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il 1848 in Italia e in europa

 

 

FONTI

 

Federico Guglielmo IV e l'Assemblea di Francoforte

Tipico esempio di monarca assoluto di orientamento conservatore, Federico Guglielmo IV di Hohenzollern fu direttamente coinvolto negli eventi rivoluzionari scoppiati a Berlino nella primavera del 1848. La borghesia liberale tedesca guardava infatti a lui come al sovrano capace di mettersi alla testa della creazione di uno Stato unitario tedesco e di promulgare una Carta costituzionale di carattere moderato e liberale, simile per molti aspetti a quella francese del 1791. Con questo spirito presero le mosse i lavori dell'Assemblea costituente di Francoforte nella primavera del 1848, una volta sciolta la vecchia Dieta della Confederazione tedesca presieduta dall'imperatore austriaco. Quando però, nonostante profonde divisioni interne e molte incertezze, i liberali tedeschi di Francoforte offrirono al sovrano prussiano la corona di re di Germania, questi rifiutò. Egli si concepiva infatti come un sovrano di diritto divino e non poteva accettare in alcun modo che la corona gli fosse offerta da un'Assemblea rappresentativa della volontà dell'intera nazione: avrebbe forse preso in considerazione un'ipotesi del genere solo se essa avesse ottenuto il consenso degli altri sovrani tedeschi e dell'imperatore austriaco. La decisione del re di Prussia segnò la fine del tentativo riformatore promosso dalla borghesia liberale germanica.

Con il pretesto di difendere la causa tedesca i nemici della patria hanno innalzato la bandiera della sollevazione dapprima nella vicina Sassonia, poi in regioni isolate della Germania meridionale. Con mio profondo dolore anche in alcune parti della nostra patria uomini accecati si sono lasciati trascinare a seguire questa bandiera per rovesciare sotto la sua insegna l'ordinamento divino e umano, in aperta rivolta contro la legittima autorità.
In un momento di così serio pericolo mi preme rivolgere al mio popolo una franca parola. Io non potrei dare risposta positiva all'offerta di una corona da parte dell'Assemblea nazionale tedesca, perché l'assemblea non aveva il diritto di conferire la corona che mi offrì senza il consenso dei governi tedeschi, perché essa mi fu offerta a condizione che accettassi una Costituzione che non era conciliabile con i diritti e la sicurezza degli Stati tedeschi. Invano tentai ed esaurii tutti i mezzi per pervenire ad una intesa con l'assemblea nazionale tedesca. [ ... ]
Ma dopo avere per parte sua interamente abbandonato il terreno del diritto, della legge e del dovere adottando deliberazioni, contro le quali lottarono impavidamente uomini eccellenti, dopo averci accusato di violare la pace per avere noi prestato vittoriosamente l'aiuto richiestoci dal vicino posto sotto pressione, dopo aver fatto appello all'aperta resistenza contro di noi e i governi che insieme a me non vollero rassegnarsi alle rovinose disposizioni della Costituzione, l'Assemblea ha ora rotto con la Prussia. Nella sua maggioranza essa non è più quella accolita di uomini ai quali la Germania guardò con fierezza e fiducia. Un gran numero di essi se ne è spontaneamente andato allorché fu imboccata la strada della perdizione e con la mia ordinanza di ieri io ho richiamato tutti i deputati prussiani che ancora facevano parte dell'Assemblea. Lo stesso avverrà ad opera di altri governi tedeschi. [ ... ]
Mentre tale misfatto distruggeva la speranza di vedere conseguita la unità della Germania ad opera dell'Assemblea di Francoforte, io nella mia lealtà e tenacia reale non ho mai dubitato in essa. Il mio governo ha ripreso l'opera della Costituzione tedesca iniziata a Francoforte con i plenipotenziari dei maggiori Stati tedeschi che si sono a me uniti.
Questa Costituzione dovrà garantire e garantirà nel termine più breve alla Nazione ciò che essa a ragione richiede ed attende: la sua unità; rappresentata da un potere esecutivo unitario che rappresenti degnamente ed energicamente verso l'esterno il nome e gli interessi della Germania e la sua libertà, garantita da una rappresentanza popolare con funzione legislativa. [ ... ] Questa è la mia strada. Di fronte a questi fatti solo la follia o la menzogna possono osare affermare che io ho abbandonato la causa dell'unità tedesca, che io sarei venuto meno alla mia vecchia convinzione e alle mie assicurazioni.
In un momento così grave la Prussia è chiamata a proteggere la Germania contro i nemici interni ed esterni e deve adempiere e adempierà a questo dovere. Per questo io chiamo sin d'ora alle armi il mio popolo. Si tratta di ripristinare l'ordine e la legge nel nostro paese e negli altri paesi tedeschi dove sia richiesto il nostro aiuto; si tratta di fondare l'unità della Germania, di proteggere la sua libertà dalla dominazione terroristica di un partito, che vuole sacrificare alle sue passioni morale, onore e lealtà, di un partito che è riuscito a gettare su una parte del popolo una rete di seduzione e di follia.

Federico Guglielmo IV, in E. Collotti, Storia contemporanea attraverso i documenti, Zanichelli, Bologna 1974, pp. 220-221.

 

I lavori della Dieta ungherese di Budapest

La ventata rivoluzionaria del 1848 coinvolse anche l'Impero asburgico e dilagò sino a Budapest. Qui le istanze liberali e costituzionali si fusero con le aspirazioni della "nazione" ungherese a ottenere una maggiore autonomia politica e amministrativa da Vienna. Alla testa del movimento autonomista in Ungheria si posero il liberale Lajos Kossuth e il poeta Sandor Petófi. Kossuth tenne il discorso che riportiamo durante i lavori della Dieta (cioè del Parlamento) di Budapest, chiamata a ridisegnare il volto della monarchia asburgica nel rispetto delle varie nazionalità presenti nell'Impero. Il progetto di Kossuth prevedeva la costituzione di un Impero liberale guidato dalla casa d'Asburgo, in un quadro però di ampie autonomie politiche e amministrative per le singole identità nazionali. Non si trattava quindi della richiesta della piena indipendenza da Vienna: la Dieta ungherese approvò tale ipotesi solo in seguito alle chiusure che arrivavano in tal senso dal, nuovo imperatore Francesco Giuseppe. La repressione decisa dal nuovo imperatore e l'intervento della Russia in nome del patto della Santa Alleanza soffocarono il tentativo di Kossuth e della nazione ungherese. A ogni modo la monarchia austriaca fu costretta a prendere in seria considerazione l'ipotesi di una nuova articolazione dei domini imperiali. Il frutto indiretto della rivolta sarebbe stato l'introduzione del "compromesso" austro-ungarico del 1867.

Sin dall'apertura della Dieta espressi la mia convinzione che noi non potremo sentirci completamente tranquilli per il futuro della nostra patria sin quando il nostro sovrano non sarà circondato da regole costituzionali anche in tutti gli altri affari governativi. Espressi la mia convinzione che alla nostra patria non saranno garantite neppure le riforme che la nazione attende e che il suo successo non sarà rispondente alla libertà della nostra nazione fin quando alla Costituzione si opporrà bruscamente il sistema di governo che assoggetta noi e le altre nazioni ad un monarca, sin quando quel consiglio di Stato che regola gli affari comuni della monarchia ed esercita una influenza predominante per quanto illegale anche sugli affari interni della nostra patria, sarà anticostituzionale tanto nel suo principio quanto come costituzione e come tendenza. Espressi già la mia convinzione che l'equilibrio tra gli interessi nostri e quelli delle altre nazioni della monarchia potrà essere realizzato, senza la perdita della nostra autonomia, della nostra libertà e del nostro benessere, soltanto grazie ad una Costituzione che affratelli gli animi di tutti. Gettai un triste sguardo sull'origine e la proliferazione del sistema governativo burocratico viennese, feci toccare come esso eresse l'edificio del suo paralizzante potere sulle rovine della libertà conculcata dei nostri fratelli vicini ed enumerando le scellerate conseguenze di questo fatale meccanismo di governo e, antiveggendo nel futuro, presagii come fedele suddito della dinastia che colui che avesse riformato la monarchia in senso costituzionale e avesse indelebilmente costruito il trono della nobile dinastia sulla libertà dei suoi popoli avrebbe rifondato la casa d'Asburgo [ ... ].
Vivano eterni la patria e lo splendore della dinastia che noi riconosciamo come nostra casa regnante. Tra qualche giorno gli uomini del passato scenderanno nella tomba, ma il ram- pollo foriero di speranze della casa d'Asburgo Francesco Giuseppe, che sin dal suo primo apparire ha conquistato l'amore della nazione, attende l'eredità di uno splendido trono, la cui forza scaturirà dalla libertà ma che difficilmente conserverà il suo splendore se dovesse perdurare questo infelice meccanismo della politica viennese. La dinastia deve scegliere dunque tra il suo stesso bene e il mantenimento di un sistema di governo degenere, e tuttavia temo che, se nel frattempo non si manifesta l'espressione leale della nazione, la politica cristallizzata cercherà di sopravvivere ancora qualche giorno in una riedizione della defunta Santa alleanza a spese della dinastia. Coloro che non sono soliti dimenticare nulla, una cosa dimenticano volentieri, ossia che anche all'epoca della prima edizione della Santa alleanza non fu questa a salvare i troni, ma l'entusiasmo dei popoli, un entusiasmo che aveva alla sua base la promessa della libertà, una promessa che non fu esaudita. Una dinastia che poggi sulla libertà dei suoi popoli alimenterà sempre entusiasmo; perché leale sinceramente può essere soltanto l'uomo libero; chi è oppresso non fa che servire, come appunto è costretto; per una dominazione di burocrati non può sgorgare entusiasmo alcuno. I popoli sono capaci di dare la vita e il sangue, ma per la politica d'oppressione di un sistema di governo degenere non si troverà neppure un passerotto disposto a farsi ammazzare.

L. Kossuth, in E. Collotti, Storia contemporanea attraverso i documenti,
cit., pp. 223-224.

 

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

 

Il 1848 in Francia

Il 1848, pur essendo un movimento rivoluzionario di carattere europeo, ebbe in Francia, indubbiamente, caratteri peculiari. Qui più che altrove è evidente il nesso con il 1789.
Lo storico F. Furet mette in luce il radicalismo idealistico di entrambe le Rivoluzioni, l'atteggiamento di totale fiducia nell'azione politica concepita come intervento risolutore dei mali della società.

La rivoluzione del 1848 era strettamente imparentata con quella del 1789 non tanto perché ne era una imitazione quanto perché entrambe erano pervase da un medesimo spirito, da ciò che Marx, nei suoi scritti giovanili, chiamava «illusione dell'uomo politico». Gli uomini del 1789 avevano creduto che, una volta ricostruito lo Stato sulla volontà popolare, si sarebbe aperta la strada al benessere della società; quel volontarismo politico aveva avuto il suo apogeo nel giacobinismo del 1793, quando la dittatura rivoluzionaria aveva creduto di essere in grado di trasformare con la propria azione tutta la società civile e di fare, di individui mossi dall'egoismo, dei cittadini virtuosi. Nel febbraio del 1848 quella esasperata politicizzazione, caratteristica di tutta la vita pubblica francese fin dal 1789, era più attiva che mai. Intanto, il pensiero socialista aveva dibattuto la questione della contraddizione, insita nella Dichiarazione dei diritti, fra l'uguaglianza promessa e l'ineguaglianza reale, e incoraggiava, a sinistra, la lotta per una Repubblica della vera uguaglianza. Al mito robespierriano della dittatura della virtù si era sostituita la fede nella fraternità repubblicana; Marx non si stancava di mettere sarcasticamente in rilievo l'illusione francese che fosse lo Stato a produrre la società, mentre era vero il contrario.

F. Furet, Il secolo della rivoluzione. 1770-1880, Mondadori, Milano 1989, pp. 485-486.

Gli ideali repubblicani nella Francia degli anni Quaranta erano la sintesi di un complesso di aspirazioni diverse, in alcuni casi contrastanti. Per molti intellettuali come lo scrittore Victor Hugo, Repubblica voleva dire soprattutto democrazia, graduale evoluzione verso una società della fratellanza universale; per altri, specialmente socialisti, la Repubblica richiamava la Francia del 1793, il dominio di giacobini e robespierristi. Nel primo caso la Repubblica significava emancipazione politica, nel secondo il riscatto sociale dei poveri.
Così scrive a questo proposito F. Furet.

Repubblica voleva dire rivincita dei poveri sui ricchi: era stata il vessillo della rivolta nazionale contro il rinato Ancien Régime, e dopo il luglio del 1830 era diventata la speranza del popolo contro la borghesia.
[...] Il fatto è che, nella classe politica di quel luglio, era presente un'altra concezione della repubblica, e Victor Hugo vi si richiamava, qui e altrove, come a un futuro quasi certo dell'umanità in marcia verso il progresso. Repubblica era il popolo che governa sul popolo: una volta che quell'idea avesse trionfato nella società, quel governo avrebbe pienamente realizzato la democrazia politica. Per raggiungere quell'obiettivo non ci voleva un'avanguardia insurrezionale, ma un risveglio delle coscienze, un'evoluzione dei costumi, l'educazione universale dei cittadini. Per Hugo, che aveva parteggiato per la monarchia di luglio, il regno di Luigi Filippo era una lunga fase di transizione; Chateaubriand, un avversario, riteneva quella monarchia incapace di quel senso della storia, troppo borghese per poter mai dare la parola al popolo. Ma entrambi, come tanti intellettuali del tempo, vedevano nella repubblica il punto d'arrivo del cammino della democrazia. Dai repubblicani che volevano risuscitare la Convenzione li separava un abisso: ai loro occhi, la re- pubblica sarebbe stata un prodotto dell'evoluzione, e non dell'insurrezione. Secondo Hugo, e anche Michelet e Quinet, per far progredire la propria causa, la repubblica doveva scordarsi della dittatura e non riproporla.
Il settore repubblicano occupava, dunque, un'area molto vasta, in cui si raccoglievano, secondo che lo suggerissero le circostanze o le tendenze individuali, uomini e movimenti di ispirazione diversa: dai socialisti alle frange dell'opposizione dinastica, dall'attivismo politico alla filosofia sociale, dai militanti clandestini ai parlamentari dell'opposizione, dai neorobespierriani rivoluzionari ai partigiani delle riforme progressiste. A partire dal 1840 Parigi era divenuta uno straordinario crogiolo di dottrine e di conflitti in cui si erano date convegno le idee avanzate. In quell'anno furono pubblicati L'organisatíon du travail di Louis Blanc, il Mémoire sur la propriété di Proudhon, l'Humanité di Pierre Leroux: era un segno della moltiplicazione delle sette socialiste che si dilaniavano fra di loro, ma avevano in comune, almeno, l'avversione per la monarchia borghese.

F. Furet, Il secolo della rivoluzione. 1770-1880, cit., pp. 480-481.

Lo storico francese Alexis de Tocqueville, di orientamento cattolico liberale, fu un testimone diretto degli eventi rivoluzionari del 1848, soprattutto di quelli di giugno, allorché nella capitale francese scoppiarono violentissime rivolte popolari. Di fronte alla collera dei ceti operai e dei movimenti socialisti per la svolta conservatrice del governo repubblicano provvisorio, Tocqueville, che pure sarà un fiero avversario del cesarismo di Napoleone III, mostra di condividere la paura del mondo borghese e liberale, dei ceti moderati, dell'aristocrazia e del clero, che vedevano nella furia rivoluzionaria un tentativo di alterare l'ordine della società. Infatti per la prima volta gli insorti avevano avanzato richieste di sospensione della proprietà privata, che avevano immediatamente richiamato alla memoria la fase più radicale del regime giacobino degli anni 1793-94.

Eccomi finalmente arrivato a questa insurrezione di giugno, la più grave e la più singolare che ci sia stata nella nostra storia e forse in qualsiasi altra: la più grande perché in quattro giorni vi furono impegnati più di centomila uomini; la più singolare perché gli insorti combatterono senza grido di guerra, senza capi, senza bandiere, e tuttavia presentando un insieme meraviglioso ed un'esperienza militare che meravigliò i più vecchi ufficiali.
Quello che la distinse ancor più tra gli avvenimenti del genere accaduti da sessant'anni a questa parte tra noi, fu il fatto ch'essa non ebbe per issopo di cambiare la forma del governo, ma di alterare l'ordine della società.
A dir la verità non fu una lotta politica (nel senso che avevano dato fino allora a questa parola) ma una lotta di classe, una specie di guerra servile [ ... ].
Avevano assicurato a quella povera gente che i beni dei ricchi erano in qualche modo il prodotto di un furto fatto a loro; avevano assicurato loro che l'ineguaglianza delle fortune era altrettanto contraria alla morale ed alla società quanto alla natura. Coll'aiuto delle passioni e dei bisogni molti l'avevano creduto. Questa nozione erronea ed oscura dei diritti, mescolandosi alla forza brutale, le prestò un'energia, una tenacia ed una potenza che da sola non avrebbe mai avuta [ ... ].
Finalmente arrivai all'Assemblea: i rappresentanti vi accorrevano in folla, sebbene l'ora indicata per la riunione non fosse ancor venuta: li richiamava il rombo del cannone. Il palazzo aveva l'aspetto di una fortezza; tutto intorno erano accampati dei battaglioni e dei cannoni erano puntati verso tutte le strade che vi conducevano.
Trovai l'Assemblea molto risoluta, però era molto inquieta, e bisogna confessare che c'erano tutte le ragioni di esserlo. Pure attraverso le informazioni contraddittorie si capiva che ci si trovava di fronte all'insurrezione più generale e meglio armata e più furibonda che mai ci fosse stata in Parigi. Le officine nazionali e parecchie bande rivoluzionarie che erano state licenziate fornivano soldati già disciplinati ed agguerriti e capi. La rivolta si dilatava di minuto in minuto e difficilmente si sarebbe potuto credere che non avrebbe finito per essere vittoriosa, ricordando che tutte le grandi insurrezioni che avevano avuto luogo da sessanta anni, avevano sempre trionfato. A tanti nemici noi non potevamo opporre che i battaglioni della borghesia, dei reggimenti disarmati in febbraio, e ventimila giovani indisciplinati della guardia mobile, che erano tutti o figli o fratelli o parenti degli insorti, e le cui intenzioni erano molto dubbie [ ... ].
E tuttavia trionfammo della formidabile insurrezione, ma dirò di più: quello che la rendeva così terribile fu precisamente quello che ci salvò, e in nessun'altra occasione si sarebbe meglio potuto applicare il motto del principe di Condè nelle guerre di religione: «Noi saremmo periti se non fossimo stati così prossimi a perire». Se la rivolta avesse avuto un carattere meno radicale ed un aspetto meno torvo, è probabile che la maggior parte dei borghesi sarebbero rimasti a casa loro; la Francia non sarebbe accorsa in nostro aiuto, la stessa Assemblea nazionale avrebbe forse ceduto, o per lo meno una minoranza dei suoi membri lo avrebbe consigliato, e l'energia di tutto il corpo sarebbe rimasta di molto diminuita. Ma l'insurrezione fu di tal natura che ogni transazione fu subito ritenuta impossibile, e non lasciò fin dal primo momento che l'alternativa di vincere o di morire.

A. De Tocqueville, Una rivoluzione fallita. Ricordi del 1848-49, a cura di A. Omodeo, Laterza, Bari 1939.

 

Aspetti sociali della Rivoluzione del 1848

Lo storico G. Lefebvre analizza gli aspetti economici e sociali della Rivoluzione in Francia, descrivendo i problemi sociali che il governo provvisorio dovette affrontare, il clima di paura che si diffuse a Parigi, contrapponendo i disoccupati alla piccola e media borghesia. Osserva lo storico francese che le preoccupazioni delle classi medie erano legate al timore di violenze e saccheggi da parte di gente senza risorse che poteva essere disposta a tutto per procurarsele.

Una crisi provocata da cattivi raccolti, generatori di anemia industriale e di difficoltà finanziarie, aveva contribuito a fomentare la rivoluzione di Febbraio, e questa le aveva infuso nuovo vigore nel momento in cui cominciava a calmarsi. A Parigi, gli operai in armi esigevano lavoro per guadagnarsi il pane quotidiano. Il problema essenziale che il Governo provvisorio dovette affrontare fu dunque quello che s'impone a ogni regime, qualunque esso sia, allorché si trova in presenza di folle affamate. In un simile caso, tutti coloro che possiedono qualche cosa si turbano vedendo moltiplicarsi i disoccupati e temono che, raggruppati, essi vengano a prendere nelle loro case di che provvedere ai bisogni quotidiani, senza preoccuparsi, nel loro smarrimento, della sorte che riserva, ad essi come agli altri, l'anarchia generale. I ricchi non saranno i soli ad avere paura: chiunque, in un umile alloggio, possieda qualche mobile, un po' di biancheria e forse qualche scudo nella famosa «calza di lana», trema altrettanto, sicché, co- me è stato detto a proposito della Grande Paura, il popolo fa paura a se stesso. Senza dubbio, nel 1848, le speculazioni socialiste furono denunziate per accrescere lo spavento, ma ciò che parecchi francesi temettero non fu la socializzazione dei mezzi di produzione, della quale non avevano alcuna idea chiara, ma puramente e semplicemente il saccheggio: i partageux del 1848 sono i «briganti» del 1789, e non c'è da stupirsi che si siano avuti questa volta dei timori collettivi simili a quelli provocati dalla Grande Paura: se il loro angoscioso propagarsi risultò limitato, lo si dovette al fatto che l'impalcatura amministrativa restava quasi del tutto nelle mani dei notabili che, seminando l'inquietudine, erano ben decisi, perché la condividevano, a limitarne gli effetti attraverso lo spiegamento della forza pubblica.

G. Lefebvre, A proposito d'un centenario, in "Revue historique", luglio-settembre 1948, pp. 3-4.

Lefebvre vede nei rivoluzionari del 1848 mancanza di spirito concreto, tendenza alla retorica più che alle decisioni politiche maturate sulla base della conoscenza dei problemi, quasi una sorta di romanticismo sentimentale che fa preferire la frase retorica alla politica dei fatti.

Per gli uomini del 1848, l'effusione sentimentale, la buona volontà superficiale, l'emozione oratoria avevano il sopravvento su tutto. La fraternità doveva risolvere le difficoltà sociali: i poveri non minacceranno la proprietà dei loro fratelli, si diceva, e i ricchi dispenseranno a essi il loro superfluo. Nessuno pensa di contestare che la fraternità resterà la sorella della giustizia sociale, poiché questa non eliminerà l'amarezza che genera l'ineguaglianza naturale, o che non consolerà i dolori che l'esistenza infligge alla maggioranza degli umani. Ma la fraternità non è la giustizia, si presta all'equivoco e lascia pertanto la porta aperta alla lotta: i ricchi la confusero con la carità, che dipende dalla loro volontà, contribuisce alla loro salvezza futura e lascia intatta la loro autorità; le classi popolari se ne valsero per costituirsi un diritto. Essa diventa concreta soltanto a patto di essere l'ispiratrice dell'organizzazione giuridica della sicurezza sociale. La generazione del 1848, imbevuta di metafisica nebulosa, ebbra di lirismo oratorio, credeva di agire quando parlava. Le mancava lo spirito del razionalismo positivo.

G. Lefebvre, A proposito d'un centenario, cit., p. 6.

 

Il 1848 nel resto d'Europa

Il 1848 come intreccio di motivi e aspirazioni diverse, come epopea romantica, ma anche come ingresso delle masse popolari nella storia, ingresso consapevole e accompagnato da un progetto politico: questa è la tesi sostenuta da Rota.

Il 1848 fu la romantica epopea della credulità e dell'eroismo, sia nell'individuo che nelle masse, tutti insorti per fede sicura in uno stesso ideale d'indipendenza e di benessere, sotto i segni distintivi della patria; la reazione improvvisa e violenta ai trattati del 1815, sopra un piano europeo; l'insurrezione dei popoli, quasi tutti Dresi impetuosamente dalla volontà di vivere in regime di libera politica, civile ed economica; il momento in cui il popolo minuto fa il suo ingresso nella storia non più come forza aggregata ad altre che lo dirigono per farlo servire ai propri fini, come nella Rivoluzione francese, ma con un suo programma, una sua coscienza sociale, con una propria esasperazione di fronte al passato. Sulle barricate parigine, nelle tumultuose giornate di febbraio, combatterono in gran numero gli operai per chiedere non solo la libertà, il diritto di voto alla Repubblica, ma per imporre al governo provvisorio propri rappresentanti in nome del socialismo ch'essi volevano attuare. Proletariato e socialismo, ecco i due nuovissimi attori di storia nell'Europa ancora tutta avvolta dai pesanti armamenti dell'antico regime. S'inizia il movimento operaio per la proclamazione del diritto al lavoro e per la difesa dei diritti che sono connessi ad esso. Capovolgimento della concezione millenaria che parlava del lavoro come di un dovere e che l'aveva considerato servilmente nei suoi rapporti con la padronanza e col capitalismo.

E. Rota, Il 1848, Marzorati, Milano 1948, p. 61.

Hobsbawm ci offre un quadro della diffusione della Rivoluzione sul continente europeo, sottolineando l'eterogeneità delle situazioni per condizioni economiche e politiche, per densità di popolazione, per tradizioni culturali.

La rivoluzione trionfò nel grande nodo centrale del continente, benché non alla sua periferia. Questa comprendeva paesi troppo distanti o isolati nella loro storia per esserne, in una misura qualsiasi, direttamente o immediatamente colpiti (la penisola iberica, la Svezia, la Grecia), troppo arretrati per possedere i ceti sociali politicamente esplosivi dell'area rivoluzionaria (la Russia, l'impero ottomano), ma anche i soli già industrializzati e con un gioco politico retto da norme alquanto diverse, come la Gran Bretagna e il Belgio. A sua volta, l'area rivoluzionaria, composta essenzialmente dalla Francia, dalla Confederazione germanica, dall'impero asburgico – che si estendeva fin nell'Europa di sud-est e in Italia – era piuttosto eterogenea, perché comprendeva regioni arretrate e difformi come la Calabria e la Transilvana, sviluppate come la Sassonia e la Renana, istruite come la Prussia e incolte come la Sicilia, divise da grandi distanze come le città di Kiel e Palermo, Perpignano e Bucarest. Quasi tutte erano governate da quelli che si possono chiamare approssimativamente monarchi e prìncipi assoluti, ma la Francia era già una monarchia borghese e costituzionale, e la sola repubblica di rispetto sul continente, la Confederazione elvetica, aveva inaugurato l'anno della rivoluzione, già alla fine del 1847, con una breve guerra civile. I paesi colpiti dall'ondata rivoluzionaria spaziavano, per numero di abitanti, dai 35 milioni della Francia alle poche migliaia dei principati da opera buffa della Germania centrale; per condizione, da grandi potenze indipendenti di statura mondiale a province o a Stati satelliti di potenze straniere; per struttura, da complessi centralizzati ed uniformi ad aggregati elastici e polimorfi.

E. J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia. 1848-1875, Laterza, Bari 1979.

Il carattere sociale della Rivoluzione fu, quindi, per Hobsbawm, un aspetto europeo; ovunque la partecipazione popolare fu consistente e diffusa. Rivalità etniche e nazionalistiche si fusero con interessi di classe: nell'Impero austriaco, per esempio, i governi conservatori votarono l'abolizione della servitù della gleba per attirare R consenso dei contadini, e impedire così che questi insorgessero collegandosi ai rivoluzionari democratici.

Quelli che avevano fatto la rivoluzione erano indiscutibilmente i «poveri che lavorano» (labouring poor). Erano stati essi a morire sulle barricate; a Berlino, fra le trecento vittime degli scontri di marzo v'erano stati appena quindici rappresentanti delle classi colte e circa trenta mastri artigiani; a Milano, fra i 350 morti delle Cinque Giornate, solo dodici studenti, impiegati o proprietari fondiari. Era stata la loro fame a scatenare le dimostrazioni trasformatesi in rivoluzioni. Le campagne delle regioni occidentali rimasero relativamente tranquille; se la Germania sudoccidentale assistette a un numero molto maggiore di rivolte contadine di quanto comunemente non si scriva, altrove il timore di una insurrezione agraria fu abbastanza acuto da far scambiare l'apparenza con la realtà, benché non occorresse molta immaginazione a questo fine in aree come l'Italia meridionale, dove i contadini invadevano spontaneamente con bandiere e tamburi i latifondi e procedevano a spartirli. Spaventata da false voci di una poderosa rivolta dei servi guidati dal poeta S. Petófi (1823-1849), la Dieta ungherese – una assemblea in cui i grandi agrari erano in schiacciante maggioranza – votò l'immediata abolizione della servitù della gleba fin dal 15 marzo 1848, solo pochi giorni dopo che il governo imperiale, nello sforzo di privare i rivoluzionari della loro base contadina, l'aveva decretata con effetto immediato in Galizia parallelamente alla soppressione del lavoro obbligatorio e di altre corvées nelle terre ceche. Nessun dubbio: l'«ordine sociale» era in pericolo.
Il pericolo non si presentava con la stessa gravità dappertutto. Governi conservatori potevano comprare e di fatto comprarono i contadini, soprattutto là dove i proprietari terrieri, o i mercanti e usurai che sfruttavano la popolazione rurale, appartenevano a una nazionalità diversa e, nell'ipotesi più probabile, non «rivoluzionaria»: polacca, magiara o tedesca. È improbabile che la borghesia germanica, inclusi gli uomini d'affari renani in baldanzosa ascesa, si lasciasse veramente turbare i sonni da una prospettiva immediata di comunismo o anche solo di governo proletario, prospettiva che non fu mai seriamente considerata neppure a Colonia, dove Marx aveva stabilito il suo quartier generale, o a Berlino, dove il tipografo Stephan Born dava vita a un movimento operaio organizzato di un certo rilievo. Ma la borghesia europea, come nel 1840-1850 aveva creduto di intravedere nella pioggia e nel fumo del Lancashire l'immagine dei problemi sociali che l'avrebbero assillata nel futuro, così credeva ora di intravedere dietro le barricate di Parigi, questa grande anticipatrice ed esportatrice di rivoluzioni, un'altra immagine dell'avvenire.

E. J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia. 1848-1875, cit., pp. 18-19.

Lo storico Ivan T. Berend sviluppa un'ulteriore riflessione circa le caratteristiche del moto insurrezionale che coinvolse l'Impero asburgico. Egli ritiene che alla base del moto di carattere nazionale che interessò anche l'Ungheria nel biennio 1848-49 vi fossero radicate esigenze di affermazione della propria identità culturale: queste istanze, frustrate dalla volontà di Francesco Giuseppe di riassumere con decisione il controllo della situazione, in un secondo tempo avrebbero assunto una connotazione indipendentista. Per Berend l'iniziativa di Kossuth e di Petófi fu il tentativo di dar voce a quell'idea di "nazione" che si era diffusa presso le élite culturali liberali già nella prima metà dell'Ottocento e che aveva come fondamento principale il concetto di comunità fondata su una lingua comune e una propria coscienza nazionale.

L'idea di nazionalismo aveva fatto la sua comparsa nell'«assopita» metà orientale d'Europa ancor prima che nascessero nazioni vere e proprie. Seguendo gli ammonimenti di Gyórgy Batsányi, il poeta ungherese del tardo Settecento, fu l'élite intellettuale dei vari gruppi etnici a «guardare a Parigi» e a vagheggiare di emulare l'esempio francese. I popoli delle periferie arretrate d'Europa, congelati nelle strutture rigide dell'Ancien Régime, avrebbero dunque aspirato a dar vita a Stati nazionali indipendenti, considerati da questi intellettuali la condicio sine qua non per percorrere lo stesso cammino di progresso che si andava delineando in Occidente. Un pugno di intellettuali si dedicò all'impresa di costruire le nazioni creando la coscienza della lingua e della cultura comuni. Basando le proprie osservazioni sull'esperienza tedesca, anni dopo Friedrich Meinecke sostenne che, invece delle nazioni-stato d'Occidente, in Europa orientale furono create delle nazioni-cultura (KuItur-natíon): nel loro sforzo di dar vita a delle nazioni, i popoli delle periferie d'Europa cercarono anzitutto di creare un'omogeneità culturale, nella persuasione che una cultura nazionale avrebbe finito per produrre uno Stato nazionale indipendente. Eric Hobsbawm sintetizzò in una formula lo Zeitgeist ["spirito del tempo"] dell'epoca: le nazioni devono trovare la propria espressione in uno Stato sovrano indipendente.
La nazione-cultura era una comunità basata su una lingua comune e una coscienza nazionale storicizzata, sviluppata in assenza di uno Stato nazionale unitario indipendente. Queste nazioni-cultura esistevano sia entro i confini di imperi multinazionali dominati da potenze straniere, sia frammentate in stati diversi e separati. Gli Slavi e gli Ungheresi nell'Impero asburgico sono un esempio del primo caso, i Tedeschi e gli Italiani sparsi in numerosi staterelli indipendenti lo sono del secondo: tutti svilupparono i propri movimenti nazional-culturali. Il processo storico si configurò così esattamente all'inverso di quello occidentale: non fu lo Stato a creare la nazione, ma la nazione costruita su base culturale a mobilitarsi per dar vita al proprio Stato indipendente.

I. T. Berend, Le minoranze ieri e oggi, in Storia d'Europa, Einaudi, Torino 1996, vol. V, pp. 1041-1045.

Salvatorelli mette in rilievo i contrasti fra obiettivi e ideali diversi, mostrando l'incapacità delle forze rivoluzionarie di creare un fronte unico democratico.

Non mancarono durante la rivoluzione grandi anime che compresero che il successo del moto era subordinato alla creazione di un fronte unico democratico: ad esse va riportato l'appello di taluni democratici tedeschi a solidarizzare con la guerra nazionale italiana, la condanna del pangermanesimo da parte di Marx ed Engels, l'invocazione di una giovane Europa del Mazzini o degli Stati Uniti d'Europa da parte del congresso panslavo di Praga. Ma queste nobili voci furono sopraffatte dal più gretto nazionalismo per cui i popoli insorgenti si misero in lotta tra loro, come i polli di Renzo nei Promessí Sposi. [...] Mancò l'organizzazione unitaria della rivoluzione, necessaria per la salvezza della rivoluzione stessa. La rivoluzione non poteva assolvere il suo compito che nel piano internazionale europeo. Quello che aveva fatto un'associazione di Stati autocratici nella Santa Alleanza, solo un'altra associazione di Stati democratici poteva disfare. [...]. Gli appelli del Mazzini, del congresso di Praga e di Marx esprimono in modo diverso una stessa idea: la necessità di una federazione europea. Ma questa presupponeva un centro, una direzione, uno Stato già formato, capace di abbattere l'impedimento asburgico e organizzare la nuova convivenza. Questo Stato poteva essere soltanto la Francia, ma essa ne fu impedita non solo dalla gelosia e dal sospetto dei conservatori e nazionalisti italiani e germanici ma dalla sua crisi interna sociale. Se i contrasti di nazionalità portarono le diverse rivoluzioni a cozzare fra loro, quelli sociali minarono dall'interno le singole rivoluzioni, e innanzi tutto quella francese, travagliata dalla «paura del rosso» cioè dal trionfo del socialismo. Fu essa che allontanò i liberali, rappresentanti della piccola e media borghesia, dai socialisti; fu essa che allontanò i liberali dai democratici, rappresentanti del ceto medio; fu essa, insomma, che ruppe il fronte rivoluzionario, isolò i socialisti e spinse gli altri partiti nelle braccia della reazione. Per queste ragioni, le possibilità di fusione tra proletariato e borghesia progressiva in una sola democrazia nazionale andarono perdute; ciò, mentre portò a questa un colpo gravissimo, costituì il punto di partenza per la successiva fase marxista del movimento proletario.

L. Salvatorelli, Il Quarantotto italiano e il Quarantotto europeo, in Spiriti e figure del Risorgimento, La Nuova Italia, Firenze 1961.

Dalla paura del rivoluzionarismo democratico, repubblicano e socialista derivò, secondo Giorgio Spini, «il compromesso tra monarchia e borghesia liberale, che diede origine ai regni costituzionali con il duplice scopo di opporsi al conservatorismo di destra e al rivoluzionarismo di sinistra».

Il compromesso liberale-monarchico fu principalmente rivolto contro democratici e socialisti, a difesa dell'ordine, della struttura tradizionale della società e del principio di proprietà privata.
La frattura non avvenne soltanto fra liberali e democratici ma anche a destra, tra Stato e Chiesa. Il compromesso monarchico-liberale, dando vita a uno Stato assai più saldo del vecchio Stato legittimista e reazionario, non rende più necessario il connubio tra il trono e l'altare. Così, le borghesie liberali, che attraverso questo connubio raggiungono il potere, entrano in conflitto con la Chiesa cattolica, sia per il rifiuto di quest'ultima di accettare il principio liberale sul terreno religioso (tolleranza di altri culti, libertà di stampa ecc.), sia per la pretesa dei liberali di laicizzare, di togliere cioè, al predominio del clero, campi particolarmente delicati come l'istruzione pubblica o il diritto matrimoniale, sia, infine, per la intolleranza che suscita nei liberali la presenza di forze politiche legate a una autorità super-nazionale come il pontefice. Pertanto il clero si allontanò sempre più dalla monarchia liberale per diventare soltanto il clero del papa, in opposizione al re.
Al principio democratico fu sostituita l'iniziativa dall'alto; alla repubblica popolare seguì 11 cesarismo; la borghesia, pur di conservare le sue posizioni di privilegio e di sfruttamento, preferì sacrificare la libertà alla dittatura esasperando, così, quel disagio delle classi lavoratrici che sarà la condizione più favorevole della diffusione del socialismo. Infine, il soffocato movimento nazionale dei popoli alimenterà le guerre che fino al 1918 essi faranno per raggiungere l'indipendenza e l'unità.

G. Spini, Disegno storico della civiltà italiana, Salerno editrice, Roma 1952, vol. III.

Lo storico francese Charles Pouthas, prendendo le mosse dall'esito della Rivoluzione del 1848 in Francia, traccia un bilancio dell'esperienza rivoluzionaria degli anni 1789-1849. Egli rifiuta una lettura in chiave marxista di questo cinquantennio, che inserisce invece in un più ampio movimento di contestazione degli equilibri politici consolidatisi in Europa sino alla fine del XVIII secolo. Il 1848, a suo avviso, chiuderebbe il ciclo aperto dalla Rivoluzione francese nel 1789 e improntato dall'esigenza di superare l'Antico Regime, nelle sue varie forme. Per assistere a un'ulteriore svolta in senso nazionalistico e di riconoscimento delle identità nazionali, l'Europa avrebbe dovuto attendere, secondo Pouthas, l'esito del primo conflitto mondiale. Il Quarantotto dunque rappresenta per lui un punto d'arrivo, non di partenza: soprattutto in Francia lo slancio che lo aveva animato costituiva l'ultimo anelito di quella temperie ideologica sprigionatasi dalle ceneri dell'Antico Regime e in un primo tempo incanalata nell'alveo dell'Impero napoleonico.

Se guardiamo alla rivoluzione del 1848 alla radice di questi risultati, il suo significato nell'evoluzione dell'Europa ci apparirà più chiaro. Essa segna la fine di un mondo. Il suo fallimento rappresenta anche l'esaurimento dell'ideologia che la ispirava, sorta con la rivoluzione francese e l'impero napoleonico. Il 1848 è un punto d'arrivo piuttosto che un punto di partenza, giacché gli avvenimenti successivi sono il frutto di idee diverse. Situare qui l'inizio di una nuova fase nella storia europea è artificiale e arbitrario. Bisognerà infatti attendere l'esito della grande guerra del 1914-18 per vedere un'Europa informata ai principi di libertà, di repubblica parlamentare e di nazionalità e un abbozzo di quella fratellanza universale delle nazioni che avevano sognato gli uomini del 1848. Un'intera generazione doveva consumarsi prima che il vecchio continente potesse riprendere la sua funzione di guida ed esempio dei popoli.
Altrettanto arbitrario sarebbe il tentativo di dare una spiegazione uniforme a un fenomeno così complesso, in cui anche un'analisi sommaria come la nostra ha rivelato tante contraddizioni. Una ricerca limitata alla sfera politica e ideologica potrà chiarire quali furono i motivi ideali che spinsero gli iniziatori dei moti rivoluzionari e le ragioni del loro fallimento. Ma una tale interpretazione è troppo angusta: non vede nelle agitazioni sociali altro che delle manifestazioni di estremismo rivoluzionario, e si lascia sfuggire le macrostrutture economico-sociali che stanno alla base delle correnti politiche e che gli ondeggiamenti di queste ultime lasciano qualche volta intravvedere. D'altra parte una teoria economica che spiega tutto con i movimenti di massa e colloca la rivoluzione nel fondo di una crisi recessiva, accompagnata come di consueto da una crisi sociale, non ci dice perché paesi come l'Inghilterra e il Belgio, dove più forti erano le ragioni di malessere, non furono toccati dalla tempesta rivoluzionaria; e trascura il carattere peculiare e individuale dei singoli fenomeni. La dottrina marxista, infine, che considera la rivoluzione quarantottesca come un primo esperimento di lotta di classe e come un primo sforzo del proletariato per scuotere il giogo della borghesia, generalizza indebitamente fatti locali e atipici come le giornate di giugno in Francia, la rivolta dei contadini nel Baden e la «campagna costituzionale» del 1849, e dimentica che la rivoluzione fu dovunque l'opera di intellettuali borghesi; ma soprattutto tale dottrina precorre i tempi nel postulare un proletariato industriale che di fatto esisteva solo in Inghilterra, e non esisteva a Parigi che pure fu l'epicentro del moto rivoluzionario. La storia non sa accontentarsi di sistemi; vuole ricostruzioni più aderenti, più sfumate. Una spiegazione semplice è in genere troppo semplice per essere giusta. Per districare i complessi fili del passato occorrono molteplici linee interpretative, atteggiamenti flessibili, analisi diverse.

C. Pouthas, Le rívoluzionl del 1848, in Storia del mondo moderno,
vol. X: Il culmine della potenza europea, 1830-1870, Garzanti, Milano 1982, pp. 525-526.

 

Il 1848 in Italia

Per Giorgio Spini la Rivoluzione italiana fu preparata da tutta una serie di moti e di rivendicazioni che caratterizzarono il biennio precedente e che erano stati notevolmente alimentati dalle aspettative suscitate dalla stagione riformista inaugurata dai sovrani italiani.

Nelle folle che dimostravano continuamente c'era un'autentica fusione nazionale di classi, un popolo che si avvezzava a interessarsi della cosa pubblica, a discutere di libertà, di,parlamento, di indipendenza e d'Italia; masse che da un capo all'altro della penisola si mettevano in movimento; l'iniziativa dei popoli e l'esautoramento dei governi; il risorgimento del popolo italiano e la fiamma d'amore della patria comune, divampante fra i ricordi del passato e le speranze del futuro. Inoltre se il moto italiano trapassò dal riformismo, non valicante i confini dell'assolutismo illuminato, al costituzionalismo moderato e a quello democratico per giungere alla repubblica, e in tre anni fu percorsa tutta la curva dell'evoluzione politica, la rapidità non fu dovuta alle quarantottate ma alla lunga e profonda preparazione precedente e all'incalzare degli eventi; alla pregnanza di una situazione tutta italiana ed europea. Battuta e disciolta l'avanguardia moderata, si fece avanti, in prima linea, la riserva democratica; al posto del Congresso federale subentrò la Costituente; al posto della guerra regia, quella di popolo; al posto della monarchia costituzionale, la repubblica.

G. Spini, Disegno storico della civiltà italiana, cit., vol. 111.

Il fallimento del Quarantotto, che fu decisivo per avviare su altri binari il processo di unificazione nazionale, liberò le menti da tante illusioni e utopie, svelò à l'impossibilità del neoguelfismo, dimostrò l'insufficienza del regionalismo e del repubblicanesimo e convinse che l'indipendenza si poteva ottenere solo attraverso il Piemonte, lo Stato militarmente più forte.

Il 1848 – scrive Rota – è inseparabile anche ideologicamente dal '59; ne ha poste le premesse, ne ha indicato le direttive, dopo la dimostrazione dell'impossibilità di una sistemazione federale della Penisola a causa della defezione borbonica e papale. Nonostante la disfatta di Novara, serbò valore l'iniziativa monarchica sabauda, poiché il trionfo dell'annessionismo piemontese indicava il gravitare degli animi verso lo Stato militarmente più forte e ancora disposto, con la rottura dell'armistizio e la fede dello Statuto, a tenacemente cospirare insieme al partito della rivoluzione. Così cadeva l'ideale repubblicano insieme alle tradizioni federali delle città italiane e faceva un passo innanzi il principio monarchico. Attraverso la lotta contro lo straniero l'idea di nazionalità, predicata dal Mazzini, entra nel suo sviluppo più decisivo e popolare; essa denunzia in forma aperta la crisi degli Stati regionali; la petite-patrie ha finito di esistere a favore della patria vera, che diviene l'ideale operante degli anni futuri.

E. Rota, Il 1848, cit.

Tracciando un bilancio complessivo de biennio 1848-49 in Italia, lo storico inglese Denis Mack Smith parla di mancato sviluppo di un senso di «italianità», particolarmente evidente in occasione dei vari tentativi insurrezionali e della prima guerra d'indipendenza. A suo avviso, non si può parlare di «guerra nazionale»: profonde erano le divisioni esistenti all'interno delle classi dirigenti dei singoli Stati della penisola; esse decretarono il fallimento dell'auspicio espresso dal sovrano sabaudo Carlo Alberto secondo cui «l'Italia farà da sé».
Anzi, l'iniziativa militare piemontese suscitò la viva preoccupazione degli altri sovrani italiani nei confronti della minaccia latente nell'espansionismo del Regno di Sardegna ai danni del Regno Lombardo-Veneto. Divisioni e contrasti erano poi interni al movimento liberale, ostile ai possibili esiti democratici di alcuni esperimenti insurrezionali (Venezia, Firenze e Roma) e timoroso di un generale sovvertimento dell'ordine costituito. Era il segnale che il processo di unificazione nazionale si sarebbe svolto seguendo un'altra direttrice, questa volta legata all'iniziativa della casa di Savoia e del suo governo, l'unico a non rinnegare la stagione riformista del 1846-48.

Quando la repubblica romana si arrese ai francesi nel luglio 1849, i cittadini amanti della legge e dell'ordine fecero omaggio al generale Oudinot di una medaglia e di una spada d'onore per celebrarne la vittoria. Ma da questo momento in poi, la restaurata amministrazione pontificia avrebbe avuto bisogno, per prolungare la sua esistenza, di un regime dispotico e di una guarnigione straniera. I liberali toscani avevano già tolto il potere ai democratici e richiamato al governo il granduca Leopoldo; in maggio la Sicilia fu invasa dai mercenari svizzeri di re «Bomba»; in luglio, i valorosi superstiti delle forze di Garibaldi si rifugiarono a San Marino. Quando, in agosto, cadde dopo un'ammirevole ma disperata resistenza anche la repubblica veneta di Manin, la rivoluzione italiana poté dirsi conclusa. La penisola divenne più che mai territorio d'occupazione, poiché forze austriache controllavano la Toscana e Modena, mentre truppe francesi rimanevano a Roma.
Un'ovvia conclusione era che la grande maggioranza degli italiani aveva anteposto obiettivi locali e parziali di liberazione ad un ideale pur remoto come poteva essere quello di una patria unita. I liberali napoletani avevano usato la forza contro la rivoluzione siciliana; alcuni messinesi avevano preso le armi contro la rivale Palermo; e persino alcuni palermitani erano passati dalla parte di Ferdinando quando erano stati toccati nelle loro proprietà. Coloro che si erano recati come volontari a combattere contro l'Austria si erano battuti valorosamente, ma i volontari erano stati pochi. Le divisioni di classi e regionali si erano rivelate assai più forti del sentimento nazionale: così i più ricchi liberali toscani – Ricasoli, Capponi, Peruzzi – erano assai più vicini al granduca che a Guerrazzi, Montanelli e alla sinistra «socialista»; e quando Venezia, ridotta alla fame, aveva invocato disperatamente aiuto, non aveva ricevuto dal resto d'Italia – secondo quanto afferma Tommaseo – che provviste sufficienti per un solo giorno. Senza dubbio la rivoluzione aveva spesso contribuito a creare un comune senso di «italianità», ma spesso era accaduto quasi l'opposto; e d'Azeglio, Balbo e lo stesso Cavour avevano parlato dei difensori di Roma in termini di sarcastico disprezzo.
La disillusione era inevitabile. La politica che Carlo Alberto aveva sintetizzato nella frase «l'Italia farà da sé» era manifestamente assurda, ed era chiaro che l'unificazione italiana avrebbe dovuto dipendere dall'attivo interessamento di qualche altro stato europeo.

D. Mack Smith, L'Italia, in Storia del mondo moderno, Garzanti, Milano 1982, vol. X, pp. 724-725.

 

 

 

 

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