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METAFISICA
Valga preliminarmente la seguente dichiarazione: la filosofia in senso
proprio è metafisica.
Di ogni cosa che è, infatti, noi diciamo che è. Se analizziamo la cosa, diamo
vita a una serie di scienze, che si possono disporre secondo questa
suddivisione:
- le scienze che si occupano solo di quella dimensione che si chiama la
"determinazione";
- le scienze che studiano la determinazione in quanto determinazione
dell'essere; è questo il campo delle filosofie che si chiamano "filosofie al
genitivo": filosofie dell'uomo, della natura, dell'arte, della prassi, della
storia, e così via. Tali filosofie possono anche venir chiamate filosofie
seconde o filosofie regionali, in quanto studiano una regione determinata
dell'essere;
- la scienza che studia l'«è», ossia l'essere della cosa, nel senso che
l'essere della cosa non è solo ciò per cui quella cosa è, ma è anche ciò per cui
quella cosa è quella cosa (albero, uomo, pietra ecc.); questo studio è la
filosofia, che, proprio per il fatto che è studio dell'essere, si identifica con
la metafisica.
Per sé e nella sua struttura, la filosofia non può essere altro che (e deve
necessariamente essere solo) l'essere nella sua verità, l'essere che assurge
alla dizione della verità, l'essere che è verità ed espressione.
Una seconda dichiarazione è la seguente: è più adeguata la denominazione
"metafisica" che non la denominazione "filosofia dell'essere".
Quest'ultima denominazione, infatti, fa sorgere il sospetto non solo di una
distinzione fra l'essere e il pensiero, ma anche di una loro separazione.
Al contrario, la metafisica si attiene all'identità, che non esclude la
distinzione, fra l'essere e la verità e il discorso sulla verità dell'essere:
questo discorso è il pensiero, la filosofia.
La verità appartiene per identità all'essere, e il discorso sulla verità
dell'essere vi appartiene con la medesima identità. L'inscindibilità fra essere
e verità si riflette nell'inscindibilità fra verità e discorso sulla verità
dell'essere. Essendo quest'ultimo la filosofia, consegue che c'è una
inscindibilità fra la filosofia e l'essere: la filosofia è l'essere
nell'espressione della sua verità.
La terza dichiarazione è la seguente: il discorso metafisico è un discorso
essenzialmente breve.
Proprio in quanto discorso sull'essere all'interno dell'essere, tale discorso
non ha altro campo in cui muoversi che non sia l'essere. Esso si svolge pensando
e ripensando l'essere. Per questo esige i1 massimo di intensità della
riflessione, il massimo del pensiero: e cioè il massimo sforzo e la massima
pazienza del pensiero.
Concetto preliminare
Il concetto preliminare della metafisica si articola secondo i seguenti tre momenti.
a) La metafisica è scienza dell'ente in quanto ente o, in modo
equivalente, è scienza dell'ente in quanto essere.
Ciò che qui è caratterizzante è la formula "in quanto", in cui si esprima il
punto di vista sotto cui si considera l'ente, la sua luce formale. La metafisica
non considera l'ente in quanto questo o quell'ente, non l'ente nella sua
differenza, varietà, diversità, nei suoi settori o regioni o categorie
determinate e particolari; essa studia l'ente sotto quest'unico aspetto o
riguardo, per cui l'ente semplicemente è o è ente.
Sotto questo aspetto la metafisica studia l'ente precisamente in ciò che lo
determina come ente, in ciò che fa sì che l'ente sia ente, in ciò che rende ente
l'ente. Così facendo, la metafisica studia l'essere dell'ente: l'essere è ciò
per cui l'ente è ente.
b) La metafisica è la scienza del fondamento dell'ente.
Dire che l'essere è ciò per cui l'ente è ente, equivale a dire che l'essere è il
fondamento dell'ente. La metafisica, dunque, che studia l'ente nel suo essere,
muovendo dall'essere, è scienza del fondamento incondizionato dell'ente:
l'essere non ha condizioni previe, ma condiziona tutto. Questa incondizionatezza
ha un duplice senso:
- immediata, cioè l'essere dell'ente;
- assoluta, vale a dire l'Essere Assoluto, come fondamento ultimo dell'essere
dell'ente stesso.
c) La metafisica è scienza della totalità dell'ente visto a partire
dall'essere.
Se, infatti, tutto, e ogni ente, è fondato nell'essere, l'essere è ciò in cui
ogni e tutto l'ente conviene, si unifica e costituisce una totalità: la
metafisica, considerando l'ente nel suo essere, lo considera nella sua totalità.
Il senso di questa totalità si configura, poi, come illimitatezza,
invalicabilità e insuperabilità dell'essere: al di fuori dell'essere non c'è che
il nulla, e il nulla "non è".
Ciò vuol dire che al di fuori dell'essere, non c'è un oltre o un al di là o un
al di sopra. Un movimento, che miri a segnare il confine, il limite dell'essere,
è un movimento nell'essere, ossia nella sua illimitatezza; un andare oltre
l'essere è riandare nell'essere, ossia nella sua invalicabilità; ogni tentativo
di superare l'essere è una riaffermazione dell'essere, ossia della sua
insuperabilità.
L'essere è, dunque, l'orizzonte assoluto, l'apertura totale, e cioè l'unità e la
totalità in cui ogni ente, tutto l'ente, l'ente in quanto tale, consiste. La
metafisica è la scienza dell'ente in questa sua unità e totalità e, quindi,
scienza della totalità.
Unità sistematica e totalità della metafisica
Il termine scienza, che compare in ciascuna delle tre
caratterizzazioni, mette in risalto il fatto che, quanto si estende l'essere
dell'ente, altrettanto si estende la scienza dell'essere dell'ente. Allora,
essendo la scienza della totalità dell'ente, la metafisica è la scienza totale:
è scienza della totalità dell'essere ed è la totalità della scienza.
Esiste, pertanto, una correlazione completa tra l'estensione della metafisica
come scienza e l'ente nella totalità dell'essere. Da un lato, infatti, il
pensiero è sempre e solo pensiero dell'essere; dall'altro, l'essere dell'ente è
la stessa luminosità del pensiero. L'ente in quanto ente nel fondamento
dell'essere e nella sua totalità è ente in quanto saputo, pensato, illuminato
nel pensiero. La metafisica è scienza nella stessa misura in cui c'è l'essere.
Risulta allora l'essenziale differenza che corre tra la metafisica come scienza
e le scienze determinate (fisica, matematica ecc.). Queste ultime sono scienze
determinate, perché studiano un determinato settore della realtà, non in quanto
è realtà, ma in quanto è questa specifica e determinata struttura. In questo
senso esse sono parziali. Di fronte a questa qualificazione la metafisica è
scienza totale o del tutto, perché oltre e fuori dell'essere non c'è nulla:
l'essere è l'orizzonte assoluto e illimitato. Proprio perché non lascia fuori di
sé se non il nulla, non ci può essere nulla che le si possa opporre e che la
possa limitare, che possa andarle contro.
Occorre, tuttavia, prevenire una facile illusione, dicendo che la metafisica è scienza totale: si intende che è scienza del tutto,
non che è scienza di tutto. Il tutto in quest'ultimo senso è quantitativo e dà
origine al sapere enciclopedico, alla conoscenza determinata di ogni cosa nella
sua determinatezza; il tutto in senso metafisico è lo stesso essere, in cui ogni
e singola determinazione si viene a collocare; ma sapere questo tutto non
equivale affatto a sapere ogni e singola determinazione. Da qui la sobrietà che
caratterizza lo studio della metafisica.
l'oggetto della metafisica
Distinguiamo un oggetto materiale e un oggetto formale.
L'apparire e il pensiero nell'essere
L'oggetto materiale della metafisica è l'integralità dell'esperienza, la
datità immediata (l'esser dato immediatamente) di tutto ciò che è presente.
Avere esperienze è non solo essere in presenza di realtà o della realtà, ma è la
stessa presenza immediata di cose determinate, di entità singolari, diverse,
variabili, di fenomeni che si presentano. L'esperienza "sono" le cose, le cose
in quanto date (a pensare) sono l'esperienza.
Questa presenza integrale si esprime in affermazioni elementari: questo è o
esiste; questo è qualcosa, una cosa, una realtà; questo è reale, è esistente;
questo c'è.
Questo primo momento è costituito dall'identità del «c'è qualcosa (aliquid
ex-sistit)» e dell'«appare qualcosa».
Esso, però, è costituito anche dal «penso qualcosa», che è identico al «c'è
qualcosa» e all'«appare qualcosa». In esso emergono le domande: «che cosa
significa realtà?», «Che cosa significa l'è di ogni affermazione?», «Che
cosa significa affermare di ogni cosa che essa è o esiste?».
Queste domande costituiscono il punto di coincidenza, di identità per cui il
pensiero è la manifest(ativi)tà, vale a dire l'essere
manifesto, dell'essere e l'essere è il "manifesto", ciò che si manifesta come
pensiero.
Questa coincidenza o identità (di essere e pensiero) è ciò che si chiama oggetto
formale della metafisica; in esso viene alla luce il valore di essere insito in
ogni datità, in ogni esperienza.
La metafisica è scienza in quanto è pensiero che rileva nelle datità
dell'esperienza la forma dell'essere o della realtà; il pensiero dell'essere è
anche chiamato idea o concetto o nozione di essere o di ente, l'idea il cui
contenuto è l'essere.
In senso proprio la metafisica considera, di ogni dato, di ogni cosa, di ogni oggetto dell'esperienza la forma universalissima, per cui esso è, è realtà, è ente: considera, dunque l'ente (ogni cosa presente nell'esperienza) in quanto è, è ente, considera l'essere di tutto ciò che è e lo considera come essere.
«Ciò il cui atto è essere»
Una prima approssimazione al pensiero o all'idea di essere mostra che l'ente
in quanto ente, cioè nel suo essere, è ciò cui compete l'essere o, ancora, ciò
il cui atto è essere.
Ciò si chiarisce tramite il paragone con il vivente: «ciò il cui atto è vivere».
"Atto" è da intendersi come attualità pura, perfezione massima, entelécheia:
l'essere è l'atto di tutto ciò che è in tutto ciò che è, come il vivere è
l'attualità del vivente, di tutto ciò che è vivente in tutto ciò che è vivente.
Essere è l'atto totale, fondamentale e integrale di ciò che è.
Questo pensiero o idea dell'essere non è idea né concetto né nozione pari con
qualsiasi altra: possiede una sua unica e singolarissima struttura, che lo
distingue da ogni altro pensiero. Infatti:
a) L'idea di essere è indefinibile, in quanto non gli si può aggiungere
nulla di estraneo o estrinseco, nulla può darsi di separato e di indipendente da
esso come una differenza specifica. Questo, però, è solo un aspetto logico e
negativo.
b) In senso positivo l'indefinibilità consiste nel rilevamento del fatto
che nessun concetto, nessuna nozione si oppone al pensiero dell'essere, tranne
la sua negazione; ma la sua negazione – il non essere – non può essere impiegata
per definire l'essere. In questo senso il pensiero dell'essere è il più
primitivo, il più originario, il massimo. D'altronde, tale pensiero include
tutte le determinazioni, tutte le nozioni, tutte le differenze come suoi modi:
le differenze, le diversità, le determinazioni sono essere e sono quel che sono
in quanto sono nell'essere, non, quindi, fuori di esso né come aggiunte a esso
da un'altra origine.
c) Questa massima originarietà si approfondisce ulteriormente
nell'affermazione che l'essere è primum notum et per se notum. In quanto
primum notum, esso è la prima e primordiale evidenza, la prima notizia,
quella che conosciamo primariamente, che è supposta in anticipo da ogni altra ed
è principio di ogni altra. In quanto per se notum, l'essere è conosciuto
immediatamente, per se stesso, si illumina di luce propria, è immediatamente
pensiero. Perciò, non ha bisogno di altro per essere conosciuto: noto "per sé"
equivale a noto "non per altro (che per sé)". Il "per sé" indica l'immediatezza
originaria (pensiero ed essere si originano insieme), l'evidenza assoluta, la
luminosità universale, l'evidenza.
Significato dell'idea di essere
Per significato si intenda referenza o riferimento.
L'idea di essere significa l'essere, tutto l'essere, ogni essere.
Per precisare la natura di tale significare, si considerino tre aspetti:
a) poiché l'idea di essere esclude solo il nulla e, dunque, include tutto ciò
che è, perché è e in quanto è, questa universale inclusione comporta che il suo
significare sia astratto: l'idea di essere è astratta. In quanto considera tutto
come essere, non considera le determinazioni generiche e specifiche, ma significa solo l'essere. In tal modo essa si presenta come la
più povera notificazione, come il significato minimo, che si riferisce a ciò che
è assolutamente richiesto per non essere nulla: dice solo l'essere. L'esplicito significato dell'idea di essere è il più
povero, il minimo per la massima astrattezza;
b) per sua stessa natura,
questa minima astrattezza esplicita si converte nella più intensa ricchezza
implicita: la sua astrattezza è un'astrattezza per intensità. Infatti, nulla
esiste al di fuori di ciò che è, nulla è estraneo all'essere, ma tutto
assolutamente è implicito o implicato in esso, giacché ogni cosa è.
L'idea di essere, allora, significa tutta la realtà e la significa
adeguatamente, ossia in tutte le sue determinazioni;
c) quanto alla modalità di questa implicanza, si deve dire che l'idea di
essere implica tutti gli enti e tutte le determinazioni:
- non come idea collettiva (a esempio: foresta, esercito); infatti essa non è
la somma di tutti gli enti che sono, bensì l'orizzonte entro cui appare e
sussiste ogni ente e la totalità degli enti;
- non potenzialmente, ma formalmente: il genere (es. animale) implica
potenzialmente le sue specificazioni e differenze, in quanto ha la possibilità
di riceverle tutte, l'essere, al contrario, non è in potenza nulla e, quindi,
significa ogni cosa e ogni determinazione secondo la loro forma, ossia secondo
l'attualità di essere;
- non virtualmente, ma attualmente: il seme implica virtualmente la pianta,
l'essere, al contrario, implica attualmente tutto ciò che è, è l'attualità di
tutte le cose, il loro essere perfettamente.
Trascendentalità dell'idea di essere
Quanto all'estensione, risulta evidente che l'idea di essere, non escludendo
nulla da sé e significando implicitamente tutto e totalmente, è universale.
In forza della sua implicanza formale e attuale, l'idea di essere è però una
nozione unificatrice. Tale suprema unificazione consiste nel fatto che le
diversità, le differenze, non vengono eliminate e soppresse, bensì mantenute e
fondate nell'idea stessa dell'essere: l'unità dell'essere è unità della
diversità e nella diversità. Essa è così il riconoscimento della fondamentale
somiglianza e comunanza, in cui tutte le realtà convengono e convergono:
l'essere è quel carattere che impregna e costituisce interamente ogni cosa e per
cui nessuna di esse si oppone alle altre; ogni cosa è essere e lo è in tutti i
suoi aspetti.
Si deve, pertanto, ritenere inadeguato il termine «universale» per designare
'estensione dell'idea di essere. Più appropriatamente si deve dire che l'idea di
essere è trascendentale.
In senso ontologico trascendentale si oppone a categoriale. Categoriale denota
una certa dimensione o settore o genere o regione dell'essere e i concetti
corrispondenti. L'essere è trascendentale, in quanto non si restringe né si
limita né si determina a nessuna di queste dimensioni, ma le abbraccia tutte e
le trascende tutte, sia intese singolarmente sia intese nel loro insieme.
Per il fatto di trascendere tutte le categorie, il significato trascendentale
dell'essere e della sua idea viene a mostrare il suo carattere di
intrascendibilità, di insuperabilità; in quanto intrascendibile, l'essere e la
sua idea non lasciano fuori di sé se non il nulla.
L'essere è l'assoluto orizzonte, in cui si manifesta tutto ciò che viene a
manifestazione, in cui è conoscibile tutto ciò che si conosce e in cui sussiste
tutto ciò che esiste. In questo senso l'idea di essere possiede un'estensione
illimitata, al punto che si deve dire che essa vale per l'esperienza e al di là
dell'esperienza. Ciò che si presenta nell'esperienza, infatti, non può essere
affermato se non come essere.
Da ciò scaturisce immediatamente l'incondizionatezza dell'essere: l'essere non
ha alcuna condizione per essere, bensì è la condizione di ogni cosa che è. La
condizione dell'essere è l'essere stesso. Altrettanto immediatamente, da ciò
scaturisce anche l'assolutezza dell'essere (ab-solutus = slegato,
sciolto). L'essere, invece, è il legame, il vincolo, in cui tutto si
tiene e che tutto stringe: l'essere è, ed è per se stesso, mentre tutto è per
l'essere.
Giudizio intuitivo ed espressivo dell'essere
Da quanto fin qui detto sull'idea di essere emerge la problematicità dell'uso
linguistico relativo all'essere.
È infatti improprio parlare di idea, di concetto, di nozione di essere, perché
tutti questi termini si riferiscono a una definizione, che per l'essere è
impossibile.
L'essere significa anche, per identità, la verità di tutto ciò che è, in quanto
ne significa l'atto; il luogo vero e proprio, in cui si manifesta la verità
dell'essere, è il giudizio intuitivo ed espressivo: nel giudicare avviene
l'apprensione dell'essere.
L'essere è il manifesto in sé e per sé; la sua manifestazione è il giudizio. Nel
giudizio l'essere è affermato e posto in concreto.
Essere e determinazione: implicanza ed esplicitazione
Di ogni manifestazione dell'essere in enti molteplici, vari e diversi la
metafisica afferma che è, fino ad abbracciare la loro molteplicità, varietà e
diversità. Emerge in questo modo il carattere della reciprocità, che sorregge
ogni giudizio metafisico. Non si dice solo: questa determinazione è, ma
si dice anche: l'essere vale anche per questa determinazione.
Con questo procedimento si rileva il fatto che l'essere e la sua manifestazione
si restringono, si delimitano e si contraggono in riferimento alla molteplicità,
varietà e diversità degli enti di cui si predicano. È quel procedimento in forza
del quale l'implicanza trascendentale dell'essere si esplica.
Ogni esplicazione, o esplicitazione, è determinazione dell'essere, o l'essere in
una sua determinazione. La metafisica corrisponde all'esplicazione dell'essere
nelle sue manifestazioni.
l'esplicitazione dell'essere
Il processo
di esplicitazione dovrà avvenire secondo gli elementi che l'essere
manifesta di se stesso. Questi elementi sono:
- l'essere in quanto tale, nella sua assolutezza e trascendentalità;
- la determinazione o l'essenza o la partecipazione.
Poiché la determinazione è
interna all'essere, essa si presenta necessariamente in sintesi con l'essere:
questa sintesi di essere e di determinazione è l'ente.
Si impone, dunque, la
necessità di tenere ben distinte la considerazione dell'essere in quanto tale e
la considerazione dell'ente.
Da tale distinzione risulta il duplice piano, su
cui deve avvenire l'esplicitazione dell'essere e della sua manifestazione:
a) il piano della esplicitazione trascendentale od ontologica,
che mette in luce le proprietà trascendentali dell'essere:
. l'uno,
. il vero,
. il buono,
. il bello,
. l'agire;
b) il piano della esplicitazione categoriale o determinata
od ontica, che mette in luce le proprietà categoriali dell'ente,
ossia dell'essere determinato o partecipato, dell'essere secondo l'essenza, con
cui si presenta in sintesi:
. la sostanza e l'accidente,
. l'atto e la potenza,
. l'analogia.
Si osservi qui il duplice senso dell'essenza. In entrambi i piani
dell'esplicitazione, infatti, è comparsa la parola «proprietà». Ora, poiché la
proprietà è definita come ciò che compete necessariamente o come ciò che
consegue necessariamente all'essenza, si dovranno di necessità distinguere due
accezioni di essenza:
- l'essenza come essenza dell'essere: ciò per cui l'essere è essere, ed
è l'essenza ontologica;
- l'essenza come determinazione dell'essere, ossia come essenza
specifica od ontica.
A seconda che l'esplicitazione si svolga come esposizione delle proprietà
dell'essenza ontologica o dell'essenza ontica, si otterranno le proprietà
trascendentali o le proprietà categoriali dell'essere.
Tommaso d'Aquino, De veritate 1,1
L'esplicitazione dell'essere e della sua manifestazione è organicamente esposta nel De Veritate 1,1 di Tommaso d'Aquino.
Testo |
Parafrasi |
Respondeo dicendum, quod, sicut in demonstrabilibus oportet fieri reductionem in aliqua principia per se intellectui nota, ita investigando quid est unumquodque; alias utrobique in infinitum iretur; et sic periret omnimo scientia, et cognitio rerum. |
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Illud autem quod primo intellectus concipit quasi notissimum, et in quo omnes conceptiones resolvit, est ENS; ut Avicenna dicit in principio Metaphysicae suae (lib. 1, cap. 9). |
L'essere (ens) è ciò che è massimamente noto e manifesto. |
|
Questa notizia e manifestazione assolutamente superlativa è lo stesso pensiero. Ciò significa che pensare e pensare l'essere sono la stessa cosa. |
Unde oportet quod omnes aliae conceptiones intellectus |
Sennonché il pensiero pensa anche l'unità, la verità, la bontà, la sostanza, l'accidente, ecc. |
accipiantur ex additione ad ens. Sed enti non potest addi aliquid quasi extranea natura, per modum quo differentia additur generi, vel accidens subiecto; quia quaelibet natura essentialiter est ens; unde etiam probat Philosophus in 3 Metaphys., quod ens non potest esse genus; sed secundum hoc aliqua dicuntur addere supra ens, inquantum exprimunt ispsius modum, qui nomine ipsius entis non exprimitur. |
Questi pensamenti sono in rapporto con il pensiero dell'essere nel senso
che vi si risolvono; infatti, tutti i concetti, le nozioni, le idee, ecc.,
si risolvono nel pensiero dell'essere e, in ultima analisi, il loro
contenuto è l'essere stesso. |
|
Si dovrà, allora, dire che ciò che il pensiero pensa, pensando l'uno, il
vero, ecc., si aggiunge al pensiero dell'essere, cioè all'essere nella sua
manifestazione, in quanto esprime un suo modo che non viene espresso nel
nome stesso dell'essere. |
Quod dupliciter contingit: uno modo ut modus expressus sit aliquis specialis modus entis; sunt enim diversi gradus entitatis, secundum quos accipiuntur diversa rerum genera; |
Tale espressione dell'essere si compie secondo due ordini. |
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Le supreme categorie dell'ente sono la sostanza e l'accidente. |
substantia enim non addit supra ens aliquam differentiam, quae significet aliquam naturam superadditam enti; |
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sed nomine substantiae exprimitur quidam specialis modus essendi, scilicet per se ens; et ita est in aliis generibus. |
Con il termine «sostanza» si esprime un certo speciale modo di essere, ossia l'essere la cui determinazione è l'essere per sé: è l'ente per sé; |
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con il termine «accidente» si esprime un altro certo modo di essere, ossia l'essere la cui determinazione è l'essere in altro: è l'ente che è in un altro ente, cioè nell'ente per sé. Lo svolgimento lungo questa linea costituisce l'esplicitazione categoriale dell'essere. Si noti l'equivalenza: il modo speciale, in cui si esprime l'essere, è il modo della specie, cioè dell'essenza, ed essenza equivale a modo, a grado, a determinazione e ultimamente a partecipazione. |
Alio modo ita quod modus expressus sit modus generaliter consequens omne ens; et hic modus dupliciter accipi potest, uno modo secundum quod consequitur omne ens in se, alio modo secundum quod consequitur unumquodque ens in ordine ad aliud. |
Il modo espresso è un modo che consegue all'essere preso nella sua
universalità, cioè nella sua trascendentalità. Su questa linea
si svolge l'esplicitazione trascendentale dell'essere. |
Si primo modo, hoc dicitur, quia exprimit in ente aliquid affirmative vel negative. |
Se si percorre la prima via, il senso del percorso è duplice. |
Non autem invenitur aliquid affirmative dictum absolute quod possit accipi in omni ente, nisi essentia eius, secundum quam esse dicitur; et sic imponitur hoc nomen RES, quod in hoc differt ab ente, secundum Avicennam in principio Metaphys., quod ens sumitur ab actu essendi, sed nomen rei exprimit quidditatem sive essentiam entis. |
a) Quello dell'espressione affermativa dell'essere. Ora ciò che
esprime in maniera assolutamente affermativa l'essere è la sua essenza,
ossia il modo di essere. L'essere si esprime affermativamente nell'ente in
quanto ente, e l'ente in quanto ente — cioè preso nella sua entità
rispetto all'essere — è espressione affermativa dell'essere nella
sua determinazione, che qui viene a significare tutto ciò che
dell'essere si manifesta nell'ente: l'ente è interamente manifestazione
dell'essere, ma lo è in quanto ente o entità, cioè nel suo essere
determinazione dell'essere. |
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Inoltre, il fatto che la parola res (da reor, ratus sum, reri) sia quella che dà origine alla parola realitas, realtà, comporta che l'espressione affermativa dell'essere nell'ente/cosa significa la realtà effettiva, la ratificazione, la convalidazione, l'assodamento dell'essere nell'ente: l'ente, considerato secondo la sua essenza o determinazione, è l'effettività dell'essere. |
Negatio autem, quae est consequens omne ens absolute, est indivisio; et hanc exprimit hoc nomen UNUM: nihil enim est aliud unum quam ens indivisum. |
b) Quello dell'espressione negativa dell'essere. Ora, ciò che esprime in maniera assolutamente negativa l'essere, come proprietà che gli compete essenzialmente, è l'indivisione, espressa con il termine unità. Infatti, l'unità non dice null'altro che l'indivisione dell'essere. |
Si autem modus entis accipiatur secundo modo, scilicet secundum ordinem unius ad alterum; hoc potest esse dupliciter. |
Se invece si percorre la seconda via — quella dell'essere in rapporto —, anche qui il senso del percorso è duplice. |
Uno modo secundum divisionem unius ab altero, et hoc exprimit hoc nomen ALIQUID; dicitur enim aliquid quasi aliud quid; unde sicut ens dicitur unum, inquantum est indivisum in se; ita dicitur aliquid, inquantum est ab aliis divisum. |
a) Quello dell'espressione negativa, che prende il nome di divisione. Nasce così il termine: aliquid, che equivale ad aliud quid, qualcosa d'altro; nasce, cioè, l'alterità in quanto tale. Se l'unità esprimeva l'indivisione intrinseca dell'essere, l'alterità esprime la divisione relativa dell'essere: l'alterità significa questa divisione relativa. |
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Si osservi che i concetti di indivisione e di divisione corrispondono rispettivamente ai concetti di non opposizione e di opposizione. |
Alio modo secundum convenientiam unius entis ad aliud; et hoc quidem non potest esse nisi accipiatur aliquid quod natum sit convenire cum omni ente. Hoc autem est anima, quae quodammodo est omnia, sicut dicitur in 3 de Anima. |
b) Quello dell'espressione positiva, che consiste nell'essere come struttura della convenienza, o convergenza o comunanza o conformità. Tale struttura richiede un nucleo, da cui si origina e in cui si compie. Questo nucleo è l'anima, cioè lo spirito, a cui la sua stessa costituzione consente di essere in qualche modo tutte le cose (quodammodo est omnia): lo spirito è in qualche modo tutto l'essere. |
In anima autem est vis cognitiva et appetitiva. |
Questo o «in qualche modo» riguarda tutta la costituzione dello spirito e si presenta in una duplice configurazione. |
Convenientiam ergo entis ad appetitum exprimit hoc nomen BONUM; ut in principio Ethic. dicitur; Bonum est quod omnia appetunt. |
- Lo spirito nel modo dell'appetitività o come volontà: qui
la convenienza o la conformità o l'adeguazione o la corrispondenza tra
essere e spirito è espressa nel termine bontà. La definizione
stessa della bontà consiste in que- sto: bonum est quod omnia appetunt:
è buono l'oggetto o l'ente a cui termina l'appetito di tutte le cose:
buono è ciò che è voluto. |
Convenientiam vero entis ad intellectum exprimit hoc nomen VERUM. Omnis autem cognitio perficitur per assimilationem cognoscentis ad rem cognitam; ita quod assimilatio dicta est causa cognitionis: sicut visus per hoc quod disponitur per speciem coloris, cognoscit colorem. Prima ergo comparatio entis ad intellectum est ut ens intellectui correspondeat: quae quidem correspondentia, adaequatio rei et intellectus dicitur; et in hoc formaliter ratio veri perficitur. |
- Lo spirito nel modo della manifestazione o come intelletto: qui la convenienza, o la conformità o l'adeguazione o l'assimilazione tra essere e spirito è espressa nel termine verità. L'essenza della verità consiste nella corrispondnza o adeguazione tra l'essere e l'intelletto. Allora ciò che il concetto di verità esprime, come modo che il concetto di essere non esprime, è questa convenienza. |
Risultano, così, cinque trascendentali: cosa, unità, alterità, bontà, verità.
Se, tuttavia, si tiene in considerazione il fatto che (a) cosa ed ente si
identificano, e che (b) unità e alterità sono correlativi, in realtà i
trascendentali si riducono a tre: unità, verità, bontà.
Nella sistemazione tomistica, come risulta evidente, non compaiono tra i
trascendentali né la bellezza né l'agire. Se ne parlerà a suo luogo.
L'essere e i trascendentali
Il "trascendentale", in questo contesto, rappresenta una proprietà in cui si
esprime un carattere coestensivo dell'essere. Ciò significa che i
trascendentali si estendono quanto e come si estende l'essere: la realtà
dell'essere equivale alla loro realtà.
Nello stesso tempo, tuttavia, essi esprimono ed esplicitano l'essere in quanto
tale sotto un'altra formalità: essi sono momenti manifestativi che l'essere come
tale, per sé solo, non dice.
In quanto sono coestensivi all'essere, vale per essi il carattere della
inseparabilità e della identità con l'essere: è quanto è contenuto
nel loro carattere trascendentale.
In quanto esprimono, invece, esplicitandolo, l'essere, vale per essi a un tempo
il carattere della distinzione dall'essere, proprio perché lo
arricchiscono, lo espongono e così lo espandono. Essi, quindi, non designano
realtà diverse, bensì l'identica realtà — l'essere — in cui la luce del
pensiero, accesa nel manifestarsi stesso dell'essere, distingue i momenti di
tale manifestazione.
In questo senso si deve dire che essi hanno un fondamento reale e che così,
identici e distinti, essi sono convertibili con l'essere stesso.
Si deve infatti affermare che l'essere è l'unità, è la verità e la bontà; che
l'unità, la verità e la bontà sono l'essere; che l'unità è la verità e la bontà;
che la bontà è l'unità e la verità; che la verità è l'unità e la bontà.
In generale, nei trascendentali si verifica l'autoesposizione e l'autodistinzione
dell'essere stesso: l'essere si svolge in se medesimo e l'immediato risultato di
questo autosvolgimento è la distinzione dell'unità, della verità e della bontà
nella sua stessa identità.
L'essere, nelle sue proprietà trascendentali, mostra la sua identità nella
distinzione o, che è lo stesso, la sua distinzione nell'identità.
L'unità
L'unità è l'in-divisione.
L'«in» denota la negazione; la «divisione» denota la negazione e l'opposizione.
In-divisione, quindi, è la negazione della negazione, la negazione
dell'opposizione.
Ora, l'opposizione massima e assoluta dell'essere è la negazione dell'essere,
il non essere, che si oppone contraddittoriamente all'affermazione
dell'essere.
Se l'estensione completa dell'affermazione in assoluto è l'affermazione
dell'essere (ogni affermazione; l'affermazione è affermazione dell'essere), se
la negazione completa è la negazione dell'essere e se, ancora, la negazione
dell'essere è l'opposizione contraddittoria all'affermazione dell'essere, ne
viene che l'in-divisione, cioè l'unità, esprime l'opposizione contraddittoria
dell'essere alla propria negazione; ciò significa che essa esclude, rende
impossibile, il non essere come sua negazione.
In quanto opposizione contraddittoria, che esclude e rende impossibile la
propria negazione, l'essere si afferma come unità.
L'unità dell'essere, mostrandosi come affermazione assoluta, si mostra
immediatamente come posizione assoluta: l'essere è il puro affermativo,
il puro positivo. Non implicando nessuna opposizione, anzi escludendola,
l'essere è infatti la posizione assoluta, l'indivisione assoluta, senza della
quale si identificherebbe con il non essere.
Se, però, l'essere è indivisione (nel senso di escludere e di rendere
impossibile l'opposizione contraddittoria della sua negazione), allora l'essere
non solo è unità come semplice indivisione, ma è unità come indivisibilità:
non è solo affermazione e positività pure, non è solo ciò che si pone, ma è ciò
che si impone, stando su se stesso contro l'opposto a sé.
Non potendo non essere, esso è il non inimponibile.
Il non potersi non porre richiama la possibilità.
L'essere non può non essere; è impossibile che l'essere non sia. L'impossibilità
che l'essere non sia è l'impossibilità della divisione, dell'opposizione, della
negazione.
Ciò significa che radicalmente l'essere non ammette in sé la stessa possibilità;
non l'ammette nel senso che la esclude.
La possibilità dell'essere equivale infatti alla possibilità, per l'essere, di
essere e di non essere. La possibilità, quindi, implica due negazioni:
- quella contenuta nella possibilità come tale (il possibile come tale non è);
- quella contenuta nell'indifferenza dell'alternativa tra essere e non essere.
Entrambe le negazioni violano l'unità dell'essere. Dunque, l'unità come
indivisibilità dell'essere è anche negazione della possibilità dell'essere.
Indivisione come negazione della negazione e indivisibilità come impossibilità della negazione, o negazione della possibilità, comportano l'assoluta assenza di opposizione all'interno dell'essere: l'indivisione è non opposizione e l'indivisibilità è non opponibilità; l'una e l'altra danno per risultato positivo l'identità: l'unità dell'essere è identità; l'essere non è altro che l'essere.
In conclusione, l'unità esplicita l'essere in quanto esprime la negazione
della negazione, la positività, l'impossibilità dell'opposizione, l'identità.
Questa esplicitazione nell'unità si traduce derivatamente sul piano dell'ente:
l'ente è ente per l'essere e, allo stesso modo, è necessariamente uno per
l'essere. L'unità dell'ente è l'unità del suo essere; in quanto e nella misura
in cui è, l'ente, ogni ente, è indiviso, non opposto, indivisibile, identico.
L'unità e l'alterità: la molteplicità
Emerge a questo punto il problema della correlatività tra unità e alterità; esso trova formulazione nella definizione completa dell'unità o dell'uno: l'uno è indiviso in sé e diviso da ogni altro.
In quanto l'unità dell'essere è negazione della negazione, il significato
della definizione sul piano trascendentale dell'essere è che l'essere è talmente
in sé non opposto, identico, da escludere per opposizione contraddittoria quella
opposizione a sé (divisione da sé) che è il non essere. Il non essere
costituisce pertanto l'unico significato in cui si possa intendere l'alterità in
rapporto negativo all'essere.
Propriamente parlando, quindi, l'essere non ha un altro da sé: l'altro
dall'essere è solo il non essere in quanto negato; e, di conseguenza, l'essere
non ha propriamente una divisione, non si divide da altro, se non nel senso
della propria assoluta in-divisione, cioè della negazione della negazione.
Sul piano derivato dell'ente in quanto sintesi di essere e determinazione,
invece, compare l'alterità, cioè la divisione. Se l'ente è uno, in quanto
e nella misura in cui è, se li suo essere è misurato dalla determinazione, se la
determinazione è una divisione (de-terminazione = terminazione da o rispetto ad
altro; ogni termine è il limite e ogni limite è relativo a due terminazioni),
allora si deve riconoscere che l'ente è indiviso in sé in quanto è ed è diviso
da ogni altro in quanto determinato.
Ogni determinazione, poiché implica divisione, opposizione, rispetto a un'altra
determinazione, implica anche sempre un'altra determinazione.
Da questa struttura della determinazione nasce la molteplicità e il
problema della molteplicità. Una determinazione comporta un'altra determinazione
per il fatto che tra di esse si inserisce il non — la divisione,
l'opposizione — in cui consiste alterità, sia nel senso della distinzione
sia nel senso della differenza e della diversità. Una determinazione e
un'altra determinazione sono due, molteplici determinazioni.
Il significato immediato della molteplicità e dei molti consiste nel fatto
che i molti si oppongono all'uno e che la molteprlcità si oppone al unità.
Tuttavia, si scorge che questa opposizione non è contraddittoria: l'unità e
l'uno sono sul piano dell'essere in quanto tale; la molteplicità e i molti si
dispongono sul piano della determinazione dell'essere.
Quindi, mentre da una parte l'unità e l'uno denotano l'indivisione e la non
opposizione dell'essere, dall'altra la molteplicità e i molti denotano la
divisione e l'opposizione. I molti sono i divisi, gli opposti, i distinti, i
differenti, i diversi.
Si tratta, però, di una divisione e di un'opposizione che sono soltanto
relative:
- all'essere come tale, in quanto una determinazione non è tutto l'essere;
- a ogni altra determinazione, in quanto ogni determinazione esclude ogni altra
determinazione.
Tuttavia, il duplice fatto che la determinazione non è l'essere come tale e che
una determinazione non è un'altra determinazione, non significa che la
determinazione sia non essere, vale a dire nulla. Ogni determinazione è essere,
e quindi è ente ed è una.
La molteplicità e i molti, pertanto, sono interni all'essere e poggiano
sull'essere, presuppongono l'unità, la includono e ne derivano.
I molti costituiscono la molteplicità degli enti entro l'unità dell'essere e
rispetto all'unità dell'essere; i molti sono molti uno, molti enti, e la
molteplicità è una molteplicità.
Quindi, la divisione e l'opposizione, da cui nascono i molti, sono una divisione
e un'opposizione che non possono togliere e sopprimere né l'essere né l'ente, ma
poggiano sull'essere e avvengono tra enti, cioè tra uni.
Corollari
1. La molteplicità assoluta, tale da escludere l'unità e, quindi,
l'essere, è una posizione speculativa impossibile.
Ciò equivale a dire che il materialismo, in quanto è la posizione della
molteplicità assoluta, è una posizione filosofica impossibile.
Molteplicità assoluta, infatti, significa divisibilità assoluta dell'essere,
ossia negazione assoluta. Se, invece, l'unità e l'uno sono l'esclusione e
l'impossibilità della negazione assoluta dell'essere e l'esclusione e
l'impossibilità della negazione dell'ente in quanto uno, consegue che
l'affermazione, in quanto è affermazione dell'essere o dell'ente in quanto ente,
è sul piano trascendentale, mentre la negazione è determinata. L'ente
determinato, infatti, non è l'essere come tale e non è ogni altro ente
determinato. In quanto è, ogni determinazione è affermazione pura, assoluta; in
quanto determinazione, è negazione determinata, particolare.
2. È indispensabile distinguere rigorosamente tra l'unità e l'uno in
senso metafisico, sul piano dell'essere e dell'ente, e l'unità e l'uno in senso
matematico, quantitativo e numerico.
In quest'ultimo senso unità e uno sono principio e regola della numerazione e
riguardano la pluralità e la moltitudine sotto l'aspetto numerico: uno, due, tre
ecc.
In senso metafisico, diversamente, unità e uno, molteplicità e molti riguardano
l'essere come negazione della negazione e l'ente come determinazione, che dà
origine alla distinzione, alla differenza e alla diversità.
La molteplicità è distinzione, differenza, diversità, e i molti sono i distinti,
i differenti, i diversi; a loro volta, e dal punto di vista della quantità,
questi molti, così intesi, possono essere numerati e ordinati a formare una
moltitudine e una pluralità di unità numeriche. Detto altrimenti, unità e uno,
molteplicità e molti, in senso metafisico sono esplicitazioni dell'essere e sue
determinazioni; in senso matematico sono costituiti da quella determinazione
categoriale dell'essere che è la quantità.
Ad esempio: ogni sedia, in quanto ente, è una, dunque negazione della propria
negazione e negazione rispetto a ogni altra determinata sedia; quest'ultima
negazione, che è una divisione, un'alterità, considerata però secondo l'unità di
numerazione della quantità, si configura come una sedia, due sedie, e così via,
un certo numero di sedie.
La verità: l'essere come intellezione
L'affermazione che la verità è proprietà trascendentale dell'essere significa
che tanto si estende l'essere altrettanto si estende la verità. L'assolutezza e
l'illimitatezza dell'essere è allora l'assolutezza e l'illimitatezza della
verità; come l'essere non si oppone se non al non essere, così la verità non si
oppone se non alla non verità. Tutto l'essere è verità.
Tutta la verità è l'essere; ossia, tra l'essere e la verità sussiste una
perfetta convertibilità. Le formule che esprimono e sintetizzano questo
significato sono:
- l'essere come tale è verità;
- l'ente, che è l'essere determinato, partecipazione, in quanto e nella misura
in cui gli compete l'essere, è vero.
Sullo sfondo dell'essere come verità, sul piano derivato dell'ente, si
distinguono la verità logica o in esercizio e la verità ontica.
Ci troviamo infatti di fronte a un ente speciale la cui determinazione è
l'intelligenza (il pensiero), e a un altro ente speciale, la cui determinazione
è l'intelligibilità.
L'intelligenza è per definizione intelligenza dell'ente. Allora si dirà
verità logica la stessa intelligenza, in quanto in essa, viene a
manifestazione l'ente che si compie come adeguazione e conformità con essa.
La verità logica è la verità nell'ordine della conoscenza.
Nella conoscenza, poi, adeguazione e conformità dell'ente all'intelligenza non
solo si compiono come tali, ma si compiono anche come coscienza di tale
adeguazione e conformità nonché come espressione nel giudizio.
L'ente è intelligenza nella distinzione tra ente e intelligenza e nella loro
unità.
Inversamente, la verità ontica è l'intelligibilità dell'ente, che esprime l'affinità e l'intimità dell'ente all'intelligenza. In tal senso l'ente è misura della verità dell'intelligenza; essa è la verità dell'ente, su cui si fonda la verità logica dell'intelligenza, ne è il contenuto.
Tanto l'intelligenza quanto l'intelligibilità contengono un momento di
potenzialità:
- ogni intelligenza è intelligenze dell'ente, ma non sempre è intellezione in
atto;
- ogni ente è intelligibile, anche se non attualmente termine
dell'intelligenza.
Da questo momento di potenzialità deriva il fatto della distinzione tra verità
logica e verità ontica, e, all'interno della verità logica, la distinzione tra
intelligenza e intellezione.
Se, però, guardiamo al momento dell'intellezione, ossia al momento in cui
l'intelligenza viene perfezionata (attuata) dall'intelligibilità e
l'intelligibilità viene perfezionata (attuata) dall'intelligenza, allora risulta
evidenta che nell'intellezione si attua una perfetta identità tra verità logica
e verità ontologica, tra misura misurata (intelligenza) e misura misurante
(intelligibilità), in perfetta identità come verità.
Corollari
1. Sul piano dell'essere e della sua attualità, l'intellezione, in cui
essere è verità e, reciprocamente, verità è essere, è manifesto che logica e
metafisica si identificano senza residui (onto-logia nel senso più
proprio).
Che l'essere sia verità e che la verità sia essere risulta dal fatto che
intelligibilità e intelligenza dell'essere costituiscono una identità e che
questa identità è la verità.
2. L'intelligenza è lo stesso essere nella sua manifestazione, ne é la
manifestatività, la luminosità, la presenzialità, la fenomenalità,
l'apparizione, il pensiero, la coscienza. L'essere è il manifesto, il luminoso,
il presente, il fenomeno, l'appariscente, il contenuto del pensiero e della
coscienza.
L'attualità dell'essere si esprime nell'identità dell'intellezione: in essa si
identificano intelligenza e intelligibilità e si verifica che l'intelligenza è
tale in ordine all'intelligibilità e che l'intelligibilità è tale in ordine
all'intelligenza. La verità è questo ordine, e questo ordine è l'essere come
intellezione.
In tale ordine si mostra anche il significato metafisico dell'errore e della
falsità.
Se l'essere è verità, se l'ente, in quanto e nella misura in cui gli compete
l'essere, è vero, allora l'essere è totalmente verità, non può essere erroneo o
falso. Pertanto, in assoluto, non si possono dare né errore né falsità; sono
impossibili un errore assoluto o una falsità assoluta. La verità è totale.
3. Conseguentemente, l'errore e la falsità si danno solo e sempre come errore particolare e falsità particolare; per cui, se e quando accadono l'errore in quanto errore e la falsità in quanto falsità, accadono solo e sempre alla e nella luce della verità dell'essere. A prescindere dalla verità non ci sono né errore né falsità, senza il vero non ci sono né l'errore né il falso.
4. Questo stesso ordine mostra il significato metafisico della
razionalità dell'essere o, meglio, dell'essere come razionalità. Se l'essere, in
quanto attualità pura, è identità tra intelligenza e intelligibilità, cioè è
verità come intellezione, allora l'essere è totale razionalità, completa
autocoscienza, presenzialità di sé a se stesso, essere-presso-di-sé.
Ciò illumina sul significato di fondamento o di ragione, che compete all'essere:
l'essere è fondamento consaputo, è sapere di essere il fondamento, cioè
fondazione. L'essere è ragione di sé.
Insieme, in quanto l'ente è partecipazione all'essere, l'essere è ragione di
tutto ciò che è, cioè di tutto l'ente: la ragione per cui l'ente è ed è
razionale. La ragione dell'ente è il suo essere.
La bontà: l'essere come volizione
L'affermazione che la bontà è proprietà trascendentale dell'essere significa
che la bontà è coestensiva all'essere. L'assolutezza e l'illimitatezza
dell'essere è l'assolutezza e l'illimitatezza della bontà. Tutto l'essere è
bontà.
Che la bontà sia proprietà trascendentale dell'essere significa che tutta la
bontà è essere, ossia, che tra l'essere e la bontà sussiste una perfetta
convertibilità.
Le formule che esprimono e sintetizzano questo significato sono:
- l'essere come tale è bontà;
- l'ente, che è l'essere determinato, partecipazione, in quanto e nella misura
in cui gli compete l'essere, è buono.
In quanto proprietà trascendentale, la bontà esplica ed esprime ciò che è
identico all'essere, ma implicito e inespresso in esso; essa dice che l'essere
nell'attualità pura è l'identità tra volontà e volibilità e che, quindi,
l'essere à volizione.
Tale esplicitazione chiarisce il modo trascendentale della volontà sul piano
dell'essere, il suo significato metafisico. Su questo piano il rapporto
essere-volontà contiene in sé differentienti significati:
- dalla parte della volontà:
. appetito,
. desiderio,
. amore,
. affetto,
. attrazione,
. inclinazione;
- dalla parte dell'essere:
. appetibile,
. desiderabile,
. amabile,
. affezionabile,
. attraente,
. inclinante.
Ora, questo rapporto (che è unità e distinzione) è interiore all'essere. Sicché
l'essere è nel tempo stesso e attualmente: ciò che è volibile, ciò che è voluto,
ciò che vuole e il volere stesso. Così si deve dire che l'essere è autopossesso
di sé con sé, per sé e in vista di sé; è amore, in cui si consuma l'identità
dell'amabile, dell'amato e dell'amante.
Dire che l'essere è bontà equivale a dire che l'essere si gode nella perfetta
quiete e beatitudine in se stesso (= fruizione), nella completa realizzazione di
sé.
La volontà è volontà di essere in quanto è volontà che è l'essere stesso:
l'essere vuole essere, l'essere si tiene e si mantiene interamente in se stesso.
Poiché, poi, l'essere è attualità pura, questa volontà trascendentale è da
sempre e assolutamente volizione, ossia fruizione e godimento della presenza
dell'essere all'essere; essa è da sempre e assolutamente possesso, che l'essere
è perfettamente di sé in se stesso: la volontà è l'essere che si possiede
perfettamente e permane in questo possesso.
Allora, mentre la verità esprime la necessità dell'essere di essere presso di sé, la bontà esprime la permanenza perfetta dell'essere in possesso di sé, l'autopossesso completo. Infatti, l'essere è da sempre e assolutamente il volibile che è attualmente voluto, l'amabile che è attualmente amato, il desiderabile che è attualmente desiderato, e così via.
Tali esplicitazioni illustrano il significato metafisico profondo della formula con cui la tradizione ha inteso il bene: bonum est quod omnia appetunt (= il bene è ciò che tutte le cose desiderano). Questa formula, tuttavia, va compresa nel senso della totalità trascendentale dell'essere; solo allora si capísce che l'essere è bontà in quanto è il volibile, la volontà, e la loro attuale identità: la volizione.
Sullo sfondo dell'essere come bontà assoluta, sul piano derivato dell'ente,
si può comprendere la distinzione tra bontà intenzionale o in esercizio,
che corrisponde alla verità logica, e bontà ontica, che corrisponde alla
verità ontica.
La prima designa l'ente, la cui determinazione è la volontà, l'inclinazione,
l'amore. La seconda designa l'ente, la cui determinazione è la volibilità, l'inclinabilità,
l'amabilità. La prima è l'intenzione (= atto della volontà), la seconda è il
compimento dell'intenzione: la volontà inclina e tende verso l'ente, che per
parte sua soddisfa e riempie tale inclinazione e tale tendenza. Anche qui, la
volontà è per definizione volontà dell'ente, adesione all'ente.
Come, sul piano della verità, il rapporto intelligenza-ente è un'unione in cui
l'intelligenza presenta l'ente a sé, lo interiorizza, così, sul piano della
bontà, il rapporto volontà-ente è un'unione in cui la volontà si rende presente
all'ente, si realizza in quanto l'ente l'attrae a sé e, quindi, è un'unione
nell'ente secondo l'ente.
Allora, la bontà della volontà consiste nella sua volizione dell'ente e la bontà
dell'ente consiste nell'acquietamento e nel compimento della volizione della
volontà. La volontà è buona, perché e in quanto vuole l'ente; l'ente è buono,
perché e in quanto attrae e realizza la volontà.
Tanto la volontà quanto la volibilità presentano un momento di potenzialità:
- ogni volontà è volontà dell'ente, ma essa non è sempre in atto di volizione;
- ogni ente è volibile, ma non è sempre attualmente termine della volontà.
In ciò consiste la distinzione tra volontà e volíbilità. Se, però, consideriamo
il momento dell'attualità, ossia il momento della volizione, in cui la volontà
viene perfezionata dalla volibilità e la volibilità è perfezionata dalla
volontà, allora risulta evidente che in essa, nella volizione, si attua una
perfetta identità tra bontà intenzionale e bontà ontica.
Risulta poi altrettanto evidente che questa identità è una necessità, in quanto
è la realizzazione necessaria tanto dell'ente quanto della volontà e che in
questa identità si attua la correlazione e la coestensività tra l'ente e la
volontà dell'ente.
Corollari
1. Se l'essere è bontà, se l'ente, in quanto e nella misura in cui gli
compete l'essere, è buono, allora l'essere è totalmente bontà e l'ente è
totalmente buono.
Se la bontà è l'attualità come volizione, in cui si identificano volontà e
volibilità, questa identità tra volontà e volibilità è senza residui.
Questa identità, poi, vale anche sul piano dell'ente. Proprio perché è ente come
partecipazione all'essere, l'ente è buono in quanto e nella misura dell'identità
tra volontà e volibilità, cioè nella misura della volizione, ma proprio perché è
partecipazione, quella identità, che è la sua volizione e la sua bontà, è
determinata, parziale, particolare.
Si mostra così il significato metafisico del male.
Infatti, se l'essere è totalmente bontà, non può essere male, se l'ente è
totalmente buono, non può essere cattivo. Ciò significa che in assoluto non c'è
il male, in assoluto è impossibile. Allora si può dare e si dà solo e sempre il
male come male determinato, particolare, parziale, in quanto a prescindere
dall'essere come bontà non si dà il male, cioè senza l'ente come buono non si dà
qualcosa di male.
2. Queste considerazioni gettano luce sull'essenza metafisica del
male. Il male è l'opposto della bontà, come la falsità e l'errore sono l'opposto
della verità e, in generale, il non essere è l'opposto dell'essere. Dato però
che la bontà è l'attualità dell'identità tra volontà e volibilità, cioè è la
volizione, e dato che la volizione è l'autopossesso e, dunque, la permanenza in
questo autopossesso, allora, il male, come opposto della bontà, sarà l'opposto
della volizione, dell'autopossesso e della permanenza.
Se, poi, la volizione è l'attualità della posizione dell'essere in possesso di
sé, allora il male non può essere una posizione, bensì la negazione della
posizione, dunque negatività. Sul piano dell'ente, il male non può essere
qualcosa di positivo, bensì la negazione di qualcosa di positivo, un negativo.
Tanto la negatività quanto il negativo colpiscono la volizione, cioè l'autopossesso
e la permanenza.
3. Il male, infatti, non può essere la semplice e immediata negazione
dell'essere, la pura negazione, il semplice e immediato non essere. Il non
essere non è, e non può ricevere nessuna qualificazione, neppure quella del
male.
Allo stesso modo il male non può essere neppure la semplice e immediata
negazione di qualcosa di positivo, di qualche determinazione entitativa
dell'ente. Ciò costituisce il concetto del male metafisico, che va ben
differenziato rispetto al male fisico e al male morale. Non è male, infatti, per
la pietra non essere uomo e, in generale, non è male per l'ente finito non
essere l'Essere Infinito; in maniera assoluta l'ente finito non è un ente
cattivo.
Resta che il male può intendersi solo come privazione del bene nell'ente,
ossia come mancanza, opposizione e negazione di una determinazione dovuta
all'ente che è ed è buono, privazione del bene dovuto.
Intanto è
chiaro che il male si insedia sul piano dell'ente: è male dell'ente e nell'ente,
quindi è mancanza, opposizione e negazione determinate, parziali, particolari.
In quanto queste si definiscono in rapporto a una determinazione dovuta, si suppone l'ente, a cui quella determinazione è dovuta, cioè si suppone l'ente
buono, in cui è presente l'attualità dell'identità tra volontà e volibilità,
l'attualità della volizione e, quindi, del possesso di sé e della permanenza in
esso.
In quanto, tuttavia, sono mancanza, opposizione e negazione, esse vengono a
designare lo stato di cose consistente nella diminuzione dell'attualità, nella
divisione dell'identità, della sottrazione al possesso, della dissoluzione della
permanenza. Se, allora, «dovuto» è la parola che definisce l'integrità
dell'ente, la sua completezza, la sua pienezza e la sua stabilità in esse, la
mancanza, l'opposizione e la negazione definiscono il difetto, la
frammentarietà, la parzialità, la corruttibilità e la corruzione, in una parola
la sottrazione del «dovuto».
La mancanza, appunto, l'opposizione e la negazione hanno significato alla
presenza del «dovuto» e finché permane questa presenza del «dovuto», ossia
finché permane l'ente buono: la malattia è male in un vivente che, per essere
tale, deve essere sano. La malattia, infatti, è qualcosa (cioè esiste), finché
permane quel vivente sano; tolto il vivente sano, è tolto anche il male che è la
malattia.
Al nulla nulla è dovuto. Quindi, dicendo che il male è privazione del bene
dovuto, si dice che il male può accadere ed è reale solo nell'ente buono, è una
sua affezione ed esiste in esso.
Il male in sé, infatti, è contraddittorio; il male può darsi solo come male
dell'ente che è ed è buono.
4. Dicendo che il male in sé è contraddittorio, si esplicita la
dimensione più drammatica del male.
Questa dimensione consiste nel fatto che affermare che il male in sé è
contraddittorio non significa solo che il male non può verificarsi se non in
rapporto all'ente che è ed è buono (e che, quindi, il nulla come tale, non
essendo nulla, non è né bene né male), ma significa più radicalmente che ogni
male è in sé contraddizione dell'essere e dell'ente e che il fenomeno, che più
apertamente mostra questa contraddizione, è il divenire, inteso come il perire,
il corrompersi, l'annullarsi dell'essere dell'ente.
Il male è l'annientamento dell'ente nel suo essere. Il pensiero, in cui il male
così inteso viene a manifestazione, è il pensiero tragico, il pensiero
dell'ineluttabilità del nulla, del destino che domina come necessità del
diventare niente dell'ente.
La bellezza: l'essere come armonia dell'unità, della verità e della bontà
La bellezza e il bello sono, in effetti, non una esplicitazione dell'essere e
dell'ente, bensì quella esplicitazione, in cui le esplicitazioni precedenti si
armonizzano. Essi sono l'armonia delle esplicitazioni, cioè l'armonia
dell'unità, della bontà e della verità, la fusione in cui consiste la loro
reciproca convertibilità trascendentale.
Ciò risulta dal contenuto della definizione essenziale della bellezza e del
bello. Tommaso d'Aquino la considera costituita da tre elementi:
- l'integrità,
- la proporzione,
- la chiarità.
Quanto all'integrità, essa corrisponde all'unità.
L'unità è la in-divisione, la non opposizione, la positività, l'identità.
Integrità significa, appunto, completezza, perfezione, compattezza, pienezza.
Per parlare in termini di doppia negazione, l'integrità è l'assenza di lacune,
di difettosità, di manchevolezze, di vuoto, di omissioni, di interruzioni.
L'integrità è la proprietà, per cui si dice di una cosa che non manca di nulla o
che non le manca nulla.
L'unità è, dunque, l'integrità dell'essere come opposizione al non essere; uno,
infatti, è l'ente integro come opposizione al proprio non essere.
Se, pertanto, all'unità si oppone la divisione e all'uno si oppone il diviso,
all'integrità si oppone la bruttezza, la lacunosità, e all'integro il brutto, il
turpe; se la bellezza come unità è totale positività e il bello come uno è il
totalmente positivo, la bruttezza è l'assenza di positività o della totalità
della positività, è la negatività, e il brutto è il negativo o ciò che ha in sé
il negativo.
Quanto alla proporzione, essa corrisponde alla bontà.
La bontà, infatti, è l'attualità della volizione come identità tra volontà e
volibilità, autopossesso e permanenza in esso. Ora, proporzione significa
consonanza, misura, convenienza, correlazione, rispondenza, simmetria,
concordanza, cioè la perfetta fruizione, beatitudine e godimento, che l'essere
mostra nell'essere bontà e l'ente nell'essere buono.
La bontà è, dunque, la proporzione dell'essere con se stesso, il suo
autopossesso consumato nella totale misura di sé, nella esaustiva consonanza con
sé.
Se alla bontà si oppone il male come difettosità, frammentarietà, parzialità,
corruttibilità e corruzione, cioè come sottrazione del «dovuto», la stessa
opposizione nella bellezza si mostrerà come sproporzione, dissonanza,
discordanza, eccesso, sconvenienza, dissimmetria. Allo stesso modo, perciò, il
cattivo avrà la sua opposizione nel brutto.
Quanto alla chiarità, essa corrisponde alla verità.
La verità è l'attualità dell'intellezione come identità tra intelligenza e
intelligibilità, autocoscienza e necessità in essa, è la luminosità dell'essere
manifesto, lo splendore della sua apparizione. Ora, chiarità significa, appunto,
splendore, lucentezza, fulgore, evidenza della forma e chiarezza della figura,
espressività definitivamente e intangibilmente compiuta, cioè l'innegabilità, lo
stare presso-di-sé, l'incontrovertibilità, la solarità, che l'essere esprime nel
suo essere verità e l'ente nel suo essere vero.
La verità è, dunque, la chiarità dell'essere completamente manifesto, il suo
assoluto sapersi come essere, il suo originario parlare di sé definitivamente e
intangibilmente espresso.
Se alla verità si oppongono l'errore e la falsità come non essere, cioè come non
splendore, non luminosità, non apparizione, non fenomenalità, non appariscenza,
altrettanto alla chiarità della bellezza si oppone la bruttezza come oscurità e
oscuramento, offuscamento, opacità, inevidenza della forma e confusione della
figura, inespressività, indefinitezza e incertezza. Allo stesso modo, pertanto,
all'erroneo e al falso si oppone il brutto.
La bellezza, dunque si mostra come ulteriore esplicitazione dei
trascendentali dell'unità, della bontà e della verità. Il suo proprium
ulteriore, però, consiste nell'essere tutti e tre insieme e unitariamente, cioè
nella loro armonia, nella loro convertibilità.
Allora, la bellezza è la proprietà trascendentale dell'essere in quanto perfetta
convertibilità dell'unità come integrità, della bontà come proporzione e della
verità come chiarità. L'ente è bello in quanto è uno e integro, buono e
proporzionato, vero e chiaro.
Al pari dei tre trascendentali, sul piano ontico (derivato), si dovrà
distinguere una bellezza come sentimento (gusto, piacere, giudizio estetico) da
una bellezza ontica (nel senso dell'oggetto, dell'opera, del prodotto bello).
Tale distinzione è quella che compare nella definizione tomistica: «pulchra enim
dicuntur quae visa placent». Sono dette belle, infatti, quelle cose che,
viste, piacciono.
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