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DESTRA STORICA E SINISTRA

 

 

FONTI

 

La riflessione di G. Giolitti

Giovanni Giolitti analizza la strategia politica degli uomini della Destra storica, valutandone gli errori e sottolineandone le differenze rispetto alla sensibilità degli esponenti della Sinistra. Egli riconosce nei leader della Destra il merito di aver risollevato la situazione finanziaria del Paese, anteponendo alla ricerca della popolarità la necessità di adottare una doverosa politica di rigore.
Essi diedero prova di energia e di consapevolezza della gravità delle condizioni generali del Regno d'Italia; al di là dell'onestà personale, però, fece loro difetto l'attenzione verso i bisogni delle masse popolari. La loro politica consentì di evitare la bancarotta e restaurò le finanze statali, ma colpì pesantemente le già precarie condizioni economiche popolari.

Gli uomini che avevano formato e dominata l'antica Destra erano stati indubbiamente uomini egregi, ed anche di grande valore; veri patrioti la cui condotta era dettata da austeri sentimenti civici e da motivi superiori. Erano anche gente seria e che possedeva notevole competenza per il governo della cosa pubblica nei suoi vari campi. [...] Ebbero però il torto di non preoccuparsi sufficientemente delle condizioni delle province più povere ed arretrate, e specie del Mezzogiorno. Già anzitutto avevano fra loro pochi meridionali, essendo quasi tutti piemontesi e lombardi [ ... ]. Erano poi tutti degli idealisti, le cui concezioni si fondavano su una cultura generale europea, lontana dalle miserie materiali e morali delle popolazioni da cui erano usciti. [ ... ] La Destra, nella sua preoccupazione, del resto giustissima, del bilancio, metteva imposte dove poteva, curando una rigorosa riscossione; e, si sa, il mettere imposte e riscuoterle severamente non concilia la popolarità. Uno dei fatti che concorse in quel torno a indebolire la Destra, fu l'imposta sul macinato, odiatissima specie nelle campagne, tanto che vi suscitò tumulti; la quale era stata fatta approvare con legge da Cambray-Digny ed applicata poi molto energicamente da Sella e Minghetti. Altro coefficiente nella caduta della Destra era stato il trasporto della capitale da Firenze a Roma. Firenze, danneggiata, reclamava indennizzi, ed il governo, pure riconoscendo le ragioni della città, andava a rilento nel concederli, perché appunto non voleva compromettere il pareggio, a cui si era sforzato per tanto tempo e con tanta industria, ed il cui raggiungimento appariva molto prossimo. [...] In conclusione questo si può dire, che la Destra cadde parte per ragione delle sue stesse virtù, parte per certe sue deficienze. Essa aveva lavorato lungo tempo per dare al nuovo Stato un bilancio in pareggio e metterlo al sicuro della minaccia del fallimento; il raggiungimento stesso di questo scopo fu per un verso ragione della sua caduta; in quanto sorse allora il concetto che si potesse iniziare una politica economica nuova, cioè una politica di spese per le regioni che ne avevano più bisogno; concetto il quale entro certi limiti era pure giustificato. [ ... ] Alla formazione della Sinistra trionfatrice avevano concorso in prima linea i meridionali, specie sotto l'impulso del Nicotera, che fu uno dei primi capitani nella grande battaglia; poi i toscani secessionisti dal loro vecchio partito, poi i garibaldini, gli zanardelliani ed in genere tutti gli elementi di temperamento e di tendenze culturali democratiche, sino ai radicali, che rappresentavano allora l'estremismo. Questo movimento della Sinistra, oltre che per motivi di carattere personale e di rivalità di capi, aveva anch'esso le sue profonde ragioni politiche: mentre la Destra rappresentava una cultura astratta ed una competenza particolare più alta, il pregio della Sinistra e la sua forza stavano nel fatto di meglio rappresentare lo stato d'animo delle masse popolari, che cominciavano a risvegliarsi contro il dominio degli ottimati, sia pure degnissimi, e mostravano di volere prendere maggior parte nella cosa pubblica, adottando le dottrine e seguendo gli uomini ed i partiti che aprivano loro la strada. Del resto si comprende che un partito il quale aveva governato per sedici anni in mezzo a gravissime difficoltà di ogni genere si fosse logorato e indebolito; fra l'altro gli riusciva difficile di raccogliere reclute nuove di valore; i giovani di ingegno più vivace essendo attratti, come accade sempre, verso i partiti di opposizione. Infine vi erano dissensi interni, fra conservatori rigorosi di vecchia scuola, quali L Cantelli e il Cambray-Digny, ed uomini di spirito più democratico e più aperti alle idee nuove, quali il Sella ed il Lanza.

G. Giolitti, Memorie della mia vita, Treves, Milano 1922.

La strategia del Depretis

Nell'ottobre del 1882, alla vigilia delle elezioni politiche, il primo ministro Agostino Depretis, al governo da sei anni, tracciò un bilancio del suo esecutivo, in questo discorso tenuto nel suo collegio elettorale di Stradella (Pavia).
Alla Sinistra liberale riconosceva il merito di aver saputo interpretare i bisogni e le necessità delle classi popolari, del ceto proletario e delle plebi meridionali. In particolare sottolinea l'introduzione dell'istruzione elementare obbligatoria, il varo della riforma elettorale, la promozione dell'inchiesta agraria affidata al senatore Jacini, che aveva messo a nudo le durissime condizioni di gran parte del mondo contadino.
Pur dimostrando una notevole sensibilità nei confronti della cosiddetta “questione sociale”, Depretis si muoveva però nell'ambito di una chiara strategia politica liberale, riconoscendo la necessità di una stretta collaborazione al miglioramento delle condizioni del mondo rurale e operaio da parte delle classi più agiate.
Anche gli uomini della Sinistra, al pari degli esponenti della Destra, avevano nel credo liberista il loro costante punto di riferimento.

Un altro delicato argomento è quello che si vuol chiamare la questione sociale. È un problema elevato, formidabile, urgente; riguarda le condizioni delle moltitudini che posseggono solo l'attitudine al lavoro. È quella che chiamano in Germania ed in Inghilterra questione operaia, e noi la dobbiamo chiamare la questione del proletariato, o, a parlar più chiaro, la questione dei contadini e degli operai dei nostri opifici; di quei moltissimi che hanno il diritto cittadino, domestico, familiare e la libertà del lavoro, e i cui rapporti cogli abbienti, coi possessori delle terre, coi padroni dei capitali e degli strumenti del lavoro, non sono determinati che dalla libera concorrenza, cioè dal vantaggio che gli abbienti traggono dal concorso dei nullatenenti, i quali, di riscontro, non hanno alcun mezzo per obbligare gli abbienti a valersi del loro lavoro, quando possono farne senza: da una parte, si direbbe un calcolo di guadagno, dall'altro, un impero di necessità. Siffatta questione, o signori, non giova illudersi, s'impone e bisogna affrontarla. Essa non può essere sciolta per sapienza del Governo, il cui principale ufficio [ ... ] consiste nel rimuovere gli ostacoli; la questione non può essere sciolta che per virtù di popolo (Benissimo!). Vi è una formola pratica, o signori, la quale può affrettare, può condurre con passo regolarmente accelerato alla soluzione del problema, ed è questa; che i più fortunati, i più sapienti, i più potenti pensino a sollevare ai vantaggi della vita civile le classi più numerose e più povere. Questa è la formola di carità sociale, che deve tradursi per parte del Governo, nell'altra, scritta nello Statuto, la giustizia è eguale per tutti. Noi, o signori, abbiamo fatto quanto era in nostro potere e non mancheremo di continuare l'opera nostra per adempiere a quest'obbligo d'ogni Governo civile, di accrescere sempre più, a favore del maggior numero, i vantaggi intellettuali, morali e materiali della convivenza civile. Fu ordinata per legge una grande inchiesta sull'agricoltura e sulle condizioni delle classi agricole. Un'altra fu da me iniziata amministrativamente sull'igiene pubblica, che merita tutta l'attenzione del legislatore. Quest'inchiesta ci valse già preziosi materiali di studio, e gitta nuovi sprazzi di luce sopra un vitale argomento che in altri paesi affatica da lungo tempo scienziati e legislatori. [ ... ] Nelle città e nelle campagne intere famiglie vivono agglomerate in squallide tane; ogni principio di igiene è loro ignoto od impossibile; non buone acque potabili, non aria sana, nessuna applicazione, insomma, di quelle discipline che sono destinate a diminuire la mortalità, e a far sì che l'uomo cresca sano e robusto, secondo le leggi di natura. Connessa intimamente al grande problema che ho indicato è sempre la questione tributaria e quella, pur soggetta ad inchiesta, sul patrimonio dei poveri, sugli istituti di beneficenza. [ ... ] Le menti in Italia, come in molti paesi, sono volte più che mai all'esame di tutte le questioni che si riferiscono all'aumento della produzione agricola e manufatturiera, ed a quelle che riguardano la condizione dei contadini e degli operai. [ ... ] L'intervento governativo non può da solo sciogliere le questioni sociali, né portare alla loro soluzione il maggiore contributo. Le forze morali, di cui vi ho parlato, e lo svolgersi sempre più rapido della produzione ci può avviare ad un miglioramento del benessere individuale e sociale.

A. Depretis, Discorsi politici e parlamentari,
in F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze, Principato, Milano 1971.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

Il governo della Destra

All'indomani dell'unità d'Italia i democratici avevano proposto di riunire un'Assemblea Costituente, eletta dal popolo, che avrebbe dovuto indicare le soluzioni dei problemi istituzionali, amministrativo, finanziario e sociale, ma i moderati nella paura di preoccupanti sorprese, con la scusa dell'immaturità del popolo, estesero all'Italia lo Statuto albertino, che garantiva gli interessi della borghesia da ogni pericolo di trasformazioni sociali.
Malgrado ciò, la Destra operò quasi sempre con grandissimo rigore in un contesto storico estremamente delicato, sia sul versante della politica estera sia su quello della politica interna, come sostenne Ruggero Bonghi nel 1865.

È onesto riconoscere l'alto valore dei governanti che in pochi anni seppero fare di un'accozzaglia delle più eterogenee popolazioni uno Stato con un debito e un credito unico, con leggi e imposte uniche, con un'amministrazione unica, con un solo esercito e con una sola marina e che dimostrarono di possedere quella che il d'Azeglio chiamava, a ragione, una delle qualità più rare dell'uomo di Stato, l'amore del- l'impopolarità, in forza del quale seppero vincere, per il bene del paese, gli affetti più radicati e contrastare le idee più lusinghiere; seppero quello che nelle rivoluzioni è più difficile e il più raro a sapere: non farsi prendere dai capogiri e tenere salda in condizioni difficilissime l'autorità del governo.

R Bonghi, Come cadde la Destra, Treves, Milano 1929.

È fuori di ogni discussione, per il Bonghi, che tutti quei governanti non approfittarono di un soldo dello Stato né sfruttarono le cariche per il loro interesse personale.

Cavour lasciò il suo patrimonio non poco diminuito da quello che aveva innanzi; al Farini, morto alla vita del pensiero, dovette lo Stato pagare i debiti e assegnargli una pensione di gratitudine nazionale, perché fosse provveduto alle sue necessità. Fanti, che aveva amministrato il ministero della guerra nel tempo delle più grandiose spese, lasciò ai figli una rendita di mille lire. In fatto di moralità pubblica e di onestà individuale non credo che l'Italia sia inferiore alle altre nazioni, e su questo non ammetto né privilegio né monopolio a favore di tale o tal'altro partito e molto meno di una o di altra provincia.

R. Bonghi, Come cadde la Destra, Treves, Milano 1929.

Dopo il 1876 un altro rappresentante della Destra, Silvio Spaventa, ne mise con onestà in evidenza i difetti.

Uno degli errori da noi commesso fu di non intender bene quale vasta classe di persone e d'interessi noi offendevamo col semplice fatto della sostituzione del governo nazionale ai governi preesistenti; e come, poiché ci eravamo recata in mano la vittoria, bisognava attirare con oneste e benevole arti quella numerosa classe di cittadini nella cerchia delle nuove istituzioni. Questi elementi municipali o retrivi, naturalmente, covavano nell'anima un'avversione profonda ai nuovi ordini, che li rendeva disposti ad associarsi a qualunque specie di opposizione rivolta contro il governo, e con tanto maggior ardore quanto quella fosse meno misurata e meno cosciente della sua responsabilità. Pur riconoscendo l'utilità grande che il nuovo Stato avrebbe potuto ricavare da quelle forze, di loro natura conservatrici, non sapemmo attirarle nell'orbita dell'influenza e, sbigottiti quasi dalle grida che ad ogni piccolo segno di pacificazione e di oblio la Sinistra alzava: dàlli ai retrogradi, e simili, le respingemmo sempre più lontano da noi, per chiuderci nel cerchio delle influenze liberali con le quali avevamo vinto.

S. Spaventa, La politica della Destra, Laterza, Bari 1910.

L'aver fatto entrare uomini e leggi del Piemonte nell'amministrazione dello Stato italiano è ritenuto da Spaventa una fatalità, ma anche un bene.

Il Piemonte per la parte precipua che aveva avuta nei sacrifici e nella politica con cui l'Italia era stata fatta, diventò naturalmente, con le sue leggi, coi suoi uomini e con le sue armi, il centro di tutta l'organizzazione del nuovo regno; questa preponderanza, però, fu forse il fattore più energico della nostra unificazione.

S. Spaventa, La politica della Destra, Laterza, Bari 1910.

Il problema della strutturazione amministrativa del Regno d'Italia

Circa la struttura amministrativa del nuovo Stato, alla corrente accentratrice piemontese s'opposero molti rappresentanti di altre regioni, che in nome di storia, geografia, economia e tradizioni chiesero a Cavour un'amministrazione regionale. Il ministro piemontese incaricò Luigi Farini di preparare un progetto di autonomia amministrativa che non mettesse, però, in pericolo l'autorità dello Stato; raggiunta l'unità politica, tuttavia, Cavour, informato meglio delle intenzioni di alcune personalità, rivide il proprio atteggiamento e si convinse che allora, nelle condizioni morali e sociali in cui si trovava specialmente l'Italia meridionale, era necessaria un'amministrazione accentrata.
Dopo la sua morte, il problema fu riproposto dal ministro Minghetti, che diceva che il decentramento amministrativo, impegnando i cittadini all'esercizio dei pubblici poteri nelle varie regioni, ne avrebbe sviluppato il senso di responsabilità civile e sociale e li avrebbe educati alla libertà.
La pubblicistica autonomistica del tempo interpretò l'accentramento come espressione della volontà del Piemonte di assoggettare le altre regioni; il risentimento contro il piemontesismo raggiunse così forme estreme, fino al punto che Giuseppe Ferrari chiamò «ultima invasione barbarica» l'azione svolta dai piemontesi nell'unificazione d'Italia. Carlo Cattaneo, più serenamente, scrisse che l'accentramento avrebbe fatalmente distrutto le libertà locali a vantaggio di un'onnipotente quanto incompetente burocrazia ministeriale.
La lotta sul piano parlamentare si concluse con l'approvazione di un ordine del giorno di Bettino Ricasoli, che, respinta l'amministrazione decentrata perché «presupponeva o l'idea di un'unione federale o una meno ferma fede nell'unità della Patria», ordinava il Regno in 59 province, amministrate dai Prefetti, rappresentanti del governo centrale. Votarono a favore dell'amministrazione accentrata i deputati di molti Collegi elettorali, convinti che i singoli Comuni sarebbero stati più autonomi dipendendo dal governo centrale che da Milano, Firenze, Napoli, Palermo, abituate per lunga tradizione a soffocare la vita dei piccoli centri. Invece, a Bologna molti professori non vollero riconoscere il nuovo Stato, i napoletani dissero che Torino, «la meno italiana delle città», non aveva il diritto di essere la capitale, e rifiutavano le banconote settentrionali, i toscani lamentarono che i piemontesi pensavano e parlavano alla maniera francese, il siciliano Crispi affermò che l'amministrazione del nuovo Stato spettava ai meridionali, «di gran lunga più progrediti in materia di codici dei piemontesi».
Sul piano storico, anche a distanza di molti anni, la soluzione ha provocato le più opposte reazioni.
Benedetto Croce ha definito l'ordinamento accentrato il cemento dell'unità nazionale.

Il piemontesismo, per effetto del trasferimento della capitale prima a Firenze e poi a Roma, per l'afflusso d'impiegati da ogni parte d'Italia e per il rimescolamento tra essi, passò, e con esso caddero molti dei malumori contro l'accentramento. Il quale non dové pesare troppo, né essere troppo disforme dall'indole e dai modi di vita delle popolazioni, se la polemica in proposito rimase dottrinale e non si concretò mai in chiare e urgenti richieste di riforme e le parole «decentramento» e «autonomia» riecheggiarono nei programmi dei vari partiti come un ritornello che si ripeteva e al quale nessuno prestava fede e dava un senso determinato. Della burocrazia si usò far la satira, non più e non meno che di ogni altra professione; ma la satira non è giudizio e il giudizio comincia quando si considera che tutto il lavoro allora e poi ideato dagli uomini di governo italiano fu eseguito appunto dalla burocrazia, il cui miglioramento qualitativo si accompagnò a quello generale del paese, scelta come fu solitamente per concorsi, con sempre maggiori requisiti di cultura, e fornita di dignità morale assai maggiore al confronto degli impiegati dei vecchi governi.

B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1929.

Lo storico Raffaele Romanelli, ha sottolineato come la scelta centralistica adottata nel 1862-65 dalla Destra storica fosse la logica conseguenza di una classe dirigente sospettosa nei confronti dei rischi connessi alla concessione di una larga autonomia politica e amministrativa.
La disgregazione dello Stato unitario appariva un'ipotesi realistica: il risentimento delle masse poteva esplodere in forme anche violente.

Nelle pagine che seguono cercheremo di delineare i tratti assunti dal processo di costruzione delle identità territoriali nel caso italiano a partire dall'unità. L'unificazione costituisce infatti un punto di svolta essenziale in questa materia, non già perché il secolare processo di formazione dello Stato non avesse precedenti nella penisola, ma anzi perché ne aveva di assai robusti, i quali però riguardavano unità territoriali sub-nazionali, che l'unificazione ridusse alla condizione regionale, con ciò rendendo ancor più difficile e problematico il loro inserimento nel nuovo contesto nazionale. Nel corso del Risorgimento non si erano verificati quei fenomeni che spazzano via i poteri costituiti per fondarne di nuovi, come una sollevazione di popolo o una decisa conquista militare, né si era posto mano, con l'unità, a un'azione costituente. L'adozione di un ordinamento che regolasse i rapporti tra centri e periferie del nuovo Regno dovette perciò tener conto non soltanto dei problemi legati all'inserimento non rivoluzionario delle società locali nel nuovo ambito nazionale e alla loro aumentata distanza dal nuovo centro – fosse esso Torino, Firenze, e infine Roma – ma anche di quelli che già rendevano complessi i rapporti tra periferie e centri all'interno dei vecchi Stati. Va detto subito che altre esperienze storiche potevano suggerire soluzioni di tipo federale. L'ipotesi, cara a certi settori del pensiero democratico avanzato nella fase risorgimentale, rimase per questo stesso motivo del tutto minoritaria. In astratto, avrebbero potuto spingere in quella direzione la forte caratterizzazione istituzionale e la profonda individualità storica degli organismi statuali preesistenti, elementi che come vedremo giocarono invece a favore della soluzione opposta. Perché ci possa essere federazione, occorre una convergenza di volontà che mancò del tutto nel Risorgimento italiano, così come mancò una decisa determinazione conquistatrice da parte della Corona e dell'élite sabauda, che nell'unificazione fu guidata piuttosto da una cauta resa alla forza delle cose, da una volontà di moderazione e di patteggiamenti. Mancando dunque sia un'autonoma spinta alla fusione, sia una decisa volontà conquistatrice, si dette vita a un ordinamento allo stesso tempo accentrato, perché sospettoso dell'autonomo potere della periferia, e debole, perché poco convinto delle proprie capacità progettuali.

R. Romanelli, Centralismo e autonomie, in Storia dello Stato italiano, Donzelli, Roma 1995, pp. 125-126.

Le finanze

Il nuovo Stato doveva costruire ferrovie, strade, acquedotti, porti, servizi pubblici, uffici centrali e periferici, scuole, tribunali, ampliare l'esercito, la polizia, il personale amministrativo, e non solo non aveva i mezzi, ma era pieno di debiti.
Il Regno s'era dovuto accollare il debito degli Stati annessi, che, aggiunto a quello più grave del Piemonte, suscitava fortissime preoccupazioni nei governanti e sfiducia nella popolazione e negli Stati stranieri.
Il bilancio era quasi fallimentare, d'altronde lo Stato non poteva fare assegnamento sulla produttività del Paese, agricola ed arretrata né sulle primitive industrie o sugli scarsi commerci. La dura realtà del bilancio diceva:

Anno

Entrate (mil. £)

Uscite (mil.£)

1862

480,26

926,72

1863

524,18

906,52

1864

576,45

944,01

1865

645,68

916,40

1866

617,13

1.338,58

Il debito pubblico nel 1861 era di 2.450 milioni, nel 1866 era più che raddoppiato; nello stesso periodo furono emessi tre grandi prestiti di circa un miliardo e 370 milioni di lire; lo Stato fu costretto a vendere i suoi titoli al tasso d'interesse dell' 8%, elevatissimo in un periodo nel quale praticamente non esisteva inflazione. I circoli finanziari internazionali davano come fatale il fallimento del Regno. Il fatto assumeva gravità estrema poiché significava l'incapacità del nuovo State di esistere e la necessità di ritornare al vecchio sistema degli Stati regionali.
Quindici anni dopo, nel 1876, il governo italiano poté annunciare il pareggio del bilancio: «L'Italia», scrisse un testimone oculare, Achille Plebano, «aveva risolto il più difficile problema che mai si sia presentato nella vita di un popolo». Gli storici hanno riconosciuto l'opera altamente meritoria dei governi di queste periodo, al cui coraggio l'Italia deve la sua salvezza.

Eroica certamente quest'opera fu – commenta Eugenio Scalfari – se s'ha riguardo alla forza d'animo eccezionale e alla perseveranza di cui diedero prova, in varia guisa, i varii governi e ministri, eroica soprattutto in riferimento al contribuente che dovette sopportare, e freddamente sopportò per salvare l'onore del suo Paese, sacrifici durissimi. Ma se l'aggettivo volesse premiare una pretesa attitudine della classe politica di quel periodo a saper attuare coraggiosamente provvedimenti radicali che, pur sottoponendo la nazione a dolorose astinenze, potessero però condurla verso uno stabile assetto della pubblica economia, è tempo di dire che tale espressione è del tutto immeritata e non corrisponde al vero.

E. Scalfari, La politica finanziaria della Destra, in "Nuova Antologia", luglio 1947.

L'affermazione di Scalfari si riferisce ai metodi, ben diversi, dei due maggiori ministri delle finanze della Destra, Marco Minghetti e Quintino Sella.
Nutrito di profonda cultura scientifica, umanistica, storica, filosofica, giuridica ed economica, Minghetti non sentì il problema del bilancio esclusivamente in termini scientifici e tecnici, ma ne considerava anche gli aspetti umani, morali e giuridici.
Sella, piemontese dal temperamento duro e dal carattere intransigente, ingegnere minerario, mentalità analitica e pratica, guardava i problemi finanziari nella loro fredda realtà e negli effetti immediati, soltanto come problemi di cifre; mirava esclusivamente all'interesse dello Stato. Sella fissò la mente al pareggio a tutti i costi; nel Sud accrebbe la miseria, il malcontento, il brigantaggio e suscitò insurrezioni; seguì la tattica degli espedienti momentanei, cioè la riduzione dei lavori pubblici, la cessione ai privati delle ferrovie, la vendita dei beni ecclesiastici, l'emissione frequente di Buoni del Tesoro, l'anticipazione dell'imposta fondiaria e del prezzo dei beni demaniali, le ritenute sugli stipendi degli impiegati statali, l'aumento dell'imposta sui fabbricati e sulla ricchezza mobile, l'abolizione di qualsiasi franchigia doganale e la più rigida osservanza dell'economia “fino all'osso” in tutte le spese statali. Completò la sua opera introducendo una grande quantità di imposte indirette, fermo sul principio. Sella non considerava che un pareggio durevole può, realmente raggiungersi solo quando l'equilibrio tra entrata e spesa avvenga sulla base delle forze economiche e non con metodi che deprimono tali forze.
Scalfari attribuisce a questi errori il ritardo dello sviluppo economico del nuovo Stato.

Resta da chiedersi se l'asprissima tassazione sui redditi e sui patrimoni, aggravata oltremodo dai prelievi della finanza locale, praticata dal Sella, non abbia rallentato e in parte soffocato sul nascere le possibilità di progresso economico del Paese, impedendo un'adeguata capitalizzazione e deprimendo al massimo grado la formazione del reddito privato.

E. Scalfari, La politica finanziaria della Destra, in "Nuova Antologia", luglio 1947.

Marco Minghetti per la larga cultura umanistica, per la lungimiranza, per la mentalità organica e unitaria, alla politica degli espedienti momentanei sostituì il criterio del piano razionale, organico ed equilibrato, fondato su tre princìpi:
a) grandi imposte dirette – equamente distribuite – sui fabbricati, sulla ricchezza mobile e sulla perequazione fondiaria;
b) esame rigoroso dei bisogni necessari della nazione per vedere su quali spese effettivamente si potessero fare economie;
c) inventario completo delle risorse dello Stato.
Si propose di sanare il bilancio gradualmente, distinguendo le spese ordinarie, che voleva coprire con entrate ordinarie fissate con esattezza, organicità e razionalità, dalle spese straordinarie che intendeva superare con prestiti, Buoni del Tesoro, con la vendita dei beni demaniali e dei beni della Cassa ecclesiastica e, in caso estremo, con la cessione delle ferrovie dello Stato e con il blocco dell'ammortamento dei beni di tutti gli enti morali. A differenza di Sella, egli cercò la possibilità di alimentare il Tesoro senza gravare molto sulle spalle dei contribuenti. Questo era l'inizio di una nuova politica, diversa da quella di Sella, dal quale si allontanava ancora per i mezzi che intendeva usare per sanare il disavanzo ordinario: riforme dell'organismo dello Stato, riduzioni di spese attraverso leggi organiche sul decentramento alle province e ai comuni di parecchie attribuzioni appartenenti al governo, semplificazione dei conteggi dell'amministrazione centrale, eliminazione di molte spese superflue, unificazione delle imposte dirette, riordinamento razionale delle imposte indirette sui redditi di ricchezza mobile, sui dazi di consumo e sul conguaglio dell'imposta fondiaria.
Così il Minghetti egli riassume la sua politica finanziaria.

Io dico che il nostro proposito deve essere di risparmiare al possibile il contribuente: bisogna camminare senza posa verso il pareggio ma procedere alla riforma lenta e graduata sì dell'ordinamento giudiziario, sì del sistema amministrativo nel senso di dare maggiore qualificazione agli affari, e di lasciare il massimo numero possibile alla decisione degli interessi locali. Bisogna trovare modo che province e comuni non continuino ad aggravare i contribuenti senza posa, perché sarebbe inutile che se ne astenesse lo Stato se essi li facessero. Il contribuente, l'individuo è quello cui bisogna pensare dandogli sicurezza, libertà, amministrazione facile e vicina, e ciò con quell'aggravio che gli sia possibile di sopportare.

M. Minghetti, Carte Minghetti, cartone n. 30, in "Biblioteca dell'Archiginnasio" di Bologna.

La questione meridionale

All'indomani dell'unità, Cavour intuì l'importanza della questione meridionale; il suo piano faceva dell'Italia meridionale l'epicentro del commercio mediterraneo e pertanto prevedeva l'istituzione di scuole tecniche, l'industrializzazione delle attività produttive con aiuti statali, la costruzione di strade, ferrovie e acquedotti. Nello stesso tempo chiedeva alle popolazioni meridionali di inviare alla Camera deputati onesti e indipendenti, capaci di mirare piuttosto al bene generale che ai piccoli e privati interessi; si era cioè reso conto che una delle maggiori difficoltà per la rinascita del Mezzogiorno era la mancanza di una classe dirigente all'altezza della grave situazione.
I successori non seguirono le sue direttive; alcuni di essi ravvisarono nell'ignoranza e nella corruzione una conveniente condizione per ottenere voti elettorali, altri scorsero solo un problema di polizia  da risolvere con il carcere, l'ammonizione e lo stato d'assedio; altri ancora sottoposero il Sud a pesanti imposte.
Le autorità dell'epoca insistettero nel considerare il brigantaggio postunitario come una semplice esplosione d'anarchia e di delinquenza, ma già la relazione Massari-Costagnola vi sospettava un tentativo legittimista borbonico per rovesciare il regime unitario.
Nella storiografia d'orientamento marxista, poi, si è fatta strada l'opinione di considerarlo come una vera e propria guerra sociale. Così scrive in proposito Franco Molfese.

Il brigantaggio è la sola guerra che la classe contadina riesce a condurre quando lotta da sola. Non è soltanto una reazione alla repressione statale e contro i gravami imposti dallo stato unitario, ma anche violenza armata per vendicare le sopraffazioni e i tradimenti dei «galantuomini» [...]. Indubbiamente, tra i briganti non pochi furono quelli che la miseria, l'ignoranza, la mancanza di un lavoro certo, ed anche gli istinti perversi, spinsero a malfare e a porsi fuori della legge comunemente accettata per soddisfare ciechi impulsi di vendetta e di rapina. Ma molti altri furono posti, dalle circostanze e dalla società in cui vissero, dinanzi all'alternativa di vivere in ginocchio, o di morire in piedi.

F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l'Unità, Garzanti, Milano 1964, pp. 6-7.

Gaetano Salvemini pensa che la concessione del suffragio universale avrebbe potuto segnare l'inizio della riscossa meridionale.

I governi italiani per avere i voti del Sud concessero i pieni poteri alla piccola borghesia, delinquente e putrefatta, spiantata, imbestialita, cacciatrice d'impieghi e di favori personali, ostile a qualunque iniziativa potesse condurre a una vita meno ignobile e più umana. Finché il predominio politico e la rappresentanza parlamentare del Mezzogiorno furono esclusivamente nelle mani della piccola borghesia affamata e facilmente quietabile con impieghi e beveraggi personali, la politica doganale e tributaria dello Stato poté essere fatta nell'interesse esclusivo del capitalismo protezionista e affarista dell'Italia settentrionale e a spese della classe lavoratrice di tutta l'Italia e specialmente dell'Italia meridionale. Qualunque gruppo di uomini onesti di qualsiasi partito avesse voluto mettere un po' di freno alla iniquità di una sola fra le clientele che facevano capo a un deputato meridionale, era sicuro di trovarsi contro tutta la marmaglia compatta. Il nostro sistema politico e amministrativo si fondava sull'asservimento della piccola borghesia intellettuale e dei suoi rappresentanti parlamentari ai gruppi politici prevalenti nell'Italia settentrionale e sul consenso sistematico dei gruppi politici prevalenti nell'Italia settentrionale alla malvagità bestiale delle clientele meridionali.

G. Salvemini, Problemi educativi e sociali dell'Italia d'oggi, La Voce, Firenze 1922.

Sarebbe stato necessario togliere il monopolio dei poteri pubblici a questa piccola borghesia corrotta, concedendo il diritto di voto a tutti i contadini, accordare il più largo decentramento amministrativo per favorire la maggiore, più intensa e più diretta partecipazione dei contadini alla soluzione dei problemi locali. Sempre secondo il Salvemini, se i governi della Sinistra avessero dato contemporaneamente il voto a tutti i contadini e il decentramento amministrativo, si sarebbe formato gradualmente un proletariato cosciente e non più disposto a servire i latifondisti. Si sarebbe rotta certamente l'intesa tra camorristi del Sud e reazionari del Nord, la correità tra governo e Parlamento, condizione prima di tutti gli abusi del potere esecutivo nel Mezzogiorno.
Ai vari partiti e governi, tuttavia, interessavano di più i voti elettorali e preferirono la collusione con le classi dominanti. Le continue sommosse popolari, l'aumento della delinquenza, le evasioni fiscali e le diserzioni militari hanno il loro punto di partenza nell'odio che l'autorità costituita suscitava nel popolo.

Secondo Rosario Villari, il concetto di interdipendenza tra Nord e Sud è stato al centro dell'analisi della corrente liberista del pensiero economico italiano del primo Novecento ed è un punto di riferimento comune anche per gli storici successivi.

Secondo questa analisi, nei primi anni dopo l'unificazione, lo Stato ha operato in modo da consentire l'accumulazione di capitali e di condizioni favorevoli nelle zone che hanno poi costituito il cosiddetto triangolo industriale. Una parte dei mezzi necessari per questa operazione è tata sottratta alle regioni meridionali attraverso una linea politica generale adatta o direttamente favorevole ai bisogni e alle condizioni del nord. L'estensione del sistema fiscale piemontese a tutto il regno ha determinato uno squilibrio nel rapporto contributivo tra le varie regioni; anche la vendita dei beni ecclesiastici e demaniali ha sottratto una quota consistente del risparmio meridionale (circa 500 milioni); l'unificazione del debito pubblico ha fatto gravare anche sul Mezzogiorno il peso di una considerevole passività che apparteneva in gran parte (oltre il 50 per cento) all'ex regno di Sardegna. È un'idea diffusa che la prima fase della vita unitaria è stata caratterizzata da una forte pressione fiscale sulle campagne, attraverso la quale sono stati acquisiti i mezzi per creare le attrezzature materiali dei nuovo organismo politico nazionale. Questa pressione ha creato grandi difficoltà per tutta l'agricoltura italiana, riducendo e contraddicendo i benefici effetti che avevano su di essa l'ampliamento del mercato, l'incremento del credito, lo sviluppo dell'istruzione, l'ammodernamento della legislazione relativa al commercio e alla proprietà terriera e tutti i fattori propulsivi che si erano venuti a creare con la conquista dell'unità. Nell'Italia meridionale, che era più povera e dove la trasformazione economica incontrava maggiori ostacoli e difficoltà, le conseguenze sono state più gravi che altrove: qui, infatti, l'agricoltura era di gran lunga l'attività predominante ed erano più ridotti, rispetto al nord, gli altri settori della vita economica. Anche se la spesa pubblica fosse stata distribuita in modo equilibrato, in realtà lo squilibrio era già nei criteri di prelievo e nei provvedimenti più generali di unificazione. In genere, malgrado qualche discordanza, gli studiosi che hanno elaborato questa analisi non hanno escluso che esistesse già, al momento dell'unificazione, una differenza tra nord e sud; ma hanno sostenuto che si trattava di una differenza non molto forte e che il vero problema consiste soprattutto nel fatto che si è accentuata dopo l'unità, proprio in conseguenza dell'indirizzo dato allo sviluppo economico e sociale del paese.

R. Villari, L'interdipendenza tra Nord e Sud, in "Studi Storici", 1977, n. 2.

Lo storico Piero Bevilacqua non condivide la tesi che vede nel sottosviluppo del Mezzogiorno una situazione funzionale agli interessi del Settentrione industriale e progredito. Il divario fra Nord e Sud era esistente già prima dell'unificazione, come conseguenza di sistemi di amministrazione e logiche di politica economica completamente differenti.
In ogni caso le scelte protezionistiche adottate nel 1887 dai governi della Sinistra accentuarono il disagio economico del Sud, penalizzato anche da una scarsa rappresentatività parlamentare.
Gli esponenti parlamentari del Mezzogiorno si limitarono per lo più ad avanzare richieste genericamente "sociali", come la realizzazione di infrastrutture o l'assegnazione di aiuti economici a pioggia. Ma tale politica assistenziale non si inseriva in un coerente programma di rilancio dell'imprenditoria meridionale.

Un altro elemento, assai importante per spiegare il crescente andamento a forbice fra il Nord e il Sud dello sviluppo industriale, riguarda un aspetto finora trascurato. L'esistenza nell'Italia settentrionale di nuclei industriali, di gruppi e concentrazioni sociali interessati a1lo sviluppo delle manifatture, faceva sì che il ceto politico proveniente da quelle regioni portasse nel parlamento, nel governo (ma anche nelle amministrazioni comunali e provinciali) non poche istanze, passioni, interessi che provenivano da quei settori, riuscendo spesso ad averne benefici in termini di facilitazioni, sgravi, commesse pubbliche, investimenti ecc. Al contrario, essendo sempre più isolati e minoritari, i gruppi imprenditoriali meridionali non trovavano negli uomini politici locali e regionali i canali per rappresentare e far valere i propri interessi. Dal momento che i ceti agrari, sia proprietari che proletari, erano socialmente dominanti in quelle realtà, i parlamentari, e in genere l'élite politica del Sud, tendevano pressoché esclusivamente a rappresentare gli interessi di questi ultimi. Era da lì, del resto, che arrivavano i voti, gli appoggi, il consenso. Non è un caso, perciò, che i parlamentari meridionali sempre di più si facessero portavoce, presso i vari governi che si succedevano, di istanze genericamente sociali: strade, ponti, opere pubbliche ecc. Ed era quanto poi, disordinatamente e senza un disegno di sviluppo, reclamavano le mille realtà locali del Mezzogiorno. Per cui nella fase storica in cui lo stato giocò un ruolo rilevante per sostenere il processo di industrializzazione del paese, il ceto politico meridionale, tanto a livello locale che nazionale, venne a ritagliarsi un'area di influenza particolare: o politica generale (si pensi a Crispi) oppure più sociale che economica, molto più assistenziale che mirante allo sviluppo e, nei casi in cui pure ciò avvenne, si verificò soprattutto a favore dei settori imprenditoriali agricoli. D'altronde, nel Mezzogiorno di allora era possibile investire con più sicurezza o vantaggi e facilità in altri settori che non in quello industriale. Come vedremo meglio in seguito, altri campi di attività, e in primo luogo l'agricoltura e la sua commercializzazione, erano in grado di soddisfare almeno in parte gli sforzi e le ambizioni imprenditoriali di uomini e famiglie che ponevano il profitto tra i fini fondamentali del proprio agire. In una parola, le tradizionali attività agricole rappresentavano ancora, rispetto alle manifatture, una ben più allettante alternativa di continuità.

P. Bevilacqua, Breve storia dell'Italia meridionale, Donzelli, Roma 1993, pp. 64-65.

La questione romana

Roma, nel Risorgimento, rimase quasi assente dai grandi avvenimenti nazionali, legata politicamente ed economicamente al grande prestigio della Chiesa. Tuttavia, per il suo grande passato, Roma esercitò un'importantissima azione sui pensatori, sui politici e sul popolo.
Da parte cattolica l'opposizione all'idea di Roma capitale fu energica, poiché era considerata «un insulto alla Santa Sede con la quale la monarchia liberale non poteva convivere nello stesso luogo» (I. A. Caracciolo, Roma capitale, Editori Riuniti, Roma 1956).
Contrario era anche Massimo d'Azeglio, che giudicava Roma incline ai disordini e perciò non adatta alla funzione coesiva propria di una capitale. Su questa funzione insisteva invece Cavour.

Finché la questione della capitale non sarà definita, vi sarà sempre motivo di dispareri fra le varie parti d'Italia. Ed infine, è facile a concepire che persone illuminate e anche dotate di molto ingegno ora sostengono o per considerazioni storiche, o per considerazioni artistiche o per qualunque altra considerazione, la preferenza a darsi a questa o a quella città d'Italia; io capisco che questa discussione sia ora possibile; ma se l'Italia costituita avesse già stabilito in Roma la sua capitale, credete Voi che tale discussione sarebbe ancora possibile? Certo che no. Anche coloro che si oppongono al trasferimento della capitale in Roma, una volta che essa fosse colà stabilita, non ardirebbero di proporre che venisse traslocata altrove.

Discorso del 25 marzo 1861.

Il Parlamento condivise pienamente il pensiero di Cavour e con il voto del 27 marzo 1861 acclamò Roma capitale d'Italia.
Diverse erano però le motivazioni che spingevano a Roma: per i moderati significava completamento dell'unità, prestigio della monarchia; per i democratici era liberazione dal secolare dominio ecclesiastico, rinnovamento laico, trionfo della libertà.
Le reazioni che in tutta Italia suscitò la Convenzione di settembre dimostrarono che il problema della capitale non avrebbe potuto avere altra soluzione che Roma. Anche sul piano della politica estera la questione si presentava inderogabile. Era evidente che fino a quando gli Italiani non avessero occupato Roma, l'Europa li avrebbe ritenuti sottomessi alla Francia, incapaci di una politica estera autonoma.
Francia e Inghilterra si servivano della questione per i loro interessi: la prima negava Roma al Regno d'Italia per impedire il rafforzamento dell'unità, l'altra indicava Roma come la vera e immancabile capitale d'Italia per attrarla nella sua orbita e per creare un freno all'espansionismo francese nel Mediterraneo.
La breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 ebbe gravi conseguenze: la rottura ufficiale dei rapporti tra Stato e Chiesa, la frattura nella coscienza dei cittadini tra religione e patria, l'opposizione e l'ostruzionismo del clero al nuovo Stato, la fine della tutela francese, il difficile problema della scelta di nuovi alleati.

Lo storico italiano Arturo Carlo Jemolo vede nella legislazione del 1871 un passo importante verso un tentativo di conciliazione fra Stato e Chiesa, anche se riconosce che la tensione nei rapporti bilaterali era altissima. Egli sottolinea inoltre come il processo storico concluso nel 1870 fosse ormai irreversibile e rappresentasse la naturale conclusione del potere temporale dei papi.
In Italia l'opposizione cattolica al nuovo Regno unitario si sarebbe orientata a operare una “riconquista sociale” del Paese, abbandonando la logica dell'Aventino per inserirsi a pieno titolo nelle grandi questioni sociali del tempo.

È invero soprattutto grazie a questa legge e al regime ch'essa instaurò, che non solo l'opinione pubblica mondiale, bensì gli stessi pontefici finirono di convincersi che il potere temporale era stato un peso per la Santa Sede, e che il prestigio del papa, la possibilità di più e meglio operare per la diffusione del cattolicesimo nel mondo, di più facilmente reggere con ferma mano la Chiesa, rapidamente si accrescevano con la perdita di quel potere. Gli accordi del 1929 segnarono una svolta decisiva nella politica interna italiana, rappresentando anche in questo ambito la sepoltura di ciò che restava della struttura liberale; ma per quanto tocca la questione romana non ci fu che un mutamento di formula, non di realtà: la Santa Sede è rimasta senza altra base territoriale che quei palazzi apostolici su cui mai l'autorità italiana aveva fatto atto di autorità, gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede hanno continuato a risiedere su territorio italiano. [...] Come si è detto, il pontefice non accettò la legge e tutti i cattolici ossequienti alla sua parola protestarono ch'essa non garantiva la libertà della Santa Sede, non costituiva l'arra d'indipendenza equivalente al perduto potere temporale. Tuttavia tra questi cattolici occorreva sempre più distinguere tra i non moltissimi che ancora dopo il 1870 speravano in un ritorno allo statu quo anteriore al 1859, e gli altri, che, pure trovando cattiva o pessima la situazione attuale, non avevano illusioni di tal sorta. Lo Stato italiano aveva già superato gravi scogli, la guerriglia – d'impronta tipicamente brigantesca, anche se con uno sfondo borbonico-legittimista – che per anni dopo il 1861 aveva serpeggiato in gran parte dell'ex regno di Napoli; la disfatta militare del 1866; la scomparsa del suo grande protettore, Napoleone III: non si vedevano nel mondo monarchi cattolici che volessero sguainare la spada per ridare al papa il potere temporale. Si cominciava quindi a formare l'idea della riscossa cattolica nella legalità, della conquista del regno d'Italia, realtà insopprimibile, alla fede cattolica, della riforma della sua legislazione. Per ciò in particolare che concerne la legge delle guarentigie, ben presto, negli stessi ambienti del Vaticano, si cominciò – pure ritenendola inadeguata – a valutarne i vantaggi: onde turbamento ad ogni accenno a prevalenze di partiti che potessero rimettere in discussione tale legge.

A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dall'unificazione ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1965, pp. 42-44.

Alberto Torresani, pur concordando con Jemolo circa il carattere ineluttabile del processo di unificazione, rileva come le ragioni di preoccupazione nutrite dal pontefice fossero dal suo punto di vista ben giustificabili: Pio IX vide nella legge delle guarentigie, al di là delle affermazioni di principio che garantivano l'indipendenza del papa, la completa assenza del riconoscimento della Santa Sede quale soggetto di diritto internazionale.
La legge appariva pertanto come un gesto unilaterale dello Stato che, ad imitazione del giurisdizionalismo settecentesco, interveniva di sua iniziativa nella sfera ecclesiastica per legiferare autonomamente e per imporvi il proprio superiore controllo.

Pio IX aveva altre mire: approvava la scomparsa dell'Austria dall'Italia, ma non poteva accettare la politica piemontese apertamente anticlericale e votata alla causa della scomparsa dello Stato della Chiesa. Ormai non si tollerava un potere temporale neppure ridotto a una dimensione simbolica che garantisse l'indipendenza dell'azione spirituale della Chiesa; il papa, inoltre, non riteneva di disporre del diritto di abrogare la sovranità temporale dei papi (la stampa utramontanista di tutto il mondo lo confermava in questo atteggiamento). È chiaro, col senno di poi, che l'unificazione italiana fu un bene, ma rimane il dubbio che, nell'operarla, si siano trascurate delle possibilità, recuperate solo nel 1929. I liberali italiani rifiutarono al papato la possibilità di venir riconosciuto come soggetto di diritto internazionale e riservarono alla Chiesa cattolica solo lo status giuridico di associazione per fini di culto da regolare con le leggi dello Stato, proprio ciò che il papato non poteva accettare. [...] La guerra franco-prussiana del 1870-1871 fornì l'occasione irripetibile per occupare Roma: dopo la sconfitta francese di Sédan, il 20 settembre le truppe italiane raggiunsero Roma dove Pio IX ordinò una resistenza simbolica. In poche ore le truppe italiane presero possesso di Roma e del palazzo del Quirinale, già residenza ufficiale dei papi. Nel maggio 1871 il parlamento italiano votò la legge delle guarentigie, che dal punto di vista finanziario appariva magnanima, ma che aveva l'inconveniente di essere solo la dichiarazione unilaterale di intenti del governo italiano nei confronti della Santa Sede, non riconosciuta come soggetto di diritto internazionale. Il conflitto durò fino al 1929, dando luogo a un modus vivendi che a parole fu durissimo, ma nei fatti raramente trascese in conflitto aperto. [...] Alcuni intransigenti lanciarono da Bologna la parola d'ordine astensionista «né eletti né elettori», una sorta di Aventino cattolico che a lungo rese velenosi i rapporti col nuovo Stato. In quegli anni venne fondata dal conte bolognese Giovanni Acquaderni e dal romano Mario Fani la «Società della gioventù cattolica italiana». Nel 1874 il conte veneziano Giovanni Battista Paganuzzi, a imitazione di ciò che avevano fatto i cattolici tedeschi e belgi, convocò il primo congresso dei cattolici italiani, ma sulla base del Sillabo e quindi di una decisa opposizione ai principi della società liberale. I vescovi italiani si trovarono alle prese con problemi enormi di tipo amministrativo: gli ordini religiosi in crisi; il livello culturale del clero scarso; totale la mancanza di centri di formazione pastorale; per i cattolici, evidente la condizione di ghetto separato dal resto della società civile con la quale, pure, occorreva avere rapporti quotidiani.

A. Torresani, Storia della Chiesa dalla comunità di Gerusalemme al Giubileo del 2000, Edizioni Ares, Milano 1999, pp. 632-634.

Comprensibile, quindi, fu l'avversione vaticana al provvedimento, del resto accentuata dal sistematico esproprio e dalla successiva liquidazione della proprietà fondiaria della Chiesa già in precedenza effettuati dai governi della Destra storica sino al 1867.

Successivamente [all'unità d'Italia] la legislazione ecclesiastica del Piemonte venne estesa al resto d'Italia. Il perdurare del conflitto fece sì che, in mancanza dell'exequatur (il consenso statale alla nomina dei vescovi), molte sedi episcopali rimanessero vacanti (nel 1864 erano 108 su 222 in Italia); i seminari furono chiusi; le facoltà di teologia abolite; le corporazioni religiose disciolte e i loro beni confiscati. Nel 1867 il Rattazzi fece votare leggi giacobine che liquidavano l'asse patrimoniale ecclesiastico, venduto a finanzieri rampanti o trasferito al demanio.

A. Torresani, Storia della Chiesa dalla comunità di Gerusalemme al Giubileo del 2000, Edizioni Ares, Milano 1999, p. 633.

La politica estera della Destra

La politica estera italiana dal 1861 al 1870 aveva come obiettivo il completamento dell'unità nazionale con la conquista del Veneto e di Roma.
I governi della Destra cercarono di risolvere i due problemi diplomaticamente, o con alleanze internazionali o con trattative, ma sempre nell'orbita dell'aiuto politico della Francia.
Nella terza guerra d'indipendenza l'Italia, sebbene alleata della Prussia, ebbe il Veneto attraverso Napoleone III, e per la subordinazione alla Francia non poté risolvere la questione di Roma né con Garibaldi né con trattative.
Nel 1870, secondo Federico Chabod, l'Italia ruppe la sua dipendenza dalla Francia e approfittò della guerra franco-prussiana per occupare Roma.

Il 20 settembre 1870 non vuol dire soltanto che Roma diventa capitale del Regno d'Italia, ma significa qualcos'altro non meno importante: il non-intervento a fianco di Napoleone III nella guerra franco-prussiana vuol dire che la politica italiana si stacca da quella francese, che l'Italia non è uno Stato vassallo, necessariamente trascinato in tutte le avventure del suo signore. Questo significato fu affermato solennemente dal ministro degli esteri Visconti Venosta, il quale in quella occasione dichiarò che l'Italia col 1870 dimostrò di essere una potenza moralmente autonoma e indipendente nel concerto europeo. [...] La questione romana sciolta e la neutralità conservata durante la guerra franco-prussiana rendevano indipendente la situazione politica dell'Italia.

F. Chabod, Sulla politica estera italiana, in Orientamenti per la storia d'Italia nel Risorgimento, Laterza, Bari 1952.

Il trasformismo

Lo storico liberale Rosario Romeo, anziché vedere nel metodo trasformista una forma di corruzione parlamentare, vi scorge il prevalere di una tendenza al centrismo, certo negativa, tipica di una società eterogenea al punto da non consentire una serena alternanza democratica che è propria delle democrazie bipolari.

18 marzo 1876. Una data segnata a lutto in molte storie dell'Italia unita. Allora ad una «élite» ristretta ma di superiore livello politico e morale successe nella guida del paese un gruppo dirigente più largo ma di costume e livello più scadente, specchio esso stesso delle molte tare e insufficienze della nazione da poco messa assieme con elementi così disparati. Allora soprattutto dilagò quel male che già dal «connubio» tra Cavour e Rattazzi serpeggiava nell'organismo politico italiano, e che appunto dopo il 1876 prese il nome che gli è rimasto di trasformismo. Come dire uno dei mali storici che più spesso si ricordano tra quelli caratteristici del nostro paese, accanto alla mancata Riforma protestante e alla mancata rivoluzione giacobina, alla questione meridionale e all'eredità della Controriforma. Nel trasformismo, si dice e si ripete, si esprime l'incapacità della vita politica italiana ad assurgere a lotta di principi, la sua perpetua tendenza a scadere sul piano dei personalismi, il sostanziale immobilismo del potere, al quale è sempre mancata, per oltre un secolo, una vera alternativa di governo e dunque una vera ed efficace opposizione, quale richiede l'ordinato funzionamento di ogni regime di libertà. Dal trasformismo si fa anche discendere l'instabilità dei governi, sempre alla mercé di crisi originate dalle manovre di gruppi e di correnti ai danni di altri gruppi e di altre correnti. Nessuna meraviglia che in una struttura di questo tipo le opposizioni abbiano sempre assunto un carattere anti-sistema, e siano state spinte, dalla mancanza di ogni seria prospettiva di essere chiamate ad assumere concrete responsabilità, verso le forme più astratte ed estremistiche di lotta politica. Sotto questa grandine di rilievi la giustificazione storica che del trasformismo diede a suo tempo Benedetto Croce è stata via via respinta sullo sfondo e sempre più dimenticata. Vale la pena di tentare un bilancio. E di ricordare in primo luogo che ciò che da noi si è chiamato trasformismo ha caratterizzato e tuttora caratterizza in Europa, con la più usuale denominazione di centrismo, la vita politica di molte delle democrazie continentali. Il bipartitismo è appannaggio, soprattutto, dei paesi anglosassoni, nei quali del resto, e in particolare negli Stati Uniti, non sono rari fenomeni che sfuggono alla logica del sistema, come mostra la frequente confluenza di voti democratici conservatori con i voti repubblicani, contro le sinistre radicali di ambedue i partiti. In Francia, ha scritto Duverger, solo l'alleanza dei centri moderati ha consentito la convivenza delle due frazioni in cui il paese si è spaccato storicamente dopo il 1789, così radicalmente avversarie da tendere alla reciproca eliminazione in una lotta mortale piuttosto che ad un democratico confronto su basi elettorali e parlamentari. Non è forse accaduto qualcosa di analogo anche in Italia? È difficile immaginare come un solo partito conservatore avrebbe potuto abbracciare, all'indomani dell'unità, i fautori dei vecchi regimi preunitari e del clericalismo a fianco degli uomini della Destra liberale, politicamente identificati sino in fondo con l'unità nazionale. Non meno difficile immaginare come la Sinistra monarchica dei Depretis e dei Crispi potesse far causa comune con coloro che negavano tuttora la legittimità della soluzione monarchica del 1860, che aveva spogliato il partito d'azione dei frutti della sua vittoria nel Mezzogiorno. La stessa esistenza di ciascuna di queste componenti del sistema politico si fondava sulla negazione della legittimità di quelle che le fronteggiavano, ed era dunque impensabile un'ordinata successione di esse alla testa del paese.

R. Romeo, L'Italia moderna fra storia e storiografia, Le Monnier, Firenze 1977.

Il problema coloniale

Gli storici nazionalisti hanno stimato le colonie “necessarie” e “indispensabili” a una nazione, come l'Italia, proiettata tutta sul mare, vicina all'Africa, ricca di un grande passato coloniale, bisognosa di sbocchi per la sua abbondante popolazione. Altri storici hanno giudicato positivamente il disinteresse coloniale dei governanti italiani fino al 1885, risultando evidenti le insufficienze finanziarie, industriali, commerciali e navali dell'Italia per creare uno Stato coloniale.
L'Italia non poteva disporre di grandi capitali e i pochi che aveva li doveva impiegare per alleviare la povertà, la miseria e l'arretratezza delle popolazioni meridionali.
Nel 1882 il ministro degli esteri Mancini, annunziando alla Camera che non aveva accolto l'invito inglese per un'azione comune in Egitto, dichiarò, tra gli applausi dei deputati, che «non v'era pericolo né sarebbe stato mai possibile che l'Italia si lasciasse sedurre da qualsiasi eventuale tentazione ed offerta per subordinare l'interesse della giustizia e della quiete in Europa al conseguimento di una qualunque posizione eccezionale e privilegiata».
Nel 1885 si ha un improvviso capovolgimento: quello stesso ministro che fino a qualche anno prima aveva solennemente condannato qualsiasi politica coloniale, si fa promotore dell'occupazione di Massaua. Roberto Battaglia spiega quali furono le ragioni di un così brusco cambiamento della politica italiana.

L'occupazione di Massaua significa un cambiamento di rotta politica dovuta all'influsso di una duplice spinta strutturale e ideologica: strutturale perché già vi erano i germi del mutamento anche nel nostro paese; ideologica perché a sollecitare la precoce nascita del colonialismo sia sul piano politico, sia su quello sociale, agiva di stimolo l'esempio che ci veniva dalle nazioni più progredite della nostra sulla via del capitalismo. La conversione coloniale rispecchia, più o meno consapevolmente, l'esigenza dei nuovi tempi, l'indirizzo generale dell'epoca in cui si trovò a vivere.

R. Battaglia, La prima guerra d'Africa, Einaudi, Torino 1958.

Come gli uomini politici responsabili ebbero a dichiarare, l'obiettivo coloniale italiano era il Mediterraneo; il mar Rosso doveva servire come punto di partenza per arrivare con l'aiuto inglese, attraverso il Sudan e il Darfur, alla Tripolitania.
Vivace nel Parlamento fu la protesta di molti deputati di estrema Sinistra che nelle conquiste coloniali, alle quali il governo si accingeva, videro esclusivamente un mezzo per dare splendore e gloria alla monarchia; l'impresa di Massaua era ritenuta un oltraggio al popolo, bisognoso di tutt'altro, cioè pane e lavoro. Dura fu la reazione dei gesuiti che in data 18 aprile 1885 così scrissero sulla Civiltà Cattolica.

Come! si è congiurato per mezzo secolo dai nostri patriotti contro l'Austria straniera, che possedeva il Lombardo-Veneto in virtù di ragioni assai diverse dal puro titolo di conquista; e per cacciarvela si è pitoccato il soccorso di tutte le Potenze e da tutti loro si sono leccati gli stivali di Napoleone III e poi del Bismarck, che, colle armi francesi e tedesche ne l'ànno cacciata, e questo si è gridato il più bel trionfo della civiltà moderna contro le barbarie; ed oggi il governo dei nostri patriotti manda naviglio e soldati a conquistare il paese degli Arabi che non ne vogliono sapere, ed un maestro di diritto, quale Pasquale Mancini, chiama diffusione della civiltà quell'arbitrio di prepotenza? Non vede egli che l'Italia nuova spezza nelle spiagge dell'Eritrea tutta la macchina giuridica, sopra cui essa ha fondato la sua esistenza?

R. Battaglia, La prima guerra d'Africa, Einaudi, Torino 1958.

Come si sa, in conseguenza della rinuncia inglese al Sudan, anche il piano coloniale italiano fu modificato: l'espansione si sarebbe rivolta non più verso l'alta valle del Nilo ma all'Abissinia. Il nuovo programma era molto arduo e impegnativo, richiedeva enormi mezzi, una grande esperienza africana, un'accurata e specifica preparazione militare e soprattutto una coscienza coloniale che l'Italia non aveva. Dopo i fatti di Saati e di Dogali, l'onorevole Andrea Costa, capo del Partito operaio, deplorò in Parlamento la «non nobile azione dell'Italia in Africa» e dichiarò che «i lavoratori per essa non avrebbero dato né un uomo né un soldo».
Anche la guerra italo-abissina del 1895-96 diede luogo a diverse reazioni, specialmente dirette al Crispi, che ne era stato l'artefice. Tra i contemporanei, il socialista Turati definì la spedizione «espansione barbara, rinforzamento degli elementi più retrivi e più nemici della civiltà» (in "Critica sociale", 1894); Giustino Fortunato parlò di «un ridicolo esempio di confusione mentale»; d'altra parte Carducci espresse a Crispi la sua «devozione fino alla morte perché voleva fare l'Italia forte e rispettata» (G. Carducci, Confessioni e battaglie, s. II, Ediz. Nazionale), e Alfredo Oriani gli manifestò la sua ammirazione per «il grande orgoglio di patria che lo sollevava al di sopra dei partiti» (A. Oriani, Punte secche, Bologna 1897). In seguito, Volpe ha celebrato in Crispi l'uomo che «anelava alla vittoria militare in Africa e considerava primo dovere suo e di ogni governo prepararla» (G. Volpe, L'Italia in cammino, cit.), Croce invece gli ha negato qualsiasi fatalità sostanziale (B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915,  Laterza, Bari 1929).

La politica estera della Sinistra

Federico Chabod vede una stretta connessione tra le scelte di politica estera nel campo delle alleanze e gli orientamenti di politica interna: l'autoritarismo degli imperi centrali era coerente con la volontà di conservazione che dominava i governi italiani alla fine del secolo.

L'alleanza con i due imperi autoritari e conservatori degli Asburgo e degli Hohenzollern fu dunque ricercata come una garanzia per la conservazione dell'ordinamento politico esistente, imperniato sulla monarchia, sicché le fu attribuita una funzione analoga a quella che aveva avuto prima del '70 lo stretto legame con la Francia di Napoleone III. In questo senso agivano anche le pressioni e le suggestioni che venivano dal re e dalla corte. Umberto I, sebbene fosse più rispettoso del padre delle forme costituzionali ed evitasse di sovrapporre una sua politica personale a quella del governo, non mancava di influire sulla linea politica del governo stesso in senso ostile al radicalismo e favorevole alle tendenze moderato-conservatrici. Egli inoltre era naturalmente incline all'alleanza con le due dinastie imperiali dell'Europa centrale, una delle quali, gli Asburgo, era strettamente imparentata con la casa di Savoia. Nello stesso senso una certa influenza era esercitata anche dalla regina Margherita, sia attraverso gli ambienti di corte, sia per mezzo di qualche uomo politico, come Minghetti, con cui essa aveva frequenti contatti.

F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza, Bari 1951.

Giorgio Candeloro pone in relazione la politica estera italiana, di alleanza con gli Imperi centrali, con l'esigenza di uscire dall'isolamento, in vista di una politica di espansione coloniale. Anche per lui esigenze di politica internazionale e di politica interna sono strettamente collegate.

Non era possibile tutelare efficacemente gli interessi italiani, anche nei limiti di una visione generale essenzialmente difensiva, e continuare al tempo stesso a seguire rigidamente il principio della libertà da ogni impegno con altre potenze, che era stato caratteristico della politica di raccoglimento svolta tra il 1870 e il 1876. Non lo consentiva il dinamismo espansionista di altre potenze, particolarmente accentuato nel settore mediterraneo, e non lo consentiva la situazione generale dell'Europa, caratterizzata ormai da un gioco diplomatico molto complesso e serrato. Era dunque necessario per l'Italia uscire dall'isolamento, stabilire degli accordi e prendere degli impegni con altre potenze. Questa svolta nella politica estera non poteva essere procrastinata, ma forse avrebbe potuto essere attuata in modo graduale e mediante intese particolari con singole potenze su problemi ben delimitati, senza stringere vere e proprie alleanze, necessariamente assai impegnative. Infatti nessun pericolo immediato minacciava l'Italia, la situazione internazionale era ancora assai fluida e l'Europa non era ancora divisa in blocchi contrapposti. Ma il contraccolpo psicologico dello scacco di Tunisi, che diffuse nel paese l'irritazione contro la Francia e la paura dell'isolamento e più ancora motivi di politica interna spinsero il governo italiano a stipulare, un anno dopo lo scacco di Tunisi, il trattato della Triplice Alleanza con la Germania e l'Austria-Ungheria. Il motivo interno fondamentale che spinse all'alleanza consisteva nella preoccupazione, fortemente sentita dalla Destra e condivisa da larghi settori della Sinistra, di arginare la spinta democratica proprio nel momento in cui era ormai inevitabile la concessione della riforma elettorale. I radicali e i repubblicani infatti erano sempre molto attivi nel condurre vivaci campagne democratiche ed anticlericali, alle quali partecipavano spesso uomini della Sinistra governativa da un lato e socialisti dall'altro. Queste forze di Estrema sinistra, sebbene non fossero certo in grado di guidare una rivoluzione, avevano un notevole ascendente, oltre che su numerosi piccoli borghesi, intellettuali e studenti, anche su nuclei abbastanza consistenti di operai soprattutto nelle grandi città.

G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, vol. VI, Marzorati, Milano 1970.

Secondo Emilio Gentile l'evoluzione politica in atto nell'età della Sinistra storica presenta numerose analogie con la graduale accentuazione dei caratteri autoritari visibile nei regimi tedesco, austriaco e francese negli ultimi decenni del XIX secolo. In Italia il processo di nation building implicava la necessità di inquadrare le masse popolari in una cornice di valori capaci di integrarle e di connotarle. Il nazionalismo divenne pertanto un collante politico utilizzato come elemento di coesione per un popolo che ancora non si riconosceva come tale, al fine di avviare una strategia politica di potenza. Il mito nazionalistico così s'integrava perfettamente nell'esigenza di creare uno Stato autoritario e imperialista.

La «scoperta dell'imperialismo» da parte della cultura italiana ebbe un ruolo decisivo nella trasformazione del mito nazionale, dando impulso alla nascita di un nazionalismo imperialista, che riformulò il mito della Grande Italia secondo esclusivi criteri di politica di potenza, di espansione e di conquista. Conseguente a questo orientamento era il progetto di rifondazione dello Stato nazionale su basi autoritarie per disciplinare tutte le forze produttive, allo scopo di accelerare la rivoluzione industriale e predisporre la nazione ad affrontare la gara imperialista sul campo dell'economia e sul campo di battaglia. Nonostante la retorica classicheggiante in cui era ammantata la sua ideologia, il nazionalismo imperialista italiano era intriso di modernismo e mirava principalmente, secondo il suo punto di vista, alla modernizzazione del paese per via autoritaria, considerando lo Stato liberale incompatibile con le esigenze della modernità nell'epoca dell'imperialismo, visto, a sua volta, come un fenomeno inevitabile della civiltà industriale, che modificava sostanzialmente il modo di concepire la nazione e il suo ruolo nella vita internazionale. Il «nuovo imperialismo», scriveva nel 1901 il giornalista Olindo Malagodi, era balzato «inaspettato, inquietante» dalla civiltà industriale: «affermazione superba, ma pericolosa di forza e di volontà; ambizione cosciente e fantastica nello stesso tempo di grandezza che, ebbra di se stessa, ma pure non ancora soddisfatta, si riflette, si proietta in forme smisurate nello specchio oscuro dell'avvenire», concretizzandosi nella volontà di espansione e di dominio delle grandi potenze mondiali, in competizione per la supremazia industriale, economica, commerciale e politica. «Sono potenze mondiali perché il teatro della loro azione, il campo delle loro ambizioni non è più un continente ed una civiltà; ma tutte le civiltà e tutta la terra; perché le correnti della loro espansione si rovesciano da tutte le parti, ai quattro angoli del mondo.» Questo nuovo imperialismo della civiltà industriale aveva prodotto un radicale mutamento nella concezione della nazione nel quadro dei rapporti internazionali.

E. Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel XX secolo, Mondadori, Milano 1997, pp. 40-42.

La crisi di fine secolo

II tentativo reazionario del 1898 è stato variamente giudicato dalla storiografia. Secondo l'indirizzo crociano, si trattò di un tentativo autoritario della parte più reazionaria del ceto dirigente; secondo gli storici che si ispirano a Giovanni Giolitti, il tentativo di colpo di Stato fu dettato da un'improvvisa reazione di paura delle classi dirigenti. Secondo F. Levra, esso fu invece un'operazione coerente con le scelte di politica interna compiute fino a quel momento, aventi lo scopo di colpire ovunque le masse operaie e contadine.

I fatti del '98 vanno considerati come un tentativo organico (che in un primo momento vede consenziente tutta la classe dirigente liberale e che riscuote il plauso di gran parte dell'intransigentismo cattolico, che è così predisposto all'inserimento conservatore nell'ambito dello Stato nato dal risorgimento) di estendere a tutto il paese, prima con provvedimenti dell'esecutivo, poi di codificare con interventi legislativi la politica crispina del «piccolo stato d'assedio» già sperimentata localmente nel '94 in Sicilia. Con l'obiettivo di colpire ovunque esistano masse operaie e contadine organizzate, ovunque l'avanzata di socialisti e repubblicani minacci le «istituzioni», cioè l'egemonia del ceto dominante che sempre più drammaticamente avverte di essere un'esigua minoranza in un paese estraneo e ostile e chiamando a raccolta su questo programma tutte le forze conservatrici, Rudinì tenta perciò di porsi come elemento unificatore di una serie di spinte diverse.

F. Levra, Il colpo di Stato della borghesia, Garzanti, Milano 1975.

Secondo lo storico G. Carocci il desiderio di una svolta autoritaria, espressa nella critica al parlamentarismo e nella corrispettiva nella volontà di rafforzamento del potere esecutivo, era stato suscitato dal movimento dei Fasci siciliani del 1894, guidato dai socialisti, e dal timore che la lotta sociale si estendesse nel Nord, come sembrava dall'intensificarsi degli scioperi e delle manifestazioni popolari contro l'aumento del prezzo del pane.

Durante l'ultimo decennio del secolo scorso l'avanzare del movimento popolare suscitò in seno alla borghesia preoccupazioni crescenti fino a sfociare, dopo i moti del maggio 1898, in una vera e propria ondata di panico. Quello che preoccupò non era tanto il socialismo in sé e per sé, il suo costituirsi in partito al congresso di Genova del 1892, quanto la dimostrata capacità di mobilitare intorno a sé ampie masse di popolo. Un momento cruciale fu costituito dai Fasci siciliani, da questo impetuoso movimento popolare-contadino guidato da socialisti con obiettivi democratico-borghesi. L'ondata di panico con cui i moti del '98 furono accolti non sarebbe pienamente comprensibile senza il precedente dei Fasci; sebbene uno dei motivi del panico fosse dato proprio dal fatto che nel 1898, a differenza del 1894, i moti si estendessero al Nord e a Milano. Per questo il clima degli anni Novanta è diverso da quello degli anni Ottanta. Per questo solo negli anni Novanta l'antiparlamentarismo acquistò pienamente il suo carattere di nostalgia autoritaria. Per questo mentre negli anni Ottanta taluni degli esponenti più colti della borghesia avevano inteso affrontare con le riforme i problemi posti dal movimento operaio e contadino, negli anni Novanta intesero affrontarli con la reazione.

G. Carocci, Storia d'Italia dall'unità ad oggi, Mondadori, Milano 1978, p. 111.

Anche l'avanzata dei cattolici preoccupava i liberali. La Chiesa, infatti, che aveva osteggiato la formazione dello Stato unitario, invitando i cattolici a non partecipare alle elezioni politiche, aveva in tal modo suscitato ostilità e diffidenza nei confronti del mondo cattolico che, dopo l'enciclica del 1891 di Leone XIII, aveva intensificato la sua presenza organizzata nella società. Si profilavano così due pericoli, per i liberali, i socialisti e i cattolici. In questa situazione, dove la via di possibili alleanze con una delle due forze era prematura, sembrò che l'unica scelta praticabile fosse ridurre i margini di democrazia, ossia un colpo di Stato. Il Carocci presenta questo momento di crisi.

Importanza minore, ma per nulla trascurabile, ebbe, accanto all'avanzare dei socialisti, l'avanzare dei cattolici. Anzi, proprio il fatto che i due movimenti avanzassero insieme aggravò i limiti della egemonia della classe politica liberale, in particolare di quella sua parte che era rimasta più direttamente legata alla matrice moderata risorgimentale e che con più forza faceva dipendere l'esistenza dello stato italiano dalla sua capacità di tenere ai margini i "rossi" e i "neri". L'essenza della crisi di fine secolo, che raggiunse la forma acuta nel 1898-1900, fu il fallimento liberale di una classe dirigente incapace sia di imboccare una linea democratica, appoggiandosi a una parte dei "rossi", sia di imboccare la linea conservatrice, alleandosi con i cattolici. [...] In tutti in paesi le classi dirigenti dovevano fronteggiare una crescente pressione socialista. La caratteristica di quella italiana fu l'incapacità di esprimere un saldo partito conservatore, dopo il fallimento degli approcci verso i cattolici nel 1887 e nel 1895, e di essere quindi particolarmente esposta alle tentazioni reazionarie. Come già abbiamo detto, l'ostilità contro i "rossi" e contro i "neri', formalmente analoga, rispondeva a due realtà sempre più diverse. Mentre la repressione contro i "rossi" nel 1898 fu fine a se stessa, quella contro i cattolici fu fatta allo scopo di fiaccarne l'intransigenza e indurli ad appoggiare i liberali. Insieme al bastone fu usata la carota. In un discorso pronunciato alla camera il 17 giugno 1898, dopo i moti di maggio, Sonnino non fece parola del pericolo clericale, al quale in realtà egli era molto sensibile e del quale infatti si era servito l'anno precedente per giustificare l'invocato ritorno allo Statuto (Pinzani). Si potrebbero citare numerosi altri esempi nello stesso senso sia a proposito di Sonnino che di altri esponenti liberali.

G. Carocci, Storia d'Italia dall'unità ad oggi, Mondadori, Milano 1978, pp. 111-112.

 

 

 

 

 

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