunto il pareggio nel bilancio
statale. Ma ormai, in Parlamento e nel paese, erano molti a chiedere una
politica meno rigida e restrittiva, che lasciasse più ampi margini alla
formazione della ricchezza privata.
La Destra appariva divisa mentre buona parte della Sinistra parlamentare si
veniva spostando su posizioni più moderate: venne così emergendo una "Sinistra
giovane", espressione di una borghesia (soprattutto meridionale) poco sensibile
alla tradizione democratico-risorgimentale e attenta piuttosto alla tutela di
interessi locali.
Furono comunque le divisioni della Destra ad aprire alla Sinistra la via del
governo. Nel marzo 1876 il governo Minghetti, messo in minoranza sul suo
progetto di passaggio alla gestione statale delle ferrovie, fino allora affidate
ai privati, presentò le dimissioni. Pochi giorni dopo, il re chiamò a formare il
nuovo governo Agostino Depretis, che costituì un ministero interamente composto
da uomini della Sinistra. Nelle elezioni politiche del novembre di quell'anno,
il nettissimo successo della Sinistra fu anche dovuto alle pesanti ingerenze del
governo. D'altro canto, il risultato confermò il carattere irreversibile del
declino della Destra.
La Sinistra e i governi Depretis
Col 1876 si apriva una nuova fase nella storia politica dell'Italia unita.
Giungeva al potere un ceto dirigente quasi del tutto nuovo a esperienze di
governo, diverso per formazione e per estrazione sociale da quello che aveva
retto il paese nel primo quindicennio di vita unitaria. La Sinistra parlamentare
aveva in realtà fortemente attenuato la sua originaria connotazione
radicai-democratica e aveva accolto nel suo seno componenti moderate o
addirittura conservatrici. Ciononostante, la nuova classe dirigente riuscì a
esprimere l'aspettativa di democratizzazione della vita politica diffusa in
larga parte della società: tentò infatti, pur con molte incertezze e cautele, di
ampliare le basi della politica e seppe venire incontro alle esigenze di una
borghesia in crescita.
Il protagonista indiscusso di questa fase, Agostino Depretis, già leader della
Sinistra all'opposizione, fu capo del governo, salvo brevi interruzioni, per
oltre dieci anni.
Mazziniano in gioventù, approdato poi a posizioni più moderate, parlamentare
espertissimo, Depretis riuscì a contemperare con molta abilità le spinte
progressiste e le tendenze conservatrici presenti nella nuova maggioranza.
Il programma della Sinistra era basato su pochi punti fondamentali: ampliamento
del suffragio elettorale, maggiore sostegno all'istruzione elementare, sgravi
fiscali soprattutto nel settore delle imposte indirette, decentramento
amministrativo.
Quest'ultimo impegno fu accantonato mentre gli altri ebbero attuazione, anche se
a volte tardiva. La prima riforma fu quella dell'istruzione elementare. Una
legge del 1877 – nota come legge Coppino dal nome del ministro che la presentò –
ribadiva l'obbligo della frequenza scolastica portandolo fino ai nove anni.
Tuttavia, a causa delle ristrettezze in cui versava la maggioranza delle
famiglie italiane e della scarsa capacità dei comuni di provvedere ai compiti
loro spettanti, non ci fu una reale attuazione dell'obbligo scolastico: fino
alla fine del secolo la percentuale di analfabeti si mantenne molto elevata, pur
diminuendo costantemente.
La riforma elettorale del 1882
Legato al problema dell'istruzione era quello dell'ampliamento del suffragio.
La nuova legge elettorale, approvata dalla Camera all'inizio del 1882,
introduceva infatti come requisito fondamentale l'istruzione, concedendo il
diritto di voto a tutti i cittadini che avessero compiuto il ventunesimo anno
d'età – la legge precedente fissava l'età minima a 25 anni – e avessero superato
l'esame finale del corso elementare obbligatorio, o dimostrassero comunque di
saper leggere e scrivere.
Il requisito del censo era mantenuto, in alternativa a quello dell'istruzione, e
abbassato di circa la metà (da 40 a 20 lire di imposte annue pagate). A causa
dell'alto tasso di analfabetismo, la consistenza numerica dell'elettorato
restava sempre piuttosto esigua: poco più di 2 milioni, pari al 7% della
popolazione e a circa un quarto dei maschi maggiorenni. Il corpo elettorale
risultava tuttavia più che triplicato rispetto alle ultime consultazioni e, quel
che più conta, profondamente modificato nella composizione. Grazie alla nuova
legge accedeva alle urne anche una frangia non trascurabile di artigiani e
operai del Nord. Per questo, le prime elezioni a suffragio allargato (ottobre
1882) videro l'ingresso alla Camera del primo deputato socialista, il romagnolo
Andrea Costa.
Il trasformismo
La riforma elettorale dell'82 segnò il coronamento, ma anche il punto
terminale, della breve stagione di riforme della Sinistra. Furono proprio le
preoccupazioni suscitate dall'ampliamento del suffragio e dal conseguente
prevedibile rafforzamento dell'estrema sinistra a favorire quel processo di
convergenza fra le forze moderate di entrambi gli schieramenti, che nacque da un
accordo elettorale fra Depretis e il leader della Destra Minghetti e che prese
il nome di trasformismo. La sostanza del trasformismo non stava – come sosteneva
Depretis – nella "trasformazione" dei moderati in progressisti, ma piuttosto nel
venir meno delle tradizionali distinzioni ideologiche fra Destra e Sinistra e
nella rinuncia, da parte di quest'ultima, a una precisa caratterizzazione.
La maggioranza non era più definita sulla base di discriminanti programmatiche,
ma veniva "costruita" giorno per giorno a forza di compromessi e patteggiamenti:
una situazione che provocava un sostanziale rallentamento nell'azione di
governo, oltre che un netto scadimento nella qualità della vita politica.
La svolta moderata di Depretis ebbe come conseguenza il definitivo distacco
dalla maggioranza dei gruppi democratici più avanzati che, pur avendo
accantonato la pregiudiziale repubblicana, continuavano a battersi per il
suffragio universale, per una politica estera antiaustriaca, per una politica
ecclesiastica più decisamente anticlericale e per un più vasto impegno in favore
delle classi disagiate.
Sotto la guida di Agostino Bertani, e poi di Felice Cavallotti, questo gruppo –
che, con termine mutuato dalla Francia della Terza Repubblica, fu chiamato
radicale – svolse negli anni '80 un ruolo di combattiva opposizione contro le
maggioranze trasformiste.
La politica economica protezionista
La crisi agraria
La Sinistra allentò la dura politica fiscale fino allora praticata e la
contestata tassa sul macinato fu considerevolmente ridotta nel 1880, per essere
poi del tutto abolita nell'84. Venne contemporaneamente aumentata la spesa
pubblica, sia per coprire le accresciute esigenze militari sia per accontentare
le richieste dei vari gruppi di interesse su cui si reggeva la maggioranza.
Questa politica provocò, fin dall'inizio degli anni '80, la ricomparsa di un
crescente deficit nel bilancio statale, senza peraltro riuscire a superare le
difficoltà economiche dovute in primo luogo all'arretratezza del settore
agricolo.
I pochi miglioramenti avevano riguardato soprattutto le zone e i settori già
relativamente progrediti: le terre irrigue della pianura lombarda e le colture
"specializzate" del Mezzogiorno (olivi, agrumi e soprattutto uva da vino).
Altri mutamenti significativi si erano avuti, fin dall'inizio degli anni '70, in
alcune zone della Bassa Padana, in particolare nel Ferrarese: qui grandi lavori
di bonifica promossi da imprenditori capitalisti avevano sconvolto la fisionomia
del paesaggio agrario e attirato vaste masse di braccianti. In tutto il resto
d'Italia, però, la situazione dell'agricoltura non era molto cambiata rispetto
ai primi anni dell'unità né erano migliorate le condizioni dei lavoratori delle
campagne, oppressi da contratti arcaici, sottopagati, malnutriti, analfabeti
nella stragrande maggioranza.
La situazione si aggravò quando, a partire dal 1881, l'Italia cominciò a
risentire gli effetti della crisi che investì in quegli anni l'agricoltura
europea: un brusco abbassamento dei prezzi colpi in primo luogo i cereali e poi
tutto l'insieme dei prodotti agricoli, a eccezione delle colture da esportazione
che non subivano la concorrenza d'oltreoceano. Al calo dei prezzi seguì un calo
della produzione, con conseguenze gravissime per tutte le categorie produttive
legate all'agricoltura. Anche gli effetti sociali della crisi agraria furono
analoghi a quelli già osservati per l'insieme dei paesi europei: aumento della
conflittualità nelle campagne e rapido incremento dei flussi migratori verso i
centri urbani e soprattutto verso l'estero. Fra il 1881 e il 1901 abbandonarono
definitivamente l'Italia più di 2 milioni di persone. La crisi non solo distolse
capitali dal settore agricolo, indirizzandoli verso altri impieghi, ma fece
cadere le illusioni di chi ancora credeva che lo sviluppo economico italiano
potesse fondarsi solo sull'agricoltura e sull'esportazione dei prodotti della
terra.
Il protezionismo
Gli esponenti della Sinistra erano, come i loro predecessori, avversi in
linea di principio all'intervento dello Stato nell'economia. Queste convinzioni
liberiste furono però scosse dall'andamento tutt'altro che brillante
dell'economia nazionale e dall'esempio che veniva dagli altri Stati europei,
soprattutto dalla Germania. Una decisa svolta in senso protezionistico era del
resto invocata ormai da quasi tutti gli industriali e dagli stessi proprietari
terrieri, un tempo incondizionatamente favorevoli al liberismo ma ora colpiti
dalle conseguenze della crisi agraria.
Si giunse così nel 1887 al varo di una nuova tariffa generale che metteva al
riparo dalla concorrenza straniera importanti settori dell'industria nazionale
(i più favoriti, oltre al siderurgico, furono il laniero, il cotoniero e lo
zuccheriero), colpendo le merci di importazione con pesanti dazi di entrata. In
campo agricolo, il nuovo regime doganale fu esteso ai cereali: il dazio sul
grano fu quasi triplicato fra 1'87 e 1'89. La tariffa dell'87 segnava una
rottura definitiva con la prassi liberoscambista seguita negli anni '60 e '70 e
poneva le basi di un nuovo blocco di potere economico fondato sull'alleanza fra
l'industria protetta e i grandi proprietari terrieri (settentrionali e
meridionali) e sull'intreccio non sempre limpido fra i maggiori gruppi di
interesse e i poteri statali.
Gli effetti negativi
È ormai opinione comune che la scelta protezionistica costituisse per
l'Italia una sorta di passaggio obbligato sulla strada di quel decollo
industriale poi realizzatosi a partire dagli ultimi anni dell'800. È certo
tuttavia che, almeno nell'immediato, la tariffa dell'87 produsse una serie di
conseguenze negative e accentuò gli squilibri fra i vari settori dell'economia e
fra le varie zone del paese. 1 dazi doganali non proteggevano in modo uniforme i
diversi comparti produttivi. Al forte sostegno accordato alla siderurgia, anche
per motivi strategici legati agli armamenti, faceva riscontro la scarsa
protezione di cui godeva l'industria meccanica (danneggiata oltretutto dal
rialzo dei prezzi dei prodotti siderurgici).
Per quanto riguarda l'agricoltura, l'introduzione del dazio sul grano provocò un
immediato rialzo del prezzo dei cereali che, se da un lato rappresentò una
boccata d'ossigeno per le aziende in crisi, dall'altro danneggiò i consumatori e
contribuì a tenere in vita, soprattutto nel Mezzogiorno, arretrate realtà
produttive.
Contemporaneamente l'agricoltura meridionale veniva colpita nel suo settore più
moderno: quello delle colture specializzate, che si reggeva soprattutto sulle
esportazioni e che vide bruscamente chiudersi il suo principale mercato di
sbocco. La tariffa dell'87 ebbe infatti come conseguenza una rottura
commerciale, poi degenerata in vera e propria guerra doganale con la Francia,
che era stata fino allora il principale partner economico dell'Italia e il
maggior acquirente dei prodotti agricoli italiani (soprattutto seta e vino), la
cui esportazione diminuì di oltre il 50%.
La politica estera e il colonialismo
La Triplice alleanza
Anche per la politica estera italiana gli anni della Sinistra segnarono una
svolta decisiva: nel maggio 1882 il governo Depretis stipulò con la Germania e
l'Austria-Ungheria il trattato della Triplice alleanza. Questa scelta
rappresentava una netta rottura con la tradizione risorgimentale, col prudente
equilibrio mantenuto dai governi della Destra e col rapporto preferenziale con
la Francia. La motivazione principale di questa decisione fu il desiderio di
uscire da una situazione di isolamento diplomatico che appariva insopportabile
in un'epoca dominata dalla logica di potenza.
Questo isolamento era apparso chiaramente nel 1881 quando la Francia, col
consenso delle altre potenze, aveva occupato la Tunisia e l'Italia – che da
tempo nutriva aspirazioni su quel territorio, anche per la presenza di una forte
comunità di emigrati italiani – non aveva potuto far nulla per opporsi. Ne era
seguito un grave deterioramento dei rapporti italo-francesi, destinato a far
sentire i suoi effetti per oltre un quindicennio.
Per uscire dall'isolamento, l'Italia non aveva dunque altra strada se non quella
dell'accordo con Germania e Austria, insistentemente sollecitato da Bismarck. La
Triplice era un'alleanza di carattere difensivo, che impegnava gli Stati
firmatari a garantirsi reciproca assistenza in caso di aggressione da parte di
altre potenze. In concreto, l'Italia veniva coinvolta nel sistema di sicurezza
bismarckiano senza ottenere dai nuovi alleati alcun vantaggio immediato, anzi
rinunciando implicitamente alla rivendicazione storica delle terre irredente,
cioè il Trentino e la Venezia Giulia, "non redente" ovvero non liberate dal
dominio austriaco. Un problema questo che fu drammaticamente riproposto dal caso
di Guglielmo Oberdan, un giovane triestino impiccato nel dicembre 1882 per aver
progettato di attentare alla vita dell'imperatore austriaco Francesco Giuseppe.
La Triplice fu rinnovata a più riprese, ma le garanzie ottenute sulla carta
dall'Italia nel 1887 – in particolare la clausola secondo cui ogni eventuale
espansione austriaca nei Balcani doveva essere bilanciata da adeguati "compensi"
per l'Italia – non vennero praticamente mai applicate. Come si sarebbe visto nel
1908 con l'annessione austriaca della Bosnia e dell'Erzegovina.
L'espansione coloniale in Africa orientale
Contemporaneamente alla stipulazione della Triplice, il governo Depretis, spinto da considerazioni di prestigio e dalla pressione di ristretti gruppi di interesse, aveva ritenuto opportuno porre le basi per una piccola iniziativa coloniale in Africa orientale. Il punto di partenza fu costituito dall'acquisto, nel 1882, della Baia di Assab, sulla costa occidenta le del Mar Rosso. Tre anni dopo fu inviato un corpo di spedizione che occupò una striscia di territorio tra la Baia di Assab e la città di Massaua. Questa zona, abitata da popolazioni nomadi, confinava con l'Impero etiopico, il più forte e il più vasto fra gli Stati africani indipendenti.
Presenza italiana in Africa Orientale
L'Etiopia (o Abissinia, come veniva allora chiamata in Italia) era un paese economicamente molto arretrato, con una popolazione di fede cristiana e di confessione copta (secondo la tradizione dell'antica Chiesa cristiana d'Egitto); dedita in prevalenza alla pastorizia, essa aveva un'organizzazione di tipo feudale in cui l'autorità dell'imperatore, il negus, era fortemente limitata da quella dei signori locali, i ras, che disponevano di propri eserciti. In un primo tempo gli italiani cercarono di stabilire buoni rapporti con gli etiopi e di avviare una penetrazione commerciale. Ma, quando tentarono di ampliare il loro controllo territoriale verso l'interno, dovettero scontrarsi con la reazione del negus e dei ras locali. Nel gennaio 1887 una colonna di 500 militari italiani fu sorpresa dalle truppe abissine del ras Alula e sterminata nei pressi di Dogali. La notizia della disfatta suscitò un'ondata di proteste in tutto il paese, in particolare tra i gruppi di estrema sinistra che si erano sempre opposti alla politica coloniale. Prevalse però l'esigenza di tutelare il prestigio nazionale: così la Camera accordò al governo i finanziamenti richiesti per l'invio di rinforzi e per il consolidamento della presenza italiana sulla fascia costiera.
Socialisti e cattolici
Le società di mutuo soccorso
Il ritardo nello sviluppo industriale e la conseguente assenza di un
proletariato di fabbrica numericamente consistente rallentarono in Italia la
crescita di un movimento operaio organizzato. Del resto gli oltre 3 milioni di
addetti all'industria, censiti nel 1871, erano per gran parte lavoranti di
botteghe artigiane. Anche nelle unità produttive di maggiori dimensioni (specie
nel settore tessile, dove era molto numerosa la manodopera femminile e minorile)
accadeva spesso che gli operai alternassero stagionalmente il lavoro in fabbrica
con quello nei campi; e molto diffuso, sempre nel settore tessile, restava il
lavoro a domicilio.
Fino all'inizio degli anni '70, l'unica organizzazione operaia di una certa
consistenza diffusa in tutto il paese fu quella delle società di mutuo soccorso,
associazioni in parte controllate dai mazziniani e in parte organizzate da
esponenti moderati. Concepite come strumenti di educazione del popolo più che
come organismi di lotta, le società operaie avevano essenzialmente scopi di
solidarietà, rifiutavano la lotta di classe e lo sciopero. Era dunque naturale
che perdessero terreno quando cominciò a diffondersi nel paese
l'internazionalismo socialista, che in Italia si ispirò, almeno in un primo
tempo, più alle teorie anarchiche di Bakunin che a quelle di Marx.
Anarchici e operaisti
La crescita del movimento internazionalista si dovette soprattutto all'opera di alcuni instancabili agitatori, come Carlo Cafiero, Andrea Costa, Errico Malatesta, che, fedeli a Bakunin, concentrarono i loro sforzi nell'organizzazione di moti insurrezionali, facendo leva soprattutto sul proletariato delle campagne. Il completo fallimento di questi tentativi convinse Andrea Costa che era necessario elaborare un programma concreto, impegnandosi nelle lotte di tutti i giorni e dando vita a un vero e proprio partito. La "svolta" di Costa trovò una prima attuazione con la nascita, nell'estate del 1881, del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, che rese possibile l'elezione di Costa nell'82. In realtà il partito rimase sempre una formazione locale, priva di legami con i nuclei operai più maturi e avanzati che intanto si andavano costituendo soprattutto in Lombardia. Fin dall'inizio degli anni '70, circoli operai, leghe di resistenza (queste ultime esplicitamente finalizzate alla organizzazione degli scioperi) erano venuti sorgendo in numerosi centri industriali e avevano dato un forte impulso all'azione rivendicativa dei lavoratori. Nell'82 alcune associazioni operaie milanesi decisero di dar vita a una formazione politica autonoma che prese il nome di Partito operaio italiano e che si presentò come un organismo rigidamente classista. Fermissimi nel respingere ogni apporto borghese, gli "operaisti" cercarono di stabilire un contatto con quel proletariato rurale della Bassa padana che fu protagonista dei primi grandi scioperi agricoli nella storia dell'Italia unita: particolarmente imponenti quelli che si svolsero nel Mantovano e nel Polesine nel 1884-85.
Filippo Turati
Fra il 1887 e il 1893 sorsero le prime federazioni di mestiere a carattere
nazionale, vennero fondate le prime Camere del lavoro (organizzazioni sindacali
a base locale), si accelerò anche la penetrazione del socialismo fra i
lavoratori della terra grazie al movimento associativo fra i braccianti e i
contadini della Valle padana. Per tutto il movimento di classe si poneva a
questo punto il problema di una organizzazione politica unitaria capace di
guidare e coordinare le lotte a livello nazionale. Il problema non era di facile
soluzione a causa della frammentazione organizzativa e ideologica del movimento
operaio italiano.
Le opere di Marx, infatti, erano poco conosciute e l'unico autentico e originale
teorico marxista allora attivo in Italia era il filosofo napoletano Antonio
Labriola, amico e corrispondente di Engels. Ma Labriola era una figura
sostanzialmente isolata tra i leader socialisti.
Fu invece un intellettuale milanese, Filippo Turati, il principale protagonista
delle vicende che portarono alla fondazione del Partito socialista italiano.
Nato nel 1857 da una famiglia dell'alta borghesia lombarda, Turati aveva
militato da giovane nelle file della democrazia radicale.
Decisivo per la sua formazione politica era stato l'incontro con Anna
Kuliscioff, una giovane esule russa che aveva già alle spalle una notevole
esperienza politica e una larga conoscenza del mondo socialista europeo. Ma non
meno decisivo fu il contatto con l'ambiente operaio di Milano, già allora
indiscussa capitale economica d'Italia e sede degli esperimenti più avanzati di
associazionismo fra i lavoratori. La posizione di Turati, meno rigorosa sul
piano teorico di quella di Labriola, fu molto chiara nelle scelte politiche di
fondo: l'affermazione dell'autonomia del movimento operaio dalla democrazia
borghese; il rifiuto dell'insurrezionalismo anarchico; il riconoscimento del
carattere prioritario delle lotte economiche; l'esigenza di collegare queste
lotte con quelle politiche e di inquadrarle in un progetto generale che aveva
come obiettivo finale la socializzazione dei mezzi di produzione.
La fondazione del Partito socialista italiano
Nell'agosto del 1892 si riunirono a Genova i delegati di circa 300 fra società operaie, leghe contadine, circoli politici e associazioni di varia natura. Subito si delineò la frattura tra una maggioranza favorevole all'immediata costituzione di un partito e una minoranza contraria, formata dagli anarchici e da una parte degli aderenti al Partito operaio. Vista l'impossibilità di trovare un accordo, i delegati della maggioranza, guidati da Turati, abbandonarono la sala del congresso e, riunitisi in altra sede, dichiararono costituito il Partito dei lavoratori italiani, approvandone subito il programma e lo statuto. Il programma indicava come fine la «gestione sociale» dei mezzi di produzione e, come mezzo atto a raggiungerlo, «l'azione del proletariato organizzato in partito [ ... ] esplicantesi sotto il doppio aspetto: 1) della lotta di mestieri per i miglioramenti immediati della vita operaia [ ... ]; 2) di una lotta più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici». Divenuto Partito socialista dei lavoratori italiani nel '93, due anni dopo il partito assunse il nome definitivo di Partito socialista italiano.
I cattolici
Se per la classe dirigente liberal-moderata il movimento socialista
rappresentava una presenza minacciosa, sull'opposto versante politico non meno
preoccupante era l'atteggiamento della massa dei cattolici militanti, fermi
nella fedeltà al papa e nel conseguente rifiuto dello Stato uscito dal
Risorgimento. I cattolici costituivano dunque una forza eversiva nei confronti
delle istituzioni unitarie di cui non riconoscevano la legittimità: una forza
tanto più pericolosa in quanto profondamente radicata nel tessuto sociale, in
particolare nel mondo delle campagne. Il divieto papale di partecipare alle
elezioni, formulato col non expedit del 1874, non si applicava alle elezioni
amministrative né significava per il movimento cattolico la rinuncia a una
presenza autonoma nella vita del paese.
Proprio nel 1874, in un convegno tenuto a Venezia, un gruppo di autorevoli
esponenti del mondo cattolico italiano (ecclesiastici e laici) decise di dar
vita a un'organizzazione nazionale che fu chiamata Opera dei
congressi: saldamente controllata dal clero, ebbe il compito di convocare
periodicamente congressi delle associazioni cattoliche operanti in Italia,
assicurando loro un più stretto collegamento. Il suo programma si riduceva a una
dichiarazione di ostilità nei confronti del liberalismo laico, della democrazia
e del socialismo, a una professione di fedeltà al magistero del pontefice e alla
dottrina cattolica.
Qualche segno di apertura si ebbe dopo il 1878, in coincidenza con l'avvento al
soglio pontificio di papa Leone XIII. Sotto il suo pontificato il movimento
cattolico italiano accentuò il suo impegno sul terreno sociale, cui lo spingeva
fatalmente la stessa tendenza a raccogliere una base di massa. Sorsero così,
soprattutto in Lombardia e nel Veneto, società di mutuo soccorso, cooperative
agricole e artigiane controllate dal clero e ispirate alla dottrina sociale
cattolica.
Crispi: rafforzamento dello Stato e tentazioni autoritarie
Il primo governo Crispi: riforme e repressione
Alla morte di Depretis, nel 1887, fu nominato presidente del Consiglio
Francesco Crispi, la personalità più rilevante della Sinistra. Siciliano,
temperamento forte e autoritario, primo meridionale a salire alla presidenza del
Consiglio, Crispi poteva contare, in virtù del suo passato mazziniano e
garibaldino, su ampie simpatie a sinistra, ma anche sulla fiducia dei gruppi
conservatori, attratti dalle sue promesse di uno stile di governo più deciso ed
efficiente, di chiara impronta "bismarckiana".
Accentrando nella sua persona per quasi quattro anni, oltre alla presidenza del
Consiglio, i ministeri degli Interni e degli Esteri, Crispi impresse in effetti
una svolta all'azione di governo: si fece promotore di un'opera di
riorganizzazione e di razionalizzazione dell'apparato statale, ma accentuò anche
le spinte autoritarie e repressive. Nel 1888 fu approvata una legge comunale e
provinciale che ampliava il diritto di voto per le elezioni amministrative e
rendeva elettivi i sindaci dei comuni con più di 10 mila abitanti (fino allora
di nomina regia). Nel 1889 fu varato un nuovo codice penale — noto come Codice
Zanardelli, dal nome dell'allora ministro della Giustizia — che aboliva la pena
di morte, ancora in vigore in tutti i maggiori Stati europei, e non negava il
diritto di sciopero, riconoscendone implicitamente la legittimità.
Questo riconoscimento fu di fatto contraddetto dalla nuova legge di Pubblica
sicurezza che poneva gravi limiti alla libertà sindacale e lasciava alla polizia
ampi poteri discrezionali, come quello di inviare al domicilio coatto, senza
l'autorizzazione della magistratura, gli elementi ritenuti pericolosi. Di questi
poteri Crispi si avvalse con molta frequenza, intervenendo duramente contro il
movimento operaio, ma anche contro le organizzazioni cattoliche e contro i
circoli irredentisti di ispirazione repubblicana.
I progetti coloniali di Crispi
Crispi fu anche sostenitore dell'ascesa dell'Italia a grande potenza
coloniale. Per realizzare il suo programma, puntò sul rafforzamento della
Triplice alleanza e, all'interno di essa, sul consolidamento dei legami con
l'Impero tedesco.
Nelle intenzioni di Crispi, la Triplice doveva non solo garantire l'Italia da
nuove iniziative francesi nel Mediterraneo, ma anche servire da base per una più
attiva presenza in Africa. Nel 1890 i possedimenti italiani furono ampliati e
riorganizzati col nome di Colonia Eritrea, mentre venivano poste le basi per una
nuova espansione sulle coste della vicina Somalia. La politica coloniale di
Crispi suscitava, però, perplessità in seno alla stessa maggioranza, in quanto
risultava troppo costosa per il bilancio dello Stato. Messo in minoranza, Crispi
si dimise all'inizio del 1891.
Il primo governo Giolitti
Nel maggio 1892, la presidenza del Consiglio passò al piemontese Giovanni Giolitti. Figura centrale del successivo trentennio di storia italiana, Giolitti, allora cinquantenne, si presentava con un programma piuttosto avanzato. In politica finanziaria mirava a una più equa ripartizione del carico fiscale, che risparmiasse i ceti disagiati e colpisse con aliquote più alte i redditi maggiori secondo il principio della progressività delle imposte (oggi universalmente accettato). In politica interna aveva idee innovatrici, contrarie all'intervento repressivo contro il movimento operaio e le organizzazioni popolari. Si rifiutò infatti di ricorrere a misure eccezionali contro i Fasci dei lavoratori, associazioni popolari (il termine "fascio" stava per "unione") sviluppatesi in Sicilia, che protestavano contro le tasse troppo pesanti e il malgoverno locale e chiedevano per i contadini terre da coltivare e patti agrari più vantaggiosi. Non si trattava di un movimento rivoluzionario, anche se diede luogo ad alcune manifestazioni violente, né di un movimento socialista in senso stretto, ma suscitò tuttavia forti preoccupazioni fra i conservatori, ai quali non piacque l'atteggiamento, ritenuto debole, del presidente del Consiglio. L'ostilità dei conservatori – contrari anche ai progetti giolittiani di riforma fiscale – contribuì a indebolire il governo e ad accelerarne la caduta, che fu dovuta tuttavia alle conseguenze del grave scandalo della Banca Romana, responsabile dell'emissione fraudolenta di carta moneta e di finanziamento occulto di uomini politici e giornalisti. Giolitti, implicato nello scandalo, cadde e fu sostituito da Crispi, anche lui coinvolto nelle vicende della Banca, ma ritenuto l'uomo forte, capace di rimettere ordine nel paese e di arrestare la crescita delle organizzazioni operaie.
Il ritorno di Crispi e le leggi antisocialiste
Tornato al governo nel dicembre del 1893, Crispi affrontò con risolutezza una
situazione che vedeva l'opinione pubblica allarmata dalla crisi economica,
sconcertata dagli scandali bancari, spaventata dall'intensificarsi delle
agitazioni in Sicilia. In campo economico il nuovo governo avviò una politica di
risanamento del bilancio basata su pesanti inasprimenti fiscali e completò la
riorganizzazione del dissestato sistema bancario, già iniziata da Giolitti, con
una legge che istituiva la Banca d'Italia. Questa, nel 1926, avrebbe ottenuto il
monopolio della emissione di carta moneta (e, a partire dal 1947, avrebbe svolto
compiti di controllo sull'intero sistema bancario). In materia di ordine
pubblico Crispi non esitò a ricorrere a misure eccezionali, convinto com'era che
le agitazioni sociali costituissero un pericolo non solo per l'ordine
costituito, ma per la stessa sicurezza dello Stato uscito dal Risorgimento.
Ai primi di gennaio del 1894 lo stato d'assedio fu proclamato in Sicilia e
successivamente esteso alla Lunigiana, tra Toscana e Liguria, dove si era
verificato, senza alcun nesso con gli avvenimenti siciliani, un tentativo di
insurrezione anarchica. La repressione militare fu dura e sanguinosa e venne
accompagnata da una più generale repressione poliziesca estesa a tutto il paese
e rivolta soprattutto contro circoli, leghe e giornali facenti capo al Partito
socialista, che pure non aveva responsabilità dirette nel moto siciliano. Nel
luglio 1894 il governo volle dare alla sua azione repressiva un carattere
organico, facendo approvare dal Parlamento un complesso di leggi limitative
della libertà di stampa, di riunione e di associazione. Queste leggi, definite
"antianarchiche", avevano in realtà come obiettivo principale il Partito
socialista, che nell'ottobre fu dichiarato fuori legge: un provvedimento simile
a quello varato da Bismarck nel 1878. Gli effetti non furono però quelli sperati
da Crispi.
Le persecuzioni, infatti, non riuscirono a distruggere la già solida rete
organizzativa del partito e accrebbero i favori di cui i socialisti godevano
nella sinistra democratica e soprattutto negli ambienti intellettuali.
Adua e la caduta di Crispi
Ma il colpo definitivo per Crispi venne dal fallimento della sua politica
coloniale. Già durante il suo primo governo, Crispi aveva cercato di stabilire
una qualche forma di protettorato sull'Etiopia, intavolando col nuovo negus
Menelik trattative che portarono, nel 1889, alla firma del trattato di Uccialli.
Ma questo trattato, considerato dagli italiani come un implicito riconoscimento
del loro protettorato, fu interpretato diversamente dagli etiopi, che reagirono
energicamente ai tentativi italiani di penetrazione ripresi dopo il ritorno al
potere di Crispi. Fra Italia ed Etiopia si giunse così allo scontro armato,
culminato nel disastro di Adua del 1° marzo 1896, quando un contingente italiano
di 20 mila uomini (comprese le truppe coloniali) venne praticamente annientato
dalle forze etiopiche. La sconfitta ebbe immediate ripercussioni in Italia:
violente manifestazioni contro la guerra d'Africa scoppiarono a Roma, a Milano e
in molte altre città, mentre Crispi fu costretto a dimettersi e uscì dalla scena
politica.
L'episodio di Adua e le reazioni che ne erano seguite avevano dimostrato quanto
la guerra coloniale fosse poco sentita dalle masse popolari e da larghi strati
della stessa classe dirigente e quanto illusorio fosse stato il tentativo di
Crispi di cogliere successi di prestigio, per sé e per il paese, in un'avventura
imperialistica a cui mancavano le indispensabili premesse ideologiche, politiche
ed economiche.
La crisi di fine secolo e la nuova politica liberale
I moti dei '98
La caduta di Crispi non pose fine ai tentativi di risolvere le tensioni
politiche e sociali con una restrizione delle libertà. Al contrario, negli anni
che seguirono le dimissioni di Crispi si delineò tra le forze conservatrici –
già divise sulla politica estera e sulle questioni coloniali – la tendenza a
ricomporre un fronte comune contro le vere o supposte minacce portate all'ordine
costituito dai «nemici delle istituzioni», socialisti, repubblicani o clericali
che fossero. Questa tendenza si esprimeva anche nel tentativo di tornare a una
interpretazione restrittiva dello Statuto che, rovesciando la prassi
"parlamentare" affermatasi con Cavour, rendesse il governo responsabile di
fronte al sovrano, lasciando alle Camere i soli compiti legislativi.
La tensione esplose nella primavera del 1898, quando un improvviso aumento del
prezzo del pane – provocato da un cattivo raccolto e dal contemporaneo blocco
delle importazioni di cereali dagli Stati Uniti – fece scoppiare in tutto il
paese una serie di manifestazioni popolari. La risposta del governo guidato dal
conservatore Antonio Starabba di Rudinì fu durissima, come se si dovesse
fronteggiare un complotto rivoluzionario: prima massicci interventi delle forze
di polizia, quindi proclamazione dello stato d'assedio, con conseguente
passaggio dei poteri alle autorità militari, a Milano, a Napoli e nell'intera
Toscana. La repressione fu particolarmente violenta a Milano dove le truppe,
guidate dal generale Bava Beccaris, spararono sulla folla inerme anche con colpi
a mitraglia dell'artiglieria provocando un centinaio di morti. Capi socialisti,
radicali, repubblicani e anche esponenti del movimento cattolico intransigente
furono incarcerati.
L'ostruzionismo dell'estrema sinistra
Dimessosi il presidente del Consiglio, Rudinì (giugno '98), il suo successore, il generale piemontese Luigi Pelloux, presentò alla Camera nel '99 un pacchetto di provvedimenti che limitavano gravemente il diritto di sciopero e la libertà di associazione. I gruppi di estrema sinistra risposero con l'ostruzionismo, consistente nel prolungare all'infinito la discussione parlamentare. Allora Pelloux sciolse la Camera ma, dopo il risultato sfavorevole delle elezioni del giugno 1900, decise di dimettersi. Accettando le sue dimissioni e affidando la successione al senatore Giuseppe Saracco, un moderato ritenuto al di sopra delle parti, Umberto I mostrava di prendere atto del fallimento della politica repressiva che lo aveva visto fra i suoi più attivi sostenitori. Un mese dopo, il 29 luglio 1900, il re cadeva vittima di un attentato per mano di un anarchico, Gaetano Bresci, venuto appositamente dagli Stati Uniti per vendicare le vittime del '98.
Il governo Zanardelli-Giolitti
Rinunciando a ripresentare i provvedimenti repressivi proposti da Pelloux, il
governo Saracco inaugurò una fase di distensione nella vita politica italiana.
Una distensione che fu indubbiamente favorita dal buon andamento dell'economia e
dal conseguente allentamento delle tensioni sociali oltre che dall'atteggiamento
del nuovo re, Vittorio Emanuele III, assai più aperto del padre nei confronti
delle forze progressiste. Quando il governo Saracco fu costretto a dimettersi
per il comportamento incerto e contraddittorio tenuto in occasione di un grande
sciopero indetto dai lavoratori genovesi, il re seppe interpretare il nuovo
clima politico chiamando alla guida del governo, nel febbraio 1901, il leader
della sinistra liberale Giuseppe Zanardelli, che affidò il ministero degli
Interni a Giolitti. Proprio quest'ultimo, nel dibattito parlamentare sullo
sciopero di Genova, aveva formulato con molta chiarezza la teoria secondo cui lo
Stato liberale non aveva nulla da temere dallo sviluppo delle organizzazioni
operaie e nulla da guadagnare da una repressione indiscriminata delle loro
attività, ma al contrario aveva tutto l'interesse a consentirne il libero
svolgimento.
Nei suoi quasi tre anni di vita il ministero Zanardelli-Giolitti condusse in
porto alcune importanti riforme.
Furono estese le norme che limitavano il lavoro minorile e femminile
nell'industria. Venne migliorata la legislazione sulle assicurazioni per la
vecchiaia e per gli infortuni sul lavoro. Venne approvata una legge per la
municipalizzazione dei servizi pubblici. Ma, più importante delle singole
riforme, fu il nuovo atteggiamento del governo in materia di conflitti di
lavoro.
Tenendo fede al suo programma, Giolitti mantenne una linea di rigorosa
neutralità nelle vertenze sindacali, purché non degenerassero in manifestazioni
violente.
Lo sviluppo delle organizzazioni sindacali
Le conseguenze del nuovo corso furono subito evidenti.
Le organizzazioni sindacali, operaie e contadine, cancellate o ridotte alla
clandestinità dalle repressioni del '98, si svilupparono rapidamente. In quasi
tutte le principali città del Centro-nord si costituirono, o si ricostituirono,
le Camere del lavoro, mentre crescevano anche le organizzazioni di categoria. Un
fenomeno a parte era poi lo sviluppo delle organizzazioni dei lavoratori
agricoli. Formate in prevalenza da braccianti – ma anche da mezzadri e piccoli
affittuari – e concentrate in prevalenza nelle province padane, le leghe rosse
si riunirono, nel novembre 1901, nella Federazione italiana dei lavoratori della
terra (Federterra) che contava oltre 200 mila iscritti. Obiettivo finale e
dichiarato delle leghe era la «socializzazione della terra». Obiettivi immediati
erano l'aumento dei salari, la riduzione degli orari di lavoro, l'istituzione di
uffici di collocamento controllati dai lavoratori stessi.
Lo sviluppo delle organizzazioni sindacali fu accompagnato da una brusca
impennata degli scioperi. Ne derivò una spinta al rialzo dei salari destinata a
protrarsi, con poche interruzioni, per tutto il primo quindicennio del secolo.
Questi progressi non si possono spiegare, ovviamente, solo con la nuova politica
liberale, ma vanno inquadrati nella fase di generale sviluppo economico
attraversata dal paese in questo periodo.
Lo sviluppo economico e i problemi del Meridione
Le premesse del decollo industriale
A partire dagli ultimi anni dell'800, l'Italia conobbe il suo primo decollo industriale autentico decollo industriale. Se l'economia italiana poté inserirsi nella congiuntura internazionale favorevole cominciata nel 1896, ciò fu dovuto anche ai progressi che il paese era venuto realizzando nei primi trenta-quarant'anni di vita unitaria sul piano delle infrastrutture e dei settori produttivi. La costruzione di una rete ferroviaria, avviata negli anni della Destra, aveva favorito i processi di commercializzazione dell'economia. La scelta protezionistica del 1887 aveva reso possibile la creazione, sia pure a costi molti alti, di una moderna industria siderurgica. Infine, il riordinamento del sistema bancario attuato dopo la crisi della Banca Romana aveva creato un'organizzazione finanziaria abbastanza efficiente. Particolare importanza ebbe la costituzione, avvenuta nel 1894 con l'incoraggiamento dello Stato e con l'apporto di capitali tedeschi, di due nuovi istituti di credito, la Banca commerciale e il Credito italiano, che svolsero una funzione decisiva nel facilitare l'afflusso del risparmio privato verso gli investimenti industriali, soprattutto nei settori più moderni.
La crescita industriale
Furono appunto questi settori che fecero registrare i maggiori progressi. La
siderurgia, la più favorita dalle tariffe dell'87, vide la creazione, accanto
alle Acciaierie di Terni (fondate, col concorso dello Stato, nel 1884), di
numerosi nuovi impianti per la produzione della ghisa e dell'acciaio (a Savona,
Piombino, Bagnoli). Nel settore tessile, i maggiori progressi si ebbero
nell'industria cotoniera, anch'essa altamente meccanizzata e favorita dal
protezionismo. Nel settore agro-alimentare si assisté alla crescita rapidissima
di un'altra industria protetta, quella dello zucchero, legata alla diffusione
della coltura della barbabietola nella Pianura padana. Sviluppi interessanti si
ebbero anche in settori che non erano favoriti dalle tariffe doganali, come
quello chimico –soprattutto nell'industria della gomma, con gli stabilimenti
Pirelli di Milano –, o che addirittura ne erano svantaggiati, come quello
meccanico. In questo campo la principale novità fu costituita dall'affermazione
dell'industria automobilistica dove, nonostante la ristrettezza del mercato
interno (le automobili erano allora riservate a pochissimi privilegiati),
riuscirono a svilupparsi numerose aziende: alcune – come la Fiat di Torino,
fondata nel 1899 da Giovanni Agnelli – avrebbero poi acquistato una posizione di
preminenza nel mondo industriale italiano. Un discorso a parte va fatto, infine,
per l'industria elettrica, che in Italia aveva mosso i primi passi già negli
anni '80 dell'800 e che conobbe un autentico boom all'inizio del '900.
Fra il 1896 e il 1907 il tasso medio di crescita annua dell'industria fu del
6,7%, superiore a quello di qualsiasi altro paese europeo nello stesso periodo.
Fra il 1896 e il 1914 il volume della produzione industriale risultò quasi
raddoppiato, mentre la quota dell'industria nella formazione del prodotto
interno lordo, che fra il 1880 e il 1900 era rimasta pressoché stazionaria
attorno al 20%, passò nel 1914 al 25% circa, contro il 43% dell'agricoltura.
Le condizioni di vita degli italiani
Il decollo industriale dell'inizio del '900 fece sentire i suoi effetti anche
sul tenore di vita della popolazione. Nel primo quindicennio del secolo il
reddito pro capite degli italiani aumentò del 25%, mentre era rimasto pressoché
invariato nei precedenti quarant'anni. Questo aumento consentì a vasti strati
della popolazione di destinare una quota dei bilanci familiari – fin allora
assorbiti soprattutto dalle spese per l'alimentazione – alla casa, ai trasporti,
all'istruzione, alle attività ricreative e soprattutto all'acquisto di beni di
consumo durevoli: in primo luogo utensili domestici, ma anche biciclette,
macchine per cucire e altri prodotti della moderna tecnologia che fecero allora
la prima comparsa sul mercato nazionale.
La qualità della vita degli italiani cominciava a mutare, sia pur lentamente e
parzialmente, di pari passo con lo sviluppo economico. I segni di questo
mutamento erano visibili soprattutto nelle città, ancora piccole rispetto alle
maggiori metropoli europee — Roma, per esempio, contava nel 1911 poco più di 500
mila abitanti contro i quasi 3 milioni di Parigi —, ma a esse più simili che in
passato, grazie soprattutto allo sviluppo dei servizi pubblici (illuminazione,
trasporti urbani, gas domestico, acqua corrente) gestiti non di rado dagli
stessi comuni tramite apposite aziende municipalizzate. Le condizioni abitative
dei lavoratori urbani restavano ancora precarie.
Gli appartamenti dotati di servizi igienici autonomi restavano un'eccezione. Ma
la diffusione dell'acqua corrente e il miglioramento delle reti fognarie
costituirono un progresso di non poco conto, contribuendo alla forte diminuzione
della mortalità da malattie infettive (colera, tifo e, in genere, affezioni
intestinali) che si verificò nel primo quindicennio del secolo. Anche la
mortalità infantile — indicatore fra i più importanti dell'arretratezza
economica e civile — fece registrare un notevole calo.
Questi progressi tuttavia non furono sufficienti a colmare il divario che ancora
separava l'Italia dagli Stati più ricchi e più industrializzati. Alla vigilia
della prima guerra mondiale il reddito pro capite era circa la metà di quello
tedesco. L'analfabetismo era ancora molto elevato (37% nel 1911), mentre si
avviava a scomparire in tutta l'Europa del Nord. La quota della popolazione
attiva impiegata nelle campagne era ancora intorno al 55% (mentre non superava
il 40% in Francia, il 35% in Germania e addirittura l'8% in Inghilterra): una
quota troppo alta per le capacità produttive dell'agricoltura italiana, com'era
dimostrato dall'incremento dell'emigrazione verso l'estero.
L'emigrazione
Nel solo 1913 si contarono 870 mila partenze, per un totale di circa 8
milioni di emigrati (di cui almeno 2 milioni a carattere permanente) fra il 1900
e il 1914. Tutte le regioni italiane parteciparono al fenomeno migratorio.
Ma il contributo più rilevante, in rapporto alla popolazione, venne dal
Mezzogiorno. Inoltre, mentre l'emigrazione dalle regioni centro-settentrionali
era soprattutto temporanea e diretta verso i paesi europei, quella meridionale
si indirizzava in prevalenza verso le Americhe e aveva per lo più carattere
permanente.
Dal punto di vista economico, il fenomeno migratorio ebbe alcuni effetti
positivi: non solo perché allentò la pressione demografica, creando un rapporto
più favorevole fra popolazione e risorse e attenuando le tensioni sociali, ma
anche perché le rimesse, ovvero il denaro inviato dagli emigrati alle famiglie,
ridussero il disagio delle zone più depresse e giovarono all'economia
dell'intero paese. Tuttavia, un'emigrazione così massiccia rappresentò un
impoverimento, in termini di forza-lavoro e di energie intellettuali, per la
comunità nazionale e soprattutto per il Mezzogiorno.
Il divario tra Nord e Sud
Ancora una volta gli effetti del progresso economico si fecero sentire
soprattutto nelle regioni più sviluppate, in particolare nel cosiddetto
triangolo industriale che aveva come vertici Milano, Torino e Genova. E il
divario fra Nord e Sud si venne perciò accentuando, sia pure nel quadro di una
crescita generalizzata. Secondo i dati di un'inchiesta del 1903, sul totale dei
lavoratori dell'industria il 57% era concentrato nelle regioni settentrionali
mentre solo il 25% viveva nel Mezzogiorno, che aveva una popolazione pari al 37%
di quella nazionale.
Questo divario era accentuato da alcuni mali storici della società meridionale:
l'analfabetismo diffuso, la disgregazione sociale, l'assenza di una classe
dirigente moderna, la subordinazione della piccola e media borghesia agli
interessi della grande proprietà terriera, il carattere clientelare e
personalistico della lotta politica.
Tale carattere era accentuato dal fatto che, per molti giovani, la conquista di
un impiego pubblico – raggiungibile grazie ai favori del notabile o del deputato
locale – costituiva l'unica alternativa alla disoccupazione o all'emigrazione:
fu in questo periodo che la pubblica amministrazione italiana, nata piemontese e
"nordista", cominciò a meridionalizzarsi. Tutti questi erano mali antichi, ma
risaltavano maggiormente nel momento in cui contrastavano col generale sviluppo
del paese.
L'età giolittiana
Giovanni Giolitti fu la più notevole figura di statista apparsa in Italia dopo la morte di Cavour. Chiamato per la seconda volta alla guida del governo nel novembre 1903, dopo le dimissioni di Zanardelli, restò al potere per oltre un decennio, con brevi interruzioni nel 1905-6 e nel 1909-11.
Il controllo del Parlamento e il trasformismo giolittiano
Se è ormai consuetudine parlare di "età giolittiana" per indicare il periodo
che va dal superamento della crisi di fine secolo alla vigilia della prima
guerra mondiale, ciò è dovuto al fatto che in questo periodo lo statista
piemontese esercitò sulla vita del paese un'influenza ancora maggiore di quanto
non dica la sua pur lunga permanenza alla guida del governo. Quella esercitata
da Giolitti fu una dittatura parlamentare molto simile a quella realizzata da
Depretis fra il 1876 e il 1887, anche se diversa, e decisamente più aperta, nei
contenuti. Tratti caratteristici dell'azione di Giolitti furono infatti: il
costante sostegno alle forze più moderne della società italiana (la borghesia
industriale e il proletariato organizzato), il tentativo di condurre nell'orbita
del sistema liberale gruppi e movimenti considerati nemici delle istituzioni, la
tendenza ad ampliare l'intervento dello Stato per correggere gli squilibri
sociali.
Il controllo delle Camere (unito a una perfetta conoscenza dell'amministrazione
statale) costituì l'elemento fondamentale del "sistema" di Giolitti. Questo
controllo era però ottenuto a prezzo della perpetuazione dei sistemi
trasformistici, che furono affinati ed estesi, e di un costante e spregiudicato
intervento del governo nelle lotte elettorali, soprattutto nel Mezzogiorno, dove
le ingerenze del potere esecutivo tramite i prefetti, trovavano terreno
favorevole in un ambiente dominato dai conflitti tra i notabili e caratterizzato
dall'assenza quasi totale di organizzazioni politiche moderne.
Gli avversari di Giolitti
Su questi aspetti deteriori si appuntarono ben presto le critiche dei
numerosi avversari dello statista piemontese.
Per i socialisti rivoluzionari e per i cattolici democratici Giolitti era
colpevole di far opera di corruzione all'interno dei rispettivi movimenti,
dividendoli e attirandone le componenti moderate entro il suo sistema di potere
trasformista (Giolitti tentò in più occasioni di inserire dirigenti socialisti
nel governo). Per converso i liberaliconservatori, come Sidney Sonnino – che fu
capo del governo per brevi periodi, nel 1906 e nel 1909 – o Luigi Albertina,
direttore del «Corriere della Sera» di Milano, il più importante quotidiano
italiano, accusavano Giolitti di attentare alle tradizioni risorgimentali,
venendo a patti con i nemici delle istituzioni e mettendo così in pericolo
l'autorità dello Stato. Diversamente motivate erano le accuse lanciate a
Giolitti dai meridionalisti come Gaetano Salvemini. Per loro la denuncia del
malcostume politico imperante nelle regioni del Sud – fu Salvemini a bollare
Giolitti con l'epiteto ingiurioso di «ministro della malavita» – si legava alla
critica severa della politica economica del governo. Questa politica avrebbe
favorito infatti l'industria protetta e le «oligarchie operaie» del Nord, ma
anche la grande proprietà terriera meridionale, tutelata dal dazio sul grano,
ostacolando lo sviluppo delle forze produttive nel Mezzogiorno. Infine, molti
intellettuali univano la critica del trasformismo e della corruzione
parlamentare con l'avversione all'«appiattimento» democratico di cui la politica
giolittiana sarebbe stata responsabile.
Le leggi per il Mezzogiorno e il suffragio universale
Ciononostante, durante l'età giolittiana furono varate – anche se con effetti tutt'altro che decisivi – alcune importanti iniziative in favore del Mezzogiorno: in particolare le leggi speciali del 1904, volte a incoraggiare lo sviluppo industriale e la modernizzazione dell'agricoltura mediante stanziamenti statali. Altri provvedimenti di rilievo furono la statalizzazione delle ferrovie, nel 1905, e l'istituzione, nel 1912, di un monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, i cui proventi dovevano servire a finanziare il fondo per le pensioni di invalidità e vecchiaia dei lavoratori. Sempre nel 1912 fu varata la più importante tra le riforme giolittiana: l'estensione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto trent'anni e a tutti i maggiorenni che sapessero leggere e scrivere o avessero prestato il servizio militare, in pratica il suffragio universale maschile.
I socialisti e lo sciopero generale del 1904
La svolta liberale dell'inizio del '900 aveva avuto nei socialisti dei protagonisti attivi, poiché Turati e i dirigenti a lui più vicini pensavano che la via delle riforme e della collaborazione con la borghesia progressista fosse per il movimento operaio l'unica capace di assicurare il consolidamento dei risultati appena conseguiti. Mentre si venivano delineando i limiti del liberalismo giolittiano, però, nel 1904 le correnti rivoluzionarie conquistarono la guida del partito e, a settembre, in seguito a un «eccidio proletario» verificatosi in Sardegna nel corso di una manifestazione di minatori, indissero il primo sciopero generale nazionale della storia d'Italia. Ci furono forti pressioni sul governo perché intervenisse militarmente, ma Giolitti lasciò che la manifestazione si esaurisse da sola, salvo poi sfruttare le paure dell'opinione pubblica moderata per convocare, a novembre, nuove elezioni in cui le sinistre segnarono una battuta d'arresto.
La nascita della Cgl e le scissioni socialiste
Per il movimento operaio lo sciopero costituì una prova di forza ma rivelò anche gravi limiti organizzativi: si era infatti sentita l'esigenza, soprattutto da parte dei riformisti, di un più stretto coordinamento nazionale. Proprio dalle federazioni di categoria controllate dai riformisti partì l'iniziativa che portò, nel 1906, alla fondazione della Confederazione generale del lavoro (Cgl), che raccolse oltre 200 mila iscritti. La corrente più estremista, che si ispirava al sindacalismo rivoluzionario, fu progressivamente emarginata dalla Cgl e infine allontanata anche dal partito socialista, il Psi, dove ripresero il sopravvento le correnti riformiste. Ma, nel congresso di Reggio Emilia del luglio 1912, la guida del partito tornò nelle mani degli intransigenti, fra i quali venne emergendo la figura di un giovane agitatore romagnolo, Benito Mussolini. Il congresso decise l'espulsione della corrente dei riformisti di destra guidata da Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, che prospettavano una collaborazione al governo, e non solo in Parlamento, con le forze democratico-liberali.
I democratici cristiani
Durante l'età giolittiana anche il movimento cattolico si trasformò e riuscì
ad avere un peso maggiore nella vita politica. La novità più importante fu
l'affermazione del movimento democratico cristiano, guidato da Romolo Murri, un
giovane sacerdote marchigiano dalle posizioni audacemente riformatrici, in cui
la polemica contro il capitalismo e lo Stato borghese si riempiva di contenuti
democratici (suffragio universale, decentramento amministrativo, legislazione
sociale). Nei primi anni del '900 i democratici cristiani fondarono circoli,
riviste e le prime unioni sindacali cattoliche "di classe", ovvero costituite
dai soli lavoratori. Nel 1904, però, papa Pio X, per timore che conquistassero
il controllo dell'Opera dei
congressi, decise di scioglierla. Successivamente Murri venne sospeso dal
sacerdozio (1909). Il movimento sindacale cattolico, comunque, continuò a
svilupparsi.
Le alleanze clerico-moderate
Nel frattempo il papa e i vescovi, preoccupati dai progressi delle forze
laiche e socialiste, favorirono le tendenze clerico-moderate che miravano a far
fronte comune con i «partiti d'ordine» (moderati e conservatori) per bloccare
l'avanzata delle sinistre. Alleanze politiche di questo genere furono
esplicitamente autorizzate dalle autorità ecclesiastiche e vennero d'altra parte
incoraggiate dallo stesso Giolitti. Quest'ultimo, infatti, pur ispirandosi in
materia di rapporti fra Stato e Chiesa a una linea rigorosamente laica, vide nel
nuovo atteggiamento dei cattolici la possibilità di ampliare i suoi spazi di
manovra, utilizzando nuove forze a sostegno delle sue maggioranze.
Il non expedit fu sospeso in alcuni collegi del Nord nelle elezioni del 1904 e,
in misura molto più ampia, nelle successive consultazioni del 1909, dove fu
autorizzata anche la presentazione di candidature dichiaratamente cattoliche,
anche se solo a titolo personale.
Il nazionalismo, la guerra di Libia e la fine del giolittismo
Il riavvicinamento alla Francia
A partire dal 1896, anno della caduta di Crispi, la politica estera italiana subì una netta correzione di rotta. Fu attenuata, pur senza rinnegare il vincolo della Triplice alleanza, la linea rigidamente filotedesca seguita nel precedente decennio. Il conseguente miglioramento dei rapporti con la Francia portò alla fine della guerra doganale e, nel 1902, a un accordo per la divisione delle sfere di influenza in Africa settentrionale: l'Italia otteneva il riconoscimento dei suoi diritti di priorità sulla Libia, lasciando in cambio mano libera alla Francia sul Marocco.
I nazionalisti e i progetti imperialisti in Nord Africa
In questi anni si affermò un movimento nazionalista che, alla fine del 1910,
si organizzò nella Associazione nazionalista italiana. Molti uomini politici e
intellettuali avevano cominciato a chiedersi perché l'Italia dovesse rassegnarsi
a un destino di potenza di secondo rango, perché tanti lavoratori italiani
fossero costretti a emigrare in cerca di lavoro nei paesi più ricchi anziché
impegnare le loro energie al servizio della grandezza nazionale. Ebbe allora
notevole fortuna la teoria formulata dallo scrittore Enrico Corradini, secondo
cui il contrasto fondamentale non era più quello fra le diverse classi
all'interno di un singolo paese, ma quello fra paesi ricchi e paesi poveri, fra
«nazioni capitalistiche» e «nazioni proletarie» (ossia dotate di una popolazione
in eccedenza rispetto alle risorse economiche).
Tra i nazionalisti emerse un gruppo imperialista e conservatore che avviò una
martellante campagna per la conquista della Libia. Questa iniziativa trovò
potenti alleati nei gruppi cattolico-moderati legati alla finanza vaticana e in
particolare al Banco di Roma, da anni impegnato in un'opera di penetrazione
economica in terra libica. La campagna contribuì senza dubbio a spingere il
paese sulla via dell'intervento, ma l'impulso decisivo venne dalle vicende della
politica internazionale: quando apparve chiaro che la Francia si apprestava a
imporre il suo protettorato sul Marocco, il governo italiano ritenne giunto il
momento di far valere gli accordi del 1902.
La guerra di Libia
La guerra contro l'Impero turco, che esercitava la sovranità sulla Libia,
scoppiò nel settembre del 1911. Il conflitto fu più lungo e difficile del
previsto anche perché i turchi, anziché accettare uno scontro campale,
preferirono fomentare la guerriglia condotta con decisione dalle popolazioni
arabe. Per venire a capo della resistenza, l'Italia dovette non solo rinforzare
il corpo di spedizione, ma anche estendere il teatro di guerra ai possedimenti
turchi del Mare Egeo, occupando l'isola di Rodi e l'arcipelago del Dodecaneso.
La guerra terminò nell'ottobre del 1912 con la pace di Losanna che sanciva la
conquista italiana della Libia. La pace non valse tuttavia a far cessare la
resistenza araba; e da ciò gli italiani trassero pretesto per mantenere
l'occupazione di Rodi e del Dodecaneso.
Durante la guerra la maggioranza dell'opinione pubblica borghese si schierò a
favore dell'impresa coloniale e la appoggiò con grandi manifestazioni
patriottiche. Ma dal punto di vista economico la conquista della Libia si rivelò
un pessimo affare. 1 costi della guerra furono molto pesanti; le ricchezze
naturali favoleggiate dai nazionalisti si scoprirono scarse o inesistenti
(nessuno sospettava allora la presenza di petrolio sotto lo «scatolone di
sabbia» del deserto libico); la colonizzazione delle zone costiere non bastò ad
assorbire quote consistenti di lavoratori.
L'indebolimento del governo
Il successo politico e propagandistico dell'impresa non si risolse però in un
durevole consolidamento del governo.
Al contrario, la guerra di Libia, introducendo elementi di radicalizzazione nel
dibattito politico, scosse pericolosamente gli equilibri su cui si reggeva il
sistema giolittiano e favori il rafforzamento delle ali estreme. La destra
liberale, i clericoconservatori e soprattutto i nazionalisti trassero nuovo
slancio dal buon esito di un'impresa che avevano fermamente e rumorosamente
sostenuto. Sull'opposto versante, quello socialista, l'opposizione alla guerra
fece emergere le tendenze più radicali e indebolì quelle correnti riformiste e
collaborazioniste che avevano costituito fino allora un elemento non secondario
degli equilibri politici giolittiani: uno dei motivi della scissione di Reggio
Emilia fu l'atteggiamento non pregiudizialmente contrario all'impresa libica
assunto da Bissolati e Bonomi.
Il "patto Gentiloni"
Altri elementi di novità nel sistema politico furono apportati dalle elezioni del novembre 1913, le prime a suffragio universale maschile. Nell'imminenza delle elezioni, il conte Ottorino Gentiloni, presidente dell'Unione elettorale cattolica, invitò i militanti ad appoggiare quei candidati liberali che si impegnassero, una volta eletti, a rispettare un programma in cui erano previsti fra l'altro la tutela dell'insegnamento privato, l'opposizione al divorzio, il riconoscimento delle organizzazioni sindacali cattoliche. Moltissimi candidati liberali accettarono segretamente di sottoscrivere questi impegni, spinti dall'esigenza di assicurarsi i suffragi di un elettorato di massa. Anche grazie a questi accordi, le elezioni del 1913 non ebbero effetti sconvolgenti sugli equilibri parlamentari. Ma si configurò una maggioranza più eterogenea e divisa che in passato, rendendo la mediazione giolittiana sempre più problematica.
La fine del giolittismo
Nel maggio 1914 Giolitti rassegnò le dimissioni, indicando al re come suo
successore Antonio Salandra, leader della destra liberale. Come aveva già fatto
in passato, Giolitti incoraggiò dunque un'esperienza di governo conservatore con
la prospettiva di lasciarla logorare rapidamente e di tornare poi al potere a
capo di un ministero orientato a sinistra. Ma la situazione era molto cambiata
dopo la guerra di Libia.
Un sintomo evidente del nuovo clima fu la cosiddetta "settimana rossa" del
giugno 1914. L'uccisione di tre dimostranti durante una manifestazione
antimilitarista ad Ancona provocò un'ondata di scioperi in tutto il paese.
Nelle Marche e in Romagna la protesta assunse un carattere apertamente
insurrezionale: vi furono assalti a edifici pubblici e atti di sabotaggio contro
le linee telegrafiche e ferroviarie. Priva di qualsiasi sbocco concreto, non
appoggiata dalla Cgl e fronteggiata con decisione dal governo, l'agitazione si
esaurì in pochi giorni. L'unico risultato fu quello di rafforzare le tendenze
conservatrici in seno alla classe dirigente, di dare spazio ai nazionalisti e di
accentuare le fratture all'interno del movimento operaio. Di li a poco la Grande
Guerra avrebbe reso irreversibile la crisi del giolittismo e messo in luce la
debolezza di una linea politica che aveva avuto il merito innegabile di favorire
la democratizzazione della società, incoraggiando al tempo stesso lo sviluppo
economico: questa linea politica, tutta fondata sulla mediazione parlamentare,
si rivelava inadeguata a fronteggiare le tensioni sprigionate dalla nascente
società di massa.
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