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FORMAZIONE E SVILUPPO DELLA CLASSE OPERAIA

 

 

FONTI

 

Il programma comunista nell'analisi politica di Karl Marx

Testimone attento della progressiva industrializzazione alla quale stavano andando incontro la società inglese e quella tedesca, Karl Marx affrontò il problema del necessario miglioramento delle condizioni dei lavoratori nella sua opera più conosciuta, Il Manifesto del partito comunista, di cui proponiamo alcuni passaggi. Consapevole dell'inefficacia delle misure proposte dai pensatori socialisti utopisti, Marx parte nella sua analisi dal concetto di lotta di classe. Per raggiungere l'obiettivo dell'emancipazione della classe operaia, egli prefigurava la necessità di una rivoluzione del proletariato (che a suo avviso si sarebbe presto sviluppata in Inghilterra, patria della Rivoluzione industriale). Esito del processo rivoluzionario sarebbe stata l'introduzione di una reale giustizia ed equità sociale all'interno di una società basata sul principio dell'egualitarismo e della comunanza dei beni.

Che relazione passa tra i comunisti e i proletari in generale? I comunisti non costituiscono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai. [ ... ]
I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell'intiero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d'altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l'interesse del movimento complessivo.
In pratica, dunque, i comunisti sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, quella che sempre spinge avanti; dal punto di vista della teoria, essi hanno un vantaggio sulla restante massa del proletariato pel fatto che conoscono le condizioni, l'andamento e i risultati generali del movimento proletario. Lo scopo immediato dei comunisti è quello stesso degli altri partiti proletari: formazione del proletariato in classe, rovesciamento del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato. [...]
Ciò che distingue il comunismo non è l'abolizione della proprietà in generale, bensì l'abolizione della proprietà borghese. Ma la moderna proprietà privata borghese è l'ultima e la più perfetta espressione di quella produzione e appropriazione dei prodotti, che poggia sugli antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni per opera degli altri.
In questo senso i comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest'unica espressione: abolizione della proprietà privata.
È stato mosso rimprovero a noi comunisti di voler abolire la proprietà acquistata col lavoro personale, frutto del lavoro di ciascuno; quella proprietà che sarebbe il fondamento di ogni libertà, di ogni attività e ogni indipendenza personali. Proprietà acquistata, guadagnata, frutto del proprio lavoro! Parlate voi forse della proprietà del piccolo borghese o del piccolo agricoltore, che precedette la proprietà borghese? Noi non abbiamo bisogno di abolirla; l'ha già abolita e la abolisce quotidianamente lo sviluppo dell'industria.
Oppure parlate voi della moderna proprietà borghese privata? Ma che forse il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea a quest'ultimo una proprietà? In nessun modo. Esso crea il capitale, cioè crea la proprietà che sfrutta il lavoro salariato e che non può aumentare se non a condizione di generare nuovo lavoro salariato per nuovamente sfruttarlo. La proprietà nella sua forma odierna è fondata sull'antagonismo fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di questo antagonismo.
Essere capitalista non vuol dire soltanto occupare nella produzione una posizione puramente personale, ma una posizione sociale. Il capitale è un prodotto comune e non può essere messo in moto se non dall'attività comune di molti membri della società, anzi, in ultima istanza, soltanto dall'attività comune di tutti i membri della società.
Il capitale, dunque, non è una potenza personale; esso è una potenza sociale.
Se dunque il capitale viene trasformato in proprietà comune, appartenente a tutti i membri della società, ciò non vuol dire che si trasformi una proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. Esso perde il suo carattere di classe.
Veniamo al lavoro salariato.
Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario, ossia la somma dei mezzi di sussistenza necessari a mantenere in vita l'operaio in quanto operaio. Quello dunque che l'operaio salariato si appropria con la sua attività, gli basta soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo punto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro necessari per la riproduzione della vita immediata, appropriazione la quale non lascia alcun profitto netto, che possa dare un potere sul lavoro altrui. Noi vogliamo soltanto abolire il miserabile carattere di questa appropriazione, per cui l'operaio esiste soltanto per accrescere il capitale e vive quel tanto che è richiesto dall'interesse della classe dominante.

K. Marx - F.. Engels, Il Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 76-77.

 

La posizione della Chiesa cattolica: l'enciclica Rerum novarum

Leone XIII scelse lo strumento di una lettera enciclica, cioè di un documento ufficiale che veniva inviato a tutti i vescovi della cristianità cattolica, per illustrare la posizione di Roma in merito alla questione operaia. Il papa sviluppò un'analisi impietosa e per molti aspetti sorprendente della società del suo tempo. Biasimò sia l'avidità e la sete di profitto connaturate con il capitalismo, una dottrina che spesso anteponeva alla dignità dell'uomo la brama del guadagno, sia la violenza rivoluzionaria racchiusa nella riflessione elaborata dai pensatori comunisti. Nell'analisi di questi ultimi il pontefice individuava alcune insidie che potevano mi-naie in modo irrimediabile la società contemporanea: essa, pur presentando alcuni gravi elementi di iniquità e ingiustizia, non doveva essere completamente sovvertita. Il papa ribadiva la necessità della proprietà privata, definita diritto di natura, e condannava qualsiasi ricorso alla violenza e alla lotta armata. Egli suggeriva piuttosto il costante dialogo fra imprenditori e lavoratori. Insieme però sottolineava la necessità della corresponsione della doverosa "giusta mercede" ai lavoratori e il ricorso allo Stato come supremo arbitro, capace di limitare e ridurre gradualmente le sperequazioni presenti all'interno della società.

Comunque sia, egli è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, essere di estrema necessità venir senza indugio con opportuni provvedimenti in aiuto dei proletari che per la maggior parte trovanti indegnamente ridotti ad assai misere condizioni. Imperocché, soppresse nel passato secolo le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in lor vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che a poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balia della cupidigia de' padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un'usura divoratrice, che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso, sotto altro colore, per fatto d'ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tantoché un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all'infinita moltitudine de' proletari un giogo poco meno che servile.
A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l'odio dei ricchi, pretendono doversi abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mano del Municipio o dello Stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l'uguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono radicalmente riparato il male. Ma questa via, non che risolvere la contesa, non fa che danneggiare gli stessi operai: ed è inoltre per molti titoli ingiusta, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze e gli offici dello Stato, e scompiglia tutto l'ordine sociale.
Ed in vero non è difficile a capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone l'artigiano, è la proprietà privata. Imperocché se egli impiega le sue forze, la sua industria a vantaggio altrui, il fa per procacciarsi il necessario alla vita: e però col suo lavoro acquista vero e perfetto diritto non pur di esigere, ma d'investir come vuole la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie venne a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, l'investì in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima travestita di forma, e conseguentemente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come sa ognuno, consiste la proprietà, sia mobile che stabile. Con l'accomunare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all'operaio la libertà di reinvestire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di vantaggiare il patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la condizione. Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una patente ingiustizia, giacché diritto di natura è la proprietà privata. [ ... ]
Tutte coceste ragioni danno diritto a conchiudere che la comunanza dei beni proposta dal Socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si ha da recar soccorso; offende i diritti naturali di ciascuno; altera gli uffizi dello Stato, e turba la pace comune. Resti fermo, adunque, che nell'opera di migliorar le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto della proprietà privata. Presupposto ciò, esporremo donde si abbia a trarre il rimedio.
Entriamo fiduciosi in questo argomento e di Nostro pieno diritto; giacché trattasi di questione, di cui non è possibile trovare uno scioglimento che valga, senza ricorrere alla religione e alla Chiesa. [ ... ]
Stabiliscasi adunque in primo luogo questo principio, doversi sopportare la condizione propria dell'umanità: tórre dal mondo le disparità sociali, esser cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti; ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Imperocché grande varietà havvi per natura negli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia; non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sì dei particolari, si del civile consorzio.

Le encicliche sociali dei Papi da Pio IX a Pio XII, 1846-1946,
in F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze, Principato, Milano 1979, pp. 80-81.

 

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

 

La riflessione del socialismo utopistico

Nella storia del socialismo utopistico un posto a parte, di notevole rilievo, viene riconosciuto al pensiero di Saint-Simon. È stato definito «utopistico» quel socialismo della prima metà dell'Ottocento che elaborò un progetto di società diversa, più giusta e più libera, non fondandosi sui meccanismi sociali effettivamente esistenti, ma su un ideale astratto, frutto più dei desideri che non dell'osservazione oggettiva dei fatti. Nell'ambito però di questo «utopismo» ci furono teorie che ebbero più influenza di altre e che contenevano un nucleo razionale o, comunque, realistico. Lo storico L. Bortone riconosce queste caratteristiche alla scuola sansimoniana.

Negli anni tra il 1830 e il 1848 le idee [di Saint-Simon] si diffusero in Francia e in Europa soprattutto attraverso la sua scuola improntando di sé un'intera generazione. Il culto della scienza, la mistica del progresso, la religiosità socialisteggiante che costituiscono tanta parte, almeno in Francia, dello spirito del '48, sono di chiara derivazione sansimoniana. Influssi evidenti della sua concezione sono frequenti anche nel movimento democratico del Risorgimento. Lo stesso pensiero del Mazzini, quando sottolineava la fecondità dell'associazione tra capitale e lavoro, il ripudio della concorrenza, o vagheggiava una religione dell'avvenire si ispirava alla sua fonte.

L. Bortone, Il radicalismo utopistico, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 50.

Il pensiero di Saint-Simon non ha avuto importanza solo nell'Ottocento. Anche in epoca posteriore ha incontrato una valutazione positiva, in quanto è stato visto come il precursore di una società tecnocratica, basata sulla scienza e sull'economia. D'altra parte c'è anche in lui una parte mistico-religiosa, non separabile dal resto, come fa osservare L. Bortone.

Moderne Garrenti di pensiero inoltre hanno voluto scorgere nel sansimonismo la prima teoria di una società industriale di tipo moderno. Chi lo ha esaltato come il prodotto di un'eccezionale facoltà di preveggenza, chi invece ha condannato quel che è stato definito come éternel sansimonisme: una concezione sociale cioè, meccanico-quantitativa – di cui il nostro filosofo avrebbe creato il modello –, intesa a costruire e a organizzare con la riga e col compasso l'economia, lo Stato e la società secondo pretese norme scientifiche. Per un giudizio più preciso e equo bisognerebbe separare le penetranti intuizioni di Saint-Simon sulla società del suo tempo dalle ipotesi politiche che volle edificarvi sopra, verificando al metro della fase storica di allora, e di quella successiva, quanto esse fossero attendibili e quanto realizzabili. E bisognerebbe distinguere, nella sua dottrina, le previsioni tecnocratiche dai richiami «religiosi», per fare la loro parte alle une e agli altri: non confondere, insomma, il sociologo col profeta, l'acutezza dell'uno con l'immaginazione dell'altro. Senza dimenticare, tuttavia, che proprio in questa polivalenza, in questa ricchezza contraddittoria di motivi sta il fascino del pensiero di Saint-Simon, e che senza di essa il socialismo moderno sarebbe rimasto privo d' cune delle sue componenti essenziali.

L. Bortone, Il radicalismo utopistico, cit., pp. 52-53.

Il primo pensatore che ebbe un seguito di massa tra gli operai e che fu riconosciuto in certo qual modo come una guida politica fu Louis Blanc. Così scrive infatti a questo proposito G. Luzzatto.

Non si può parlare, prima della rivoluzione del '48, di un movimento socialista a salda base operaia. Le idee dei saint-simoniani, come di tutti gli altri pionieri del socialismo moderno, non erano conosciute che entro una cerchia ristretta. Uno solo dei riformatori, Luigi Blanc, giornalista brillante, efficace espositore delle vicende politiche e sociali del suo tempo, e felice divulgatore di programmi audaci di riforme sociali, riuscì ad acquistare una effettiva influenza. Egli, più che poter essere considerato come un comunista e un collettivista, era il rappresentante di un socialismo sentimentale romantico di fraternità universale. Ma a differenza dei suoi predecessori egli sa sviluppare, nel suo volumetto su L'organisation du travail che, pubblicato nel 1839, ebbe larghissima diffusione, un programma ben determinato e comprensibile, che nei primi mesi della Rivoluzione del '48 fu la guida del movimento socialista parigino. Secondo quel programma il rinnovamento della società dovrebbe raggiungersi con la creazione di «Ateliers Sociaux», in cui i lavoratori riuniti secondo i vari rami di produzione dovrebbero collaborare fra loro, con l'aiuto dello Stato, e fare una concorrenza vittoriosa alla produzione capitalistica. La moltiplicazione di questi Ateliers e la loro federazione dovrebbero costituire la nuova forma di organizzazione del lavoro e sostituirsi sempre più completamente a tutte le forme di sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

G. Luzzatto, Storia economica dell'età moderna e contemporanea, Antenore, Padova 1960, p. 72.

Tra la Rivoluzione francese e la Rivoluzione industriale da un lato e la Rivoluzione del 1848 dall'altro, nei principali Paesi europei fioriscono le critiche al mondo sociale che si viene delineando e le proposte di una sua ricostituzione su principi di solidarietà e di armonia sociale. In questa varietà di posizioni esiste però un comune filo conduttore, un'ispirazione unitaria che viene così messa in evidenza da Regina Pozzi.

È preminente in tutti i socialisti e comunisti utopisti, anche in coloro che non rifiutano a priori l'attività politica, ma ne fanno anzi la via regia per la realizzazione dei loro programmi sociali, l'interesse per il momento dell'organizzazione sociale della vita umana. [...] Questo discorso sulla priorità dell'organizzazione della società rispetto alle forme politiche che la collettività si può dare non nasce nei socialisti utopisti da preoccupazioni filosofiche astratte dal contesto storico in cui si trovano a scrivere e a operare. Nell'età in cui si afferma il capitalismo industriale, strumento dell'espansione economica della borghesia, è ovvio che la loro analisi s'incentri sull'organizzazione del lavoro nella società moderna e sui rapporti di classe che ne conseguono. È ovvio che essi siano presto portati a chiedersi in base a quale legge economica coloro che lavorano e producono non posseggano nulla e siano altri a godere dei benefici del loro lavoro; e di conseguenza, se esista la possibilità di un'organizzazione sociale diversa in cui sia il lavoratore stesso a godere dei frutti del suo lavoro.

R. Pozzi, Il socialismo utopistico, in Il mondo contemporaneo, "Storia d'Europa 3", Sansoni. Firenze 1980, p. 1166.

 

La formazione della classe operaia

Al di là di una serie di caratteristiche comuni alla classe operaia ottocentesca, lo storico italiano Paolo Macry, però, individua numerose differenze di provenienza, di condizioni di vita e di mentalità, che non consentono di ritenerla un insieme omogeneo. Ciò peraltro non impedì che essa si presentasse con un'identità molto forte, cementata da una chiara ideologia di riferimento e dalla comune militanza sindacale.

Le classi operaie moderne si spaccano, al loro interno, a seconda dei settori nei quali lavorano, della quota di specializzazione che posseggono, dei redditi e della continuità occupazionale. Differenze, queste, che nascono nella fabbrica e sul mercato del lavoro e si riflettono poi fortemente a livello sociale, come qualità della vita, tipo di consumi, maggiore o minore scolarizzazione, dimensioni e funzioni dei nuclei familiari, scelte politiche e sindacali, ideologie [...]
Tra specializzati e non specializzati, «artigiani» e labourers, «prime mani» e manovali la divisione è netta almeno fino ai primi del Novecento. La crescita economica non standardizza la qualità del lavoro in modo indiscriminato e rapido. L'industrializzazione, oltre a mantenere in vita numerosi mestieri tradizionali, crea settori dov'è richiesta una quota rilevante di specializzazione, soprattutto nella fase medio e tardo-ottocentesca. Lo sviluppo di attività siderurgico-meccaniche, la nascita della chimica, la comparsa di un'industria elettrica sono tappe a cui corrisponde un aumento deciso dei settori operai qualificati e, parallelamente, un minor peso del settore tessile (caratterizzato da livelli più bassi di qualificazione). Il rafforzamento degli strati medio-alti della classe operaia appare in tutta evidenza nel caso tedesco. La spaccatura tra qualificati e operai semplici riprende d'altronde un'articolazione tipica delle classi lavoratrici prefabbrichiate. Nel tradizionale universo dei mestieri artigiani esistevano sperequazioni nette tra maestri e capibottega e, dall'altra parte, apprendisti e lavoratori senza qualifica. Ed egualmente esistevano gerarchie nette, codificate dagli statuti delle corporazioni, trai diversi mestieri. [...]
Il divario tra specializzati e labourers sopravvive nel livello dei redditi, nella maggiore o minore continuità dell'occupazione, nelle prospettive di sicurezza sociale, nel tipo di lavoro e nel rapporto col padronato, nel modello di vita sociale e nelle relazioni con gli altri gruppi, nelle possibilità di mobilità sociale personali e dei figli.
Le distanze sociali che separano i settori operai alti dal resto delle classi lavoratrici sono spesse superiori a quelle che li separano dalla piccola borghesia.

P. Macry, La società contemporanea, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 249-251.

Le condizioni materiali degli operai risultano in questo modo radicalmente mutate rispetto a quelle generazioni che li avevano preceduti durante la lunga fase del lavoro a domicilio e dell'artigianato. Il moderno proletariato industriale era infatti costretto in un orizzonte sociale sensibilmente diverso. Così scrive Giorgio Mori.

Proveniente, ripetiamolo, da un ambiente nel quale l'unica misura del tempo erano i fenomeni naturali, nessuno gli dava ordini diretti, gli era pur sempre possibile interrompere a piacere il lavoro, alternare il telaio o il filatoio alla cura dei campi o della vacca, vivere isolato e all'aria aperta, l'appartenente alla prima generazione dei proletari di fabbrica dovette affrontare orari di lavoro continuativi e senza fine, obbedire agli ordini di un capo ed a quelli via via più impersonali di un meccanismo o di un sistema di meccanismi [ ... ].
Né, uscito dall'opificio, il lavoratore, adulto o fanciullo che esso fosse, trovava momenti di respiro e sollievo. Le abitazioni, un sostantivo almeno improprio, nelle quali viveva erano fetide catapecchie — già prima della fine del '700 a Manchester si parlava di congestione — tirate su nel più piccolo spazio possibile e su strade strettissime, senza luce né aria e con servizi igienici quasi del tutto carenti. Non può sorprendere perciò che le cronache e le memorie del tempo informino pressoché in continuazione di malattie diffuse, di epidemie, circoscritte ma non meno virulente, nelle città sedi delle nuove industrie e negli immediati dintorni: per quanto vi sia più d'uno a sostenere che, anche per la diffusione del consumo di pane di grano, della patata e del tè — ed in misura minore anche della carne — la resistenza alle malattie ed alla fatica da parte del lavoratore medio si fosse venuta accrescendo nonostante l'asserito, smodato consumo di gin e di birra che in ogni caso — aveva ben ragione Mantoux — era «un risultato oltreché una causa della miseria» delle classi lavoratrici inglesi nel tardo '700.

G. Mori, La rivoluzione industriale, Garzanti, Milano 1974, pp. 137-139.

Se all'origine della formazione della classe operaia va individuato il rapporto con la campagna e il mondo contadino, tuttora controverso è lo schema che vuole i nuovi operai come risultato dell'immigrazione verso le città industriali prodotta dalla crisi delle campagne. Se è infatti assodato che le campagne allontanano quote rilevanti di forza-lavoro, non è altrettanto scontato concludere che siano le città ad accoglierle. Ciò che è stato messo in luce a proposito del caso tedesco da J. J. Lee può in qualche modo essere esteso anche alle altre realtà europee.

L'idea, comunemente accettata, che l'industrializzazione abbia comportato l'emigrazione in massa dei contadini verso le fabbriche, esagera la repentinità dell'adattamento ai ritmi di lavoro imposti dal processo d'industrializzazione. La maggior parte delle migrazioni interne agì sulla breve distanza, sia in senso occupazionale che geografico. Due terzi degli emigrati interni si riversarono verso occupazioni con cui erano già in familiarità. La tendenza a generalizzare sulla base di eccezioni clamorose ha finito per nascondere il fatto che lo spostamento «dalla fattoria alla fabbrica» rappresentava un itinerario di emigrazione piuttosto atipico.

J.J. Lee, La forza-lavoro e l'industrializzazione tedesca, in Storia economica Cambridge, Einaudi, Torino 1979, vol. VII, tomo I, p. 617.

La grande fabbrica, attraverso il progresso della meccanizzazione, determina il livellamento delle precedenti gerarchie professionali, anche se non annulla completamente le differenze tra cittadini e contadini, tra specializzati e manovali, tra skilled e unskilled. A questo proposito gli studi recenti hanno messo in luce come la scomparsa di alcuni «mestieri» tradizionali si accompagni, in particolare nell'industria metallurgica e meccanica, alla nascita di nuove «figure» operaie. Così scrive Andrea Graziosi.

L'industria tessile era stata subito una industria «moderna». La rapida distruzione dell'artigianato, per esempio nella figura dei tessitori a mano, e la creazione di una manodopera di massa, dequalificata, addetta alle macchine, radunata in grandi concentrazioni industriali, andarono in essa di pari passo.
Tra il 1830 e il 1840 in Inghilterra meno di un terzo degli operai di queste fabbriche erano maschi adulti; donne e bambini costituivano la stragrande maggioranza della manodopera. E il loro lavoro era già completamente dequalificato: nel 1833 circa il 47% della forza lavoro adulta vi era pagata con vari sistemi di salario a «risultato», sistemi molto vicini a quelli che conosciamo oggi.
Sembrava allora ci si avviasse rapidamente verso la scomparsa di ogni skill, di ogni qualificazione o abilità nella forza lavoro richiesta dalle nuove fabbriche, e ad un accelerato tramontò dei vecchi mestieri pre-industriali. La macchina da cucire per esempio stava avendo tra sarti, calzolai e, nella industria libraria, tra i rilegatori, lo stesso effetto devastante che il telaio meccanico aveva avuto tra i tessitori. E se era vero che le nuove macchine non diminuivano l'occupazione globale (naturalmente sul lungo periodo, ché sul breve le cose andavano ben diversamente), come si affannavano a dimostrare, contro le rivolte artigiane, i primi «economisti», questi stessi erano costretti ad ammettere, come fece Babbage, che «spesso, purtroppo, la classe delle persone scacciate dalle vecchie occupazioni non è sempre qualificata per le nuove». E sarebbe stato meglio scrivere «dequalificata»: di drammi per interi strati sociali, quindi, lo stesso si trattava.
Ma accanto a questo processo di dequalificazione del lavoro, accanto alla immissione di donne e bambini, di manovali e «uomini di fatica» provenienti dalle campagne nelle fabbriche, un altro processo, e di segno opposto, andava avanti.
Era la nascita dei nuovi mestieri industriali, degli operai skilled. Nascita appunto, ché nel loro caso non si trattava assolutamente della sopravvivenza di vecchie figure: dopo il 1850 è un errore pensare che sia la bottega artigiana il baluardo contro il processo di degradazione del lavoro. Per i 50 anni successivi in USA, e più a lungo in Europa, quel baluardo fu la grande fabbrica meccanica, l'acciaieria. Le nuove macchine infatti richiedevano «un aumento nella skill di coloro che fabbricavano e le riparavano, e di coloro che inizialmente ne sovraintendevano al funzionamento», come notava Babbage, e «coloro» erano i nuovi ope- rai skilled.

A. Graziosi, Lavoro, salario, potere nella fabbrica americana di fine Ottocento, in "Rivista di storia contemporanea", 1980, n. 1, pp. 507-508.

Se la classe operaia risulta così essere una realtà storica complessa e stratificata, allo stesso modo non può essere definita esclusivamente in base a considerazioni di tipo economico e sociologico, ma anche di tipo culturale. Così ha sostenuto E. P. Thompson.

Il nascere della classe operaia è un fatto di storia politica e culturale oltre che economica. Essa non fu una generazione spontanea del sistema di fabbrica; né la «rivoluzione industriale» agì come forza estranea su un generico e indifferenziato materiale umano, trasformandolo, al termine del processo, in un «nuovo tipo d'uomo». No, i rapporti produttivi e le condizioni di lavoro tipici della rivoluzione industriale vennero imposti non a una materia grezza, ma agli «inglesi nati liberi» cresciuti alla scuola di Tom Paine o forgiati dal metodismo. L'operaio di fabbrica, o il calzettaio, era anche l'erede di Bunyan, di non dimenticati diritti di villaggio, di concetti di eguaglianza di fronte alla legge, di tradizioni di mestiere; oggetto di un massiccio indottrinamento religioso da un lato, esso fu il creatore di nuove tradizioni politiche dall'altro. La classe operaia «si fece» almeno nella stessa misura in cui «venne fatta».

E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano 1969, vol. I, p. 194.

 

Il problema dei rapporti tra capitale e lavoro. La Prima Internazionale

Molti sono i vantaggi della Rivoluzione industriale, del liberalismo e del capitalismo nel campo economico e politico, gravi le ripercussioni nel campo sociale. All'ombra di uno Stato deliberatamente agnostico, la classe padronale, approfittando della crescente disoccupazione, poté imporre agli operai condizioni di lavoro e di salario insopportabili. Ben presto la miseria, lo sfruttamento, l'ingiustizia e la carenza di una legge protettrice affratellarono le classi lavoratrici con propositi rivoluzionari.
Si delinearono problemi nuovi e preoccupanti: il padrone ha il diritto d'imporre all'operaio condizioni arbitrarie di lavoro? di retribuirlo a sua discrezione? di sfruttarlo? gli operai hanno il diritto di organizzarsi per difendersi dagli abusi dei datori di lavoro? è legittima la proprietà privata? lo Stato può rimanere estraneo ai conflitti tra capitale e lavoro?
Sensibili ai pericoli del preoccupante contrasto, molti sociologi, in nome di ideologie diverse, proposero soluzioni che nel tempo hanno avuto ripercussioni politiche decisive.
Questo è l'inizio di una delle più nobili lotte della società umana, tendente ad assicurare al proletariato, sia pure in modi diversi, i diritti alla giustizia sociale, alla dignità umana, al lavoro e alla libertà reale.
La critica più radicale e rigorosa del capitalismo venne formulata da Karl Marx. Nella sua opera che ebbe forse maggiore diffusione, il Manifesto del partito comunista, redatta insieme a F. Engels nel 1848, Marx, nel mettere in rilievo la funzione storica progressiva svolta dalla borghesia nell'abbattere il sistema feudale e nell'accrescere, fino a livelli mai raggiunti prima, lo sviluppo delle forze produttive, affermava che il sistema capitalistico, basato sulla proprietà privata e sul profitto, era di ostacolo alla futura espansione dell'industria, in quanto non era più in grado di realizzare la piena utilizzazione dei mezzi di produzione e, soprattutto, aggravava irreversibilmente le condizioni materiali di vita della nuova classe da esso creata, il proletariato. Al capitalismo andava pertanto sostituito un nuovo sistema sociale, «il comunismo», caratterizzato dall'abolizione della proprietà privata, causa fondamentale delle ineguaglianze di classe, e dalla socializzazione dei mezzi di produzione.
Soggetto di questo processo rivoluzionario, cui si doveva giungere con la lotta di classe, era il proletariato, il cui compito storico si sarebbe esaurito con l'avvento della «società senza classi».
La prospettiva marxista doveva immediatamente affermarsi presso le organizzazioni operaie europee e ridurre via via l'influenza ideologica dell'anarchismo e del pensiero di Pierre-Joseph Proudhon. Primo risultato della lotta politica e ideologica sostenuta dalla corrente marxista va considerata la costituzione della Prima Internazionale, sorta a Londra nel 1864.
La vita della prima organizzazione su base internazionale degli operai e contadini socialisti fu segnata da aspri contrasti, che dovevano pregiudicare la sua capacità di presa sulle masse e intralciare la sua attività pratica. La conseguente debolezza organizzativa viene sottolineata da G. D. H. Cole, autore di un'importante Storia del pensiero socialista.

Tra il '64 quando era sorta e il '69 quando toccò l'acme del suo sviluppo, l'Associazione internazionale dei lavoratori aveva ufficialmente compiuto molto cammino sulla via verso il socialismo. La battaglia contro i proudhoniani era stata decisamente vinta, dato che la nazionalizzazione della terra era un concetto che essi rifiutavano nel modo più assoluto di accettare. La Lega per la pace e la libertà [fondata da democratici e radicali] che aveva minacciato di affermarsi come un centro di attività internazionalista capace di far concorrenza all'Internazionale e di sottrarle seguaci, era stata frantumata. L'Alleanza di Bakunin si era dissolta come organismo internazionale, riducendosi, quanto alla forma almeno, a una semplice sezione-propaganda della sezione svizzera dell'Associazione. In una quantità di paesi c'era stato un grande sviluppo del movimento sindacale, e molti scioperi vittoriosi erano stati condotti, se non dall'Internazionale, perlomeno in modo tale che il suo prestigio n'era stato accresciuto. Il nome dell'Internazionale era divenuto noto, e temuto, in una larga parte dell'Europa, e l'organizzazione continuava a espandersi rapidamente, soprattutto in Spagna e in Italia. In Germania, ad Eisenach, era nato un Partito socialdemocratico che, pur non potendo ancora aderire formalmente all'Internazionale, faceva prevedere che avrebbe strettamente collaborato con essa. Infine, malgrado le polemiche fra centralisti e autonomisti, il Consiglio generale, dominato da Marx, aveva ottenuto poteri molto ampi anche se non chiaramente definiti, sulle sezioni locali e nazionali fra un congresso e l'altro e a questo si era arrivati grazie all'appoggio dello stesso Bakunin. In complesso, dunque, per quanto brontolasse in privato, Marx aveva, badando ai fatti esteriori, ottime ragioni per essere contento. Se non lo era, le cause della sua insoddisfazione erano da ricercarsi sotto la superficie delle vicende correnti, e si trattava di cause che non avevano ancora serie ripercussioni sull'attività dell'Internazionale. Nondimeno, esse già gli opprimevano la mente e minacciavano guai per il futuro. In primo luogo, era svanita del tutto la prospettiva di una prossima insurrezione irlandese, che per Marx costituiva il necessario presupposto di una rivoluzione in Gran Bretagna.
[ ... ] In secondo luogo, i dirigenti dei sindacati inglesi avevano ottenuto la desiderata riforma parlamentare, o perlomeno un acconto sufficiente perché si preoccupassero più dell'uso da fare della loro nuova influenza politica che non della rivoluzione, in patria o all'estero. Per giunta essi erano ormai quasi sul punto di ottenere il riconoscimento giuridico dei diritti sindacali, e la lotta parlamentare diretta a garantire questi diritti li assorbiva sempre di più, mentre per un altro verso tutto stava a indicare che il Reform Act avrebbe prodotto una ricca messe di legislazione sociale e industriale.
Stando così le cose, erano molto meno disposti a prestare ascolto ai consigli di Marx di quanto non erano stati nel periodo della lotta per la riforma. Marx, da parte sua, si rendeva ben conto che il suo controllo sull'Internazionale dipendeva interamente dalla sua capacità di manovrare i membri inglesi del consiglio generale. Eccezion fatta per gli inglesi, egli non aveva infatti quasi alcun seguito in seno all'Internazionale. Una effettiva sezione tedesca non c'era. Nella Francia che conosceva aveva scarsi appoggi, non potendo contare su Varlin più che su Tolain come obbediente discepolo. La Spagna e l'Italia, per quel peso che potevano avere, erano bakuniniste: certamente non marxiste. In Svizzera pensava di poter contare su Becker e su pochi altri tedeschi; ma anche lì l'influenza di Bakunin era forte, e la destra, a Ginevra e altrove, era alleata ai progressisti borghesi. Il Belgio aveva una propria linea, che non era certo quella di Marx. E questo era tutto. Fino al 1869 egli era riuscito a dominare l'Internazionale perché i dirigenti delle Trade Unions erano lieti di dare a lui e al suo gruppetto di esuli tedeschi una sorta di assegno in bianco sugli affari continentali; ma ora intuiva che questa fortunata compiacenza non era destinata a durare. Infine, e questa è la cosa più importante, Marx doveva sapere molto bene come la forza dell'Internazionale fosse più apparente che reale, e con quanta facilità l'infocata folata di una guerra avrebbe potuto spazzarla via quasi del tutto.

G. D. H. Cole, Storia del pensiero socialista, Laterza, Bari 1967.

L'anarchismo, che rappresentò, fino al 1872, l'ideologia antagonistica al marxismo in seno alla Prima Internazionale, ebbe una rapida e profonda diffusione nelle realtà europee economicamente più arretrate e meno industrializzate, quali la Spagna e l'Italia. Nello Rosselli ha così riassunto la proposta ideologica formulata dall'anarchico russo Michail A. Bakunin.

Vana fatica è quella di spingere le classi privilegiate a mitigare le sofferenze dei nullatenenti; esse non risolveranno mai il problema perché non potranno mai rinunciare al loro privilegio. Necessità fondamentale è invece quella di abolire tali classi, non sopprimendo gli individui, ma sopprimendo il privilegio. Molti pensano che ciò significhi uccidere nell'uomo il più forte stimolo al lavoro; ma questo è vero solo nell'attuale società che considera sommo bene la possibilità di vivere senza bisogno di lavorare e una dannazione il lavoro: nella società futura il lavoro sarà considerato un bene necessario, un bisogno naturale, irresistibile nell'uomo, legge suprema della vita, poiché sarà un lavoro misurato, giustamente retribuito, conforme alle attitudini individuali. Per rovesciare l'attuale organizzazione sociale bisogna spingere le masse alla rivoluzione; lasciare cioè che nello sfogo degli istinti lungamente repressi, nello scatenamento completo e irrefrenabile degli impulsi popolari si facciano luce il nuovo ideale umano e il nuovo ordinamento sociale. Nel vortice dell'esperimento le moltitudini ignoranti si renderanno conto delle nuove necessità di vita, determinate dal- la rovina dei vecchi ordinamenti sociali.
Bakunin cerca tuttavia di tracciare le grandi linee della organizzazione futura: la quale, in primo luogo, permetterà a ogni individuo di chiarire e sviluppare con ogni mezzo a disposizione le proprie abitudini. Abolita la proprietà privata, reso obbligatorio il lavoro, la formazione e l'esistenza di una classe dominatrice non saranno nemmeno concepibili.
Il lavoro intellettuale verrà considerato un complemento, libero a tutti e gratuito, dell'attività manuale, necessaria per vivere. Poiché tutti dovranno lavorare manualmente, tutti lavoreranno un poco meno di quanto non siano costretti a fare i proletari d'oggi; a ciascuno resterà perciò la possibilità di dedicarsi a un'attività non necessaria.
La libertà sarà il principio informatore della nuova società, che si ordinerà dal basso in alto: nuclei di individui spontaneamente riunitisi concorreranno a formare delle associazioni di produzione; queste a formare i comuni, i comuni a formare le provincie, le provincie a formare la nazione. Le nazioni si uniranno fra loro in una lega dapprima limitata all'Europa, che più tardi si estenderà a tutto il mondo. S'intende che la Lega delle nazioni non dovrà associare quegli organismi centralizzati e centralizzatori, burocratici, militari, fondati sul privilegio e l'ingiustizia, che sono le odierne nazioni; il fondamento e lo spirito di ogni nazione si trasformeranno in base al principio rigeneratore del socialismo.

N. Rosselli, Mazzini e Bakunin, dodici anni di movimento operaio in Italia. 1860-1872, Einaudi, Torino 1967.

 

Sindacati e Partiti socialisti come partiti di massa

Il grande sviluppo dell'industria e dell'urbanesimo corrispose anche a una fase di crescita dell'organizzazione operaia. Si rafforzarono i sindacati e nacquero numerosi Partiti socialisti di ispirazione marxista nei diversi Stati europei, quasi ovunque superando l'ideologia anarchica che era stata invece ben presente alcuni decenni prima. Così lo storico Giampiero Carocci descrive questo periodo.

Il grande sviluppo delle città, del commercio e dell'industria si tradusse in una estensione — sempre più o meno parziale — degli elementari diritti democratici, dell'istruzione, del benessere a masse di cittadini (operai e, ancor più, strati sociali intermedi) che fino allora ne erano stati esclusi, e si tradusse altresì nell'affermarsi del movimento operaio organizzato nei partiti e nei sindacati. Fra il 1875 e il 1898 nacquero numerosi partiti socialisti o socialdemocratici di ispirazione marxista: in Germania (che rimase fino al 1914 il modello dei partiti degli altri paesi), Belgio, Spagna, Italia, Russia e altri paesi ancora. Nel 1889 fu fondata la II Internazionale. Fino a grosso modo il 1885-90 i partiti e i sindacati non organizzarono la totalità degli operai, ma solo quelli qualificati, di cui c'era penuria rispetto ai bisogni crescenti dell'industria, e coi quali, per questo motivo, i ceti imprenditoriali e le classi dirigenti dell'Europa occidentale (non della Russia) erano disposti a largheggiare in concessioni: allargamento del suffragio elettorale, legislazione sociale, istruzione pubblica. D'altra parte, gli operai qualificati videro aumentare la loro forza contrattuale in una misura che consentì loro di volgere a proprio profitto la diminuzione dei prezzi e di tradurla in un aumento dei salari reali. L'operazione si concluse con un successo non solo per gli operai qualificati ma anche, e anzi soprattutto, per le classi dirigenti che erano riuscite ad indurre il movimento operaio a rinunciare all'azione diretta rivoluzionaria e ad abbracciare la strategia elettorale. Non a caso nell'Europa occidentale i partiti socialisti si affermarono emarginando gli anarchici. Da allora il partito, il sindacato e l'azione elettorale furono i tre punti di forza, evidenti soprattutto in Germania ma non limitati a questo paese, del movimento operaio.

G. Carocci, L'età dell'imperialismo, Il Mulino, Bologna 1969, pp. 120-121.

In Italia la prima forma di associazionismo operaio fu costituita dalle società di mutuo soccorso; lentamente si passò alle leghe di resistenza, che diedero vita agli scioperi per rivendicare migliori condizioni di lavoro e di salario. Momento importante fu la nascita del Partito operaio italiano nel 1882, in quanto contribuì a dare un nuovo contenuto, non solo solidaristico, ma anche rivendicativo, all'associazionismo operaio. Dora Marucco illustra efficacemente questo passaggio.

La nascita del Partito operaio italiano nel 1882, il suo sforzo per impiantare società mutualistiche di tipo nuovo e la lotta dei socialisti all'interno di quelle esistenti per conquistarle e trasformarle, danno origine a una diversa fase nell'associazionismo operaio. Lo stesso Partito operaio nasce da una scissione in seno alla società dei Figli del lavoro per estendere il mutuo soccorso anche al campo della resistenza. Le nuove società escludono i padroni e i borghesi, si articolano in modo da superare il mutuo soccorso come unico obiettivo della loro azione, affrontano il problema della lotta contro il padrone e contro lo sfruttamento. Tuttavia il cammino è lento e l'acquisizione della dimensione politica nell'associarsi tra soli operai non si traduce immediatamente nel codificare le rivendicazioni e nell'organizzare la resistenza. Infatti verso la fine degli anni ottanta nascono ancora le società di miglioramento che mirano alla mutua assistenza, alla solidarietà, alla revisione delle condizioni economiche e morali degli associati, ma che non contemplano la resistenza. In esse il socio è organizzato in quanto lavoratore di una data categoria (arte o mestiere) che riconquista poi la solidarietà con gli altri lavoratori attraverso l'adesione delle società al partito.
Il passaggio alle leghe di resistenza è provocato dalle lotte e soprattutto dagli scioperi. Quanto c'è di nuovo negli statuti di queste società, che per il resto ricalcano quelli più avanzati del mutuo soccorso, è legato al motivo da cui prendono origine: la solidarietà come morale politica fondamentale; l'individuazione della fabbrica come il luogo in cui deve esercitarsi il compito di assistere, difendere e organizzare l'operaio; la rivendicazione di quanto attiene più specificamente al lavoro in fabbrica, cioè diminuzione e rispetto degli orari, aumento del salario e abolizione del cottimo; il governo della lega attribuito agli operai.

D. Marucco, Sindacati: dalle origini al fascismo, in Il mondo contemporaneo, "Storia d'Italia 3", Sansoni, Firenze 1978, p. 1226.

In Inghilterra il sindacalismo si era affermato fin dalla prima metà dell'Ottocento con le famose Trade Unions, che si erano qualificate come una organizzazione forte e combattiva. Più lento fu il processo di formazione di una struttura politica che nacque dalla fusione di due esperienze: dall'associazionismo operaio e da gruppi socialisti costituiti in parte da intellettuali di origine borghese, come scrive Adele Massardo Maiello.

Il processo che condusse, il 27-28 febbraio 1900, alla fondazione, nella Memorial Hall di Londra, del Labour Representation Committee (Lrc) — così si chiamò in origine il Labour Party — fu ingenerato da due forze diverse sia, in parte, per le loro origini sia, soprattutto, per gli obiettivi che si proponevano. Una era costituita da quel complesso multiforme di associazioni sindacali, in cui era organizzato il mondo del lavoro inglese, unito, così come lo era stato per il passato, dalla necessità di una rappresentanza politica, che per molti non era niente più che una difesa corporativa degli interessi di settore. L'altra forza, di più recente formazione e spesso di matrice borghese (come la Fabian Society), era costituita dal gruppetto delle società socialiste che avevano fatto proprie le sollecitazioni di Engels, Eleanor Marx, Aveling ed altri ed erano state stimolate dall'esempio americano per un partito politico indipendente promanante dalla classe operaia.

A. Massardo Maiello, Labour party, in Il mondo contemporaneo, "Storia d'Europa 2", Sansoni, Firenze 1980, p. 485.

 

I Partiti socialisti e la Seconda Internazionale

Alla fine dell'Ottocento ormai in tutti gli Stati europei si erano costituiti Partiti socialisti che partecipavano alle elezioni, mandavano i loro rappresentanti al Parlamento e, in alcuni casi, discutevano anche della opportunità o meno di partecipare a governi "borghesi". Furono i socialisti i primi a costituire il moderno partito di massa organizzato in modo capillare sul territorio attraverso le sezioni, in grado di mobilitare la sua struttura nelle campagne elettorali, nelle manifestazioni, nelle lotte. Il primo e più importante di questi partiti fu quello socialdemocratico tedesco, nato nel 1875. La sua efficienza organizzativa, i suoi successi elettorali, l'unità della sua ideologia identificantesi con il marxismo gli diedero una grande influenza, anche se non poté essere imitato là dove esistevano altre tradizioni ed esperienze. All'inizio del Novecento i vari Partiti socialisti europei, pur nella loro diversità, avevano alcuni obiettivi comuni: il superamento del sistema capitalistico e la gestione sociale dell'economia; la solidarietà internazionale e la pace; la partecipazione attiva alle lotte operaie del proprio Paese; l'adesione alla Seconda Internazionale.
Il ruolo del Partito socialdemocratico tedesco è sottolineato da Massimo Salvadori, che vede nello sviluppo di questa forza politica e nella sua crisi, quando, nel 1914, aderì alla guerra, contraddicendo l'orientamento pacifista proprio del socialismo, uno dei nodi storiografici della storia operaia europea.

È quasi un luogo comune l'affermazione che la socialdemocrazia tedesca, nell'età della Seconda Internazionale, sia assurta al ruolo di «partito guida» del movimento socialista internazionale. Ampiamente riconosciuto all'interno di quest'ultimo, come ha messo in luce con particolare efficacia Georges Haupt, il primato della socialdemocrazia tedesca, in quanto problema, è diventato uno dei nodi centrali della riflessione storiografica, che ha cercato di spiegare le motivazioni del suo sorgere, del suo sviluppo e infine della sua crisi nel 1914. Riflessioni, quelle condotte dagli storici delle varie tendenze, percorse sovente da una corrente, per così dire «ad alta tensione», alimentata dalle passioni e posizioni politiche dei singoli storici; i quali si sono trovati e si trovano sotto l'inevitabile condizionamento del «trauma» dell'agosto 1914, allorché la socialdemocrazia perse d'un colpo quanto conservava della propria immagine di partito della rivoluzione sociale e assunse il volto e il ruolo di partito «integrato» e nazionale.

M. L. Salvadori, Socialdemocrazia tedesca: dalla fondazione all'avvento del nazismo,
in Il mondo contemporaneo, "Storia d'Europa 3", cit., p. 1121.

La Seconda Internazionale (nata nel 1889) e i Partiti socialisti costituirono un rapporto abbastanza significativo, in quanto, pur nell'autonomia dei singoli partiti garantita dalla forma federativa dell'associazione, i principali dibattiti che animarono la vita del socialismo europeo fino alla prima guerra mondiale ebbero sede nelle riunioni dell'Internazionale socialista. Autonomia nell'azione politica, unità nel confronto teorico furono i caratteri dell'associazione messi opportunamente in rilievo da Franco Andreucci.

Nata a Parigi nel luglio 1889, in occasione dell'Esposizione universale organizzata a cento anni di distanza dalla presa della Bastiglia, la sua data di nascita [della II Internazionale] si colloca al centro di quell'arco temporale che vede realizzarsi il processo di formazione dei moderni partiti socialdemocratici di massa. Le sue prime fasi di esistenza sembrarono infatti sancire piuttosto la realtà della conquistata autonomia e indipendenza del movimento socialista dei singoli paesi che non la volontà di individuare una linea politica o una strategia comune: le uniche forme di collegamento internazionale, fino al 1900 quando fu creato il Bureau socialiste international (Bsi), furono rappresentate unicamente dai congressi — i «parlamenti internazionali della classe operaia», si diceva allora — che, nonostante i buoni propositi e le decisioni collettive si tennero senza una precisa periodicità. Il tema dell'autonomia delle scelte fu sempre sottolineato esplicitamente e ampiamente, ed anche dopo la creazione del Bsi le forme di collegamento rimasero sempre rispettose di questo principio. Anzi, spesso i contemporanei lamentarono che all'adozione di ordini del giorno e proclami comuni — per la giornata lavorativa di otto ore, contro la guerra e il militarismo — non facesse poi seguito un'azione comune e coordinata per realizzarne gli obiettivi.

F. Andreucci, La seconda Internazionale, in Il mondo contemporaneo. Politica Internazionale, Sansoni, Firenze 1979, p. 178.

 

La posizione della Chiesa cattolica

Di fronte agli sviluppi del movimento operaio di ispirazione anarchica e socialista, e ai larghi consensi da questo raggiunti presso le masse operaie e contadine d'Europa, la Chiesa cattolica non si mostrò indifferente. Al contrario essa venne sollecitata ad affrontare la «questione sociale» e a intervenire con una propria presenza organizzativa sui problemi posti dall'industrializzazione, allo scopo di evitare il rischio di alienarsi quell'influenza da tempo consolidata presso gli strati popolari.
Al fine di contrastare la propaganda e l'attivismo del movimento operaio, si formarono così organizzazioni «cristiano-sociali» che ebbero il riconoscimento e la legittimazione della funzione fino a quel momento sviluppata dall'enciclica papale Rerum novarum, emanata da Leone XIII nel 1891. In questo testo veniva condannato il socialismo, riconfermato il diritto di proprietà privata, respinto il principio della lotta di classe e affermata la necessità della collaborazione tra capitale e lavoro.
Il valore di questo documento e il significato che ebbe per le correnti cattoliche europee, impegnate sul terreno sociale, è stato acutamente sintetizzato da Gabriele De Rosa, profondo conoscitore del movimento cattolico italiano.

Quando uscì la Rerum Novarum non era per nulla pacifico tra i cattolici che si potesse invocare l'aiuto dello Stato per la tutela dei diritti degli operai e nemmeno era pacifico quale dovesse essere il salario dell'operaio. Incertezze regnavano anche attorno al principio della libertà di associazione; infinite erano le discussioni tra i sostenitori dell'unione professionale semplice e dell'unione professionale mista. In tutti i modi era prevalente la concezione paternalistica, che faceva discendere dall'alto l'iniziativa della costituzione delle unioni professionali. La Rerum Novarum rappresentò un aiuto formidabile per coloro che non volevano lo Stato assenteista, e per quanti chiedevano che i cattolici si impegnassero di più nell'organizzazione dei mezzi di difesa degli operai dalla legge inesorabile del profitto. L'enciclica non dava soluzioni definitive, non sceglieva tra unioni professionali semplici e unioni professionali miste, ma ribadiva il diritto di libertà di associazione e ricordava che il diritto di associazione traeva origine dalla natura stessa intrinsecamente socievole dell'uomo: perciò l'associazione, pure esistendo nell'ambito dello Stato, non deduceva il suo diritto all'esistenza dal riconoscimento dello Stato.
Tutte le correnti democratiche cristiane europee ricevettero impulso dalla Rerum Nova rum, si sentirono confortate nella loro azione tendente a provare che il prete, il cattolico militante non era dalla parte del padrone e che non avrebbe lasciato l'operaio e le plebi rurali senza difesa. [ ... ]
La redazione dell'enciclica leoniana fu affidata a uomini di forte preparazione filosofica, come il gesuita Matteo Liberatore e il cardinale Tommaso Zigliara, autori rispettivamente del primo e del secondo schema. Matteo Liberatore aveva già pubblicato nel 1889 il suo volume Principi di economia politica, in cui aveva raccolto gli articoli economici a comparire nella «Civiltà cattolica» dal 1888. Ma la rivista aveva intrapreso a trattare i problemi dell'economia fino dal 1857, con il Taparelli che sostenne che l'economia non poteva consistere in una scienza soltanto dell'interesse privato. [ ... ]
Uno dei punti più tormentati nell'elaborazione dell'enciclica fu quello relativo alla misura del salario e al salario familiare, come si evince dalle modifiche e soppressioni che si registrano nel passaggio dal primo schema a quelli seguenti. Il primo schema era molto più avanzato della stesura definitiva, che risente delle indecisioni, dei dubbi e delle discussioni che allora dividevano su tale questione i cattolici.

G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all'età giolittiana, Laterza, Bari 1970.

Anche per lo storico Alberto Torresani la Chiesa riuscì a elaborare una risposta chiara e coerente, attraverso il suo magistero, nei confronti della questione sociale e dei rapporti con capitalismo e mondo operaio. Lo fece attingendo allo straordinario deposito di esperienza accumulato nel corso del XIX secolo da parte di numerosi vescovi, titolari di diocesi segnate da una profonda industrializzazione, che avevano cercato, con le loro direttive pastorali, di trovare soluzione ai gravi problemi di conflittualità sociale manifestatisi in quegli anni.
Torresani intende sottolineare che la posizione sintetizzata da papa Leone XIII nella sua enciclica Rerum novarum ebbe il merito enorme di presentare un modello di uomo e di lavoratore concepito nella sua interezza, nella totalità dei suoi bisogni materiali e, allo stesso tempo, spirituali, allargando dunque gli orizzonti dell'ideologia marxista, che lo aveva inteso nella sola dimensione di homo oeconomicus.

 

Il movimento cattolico di fronte ai nuovi problemi della società

L'enciclica di Leone XIII suscitò quindi un intenso dibattito all'interno del mondo cattolico attorno al problema della questione sociale. In Italia il maggior studioso di problemi sociali fu Giuseppe Toniolo, che, forse perla sua preparazione nel campo dell'economia politica, non si limitò a enunciare i principi generali del pensiero sociale cattolico, ma elaborò una serie di precise e concrete proposte politiche. Così a questo proposito scrive Candelore.

Dopo 1'87 cominciò a occuparsi intensamente di organizzare l'attività di studio dei cattolici nel campo sociale, l'uomo che i cattolici italiani considereranno poi come il loro maggiore teorico: Giuseppe Toniolo. Nato a Treviso nel 1845, datosi agli studi di filosofia del diritto e poi di economia politica, il Toniolo nel 1883 era divenuto professore ordinario di economia politica all'Università di Pisa. Cattolico fervente, egli non aveva però partecipato attivamente alla vita delle organizzazioni cattoliche. La sua prima presa di posizione importante nel campo politico-sociale si ebbe nel 1888 e consistette in un lungo scritto, che egli pubblicò anonimo nell'organo ufficiale dell'Opera dei Congressi col titolo: Ragioni e intendimenti degli studi e dell'azione sociale dei cattolici d'Italia.
In questo scritto il Toniolo, dopo una lunga trattazione, molto astratta e dogmatica sui principi generali dell'economia cristiana, afferma che il problema sociale può essere risolto soltanto istituendo corporazioni di padroni e di lavoratori, organizzate gerarchicamente e riconosciute dallo Stato. Ma, accanto a questa presa di posizione teorica, egli avanza una serie di proposte concrete, che dovrebbero costituire gli obiettivi dell'azione immediata dei cattolici nel campo sociale. Esse sono: riposo festivo; esclusione delle donne e degli adolescenti dal lavoro in certe industrie; limitazione massima assoluta (in misura però non specificata) dell'orario lavorativo, soprattutto per le donne e gli adolescenti; difesa delle medie imprese, delle piccole industrie e delle industrie casalinghe; difesa della mezzadria e dell'enfiteusi1; maggior protezione data dallo Stato all'agricoltura piuttosto che all'industria; affermazione teorica della necessità di fissare un salario minimo, ma fissazione legale di questo solo in casi eccezionali; proibizione della rescissione senza preavviso dei contratti di lavoro; adozione del salario «a compito», piuttosto che del salario «fisso a tempo», e corresponsione di una parte del salario in «modo indiretto» (mediante alloggi gratuiti, versamenti per assicurazioni, pensioni ecc.); istituzione di quote addizionali dei salari, a titolo di partecipazione agli utili, da corrispondersi mediante premi annuali nelle annate favorevoli; istituzione di probi viri, scelti da padroni e da operai, per dirimere controversie salariali; costruzione di case operaie; diffusione di enti di beneficenza; istituzione di banche popolari. Inoltre il Toniolo proponeva una lotta contro l'assenteismo dei proprietari terrieri, contro il «lusso smodato» dei ricchi ed anche contro le «spese immorali, sproporzionate e ruinose» delle «classi inferiori». Infine egli affermava la necessità di una «costante corrispondenza fra lo sviluppo effettivo dei bisogni nella società e il progresso della ricchezza sociale» ed auspicava a tale scopo, sia un aumento della popolazione «continuo e insieme temperato» (da favorirsi mediante leggi, «le quali, mentre avvalorino la formazione di famiglie patriarcali, agevolino e proteggano il celibato religioso»), sia un incremento dell'emigrazione (da proteggere mediante «società caritatevoli di patronato degli emigranti»). D'altra parte il Toniolo chiedeva che la piccola proprietà fosse difesa, non solo grazie ad un regime tributario moderato, ma anche per mezzo di norme di diritto successorie intese a garantire l'«inscindibilità del piccolo patrimonio avito» e per mezzo dell'assegnazione di un «minimum di proprietà immobile da dichiararsi intangibile di fronte a terzi creditori, compreso il fisco». Ma accanto alla difesa della piccola proprietà, il Tomolo chiedeva «il mantenimento o ricostituzione del patrimonio ecclesiastico, delle opere pie e in qualche misura ancora dei comuni e del demanio, ecc., ed il novello riconoscimento della rispettiva inalienabilità»: questo egli voleva, non solo «per ragioni principali di giustizia», ma anche per dare alle «popolazioni campagnuole non proprietarie», mediante lunghi e stabili legami contrattuali con gli enti proprietari di quei beni, una garanzia di sicurezza.

G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 237-238.

1 L'enfiteusi è il diritto di godere dei frutti di un fondo altrui, rispettando però l'obbligo di apportarvi migliorie e di pagare un canone periodico in denaro o in natura.

In questo contesto di studi e di iniziative nacque dunque l'enciclica di Leone XIII, che ebbe come conseguenza quella di rendere più estesa e più incisiva l'attività dei cattolici in campo sociale, come scrive Candelore.

Quando nel 1891 fu pubblicata la Rerum novarum, l'attività dei cattolici nel campo degli studi sociali si era dunque notevolmente intensificata, ma, salvo qualche eccezione, l'attività pratica dei cattolici stessi rimaneva ancora estranea al movimento operaio. Questo d'altra parte proprio in quel torno di tempo compiva degli importanti passi avanti, i quali certo ebbero un'influenza decisiva nello spingere Leone XIII ad emanare quell'enciclica, che già da alcuni anni egli aveva promessa. Il Papa e i suoi consiglieri compresero che, di fronte a fatti come la fondazione della Seconda Internazionale, l'agitazione mondiale per le otto ore di lavoro, le prime celebrazioni internazionali della festa del Primo Maggio, l'unificazione delle forze socialiste in nuovi partiti avviata in molti paesi (fra cui l'Italia), l'intensificazione dei movimenti sindacali con l'attiva partecipazione ad essi in alcuni paesi di larghi strati di contadini, la Chiesa doveva prendere una posizione, che valesse a mettere in moto l'attività dei cattolici in direzione dei lavoratori e al tempo stesso avesse una forte ripercussione anche fuori degli ambienti cattolici.

G. Candelore, Il movimento cattolico in Italia, cit., pp. 239-240.

Lo storico Guido Verucci, mentre conferma un giudizio diffuso, tra storici di varia tendenza, che l'enciclica Rerum novarum sia nata sia sotto la spinta di un movimento teorico presente nel mondo cattolico, sia come reazione ai Partiti socialisti, mette in luce l'influenza cattolica nel mondo contadino italiano.

[Lo] sforzo [di creare una base di massa] si produceva negli anni in cui cominciavano ad avvertirsi nelle campagne, tra le popolazioni contadine, le gravi conseguenze della trasformazione in senso capitalistico dell'economia, e anche, in particolare, gli effetti della crisi agraria provocata dalla concorrenza in Europa del grano americano. Esso si manifestò nella creazione di società di mutuo soccorso, e soprattutto di un vasto movimento cooperativistico nelle campagne, nell'ambito del quale l'organizzazione più importante era quella delle casse rurali. Queste ultime rappresentarono con i loro prestiti, negli anni della crisi agraria, un valido sostegno per affittuari e coltivatori diretti. Così il movimento sociale cattolico, nato per prevalenti ragioni opportunistiche, finì per rappresentare, in alcune zone dell'Italia settentrionale, specie nel Veneto e nella Lombardia, interessi reali di una parte dei ceti popolari, in particolare di strati contadini piccoli e medi. Insieme con l'organizzazione pratica del movimento sociale cattolico, procedeva anche un certo lavoro teorico. Nel 1889 l'economista Giuseppe Toniolo fondò a Padova l'Unione cattolica per gli studi sociali in Italia, che tenne alcuni congressi, e che nel 1893 ebbe il suo organo nella «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie». Il programma dell'Unione, che aveva come motivo centrale e qualificante l'idea di costituire corporazioni di imprenditori e lavoratori riconosciute dallo stato, mentre rifletteva da un lato, con la netta preferenza data all'agricoltura sull'industria, le antiche rivendicazioni cattoliche preborghesi e antindustrialistiche, prevedeva dall'altro una serie di misure aventi lo scopo di correggere alcune fra le conseguenze più gravi del sistema capitalistico. Questa attività teorica e programmatica dei cattolici italiani s'inseriva in un movimento assai più vasto e intenso che si era da qualche tempo sviluppato fra i cattolici di di- versi paesi europei, in Germania, Austria, Francia, Svizzera, Belgio e Inghilterra.
È in questo movimento che ebbe il suo retroterra culturale e la sua giustificazione l'enciclica Rerum novarum, emanata da Leone XIII nel 1891. L'enciclica ribadiva la condanna del socialismo riaffermando la proprietà privata come diritto naturale; sottolineava però la necessità di tutelare alcuni elementari diritti e bisogni dei lavoratori, sostenendo perciò il dovere dello stato di intervenire nel campo economico-sociale; pur mantenendo come obiettivo ideale la costituzione di associazioni miste, incoraggiava nell'immediato la formazione di società operaie cattoliche, per impedire alle associazioni di diversa ispirazione di far proseliti anche fra i lavoratori cattolici. L'enciclica, che fu considerata una sorta di carta del cattolicesimo sociale, ebbe il merito d'incrementare l'organizzazione dei movimenti cattolico-sociali nei paesi nei quali essa era già in fase avanzata, e di stimolarla in quei paesi come l'Italia in cui essa era invece in ritardo.

G. Verucci, Il Movimento cattolico dall'unità al fascismo, in Il mondo contemporaneo, "Storia d'Italia 2", cit., p. 670.

Gli anni del pontificato di Leone XIII (1878-1903) furono di importanza decisiva, secondo lo storico cattolico Francesco Traniello. Non stupisce quindi che i giudizi storici siano ancora controversi, a seconda che siano diretti a sottolineare i fattori di novità rispetto alla tradizione, oppure a metterne in luce gli aspetti di conservatorismo. Il contributo di Traniello consiste nell'impostare un'indagine che pone il movimento cattolico in stretta relazione con la dinamica sociale e politica di quegli anni. Il periodo a cavallo dei due secoli è infatti contrassegnato dal ruolo egemone delle borghesie europee, ormai definitivamente vittoriose rispetto alle residue forze dell'Antico Regime e disponibili a cercare nuove alleanze con il mondo cattolico in funzione antisocialista. Questo fu anche il momento storico di affermazione dei partiti di massa del movimento operaio, di lotte sociali che rivendicavano più giuste condizioni di lavoro e maggiore giustizia nella distribuzione delle risorse. Si profila così, di fronte al movimento cattolico, una duplice esigenza: da un lato, quella di ridefinire la propria posizione di fronte agli Stati liberali e alle borghesie nazionali; dall'altro, quella di assumere un preciso atteggiamento di fronte alle rivendicazioni popolari, riqualificando la propria politica sociale. Entrambe queste esigenze poi si accompagnavano a una necessità di autonomia, che induceva a evitare i rischi di subalternità impliciti in entrambe le scelte. Di qui la complessità della situazione e la presenza di orientamenti diversi nel mondo cattolico. Così dunque scrive Traniello a proposito del pontificato di Leone XIII.

L'estrema complessità di quel pontificato e la varietà delle valutazioni che lo riguardano si spiegano con la sua collocazione nella congiuntura storica in cui giunge al massimo grado l'impulso egemonico delle borghesie europee, ormai consolidate alla testa degli stati nazional-liberali, e apparentemente vincitrici nella lotta secolare condotta contro l'egemonia ecclesiastica; ma in cui, per altro verso, sono grandemente cresciute le forze sociali, ideologiche e alla fine politiche antagonistiche rispetto a siffatta egemonia borghese. A ben guardare, è appunto lo sviluppo di tali forze antiegemoniche ad aprire spazi nuovi d'azione alla chiesa: e ciò sia nel senso che le borghesie dominanti ne risultano più fortemente sollecitate a riconsiderare l'indispensabile opera stabilizzatrice della chiesa, seppure in funzione subalterna, sia nel senso che il conflitto sociale sollecita, nella chiesa e nel mondo cattolico, un rilancio e una riconversione delle originarie istanze critiche verso l'assetto liberale sul piano politico e capitalistico, sul piano economico-sociale.

F. Traniello, Chiesa e Stati, in Il mondo contemporaneo, "Storia d'Europa 4", Sansoni, Firenze 1981, p. 1472.

L'associazionismo cattolico di carattere economico-sociale ebbe un momento particolarmente importante con la nascita del movimento della Democrazia cristiana di Romolo Murri. Vari sono i giudizi dati dagli storici di questo movimento che, secondo Traniello, può essere considerato come un partito in via di formazione. Secondo gli studiosi di orientamento liberale, esso è considerato come la permanenza dell'intransigenza cattolica di tipo ottocentesco, frutto di una precisa volontà di separazione dallo Stato liberale; secondo gli storici di orientamento cattolico-democratico è piuttosto il risultato dell'incontro fra una scelta sociale intransigente e una continuità della tradizione cattolico-liberale del primo Ottocento; per i marxisti è invece il frutto della ricomposizione di un blocco borghese di orientamento clerico-moderato. L'avvento al pontificato di Pio X ebbe comunque l'effetto di spegnere qualunque tentativo di affermazione di un autonomo movimento cattolico di ispirazione riformatrice, come sottolinea Traniello.

Anche per l'Italia ci si è chiesti, nel corso di un ampio dibattito storiografico, se gli esiti della prima democrazia cristiana debbano essere considerati come il prolungamento in campo politico dell'intransigentismo ottocentesco (Fonzi, Spadolini), o se non si debba piuttosto vedere in essi il frutto dell'incontro tra intransigentismo sociale e fermenti politico-ideologici di origine cattolico-liberale (Scoppola), oppure ancora se non debbano, essere letti sotto il segno di un'affermazione complessiva di un più vasto blocco egemonico borghese, di intonazione complessivamente clerico-moderata (Rossi). Secondo che tale processo di accostamento e di inserimento dei cattolici nel quadro istituzionale dello stato liberale venga inteso in termini essenzialmente classisti, cioè come ricomposizione e consolidamento di un blocco dominante (Candelore, Rossi), ovvero come un faticoso e positivo processo di maturazione politico-ideologica (Fonzi, De Rosa, Scoppola), mutano ovviamente anche i termini di valutazione del fenomeno. Nel primo caso i cattolici, passando per l'esperienza democratico-cristiana ma approdando generalmente al elenco-moderatismo, si sarebbero limitati a offrire le basi di massa a una classe politica liberale in crisi di egemonia e scossa dall'ascesa del socialismo. Nel secondo caso si sarebbe comunque trattato di un'aurorale trasformazione in senso democratico del l'assetto borghese e oligarchico dello stato liberale e della società italiana.

F. Traniello, Chiesa e Statí, cit., p. 1476.

 

 

 

 

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