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l'EQUILIBRIO EUROPEO NEL '700

 

 

FONTI

 

Appello di Federico II alla vigilia della battaglia di Leuthen

Federico Il di Prussia fu sovrano energico, spregiudicato e risoluto, ben diverso quindi dai suoi predecessori, sempre attenti a non suscitare il risentimento della vicina potenza asburgica, dal XVI secolo in posizione egemonica negli equilibri politici tedeschi. Si era trovato in gravi difficoltà allo scoppio della guerra dei Sette anni (1756), minacciato dall'alleanza fra Austria, Russia, Baviera, Spagna e Francia, che di fatto lo isolava nel contesto dell'Europa centrale. Pagava dunque a caro prezzo il risentimento di Maria Teresa per l'attacco a tradimento del 1740 con il quale Federico aveva annesso la Slesia. Alla vigilia dello scontro (che sarà per lui vittorioso) con le armate austriache a Leuthen, nel 1757, il sovrano prussiano rivolse un accorato appello all'esercito, che da sempre aveva appoggiato e condiviso le fortune della dinastia degli Hohenzollern. Ecco come il re cerca di infiammare gli animi delle truppe, da sempre fedeli e devote alla causa della monarchia, in una circostanza particolarmente delicata per le sorti del Regno.

Signori, io li ho fatti venire anzitutto per ringraziarli dei fedeli servizi che da tempo hanno prestato alla patria ed a me. Io li riconosco con l'animo più caldo. Non c'è quasi nessuno tra loro che non si sia segnalato attraverso una grande ed onorevole azione. Affidandomi al loro coraggio e alla loro esperienza, io ho fatto il piano per la battaglia che darò e devo dare domani. Contro tutte le regole dell'arte attaccherò un nemico quasi due volte più numeroso, e trincerato su alture. Devo farlo, o tutto è perduto. Noi dobbiamo battere il nemico o farci tutti seppellire davanti alle sue batterie. Così io penso, e così farò. Se c'è qualcuno tra loro che non la pensa così chieda qui subito il suo congedo. Io glielo concederò senza il minimo rimprovero. Mi aspettavo che nessuno di loro mi avrebbe lasciato; così, io conto interamente sul loro fedele aiuto e sulla certa vittoria. Se io dovessi cadere, e perciò non potessi compensarli per ciò che faranno domani, lo farà la nostra patria. Vadano al campo e dicano ai lor reggimenti ciò che io ho loro detto qui, e li assicurino che osserverò attentamente ciascuno di essi. Il reggimento di cavalleria che, appena sarà ordinato, non si lancerà à corps perdu sul nemico, subito dopo la battaglia lo farò appiedare, e lo trasformerò in un reggimento di guarnigione. Il battaglione di fanteria che, si trovi dovunque vuole, comincerà anche solo a vacillare, perderà le bandiere e le sciabole, e io gli farò tagliare i fregi dall'uniforme. Ora stiano bene, Signori: domani a quest'ora noi avremo battuto il nemico, o non ci rivedremo mai più.

Federico II, in R. Romeo - G. Talano, Documenti storici, Loescher, Torino 1969.

 

Austria e Prussia al termine della guerra dei Sette anni

L'avventuriero italiano Scipione Piattoli effettuò alcuni viaggi presso le principali corti europee negli anni immediatamente successivi alla guerra dei Sette anni. In questi passi egli analizza la situazione di Austria e Prussia; inoltre sottolinea la novità del ribaltamento di alleanze, che aveva visto combattere l'una al fianco dell'altra le corti di Versailles e di Vienna. L'ammirazione di Piattoli va alla Prussia, che era riuscita a resistere alla formidabile pressione militare di Austria, Russia, Francia e Spagna grazie alla sua compattezza interna, al prestigio della monarchia e alla perfetta organizzazione degli eserciti. L'autore individua proprio nell'efficienza dell'apparato bellico prussiano il punto di forza di Berlino.

CASA D'AUSTRIA — La sua potenza è formidabile, essa minaccia la Germania e tutti i principi vicini. Malgrado la sua alleanza con la Russia, non sembra che essa faccia tutta la sua parte nella guerra contro i turchi ai quali farà verosimilmente costare cara la sua neutralità con la cessione di Belgrado e della Valacchia. I suoi negoziati segreti con la Francia sembrano riguardare la Slesia prussiana e lo scambio della Baviera. Anche ciò aumenterà il raffreddamento della Russia per il suo alleato che si occupa soltanto di se stesso e produrrà una rivoluzione totale nel resto dell'Europa. Se la Russia si alleasse con la Prussia, la Confederazione germanica resisterebbe e l'imperatore sarebbe forzato per la terza volta a restare nell'inazione. L vero che il trattato di alleanza recentemente concluso fra la Russia e la Corte di Napoli sembra indicare sempre lo stesso piano e le stesse disposizioni e preparare così l'alleanza di tutta la casa dei Borboni, vanificando così le nostre congetture. Ma anche, bisogna convenire, che il governo di Napoli accetta di agire indipendentemente dalla Spagna e dalla Francia. Questo trattato troverebbe perciò tutt'al più la continuazione della buona intesa tra le due corti imperiali. In quest'ultima ipotesi, se si giunge a farvi accedere la Francia, sicuramente i turchi hanno tutto da temere e così pure le altre,potenze europee. Comunque sia, esaminando Casa d'Austria soltanto per se stessa, se da un lato le sue forze sono schiaccianti, la rivalità dei sovrani europei, la potenza del re di Prussia, la Confederazione germanica, l'estensione e la debolezza delle sue frontiere, i mutamenti recenti in tutte le branche dell'amministrazione, il malcontento di tutte le sue provincie, lo scoraggiamento dei funzionari, la timidezza dei ministri, tutto ciò ci farà insistere nel giudizio che la sua grandezza viene un poco esagerata e che si imparerà ad apprezzarla meglio.
LA PRUSSIA — Benché Federico II sia defunto, sembra che il suo spirito regni sempre nel governo di Berlino. Il re, secondo il giudizio del re suo zio, è un eccellente generale e, benché più portato di lui al fasto e ai piaceri, fa egualmente dell'economia la base principale della sua grandezza, considerandola come il solo modo di conservarla. La saggezza delle sue misure e la precisione con la quale ministri e funzionari sono abituati ad espletare i loro compiti, la valentia dei suoi generali e l'eccellenza delle sue truppe fanno di questo regno una potenza di primo ordine. L'alleanza che presto sarà resa pubblica con l'Olanda e l'Inghilterra lo renderà ancora più rispettabile. La Confederazione germanica, che è opera di questo stesso re, potrà sempre sussistere; d'altronde la Prussia saprebbe, di concerto con la Gran Bretagna, produrre in Svezia e Danimarca cambiamenti essenziali che non mancherebbero di avere importanti ripercussioni sia in Germania che in Russia.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

Origine ed evoluzione della politica di equilibrio

Secolo pieno di guerre il XVIII: per la successione spagnola (1700-13/14), per il dominio del Nord (1700-21), dell'alleanza contro la Spagna di Alberoni (1718-20), per la successione polacca (1733-38), per la successione austriaca (1740-48), dei Sette anni (1756-63), per l'indipendenza americana (1776-83), infine per le tre spartizioni della Polonia (1772-1793/95).
Il filo conduttore di tante guerre è stato visto dagli storici, unanimemente, nella politica di equilibrio, che a poco a poco è assurta a criterio direttivo della politica europea da quando è venuto meno l'universalismo dell'Impero e della Chiesa. Gli Stati moderni non sono più disposti ad accettare un'autorità supernazionale e con grande accanimento rigettano i tentativi unitari di Carlo V, di Filippo II, di Ferdinando II e di Luigi XIV. L'equilibrio delle forze si annuncia e si afferma ufficialmente, scrive Morandi, nel trattato di Utrecht (1713), dove i contraenti dichiarano esplicitamente che il principio di equilibrio è criterio per conservare la pace.
Esso si affermò non solo nelle relazioni internazionali tra i ministri, ma anche negli scritti dei teorici del tempo, per esempio Fénelon, Hume, Muratori, con la differenza che in questi ultimi l'equilibrio è considerato staticamente, in senso conservatore, là dove negli uomini politici ha un carattere instabile e dinamico a causa del premere delle nuove forze di espansione.
Il problema di trovare un equilibrio di forze non è più limitato, come nel passato, all'antagonismo tra Borboni e Asburgo, ma comprende altre zone e altri Stati: il Baltico per il quale lottano Svezia, Danimarca, Polonia, Russia e Prussia; l'Europa orientale contesa tra Russia, Austria e Turchia; il Mediterraneo dove si scontrano Francesi, Inglesi, Spagnoli e Turchi; ma soprattutto c'è la furibonda lotta nel settore del commercio marittimo, assurto, come scrive Mousnier, a «fonte principale dei mezzi finanziari».

Il commercio marittimo era diventato la base della potenza, più che il suolo e la popolazione, in un'epoca in cui la struttura della società non permetteva a nessuno stato di mobilitare tutte le sue risorse e tutti i suoi sudditi. Gli stati si battevano per le vie commerciali, per le colonie, per le relazioni con i grandi imperi indipendenti d'oltremare. La ricerca dell'equilibrio europeo aveva il significato di un tentativo di impedire a uno Stato di assicurarsi con la vittoria in Europa le più grandi colonie e i principali / punti strategici.

R. Mousnier - E. Labrousse, Il secolo XVIII, La Nuova Italia, Firenze 1955, p. 184.

Il sistema d'equilibrio non va inteso come un principio statico, come se i principali Stati europei abbiano praticato una politica di relazioni internazionali fondata sul rigido mantenimento delle condizioni esistenti. In realtà esso ispirò comportamenti politici diretti a impedire che la politica d'espansione di ciascuno fosse tale da creare una egemonia europea.
In questa linea di condotta eccelse l'Inghilterra, preoccupata soprattutto di mantenere e consolidare il proprio predominio coloniale e marittimo, e quindi interessata a bloccare ogni tentativo, da parte di uno Stato europeo, di realizzare una situazione di predominio nel continente. Nella seconda metà del Settecento la politica d'equilibrio, in virtù dell'opera di un'abile e accorta diplomazia, condusse al potenziamento dei grandi Stati a spese dei piccoli. Un esempio tipico di questa linea politica furono le spartizioni della Polonia tra Russia, Prussia e Austria, fatte in modo da non alterare le proporzioni tra gli Stati e quindi le relazioni internazionali.
Così scrive Morandi in proposito.

Nonostante questi veli e queste sfumature, o forse proprio in ragione dei vani sforzi compiuti per mascherare la realtà prepotente delle ambizioni, l'idea di equilibrio comincia a subire i primi attacchi. Essa era circondata da un'aureola di giustizia fino a che veniva intesa come una garanzia degli Stati deboli ottenuta attraverso il reciproco controllo, la mutua vigilanza, degli Stati più forti. Ma ora la politica d'equilibrio scopriva un altro volto e si trasformava in un complotto dei potenti per inghiottire gli inermi. L'equilibrio, concludeva un diplomatico francese, il marchese d'Houtefort, è une chose de pure opinion, che ogni Stato interpreta a suo modo, secondo il proprio vantaggio. Nulla di nuovo in questa definizione, ma è significativo che si acquisti coscienza più chiara dell'incompatibilità di un equilibrio statico di potenze con la vita internazionale ch'è, per sua natura, moto continuo, rivolgimento di forze, nascita e morte di organismi politici. E gli stessi governi, che hanno protestato l'altrui violazione del principio, sono poi scesi sul terreno comune reclamando «compensi» per ristabilire l'equilibrio perduto, originando nuove partizioni, compromessi, smembramenti, tutto un artificioso mercato di territori e di popoli.

C. Morandi, Il concetto della politica d'equilibrio nell'Europa moderna, La Nuova Italia, Firenze 1940, p. 12.

Principale sostenitrice del sistema fu l'Inghilterra, ovviamente per i suoi concreti interessi. Ergendosi a difesa della libertà e della sovranità dei popoli del continente, essa, come concordemente affermano gli storici, intendeva garantirsi l'egemonia marittima e commerciale; non avendo un grande esercito territoriale per far fronte allo Stato che aspirava all'egemonia dell'Europa, ricorse al sistema delle coalizioni che aiutava con il denaro e con la diplomazia.

Anche lo storico italiano Giuseppe Galasso sottolinea il ruolo dell'Inghilterra nella creazione di un assetto politico europeo all'insegna della stabilità. La strategia del primo ministro inglese Robert Walpole, del resto, prevedeva il consolidamento dell'egemonia mondiale inglese attraverso lo sviluppo delle conquiste coloniali in America e in Oriente, conquiste che sarebbero state favorite dall'assenza in Europa di una potenza preponderante. Gli Inglesi volevano esorcizzare il rischio di una nuova supremazia francese sull'esempio di quella esercitata da Luigi XIV; cercavano perciò di isolare la Francia attraverso una rete di alleanze che comprendeva i suoi tradizionali nemici, Austria e Russia. L'intuizione di collegare l'equilibrio europeo alla supremazia inglese sui mari sottolineava la presenza di una strategia per la prima volta "globale".

Bisogna chiaramente vedere e intendere come l'equilibrio abbia potuto essere e sia stato, oggettivamente e intenzionalmente, un elemento — e talora il cardine — di una politica di potenza. Così accade quando equilibrio vuol dire status quo, e lo status quo vantaggio per la potenza che più lo sostiene; oppure quando l'equilibrio è ottenuto con vantaggi di una potenza in generale oppure in un settore o zona particolare [...]. La casistica può essere al riguardo ricchissima. Il caso eminente è rappresentato dalla politica dell'equilibrio continentale in Europa, tenacemente sostenuto con ogni sforzo dall'Inghilterra per tutto il secolo XVIII e strettamente funzionale alla sua politica di potenza marinara e di primato mondiale per questa via. L'esempio inglese va, infine, ricordato perché mostra come l'equilibrio europeo sia ormai globale: prima, fino agli inizi del secolo XVIII, senza ancora una inclusione organica in esso dello spazio russo e di quello ottomano, poi anche con la loro inclusione e, quindi, con un allineamento definitivo dei confini dell'Europa politica a quelli dell'Europa geografica, quale contemporaneamente si conveniva di considerare lo spazio fino agli Urali. Nello stesso tempo l'esempio inglese dimostra come la globalità dell'equilibrio si sia articolata settorialmente. Il mare poteva compensare la terra. Ed egualmente guadagni e perdite in un settore potevano compensare quelli avutisi in un altro settore. E questo perché le componenti e le articolazioni regionali dell'equilibrio erano altrettanto importanti della sua globalità. La regionalità era, infatti, ancora assai forte nell'Europa delle prime potenze moderne, in cui il Baltico, i paesi centro-orientali, i Balcani, la Germania imperiale, l'area lotaringica, l'Italia, il Mediterraneo rappresentavano scacchieri sempre più strettamente coordinati fra loro, ma anche specificamente caratterizzati, con i loro particolari problemi, esigenze, prospettive.

G. Galasso, Storia moderna, Laterza, Roma-Bari 1995.

 

La strategia francese durante il governo di Fleury

Il cardinale André-Hércule de Fleury può essere considerato il Richelieu del XVIII secolo. Subentrato nel governo della Francia al termine della reggenza di Filippo d'Orléans, in un momento dunque particolarmente delicato per il Paese, egli cercò con tutte le proprie energie di restituire alla Corona francese prestigio e autorevolezza. La sua strategia prevedeva il risanamento finanziario, da ottenersi attraverso l'eliminazione di sprechi e di inutili spese, il rifiuto di una politica bellicista in Europa, lo sviluppo economico del Paese, logorato da quasi cinquant'anni di guerre e di campagne militari. Fleury si oppose risolutamente anche a ogni tentativo di ridimensionamento dell'autorità del monarca, con maggiore successo rispetto al reggente Filippo d'Orléans. La fiducia di Luigi XV, che quasi mai gli venne meno, consentì a Fleury di esercitare un influsso assai positivo all'interno della politica francese: grazie a lui la Francia fu in grado, attorno alla metà del Settecento, di riprendere una politica d'intervento nelle vicende europee e di riaffermare il suo ruolo di potenza di primo piano. Ecco come lo storico inglese A. Cobban valuta l'attività del primo ministro francese.

Fleury era il successore non di Luigi XIV e di Colbert, ma di Richelieu e di Mazzarino, e non fu indegno di questi predecessori. Fu primo ministro, pur senza averne il titolo: nel quadro di una corte invece che di un parlamento, egli fu un Walpole francese, che tenne il potere grazie alla fiducia del re, alla sua abilità personale e alla sua capacità di trattare gli uomini. La sua autorità, come quella del Walpole, fu indiscussa, e raggiunse il culmine fra il 1732 e il 1737, quando egli lavorò in stretta collaborazione con il guardasigilli e ministro degli affari esteri Chauvelin. Con l'implicito appoggio del re, egli riuscì a porsi al di sopra delle camarille di corte. Con Fleury al potere, la politica della Francia non fu più in balia di fazioni rivali. Il divampare di una nuova controversia giansenista fu soffocato se non del tutto spento. Come Walpole, infine, Fleury non fu un innovatore. Egli riteneva che la Francia avesse bisogno di un periodo di pace, e glielo diede; né esso fu sprecato. Dal 1717 al 1751 d'Aguesseau fu per la Francia un grande cancelliere il quale, anche nei momenti in cui i sigilli non furono nelle sue mani, continuò la sua opera di codificazione e riforma legislativa. Philibert Orry, controllore generale dal 1730 al 1745, fu un funzionario attivo, energico e coscienzioso, un grande amministratore, anche se non un riformatore, che riuscì a dare alle finanze francesi quell'ordine che era possibile nell'ambito dell'ancien régime e a mantenere la stabilità finanziaria, finché almeno la prudente politica estera di Fleury seppe evitare l'onere di spese eccessive. Se le finanze erano la chiave del successo per il governo francese, la politica estera era la chiave di una sana amministrazione finanziaria, e Fleury dedicò tutti i suoi sforzi a condurre in questo campo un'azione che fosse pacifica senza essere debole. In particolare è stato dimostrato che l'accusa spesso rivoltagli di aver trascurato la marina era del tutto infondata. Il suo obiettivo era evitare il ricostituirsi di quella coalizione europea contro la Francia, che la politica di Luigi XIV aveva provocato. Fleury continuò dunque la politica di alleanza con l'Inghilterra già inaugurata da Dubois. Assicuratesi le spalle da questa parte, poté dedicarsi a ripristinare l'influenza francese nell'Europa settentrionale e orientale; e nel 1738, col trattato di Vienna, dopo la guerra di successione polacca, riuscì a ottenere l'assegnazione dei ducati di Bar e Lorena a Stanislao Leszczynski e dopo di lui a sua figlia, la regina di Francia, e ai suoi discendenti.

A. Cobban, Il declino della monarchia di diritto divino in Francia,
in Storia del mondo moderno, vol. VII: Il vecchio regime, 1713-1763, Garzanti, Milano 1982, pp. 292-293.

 

La difesa dell'assetto di Utrecht: l'intervento inglese in Spagna e nel Baltico

Dal 1713-14 alla Rivoluzione francese l'Inghilterra guida la politica europea. Suo punto fermo è la conservazione nel continente dell'equilibrio raggiunto a Utrecht, favorita dalla miope politica del reggente francese, il duca d'Orléans, che in cambio da Londra ottiene la garanzia della Corona francese contro le rivendicazioni di Filippo V. Così assoggettata, la Francia per circa vent'anni non rappresentò nella politica europea una parte importante e mise completamente da parte le direttive, lasciate in extremis da Luigi XIV, di allearsi con gli Asburgo contro il predominio inglese. L'Inghilterra, incontrastata, può dettar legge. Ciò avvenne nella guerra scatenata nel 1717 dal cardinale Alberoni, desideroso di emancipare il suo re Filippo V dal divieto di succedere in Francia, di riconquistare i possedimenti italiani, di liberare il commercio spagnolo dal predominio inglese. L'Inghilterra costituì subito la Quadruplice alleanza anglo-franco-austro-olandese con la quale nella pace dell'Aia (1720) riportò la Spagna nell'ordine di Utrecht. Valsecchi mette bene a fuoco il consolidarsi del predominio inglese attraverso l'estendersi degli interessi commerciali nel Baltico, prima in funzione antisvedese, poi antirussa.

La politica di equilibrio spinge l'Inghilterra a intervenire anche nel Baltico, dove si contende il dominio (seconda guerra del Nord). L'Inghilterra si rivolge dapprima contro la Svezia: mira ad ingrandire il suo ducato di Hannover dei territori di Brema e di Velden. Ottenuto lo scopo, si rivolge contro la Russia: ragioni germaniche lo guidano — le mire russe sul Meclemburgo, che minacciavano da vicino Hannover — e ragioni inglesi: il monopolio commerciale inglese e olandese correva pericolo, qualora alla Russia, invece che alla meno temibile Svezia, toccasse il predominio sul Baltico. Le velleità di indipendenza economica dello zar preoccupavano la City, che si vedeva già esclusa da quello che stava diventando un mare interno russo. Una flotta inglese, nel maggio 1720, fa la sua apparizione nelle acque baltiche. Sono le prime avvisaglie dell'antagonismo anglo-russo, destinato a crescere con lo sviluppo della potenza moscovita.

F. Valsecchi, L'Inghilterra nella politica europea, in Questioni di storia moderna, Marzorati, Milano 1958.

Le paci di Stoccolma (1720) e di Nystadt (1721) assicurarono al, re inglese i due preziosi porti di Brema e di Velden.

Vero artefice della politica di potenza inglese dev'essere considerato, ad avviso dello storico W.R. Brock, il primo ministro Robert Walpole. Grazie alla sua abilità di statista e di fine diplomatico, Walpole riuscì da un lato a raggiungere una situazione di stabilità politica interna, che gli permise di governare con un'ampia maggioranza parlamentare di orientamento liberale (i cosiddetti whigs); dall'altro poté impostare una politica estera che coniugava una linea pacifista, finalizzata a impedire la formazione di potenze egemoniche sul continente, a un'espansione sempre più significativa sui mari. Egli intuì infatti quale importanza avesse per l'Inghilterra lo sviluppo dell'Impero coloniale: non potendo imporre la propria egemonia sul continente, per la mancanza di un esercito poderoso quale quello francese o prussiano, poteva però giocare la carta, vincente nel lungo periodo, di una supremazia a livello mondiale. Le colonie americane o i possedimenti delle Indie orientali avrebbero fatto dell'Inghilterra, nella seconda metà del XVIII secolo, la principale potenza commerciale del mondo.

Riunendo in sé l'educazione di un gentiluomo di campagna, i modi sdegnosi e i gusti raffinati di un grande aristocratico e le doti di un abile uomo di affari, il Walpole era quanto mai adatto a governare l'Inghilterra hannoveriana. Non era un grande oratore, ma riusciva ugualmente efficace e persuasivo. La sua padronanza della tattica politica ebbe modo di manifestarsi sia in parlamento, dove aveva bisogno di tenere insieme una maggioranza stabile, sia a corte, dove si trovò a far fronte ai continui intrighi che miravano a sottrargli la fiducia del re. I risultati della sua attività legislativa furono nel complesso modesti, ma da un governo del secolo XVIII non ci si attendeva che legiferasse troppo. Invece, l'impronta lasciata su tutta quanta una generazione dalla personalità dominatrice del Walpole fu forte e duratura: egli si rese conto che il sistema migliore per garantire la stabilità della dinastia, che costituì l'obiettivo principale e costante della sua politica, era quello di conciliarsi il favore della piccola nobiltà di campagna, di incrementare il commercio, di tenere tranquilla la chiesa e infine di evitare la guerra. Cercò dunque di alleggerire la pressione fiscale, specialmente quella esercitata dall'imposta fondiaria che pesava particolarmente sulla piccola nobiltà di campagna; evitò di far gravare il controllo centrale sulle autorità locali e consentì la votazione di gravissime sanzioni penali per i reati contro la proprietà; non volle assolutamente attaccare il Test act e il Corporation act per non provocare un risveglio del fanatismo della chiesa alta e mantenne buoni rapporti con la Francia, almeno finché gli fu consentito di farlo. Il suo atteggiamento favorevole alla piccola nobiltà di campagna ebbe come conseguenza un'attiva azione di accrescimento – anche grazie a un uso accorto dell'influenza della corona – del potere territoriale dei suoi alleati all'interno della classe dei grandi proprietari terrieri nobili. La potenza che in tal modo si venne accumulando nelle mani dell'aristocrazia whig trasformò questa stessa aristocrazia quasi in una forza politica indipendente all'interno dello stato. Ma il lento radicarsi nella piccola nobiltà di un sentimento di lealtà nei confronti della dinastia, cosa che il Walpole incoraggiò, fece sì che Giorgio III avesse a disposizione un valido strumento nella sua lotta contro l'aristocrazia.

W.R. Brock, L'Inghilterra, in Storia del mondo moderno, vol. VII, Il vecchio regime, 1713-1763, Garzanti, Milano 1982, pp. 329-330.

 

Il ritorno della Francia: la guerra di successione polacca

Anche quando l'Inghilterra, sotto il governo di Walpole, per circa un ventennio (1721-42) si estrania dall'Europa per dedicarsi al consolidamento del sistema parlamentare e allo sviluppo industriale e commerciale, la politica europea resta sempre in equilibrio.
Ciò è evidente nella questione della successione polacca: essa dà luogo a un'altra guerra (1733-38) proprio perché l'elezione di Leszczynski per Austria e Russia significa la Polonia al servizio della politica francese, e la candidatura di Augusto III agli occhi del ministro Chauvelin appare un ingrandimento del pericolo asburgico. Del contrasto fra i due nemici tradizionali approfittano gli Stati che anelavano ai possessi austriaci in Italia. Si schierano con la Francia quei sovrani che sperano nella sconfitta degli Asburgo per impossessarsi dei loro territori in Sicilia: Carlo Emanuele I I I, che vuole Milano; Filippo V, che vuole sistemare i figli avuti da Elisabetta Farnese.
La soluzione del conflitto fu trovata in virtù della politica dell'abile cardinale Fleury, che al programma contro gli Asburgo di Chauvelin preferì un'intesa con essi nell'intento di sottrarre l'Europa all'egemonia inglese, ma sempre nell'equilibrio di forze tra le due dinastie. Nella pace di Vienna (1738) Borboni e Asburgo ebbero guadagni bilanciati da perdite.

La Polonia ad Augusto III, la Lorena al Leszczynski e dopo lui alla Francia; Napoli e Sicilia a Don Carlos; Parma e Piacenza agli Asburgo, la Toscana a Stefano di Lorena, genero dell'Imperatore. Quasi silenziosamente, senza clamori di fanfare né strepito di grandi battaglie campali –commenta Spini – il cardinale Fleury, nel Trattato di Vienna del 1738 è riuscito ad ottenere in un colpo solo quello che i precedenti governi francesi avevano inutilmente inseguito per decenni interi. L'annessione virtuale della Lorena assicura definitivamente il confine della Francia rispetto all'Impero tedesco. La nuova alleanza stabilitasi con la Spagna riapre la prospettiva di quella penetrazione economica francese nel Sud-America, che il Re Sole aveva distrutto con i propri errori. L'arretramento degli Asburgo in Italia muta radicalmente l'assetto politico della penisola e fa balenare la possibilità di un mutamento nell'intera situazione mediterranea, mediante un accordo dinastico tra le tre corone borboniche di Francia, Spagna e Napoli.

G. Spini, La successione di Spagna, in Storia dell'età moderna, Cremonese, Roma 1960, p. 804.

In tutte le vicende di questa guerra e di questa pace, aggiunge Valsecchi, l'assenza dell'Inghilterra di Walpole è più apparente che reale. In realtà essa si preoccupò di controllare attentamente e continuamente la situazione, si eresse a mediatrice tra le parti e fece in modo che nel trattato di pace l'equilibrio europeo non fosse sostanzialmente modificato.
Il governo inglese, infatti, cercò con tutte le sue forze, anche in assenza di un coinvolgimento diretto, di scongiurare una nuova stagione di preponderanza francese in Europa.

Nella guerra di successione polacca l'Inghilterra non s'impegna: le basta sorvegliare il gioco, che l'equilibrio non venga sostanzialmente turbato. L'Imperatore non ottiene da Londra che una benevola mediazione. Walpole mira a neutralizzare le vittorie militari franco-spagnole: senza rischiare né un uomo né una sterlina, zolle sole armi della diplomazia: assumere la parte d'arbitro nel regolamento del conflitto. D'intesa con gli Stati Generali d'Olanda, si offre come mediatore, e indica le basi dell'accordo, in modo che gli spostamenti territoriali siano ben dosati e bilanciati. Il risultato non fu Immediato: la mediazione venne declinata. Ma, alla conclusione della pace, furono pur sempre le condizioni indicate dall'Inghilterra, a fornire la linea direttiva. Anche se non apparente, il successo inglese non resta per questo meno sostanziale: il risultato è raggiunto, poiché il bilico delle forze, su cui conta la politica inglese, si è mantenuto. L'equilibrio, per cui l'Inghilterra ha lottato con tanta tenacia, è ormai un fatto acquisito, una norma riconosciuta della politica europea.

F. Valsecchi, L'Inghilterra nella politica europea, in Questioni di storia moderna, Marzorati, Milano 1958, p. 796.

 

La rivalità fra Austria e Prussia dalla guerra di successione austriaca alla guerra dei Sette anni

Protagonisti della scena politica e militare nell'Europa centrale furono, a partire dalla loro concomitante ascesa al trono, il sovrano di Prussia Federico II il Grande (1740-86) e l'imperatrice austriaca Maria Teresa d'Asburgo (1740-8o). La rivalità fra loro si manifestò subito improvvisa e violenta; era l'inizio di una competizione per l'egemonia all'interno del mondo germanico, destinata a risolversi solo sui campi di Sadowa nel 1866, con il trionfo degli eserciti prussiani del cancelliere Bismarck. Quello tra Federico Il e Maria Teresa è un antagonismo nelle sue fasi iniziali: la posta in gioco è la Slesia, regione particolarmente ricca e popolosa dell'Impero asburgico, che suscitava le mire espansionistiche del sovrano prussiano.
I due monarchi erano diversissimi fra loro per indole, formazione personale e senso dello Stato: Federico Il era spregiudicato e calcolatore, pronto ad approfittare della situazione di difficoltà nella quale si trovava l'imperatrice d'Austria. Egli raccoglieva l'eredità del padre Federico Guglielmo I (1713-40), il primo a fare dell'ex principato elettorale del Brandeburgo (divenuto regno di Prussia nel 1701) una potenza europea. Nel suo disegno di rafforzamento della monarchia, Federico Il fece dell'esercito uno degli strumenti principali per consolidare la sua autorità e impostare una politica di espansione in Europa centrale. Così valuta la sua attività di sovrano lo storico inglese W.H. Bruford.

Nell'organizzazione dello stato ai fini di una politica di potenza, molto di ciò che reputiamo tipicamente prussiano era già stato fatto da Federico Guglielmo, tanto che, in questo campo, ben poco pareva restasse da fare a Federico. «L'edificazione dello stato prussiano,» scrive Hartung, «era stata in massima parte completata entro il 1740: Federico il Grande non ne modificò i tratti essenziali.» Egli continuò a sviluppare il sistema nel senso di un'accresciuta autocrazia, ma, al contrario del padre, non fu fondamentalmente un organizzatore, ma un uomo d'azione, più ambizioso e capace di uno sforzo più duraturo. Le sue brillanti qualità intellettuali erano accompagnate da un'immensa audacia e fiducia in se stesso, cosicché fin dai primi tempi la sua visione degli obiettivi politici e il suo conseguente comportamento nei confronti dei maggiori stati europei, e specialmente dell'Austria, furono molto differenti da quelli del padre, come risulta evidente anche dai contrasti rilevati fra i due sovrani dal Ranke. Federico Guglielmo era estremamente irascibile, costantemente tentato di ricorrere alla violenza personale contro chiunque gli desse fastidio: la causa della ribellione di Federico, prima della fuga, fu l'affronto di essere stato schiaffeggiato dal padre, in pubblico, a diciotto anni. Ma come sovrano Federico Guglielmo era amante della pace, soddisfatto di amministrare con parsimonia una potenza latente; il suo esercito era una creatura troppo bella per servirsene a cuor leggero. Federico al contrario non nutriva il rispetto del padre per la tradizione imperiale, e aveva invece ancora più radicato il senso della dignità propria e della dinastia; gli sembrava perciò che la Prussia, durante il regno di suo padre, avesse sopportato una parte umiliante nelle relazioni con l'Austria. Quando, alla morte di Carlo VI, gli Asburgo rimasero senza un erede maschio, Federico optò immediatamente per una politica di audace aggressione: una guerra breve e violenta gli avrebbe assicurato, egli riteneva, il possesso del primo obiettivo che gli era necessario per aumentare la potenza dello stato. «Non c'era davvero nessun appiglio, dobbiamo ammettere,» scrisse Hintze, «per una chiara, indiscutibile pretesa legale sulla Slesia.» Federico non volle neanche sentir parlare di negoziati: contro il parere di tutti, si ostinò a voler mettere Maria Teresa, della quale aveva sottovalutato il coraggio e la tempra, di fronte al fatto compiuto, invadendo senza preavviso la Slesia. Lasciò ai giuristi il compito di escogitare una rivendicazione; ai suoi occhi quello era affar loro. Con lo stesso spirito, durante la guerra, progettò due volte una pace separata, e la seconda volta la concluse effettivamente, comportandosi proprio nel modo che aveva espressamente condannato nel suo Anti-Machiavel.

W.H. Bruford, L'ascesa della Prussia, in Storia del mondo moderno, vol. VII: Il vecchio regime, 1713-1763, Garzanti, Milano 1982, pp. 407-408.

L'imperatrice austriaca presentava una personalità assai differente da quella del monarca prussiano: fedele sino allo scrupolo alla parola data, rimase scandalizzata di fronte all'atteggiamento proditorio con il quale Federico II l'aveva attaccata senza preavviso. Animata da un profondo desiderio di migliorare concretamente le condizioni di vita dei suoi popoli, Maria Teresa si riteneva investita da Dio di una missione che trascendeva la sua persona e che aveva come obiettivo lo sviluppo morale e materiale dei suoi sudditi. Sinceramente religiosa e devota alla Chiesa, l'imperatrice austriaca incarnava perfettamente il modello di sovrana riformatrice ma aliena da ogni radicalizzazione, incline semmai al compromesso con la tradizione, pur di garantirsi una situazione di stabilità interna. Perciò attuò un riformismo gradualista, lontano da qualsiasi intransigenza, a differenza del figlio Giuseppe II (1780-90), e basato sull'alleanza con le classi nobiliari dei suoi popoli e sul sostegno della Chiesa cattolica. Di quest'ultima non contestò affatto la posizione di prestigio all'interno della società, ma ridimensionò il ruolo e la capacità di intervento nelle questioni di rilevanza politica, che avocò a sé.
La volontà di Maria Teresa fu pertanto di rientrare in possesso della ricca Slesia; così si spiega il ribaltamento delle alleanze, con l'avvicinamento fra le potenze tradizionalmente rivali della Francia borbonica e dell'Austria asburgica; un ribaltamento consolidato dal successivo matrimonio tra il futuro Luigi XVI e la figlia di Maria Teresa, Maria Antonietta. Questa la valutazione che elabora in merito lo storico inglese C.A. Macartney.

I nove anni che separano la pace di Aquisgrana dall'inizio della guerra dei sette anni costituiscono il cosiddetto «primo periodo della riforma» di Maria Teresa. Essi videro l'introduzione di molti cambiamenti di vitale importanza nella struttura interna della monarchia austriaca. Tuttavia si tratta essenzialmente di un periodo di transizione dominato dal tentativo di raggiungere alcuni scopi particolari, piuttosto che di un periodo interamente occupato dalla piena e tranquilla realizzazione dell'opera di riforma. Maria Teresa, che naturalmente occupa un posto d'onore nella galleria dei sovrani illuminati d'Europa, era convinta che fosse un suo diritto incontestabile esercitare la sua volontà su tutti i suoi domini, essendo responsabile delle sue decisioni solo davanti a Dio e non davanti ai sudditi; ma era altrettanto convinta che fosse suo dovere esercitare il potere per il bene dei sudditi stessi. In politica interna essa proseguì nell'opera di accentramento, cercando di scalzare con una rete di funzionari del governo centrale l'antico potere degli stati. Tuttavia inizialmente tale politica non corrispose all'attuazione di un piano generale, ma fu motivata di volta in volta da questioni particolari. Maria Teresa si era vista attaccata da avidi vicini, aveva visto la sua posizione minacciata, aveva dovuto cedere la Slesia a Federico di Prussia. Essa non poteva rassegnarsi a questa perdita ed era fermamente decisa a recuperare quella regione e a vendicarsi di Federico, che detestava con tutto il cuore. I provvedimenti presi da Maria Teresa nei primi anni di regno ebbero perciò un carattere empirico e furono volti essenzialmente al raggiungimento di questo scopo; inoltre, nella loro attuazione, essa si valse soprattutto dell'esperienza fatta, insieme con i suoi consiglieri nei precedenti otto anni di regno (a non tenere conto degli ultimi anni di regno del padre, di cui era stata impaziente osservatrice). La conclusione principale a cui giunse, a parte quelle che si riferivano direttamente alla situazione internazionale, fu che l'esercito non era in grado non solo di riconquistare la Slesia, ma di difendere l'Austria. Sempre disposta a imparare dal nemico, Maria Teresa aveva preso molto sul serio la lezione impartitale da Federico grazie alla superiorità del suo esercito, e molte delle misure che adottò in questi anni e di cui seguì l'attuazione con particolare cura furono dirette ad aumentare l'efficienza tecnica dell'esercito. A questo scopo mirarono la fondazione dell'accademia militare a Wiener Neustadt, la creazione di accampamenti regolari, l'introduzione delle manovre, il miglioramento delle condizioni tanto degli ufficiali quanto degli uomini appartenenti ai ranghi inferiori. Ma la causa più profonda della debolezza dell'esercito, di cui Maria Teresa aveva fatto l'amara esperienza, era politica: gli stati avevano ancora la facoltà di concedere o di negare alle truppe quei sussidi che quando poi venivano concessi erano sempre scarsi e inadeguati. Era quindi necessario aumentare le risorse finanziarie dello stato, cioè accrescere le possibilità economiche dei contribuenti; ma prima ancora di ottenere questo, si dovevano rendere accessibili alla corona le fonti d'entrata già esistenti e a tale scopo occorreva ancora una volta semplificare e accentrare le strutture politiche e amministrative dello stato.

C.A. Macartney, I domini asburgici, in Storia del mondo moderno, vol. VII: Il vecchio regime, 1713-1763, Garzanti, Milano 1982, pp. 542-544.

 

Un bilancio della guerra dei Sette anni

Un detto riassume bene l'esito della guerra dei Sette anni, quello che attribuisce a Luigi XV Naver fatto la guerra per il re di Prussia». L'espressione sintetizza perfettamente i risultati concreti del conflitto. R sovrano I;ancese, pur vittorioso in diversi combattimenti, non era riuscito a piegare, neppure con l'alleanza di Austria, Russia e Spagna, la potenza prussiana, che usciva rafforzata dalla guerra e saldamente in possesso della Slesia. Luigi XV, invece, vedeva vanificata l'azione di potenziamento coloniale promossa dal cardinale Fleury a causa delle disfatte subite in America e in India, che segnavano il trionfo dell'Inghilterra, vera e sola vincitrice della guerra, come principale potenza coloniale mondiale. Quali grandi potenze continentali si affermavano intanto la Prussia, uscita indenne da rovesci militari, devastazioni e occupazioni della stessa capitale del Regno, l'Austria, vittoriosa in numerosi scontri, e la Russia, che aveva soppiantato la Francia nell'influenza sulla Polonia. Ormai fuori gioco come potenza continentale risultava la Spagna di Carlo 111 di Borbone, in grado solo di promuovere una politica di sostegno all'iniziativa della Francia. Ecco lo sguardo d'insieme proposto dallo storico inglese Eric Robson.

L'accordo fra la Prussia, l'Austria e la Sassonia fu concluso a Hubertusburg il 15 febbraio 1763: esso rifletteva l'incertezza della situazione militare, poiché di fatto ripristinò lo status quo ante bellum. Federico rifiutò di ammettere la Russia alle trattative di pace poiché essa si era già ritirata dalla guerra. Egli restò padrone indiscusso della Slesia e l'Austria non fece altri tentativi per recuperare questo territorio. Già durante i negoziati di pace del 1762 Federico aveva cercato di conservare la Sassonia anche a costo di rinunciare alla Prussia orientale: ora invece fu costretto a lasciare l'elettorato, di cui aveva sperato di conservare almeno una parte, all'elettore Augusto III. Comunque si rifiutò di pagare indennizzi di qualsiasi genere per i danni arrecati durante l'occupazione. Promise anche di sostenere la candidatura dell'arciduca Giuseppe, il figlio maggiore di Maria Teresa, a re dei romani. La perdita delle isole delle Indie occidentali e dei possessi francesi nelle Indie orientali fu per la Gran Bretagna l'amara contropartita di aver abbandonato la Prussia. Quando una grande potenza rinuncia a una parte delle sue conquiste per garantire lo status quo ante bellum a un alleato in cattive acque, è abbastanza logico supporre qualche connessione fra le concessioni del vincitore e le restituzioni fatte dal nemico a quell'alleato. L'azione del governo britannico durante i negoziati con la Francia assicurò alla Prussia la restituzione dei suoi possedimenti occidentali, che essa non era stata in grado di difendere e che non avrebbe certo potuto riavere se la sua alleata non avesse sacrificato alcune delle colonie conquistate alla Francia. Benché la guerra dei sette anni non avesse apportato molti mutamenti territoriali in Europa, essa esercitò un'influenza decisiva sulla posizione e sugli orientamenti futuri delle potenze europee. La fortuna e l'abilità militare di Federico avevano salvato la Prussia dal pericolo di essere eliminata dal novero delle grandi potenze. [...] Per il fatto di aver conquistato con la forza alla Prussia un posto fra le grandi potenze, Federico venne a trovarsi completamente isolato in Europa: in cattivi rapporti con la Gran Bretagna, senza relazioni diplomatiche con la Francia, sempre nemico dell'Austria e della Sassonia. In questa situazione si imponeva l'alleanza con la Russia. L'impero russo, che dalla sua partecipazione alla guerra aveva tratto ben pochi profitti, oltre il prestigio, scoprì di avere un interesse in comune con Federico: il destino del regno di Polonia. Sul continente europeo la Francia aveva svolto un ruolo di secondo piano, e per di più era stata continuamente impegnata in operazioni che ne avevano esaurito le energie senza darle un compenso adeguato. Pur restando sempre la maggiore potenza d'Europa per popolazione e forza militare, non era stata all'altezza della fama conquistata nelle guerre degli anni precedenti. Essa continuava ancora a pretendere di essere considerata il primo paese d'Europa, ma in realtà era molto indebolita dalle discordie interne e profondamente scossa dal colpo apportato al suo prestigio morale. Una pace che confermava la supremazia marittima della Gran Bretagna e il prestigio militare della Prussia non poteva essere che una «pace disonorevole», da riscattare al più presto possibile. Inoltre, la mentalità e gli orientamenti politici rendevano difficile un rovesciamento delle alleanze come quello che aveva trascinato la Francia in questa guerra. L'odio tradizionale contro l'Austria era troppo radicato nelle coscienze per essere eliminato da una generazione di diplomazia avventurosa. Il risultato disastroso della guerra dei sette anni, dando un grave colpo alla monarchia, ne preparò la caduta e fu una delle ragioni per cui dopo il 1791 i governi francesi ritornarono in gran fretta ai vecchi sistemi, cioè alla tradizione della guerra contro l'Austria: la Francia rivoluzionaria conquistò infatti i Paesi bassi austriaci. La Francia non era più l'arbitro della situazione europea. Negli anni seguenti, la bilancia del potere si spostò verso oriente e la politica dell'Europa continentale fu dominata dall'Austria, Russia e Prussia, mentre l'influenza francese, nell'Europa orientale, fu eliminata: grandi avvenimenti, come la spartizione della Polonia nel 1772 e lo smembramento dell'impero turco nel 1774, si svolsero infatti senza la partecipazione della Francia.

E. Robson, La guerra dei Sette anni, in Storia del mondo moderno, vol. VII: Il vecchio regime, 1713-1763, Garzanti, Milano 1982, pp. 641-645.

 

 

 

 

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