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FONTI

 

La debolezza della monarchia elettiva polacca

Si propone qui un esempio dei vari Pacta conventa ai quali la monarchia polacca, a partire dal 1573, si dovette piegare per volontà della grande aristocrazia terriera, che aveva nel sejm la sua assemblea rappresentativa.
La monarchia divenne elettiva e affidata alla designazione da parte del parlamentino nobiliare.
Usciti di scena gli Jagelloni (1386-1572), l'aristocrazia creò di fatto una sorta di repubblica: per scongiurare la formazione di un nuovo e stabile potere autocratico, capace di limitarne le prerogative, la nobiltà impose al re il rispetto di accordi scritti che configuravano un potere monarchico blando, relegato quasi esclusivamente a competenze di carattere militare.
Tale debolezza, destinata a diventare endemica, unitamente alla mancanza di una dinastia stabile ed efficiente sul trono di Varsavia, determinò caos istituzionale e vuoti di potere.
Entrata nell'orbita russa con Augusto III di Sassonia (1733-64), la Polonia sarà letteralmente fagocitata dalle sue potenti vicine, Austria, Prussia e Russia, attraverso tre successive spartizioni. In questo modo, quella che agli inizi del XVII secolo rappresentava una delle principali potenze europee, nel 1796 si sarebbe dissolta come Stato indipendente.

1. L'elezione dei Re rimarrà sempre in potere della repubblica; ed il Re durante la sua vita, ben lungi dal nominare un successore, non vi contribuirà né direttamente, né indirettamente.
2. Il Re eletto non prenderà più il titolo di signore ereditario, preso dalle due dinastie dei Piasti e dei Jagelloni.
3. Il Re non potrà, senza il consenso unanime degli Stati convocatisi in Dieta, dichiarare guerra, ordinar la leva in massa, aumentar le imposte, né il diritto delle dogane; egli non potrà nemmeno, senza questo consenso, spedire ministri alle Corti straniere allorquando si tratterà di affari maggiori.
4. Se le opinioni del Consiglio del Senato si troveranno divise, il Re si porrà dal canto dei Senatori che voteranno conformemente alla legge, od al più grande vantaggio del pubblico bene.
5. Le diete ordinarie saranno convocate assolutamente ogni due anni, e più spesso se il caso lo esigesse; ma la loro riunione non si protrarrà giammai al di là delle sei settimane.
6. Le cariche dello Stato al par dei dominii reali non saranno conferite che ai nobili polacchi, ad esclusione degli stranieri.
7. Il Re non potrà né contrarre matrimonio, né far divorzio senza il consenso del Senato.
8. Se il Re violasse qualsiasi diritto, libertà o immunità, o tutto ciò che egli avesse giurato nei Pacta conventa, i suoi sudditi rimarrebbero sciolti dai vincoli del loro giuramento di obbedienza.

Pietro il Grande fa della Russia una grande potenza

Il seguente brano è tratto da un discorso ufficiale che lo zar Pietro I Romanov (1682-1725) tenne nel 1714 in occasione del varo di una nave nel porto di San Pietroburgo, che dal 1703 era la nuova capitale dell'Impero.
Il sovrano era a buon diritto orgoglioso della crescente potenza, non solo militare, ma anche economica e culturale, di cui la Russia stava dando prova. L'accesso al mar Baltico, garantito dalla pace di Nystadt, era il primo tassello di una strategia finalizzata a fare dello Stato russo un elemento centrale negli equilibri politici tra le maggiori potenze occidentali.
A Occidente Pietro guardava quando ricordava la necessità di aprire il Paese all'influenza culturale europea, così da svecchiare e rinnovare le strutture e le istituzioni ereditate dai predecessori e che risultavano ormai desuete e anacronistiche.

Chi tra voi, fratelli miei, trent'anni fa si sarebbe sognato che voi avreste con me adoperato il martello qui sul Baltico, che noi, vestiti alla tedesca, avremmo posto le nostre dimore in paesi conquistati dai nostri sforzi e dal nostro valore, e che provveduti di soldati e marinai tanto valorosi e vittoriosi, di tanto abili artigiani stranieri o formatisi all'estero, noi avremmo acquistato grande stima presso tutti i principi e popoli? Dalla Grecia e dall'Italia, le scienze e le arti si sono diffuse attraverso la Germania in Polonia; ora verrà anche la nostra volta, se voi mi aiuterete nei miei seri propositi, e non soltanto per cieca obbedienza, ma anche per libera decisione vorrete accogliere il bene e respingere il male. Io paragono questo peregrinare delle scienze alla circolazione del sangue nel corpo umano, e prevedo che esse in avvenire abbandoneranno le loro sedi d'Inghilterra, Francia, Germania, per dimorare per alcuni secoli da noi; e tornare indi nella loro vera patria, la Grecia. Frattanto vi ammonisco a ricordare il detto "pregate e lavorate", giacché allora potrete star sicuri che, forse ancora noi viventi, potrete far vergognare altri paesi civili, e portare la gloria della Russia al sommo della sua altezza.

In V. Giltermann, Storia della Russia, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol. I, p. 917.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

La breve potenza della Svezia

La Svezia nel Seicento ebbe tre grandi re.
Gustavo Adolfo intervenne con successo nella guerra dei Trent'anni, non solo in nome della difesa della fede protestante, ma soprattutto a salvaguardia dei suoi interessi nel Baltico, dove si annetté le coste della Carelia e della Livonia, oltre all'Estonia e all'Ingria già conquistate.
Dopo il breve regno di Cristina, Carlo X condusse la "prima guerra del Nord" (1654-60) contro Polonia e Danimarca, togliendo a quest'ultima il controllo degli stretti. Il dominio di coste, estuari, porti e stretti assicurò allora alla Svezia il cospicuo reddito dei pedaggi della navigazione sul Baltico, tanto da venire definita «la doganiera del mare».
Per mantenere tale situazione di privilegio, Carlo XI svolse una politica di pace, tutta tesa al risanamento finanziario (per sottrarsi alla dipendenza della Francia, cui i sovrani precedenti erano ricorsi per prestiti di guerra), al riordinamento civile e militare, al controllo del potere militare e alla creazione d'un sistema moderno di assolutismo regio.
La pace di Oliva (1660) con cui s'era conclusa la guerra nordica può essere considerata parallela alla pace dei Pirenei (1659). Con questa la Francia consolidava la sua egemonia nell'Europa occidentale, con quella la Svezia raggiunse il massimo della sua potenza sul Baltico.
Potenza di breve durata, però, poiché cinquant'anni più tardi, alla morte di Carlo XII, la Svezia aveva perduto per sempre il rango di grande potenza e la monarchia cessò di essere assoluta.
Alle radici del rapido declino della meteora svedese vi erano diversi fattori.
Il più importante era la pretesa di esercitare una stabile egemonia politica sfidando l'alleanza stipulata da Russia, Sassonia, Hannover, Polonia e Danimarca. Gli antagonisti della Svezia vedevano nell'espansionismo del giovane sovrano Carlo XII Vasa una reale minaccia non solo per gli equilibri politici regionali, ma per la loro stessa sopravvivenza come realtà politiche autonome.
Questa è l'opinione, in proposito, dello storico inglese R. Hatton.

Nella grande guerra del nord la Svezia, e con essa il suo monarca assoluto, il giovane Carlo XII, dovette affrontare una sfida che i suoi statisti avevano da lungo tempo previsto ma che grazie alla fortuna e all'abilità di governo era stata finora evitata: l'attacco simultaneo di una coalizione di potenze a est e a ovest dell'impero svedese. Nessuno a Stoccolma si era mai fatte illusioni circa i profondi rancori maturati nei vicini per l'espansione, in apparenza irresistibile, conosciuta dalla Svezia fin da quando, nel tardo medioevo, aveva abbandonato l'Unione scandinava. A tracciare le linee di questa espansione erano state esigenze strategiche ed economiche insieme a considerazioni d'ordine dinastico e religioso, ma a mettere in moto le forze che avevano portato alla costruzione dell'impero era stata, quasi quanto l'iniziativa svedese, la situazione generale del Baltico e dell'Europa, con le sue tensioni politiche e i suoi vuoti di potere. La Svezia aveva sempre mirato, fin dalla guerra di liberazione, ad affrancarsi dal controllo danese che paralizzava i suoi sbocchi verso l'occidente e a ricacciare la Danimarca dalla penisola scandinava, così come i disordini di confine e i conseguenti attriti con i moscoviti nel ducato di Finlandia l'aveva portata a cercare a nord-est una frontiera più sicura. Ciò nonostante a farla avventurare per la prima volta a sud del golfo di Finlandia era stato un appello dell'agonizzante ordine del Portaspada che invocava aiuto per difendere il proprio territorio bramato dai russi, danesi e polacchi, così come a implicarla negli affari della Polonia e nei conflitti interni del Sacro romano impero era stato semplicemente un matrimonio con la corte polacca. Nella Svezia, coinvolta in una fortunata espansione su tre fronti, l'idea dell'impero nacque da sé. Le conquiste nel Baltico orientale vennero considerate a buon diritto come i bastioni della sua situazione di grande potenza, bastioni che dovevano essere difesi a tutti i costi. Attraverso i porti dell'Ingria, dell'Estonia e della Livonia svedese passavano gran parte delle esportazioni russe e polacche, e si sperava di poter attrarre o costringere a transitare per questi territori un volume sempre maggiore di merci in modo che i pedaggi e le dogane andassero a gonfiare i tributi che queste stesse provincie orientali dovevano all'erario svedese. In particolare era alla Russia che si guardava come a un hinterland i cui scambi con l'Europa potevano essere incanalati attraverso i porti svedesi del Baltico, e questo spiega come già da tempo Stoccolma avesse progettato la distruzione di Arcangelo. Analogamente essa desiderava impossessarsi dei porti polacchi della Prussia occidentale e del ducato di Curlandia, in quanto anche il commercio polacco tendeva ad aggirare gli sbocchi di Narva, Reval e Riga, controllati dagli svedesi. E al di là di quest'ambizione di infiltrarsi nel commercio russo e polacco c'era il sogno di poter attrarre in un Baltico divenuto ormai un lago svedese anche merci turche, persiane e perfino traffico dall'estremo oriente. In antitesi a queste considerazioni prevalentemente economiche che dominavano la politica svedese nei confronti del Baltico orientale — e questo in un periodo in cui la Danimarca, perdute Gotland e Osel, aveva cessato di contare politicamente su tale litorale e la Russia e la Polonia sembrava avessero ormai accettato l'egemonia svedese sul medesimo — c'era però un'altra concezione per cui i possedimenti che la Svezia aveva nell'impero venivano considerati soprattutto come una salvaguardia degli accordi religiosi, e perciò dinastici, di Vestfalia, così come lo erano il suo seggio alla dieta imperiale e la sua posizione di garante della pace del 1648. Ma essi erano altresì avamposti che le consentivano di esercitare una certa influenza in Europa.

R. Hatton, Carlo XII e la grande guerra del nord,
in Storia del mondo moderno, vol. VI: L'ascesa della Gran Bretagna e della Russia, 1688-1713, Garzanti, Milano 1982, pp. 776-777.

Anche lo storico inglese Fisher, attento alla componente psicologica nell'analisi della personalità del giovane sovrano svedese, sottolinea gli errori compiuti da Carlo XII e la sua responsabilità nel rapido declino dell'astro di Stoccolma.

Con velocità che parve miracolosa, il giovane svedese ruppe il cerchio dei suoi nemici e li sconfisse su tutti i fronti. Lo stesso Marlborough fu costretto a salutare in lui un grande maestro d'arte bellica. Disgraziatamente gli mancava l'equilibrio. Carlo era continuamente eccitato e indignato. A un carattere così fiero e collerico, l'atmosfera dell'autocrazia non era utile ma dannosa, perché quando il suo giudizio era errato, nessuna forza poteva ricondurlo sulla via del senso comune. Fallimenti, difficoltà, sconfitte, umiliazioni, non influivano minimamente sulla sua fiducia fuor dell'umano e sulle sue doti straordinarie. Un senso di fatalismo, generato dal facile successo, lo tenne a galla in mezzo a tutte le vicissitudini, mentre la Svezia, salassata a morte dalla sua ostinata ambizione, decadeva rapidamente, finché perdette per sempre il suo posto dominante e utilissimo nella vita politica d'Europa [...]. Perdute le province baltiche, Carlo seguì per riconquistarle la via più pazza e disperata. Sistemate la Polonia e la Sassonia e costretta l'Austria a riparare ai torti subiti dai protestanti della Slesia, marciò verso il cuore della Russia per detronizzare lo zar. Nei vasti tratti di palude e di foresta privi di strade e nel freddo spietato dell'inverno russo, il suo piccolo esercito di superbi veterani incontrò nemici assai più formidabili della guardia russa. Non difesi dal freddo, ridotti a metà dalle malattie e dalle privazioni e delusi nelle loro speranze di un rinforzo di cosacchi nel Sud, gli svedesi entrarono in azione a condizioni fortemente sfavorevoli, a Poltava, il 28 giugno 1709 e furono addirittura annientati [...]. [Sconfitto in Pomerania e in Danimarca] ancora Carlo, fuggendo nella Svezia, sognava la vittoria. Sperando nuove conquiste che gli permettessero di effettuare scambi col nemico, invase la Norvegia dove, assediando una oscura fortezza, trovò la morte sul campo di battaglia.

H. A. L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari 1955, vol. II, pp. 315-316.

Kaser invece considera positivamente l'alleanza tra Svezia e Turchia, che avrebbe stretto Pietro il Grande tra due fuochi (Carlo XII era troppo protestante per unirsi al re di Francia); solo la tenacia e l'accortezza consentirono allo zar di cavarsela bene.

Fu solo quando Carlo XII si fu rifugiato in Turchia che, persuasa dal re fuggiasco e dal capo dei Tartari, la Porta [= l'impero ottomano] si decise a entrar in guerra contro i russi. Questa guerra poco mancò non diventasse addirittura fatale alla Russia. Nelle grandi distese della valle del Pruth, lo zar si vide circondato, col suo esercito affamato, da forze preponderanti turche e tartare. Ma fu miracolosamente salvo, sia per l'inabilità del gran visir Balthashi Mohammed, che sembra si lasciasse pure corrompere, sia perché venne a tempo informato che a Braila i russi avevano vittoriosamente resistito. Dure, invero, furono le condizioni imposte allo zar con la pace al Pruth (1711): restituzione di Azow, smantellamento delle piazzeforti, disinteressamento negli affari di Polonia e dei cosacchi, libero passaggio al re di Svezia attraverso il territorio russo [...]. Tuttavia Pietro, con la pace, si era procurato la possibilità di proseguire indisturbato la lotta col Re di Svezia [...]. Non più favorito dalla fortuna delle armi, re Carlo sfidò imperterrito la coalizione, che già meditava di dividersi i suoi territori. Non regnava, però, perfetto accordo tra i coalizzati, e il ministro svedese poté tentare di venire separatamente a patti con la Russia. Le trattative però non approdarono a nulla, per l'ostinatezza di Carlo XII, che non acconsentì a cedere le province baltiche, e a causa della morte che lo colse.

K. Kaser, L'età dell'assolutismo, Sansoni, Firenze 1925, pp. 176-177.

Tre anni dopo, con la pace di Nystadt del 1721, le province baltiche passavano alla Russia.
Nella "seconda guerra del Nord", la Svezia, le cui fortune erano procedute con alti e bassi eccezionali, non solo aveva perduto il primato sul Baltico, ma doveva rinunciare pure per l'avvenire a svolgere un ruolo di qualche rilievo nella politica europea.

Pietro il Grande

La vittoria di Poltava segna l'ingresso della Russia tra le potenze europee; essa prese parte alla liquidazione del dominio svedese, custodì il golfo di Finlandia, allacciò regolari relazioni con gli altri governi, entrò nelle alleanze e nelle spartizioni, intervenne nella guerra di successione austriaca, ebbe una parte importante in quella dei Sette anni e fu sul punto di decidere la sorte di Federico II.
Il successo della lunga guerra non sarebbe tuttavia bastato a dar rilievo alla presenza della Russia, se non fosse stato accompagnato dall'intensa e drastica attività riformatrice di Pietro il Grande.
Prima di attuare le due direttive della sua politica generale, «assolutismo» ed «espansionismo», lo zar comprese la necessità di fare della Russia un Paese moderno.
I problemi che la storiografia si è posti circa la "nuova" Russia possono venir riassunti in tre questioni:
 - fu una trasformazione profonda a essere attuata, o, semplicemente una trasformazione dell'aspetto esteriore del costume?
 - si trattò di una brutale rottura con il passato, a opera esclusiva o preminente dell'energico zar, o di un processo già avviato, e necessario per la futura Russia, che trovò in Pietro I il suo simbolo più importante?
 - l'apertura della Russia all'emigrazione europea, la creazione di Pietroburgo e dei suoi cantieri, l'istituzione di un esercito sul modello prussiano e d'una flotta sul Don, i tentativi per organizzare l'industria, migliorare lo sfruttamento delle miniere, introdurre costumi e maniere occidentali costituiscono una somma di cambiamenti veramente imponente.
Eppure, scrive Ottokar: «Quando si parla dell'opera di Pietro, che divise la storia della Russia in due epoche ben distinte, l'immaginazione viene innanzi tutto colpita dalla trasformazione esteriore della popolazione che fece maggiormente impressione sui contemporanei, simboleggiando la distruzione di antiche usanze consacrate dalla tradizione».

Dopo il ritorno dall'estero, Pietro intraprese la trasformazione dell'aspetto esteriore dei russi. All'indomani del ritorno a Mosca, durante il primo ricevimento degli alti dignitari dello stato, Pietro con le forbici in mano si mise a tagliare le barbe a tutti i presenti. Tal fatto, per quanto insignificante, in sostanza, produsse una forte impressione sul popolo, dato che la Russia moscovita aveva sempre conferito alla barba, come attributo dell'immagine di Dio, una venerazione addirittura religiosa [...]. La trasformazione si estese presto anche alla foggia dei vestiti. Pietro stesso fin dagli anni 1689-1691, fin da quando cioè cominciò a frequentare Nemètskaja Slòboda, prese l'abitudine di portare abiti stranieri. Nel gennaio del 1700, un ukaze dello zar rese tale moda obbligatoria per tutti gli uomini di corte e per tutti i funzionari dello Stato. Pochi mesi dopo quest'ordine venne esteso agli uomini d'ogni categoria, ad eccezione dei chierici e dei contadini. Tutta la Russia venne pertanto divisa in due categorie nettamente distinte: da un lato si trovavano gli ambienti di corte, i funzionari, i nobili; dall'altro gli ecclesiastici ed il popolo. Un'altra riforma, più importante, venne adottata da Pietro, in questi primi tempi dopo il ritorno dall'estero: lo Zar ordinò di calcolare gli anni non dalla pretesa data della creazione del mondo, come si usava in Russia fino allora, bensì, come presso tutti i popoli cristiani, dalla nascita di Cristo [...]. Tutte le menzionate trasformazioni riguardavano soprattutto gli aspetti esteriori della vita russa.

N. Ottokar, Breve storia della Russia, Laterza, Bari 1936, pp. 99-101 passim.

Ammiratore dell'Europa occidentale, dove la borghesia con la sua attività era l'elemento propulsivo della vita civile, lo zar si dedicò per prima cosa, una volta risolti gli impegni bellici e il conflitto con la Svezia, a ridisegnare il volto e le prerogative della monarchia russa secondo un progetto di natura autocratica.
Il prioritario obiettivo dello zar consistette nella necessità di sottoporre al rigido e indiscusso controllo di San Pietroburgo l'immenso territorio russo, attraverso la creazione di un apparato amministrativo stipendiato dalla corte. Il fulcro della nuova burocrazia sarebbe stata la classe della "nobiltà di servizio", nata quale costola della grande aristocrazia fondiaria alla quale era stata proibita la suddivisione delle grandi proprietà fra più eredi.
La centralizzazione introdotta da Pietro, come mette in luce lo storico inglese M. S. Anderson, interessò ogni ambito dello Stato.

Solo quando la vittoria sulla Svezia gli lasciò mano libera per operare mutamenti di maggior respiro e sistematicità, Pietro poté introdurre riforme permanenti su larga scala. La prima fu, nel 1711, la creazione di un nuovo organismo centrale di controllo, il senato, che, nonostante le deficienze iniziali (tra i suoi nove membri non figurava nessuno dei maggiori uomini di fiducia di Pietro, e uno di essi era analfabeta), divenne sotto molti aspetti il più importante organo del governo centrale. Più tardi, a partire dal 1718, l'ormai superato sistema dei prikazy fu sostituito con nove collegi amministrativi. Tre di questi si occupavano delle varie questioni finanziarie, gli altri del commercio, delle miniere e delle manifatture, degli affari esteri, dell'esercito, della marina e della giustizia. Al pari delle altre riforme che Pietro introdusse negli ultimi anni di regno, quella che portò all'istituzione di detti collegi, composti da un presidente, da un vicepresidente, e da un certo numero di assessori, in gran parte secondo il modello svedese, fu preceduta da lunghe riflessioni e discussioni. I collegi amministrativi differivano dai prikazy sia perché numericamente limitati, sia perché le varie competenze erano distribuite tra di loro secondo criteri discretamente logici; non solo, ma ciascuno di essi, a differenza di molti dei prikazy, estendeva la sua giurisdizione sull'intera Russia. Le riforme introdotte nell'amministrazione provinciale, specie verso la fine del regno di Pietro, tendevano in genere a rafforzare il controllo centrale, subordinando i funzionari locali al senato e più tardi ai collegi. Il risultato, tuttavia, non fu soltanto una più chiara definizione dei compiti di questi funzionari, ma il moltiplicarsi di una gran quantità di nuovi funzionari governativi cui erano assegnati compiti particolari (v'erano, ad esempio, i supervisori delle terre della corona, e il waldmeistery preposto alla protezione delle foreste). Ne risultò, in altre parole, un'intensa burocratizzazione delle province. Così, almeno sulla carta, la Russia era stata dotata, in poco più di due decenni, di un sistema amministrativo molto più centralizzato del precedente.

M. S. Anderson, La Russia di Pietro il Grande,
in Storia del mondo moderno, vol. VI: L'ascesa della Gran Bretagna e della Russia, 1688-1713, Garzanti, Milano 1982, pp. 868-869.

Nonostante ciò e nonostante la natura violenta dello zar che impose le innovazioni in modo autoritario, spazzando via ogni resistenza, un progresso ci fu, e il compito di avvicinare la Russia all'Europa venne assolto dallo zar nel campo della cultura.
Così scrive l'autorevole slavista Ettore Lo Gatto.

(Pietro) comprese fin da principio che per raggiungere lo scopo occorreva una lotta tenace, un lavoro lungo, instancabile, soprattutto nel campo della cultura. Una delle ragioni forse per cui lo zar trovò una forte resistenza, fu la concezione larga che egli ebbe della cultura in senso laico, ma essa fu anche una delle ragioni della sua vittoria. La stampa e lo studio furono strumenti da lui sfruttati molto abilmente, non meno dei rapporti che egli stesso stabilì con personalità molto note del mondo occidentale, quali Leibniz e Wolff. Scuole, biblioteche, accademie, tipografie divennero l'ideale dello zar: conoscitore egli stesso della vita europea, volle che giovani russi si recassero a studiare all'estero, per creare gli specialisti di cui aveva bisogno, soprattutto nel campo tecnico. Conscio inoltre che per ottenere la diffusione della cultura occorreva facilitarne l'apprendimento, prima di tutto fece introdurre nelle tipografie i caratteri cirillici, più semplici di quelli dell'alfabeto antico-slavo, e poi si prefisse di far tradurre le opere scientifiche nella lingua semplice della conversazione. Il risultato non fu quale egli si aspettava, forse perché i traduttori non furono in grado di realizzare la sua idea, ma già di fatto che questa fosse stata enunciata era un grande passo innanzi verso la creazione di una lingua letteraria specificamente russa.

E. Lo Gatto, Storia della letteratura russa, Sansoni, Firenze 1943, p. 56.

Gitermann ribadisce, che le riforme dello zar furono un fenomeno del più ampio processo iniziatosi prima del suo avvento al trono e continuato poi dai suoi successori.
Egli spiega così le diverse interpretazioni dell'opera di Pietro.

L'epoca di Pietro il Grande è una tappa così importante e decisiva nella storia della Russia e del popolo russo, che è naturale che, nell'apprezzare l'importanza e il significato dell'azione svolta da Pietro e della sua personalità, siano sorte divergenze. Per alcuni, soprattutto per gli slavofili, Pietro fu un rivoluzionario che ha deviato la storia russa dal suo cammino naturale; anche la personalità di Pietro è da questi studiosi valutata in senso negativo. Per altri, l'europeizzazione della Russia effettuata da Pietro fu un bene per la Russia, una necessità per il suo sviluppo: e quindi Pietro fu riconosciuto come un simbolo vivente di questo processo importante. Per altri ancora, Pietro fu solo strumento di un processo storico da tempo iniziato; per altri la sua parte personale nella storia fu quella di creatore.

V. Gitermann, Storia della Russia, La Nuova Italia, Firenze 1963, vol. I, p. 474.

Ogni raffronto tra l'assolutismo di Luigi XIV e quello di Pietro il Grande può essere avventato, data la grande diversità esistente tra lo Stato francese e lo Stato russo, ma se un raffronto viene fatto non può che andare a vantaggio dello zar, che lasciò ai suoi successori una Russia più evoluta e più grande.
Un'idea decisamente chiara dei metodi di governo di Pietro il Grande, della sua modernità e del suo autoritarismo insieme, ci è offerta dal modo in cui venne creata la città di Pietroburgo.
Così scrive a questo proposito Ch. Tilly.

A partire dal 1703, Pietro il Grande spostò il centro di popolamento a Pietroburgo insediando forzosamente mercanti, artigiani, funzionari imperiali e i loro domestici nel territorio acquitrinoso alla foce della Neva, sito da poco conquistato alla Svezia. Pietro, che aveva lavorato per breve tempo in incognito come carpentiere durante un suo soggiorno in Olanda e in Inghilterra, concepiva Pietroburgo come un centro di costruzioni navali e di commercio baltico di tipo olandese; e un nome olandese, non russo, diede alla città: Sankt Peterburg. Nel 1782 la nuova sede imperiale contava 297.000 abitanti, contro i 213.000 di Mosca (Rozman 1976, pp. 162, 183). Si ebbe una spartizione di compiti, con Pietroburgo capitale e principale porto d'accesso dall'Europa nord-occidentale, Mosca massimo centro per il commercio interno. Così la Russia costruì una enorme, eccentrica gerarchia urbana che aveva il suo fulcro nelle regioni nord-occidentali dell'Impero ma si estendeva profondamente nell'Asia.

Ch. Tilly, Le rivoluzioni europee. 1492-1992, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 265-266.

Come osserva, però, lo storico I. Young, la Russia zarista del XVIII secolo non riuscì a consolidare, una volta morto Pietro il Grande, riforme e conquiste.
I successori del grande Romanov, infatti, si rivelarono sovrani piuttosto deboli, privi dell'intuito e dell'energia del loro illustre predecessore.
Non giovarono inoltre alla stabilità del corpus di riforme introdotte da Pietro i frequenti disordini che accompagnarono l'ascesa al trono di diversi zar e zarine (da Caterina I a Elisabetta II).
Il potere regio all'interno dello Stato russo risentiva inoltre, in misura significativa, dell'influenza dell'aristocrazia dei boiardi. Solo l'energia e la lucidità della grande zarina Caterina II, salita al trono nel 1762, avrebbe consentito alla Russia d'intraprendere con decisione il percorso riformatore tracciato da Pietro, nel segno del rafforzamento del potere autocratico del monarca.

Pietroburgo però non rispecchiava la situazione reale del nuovo impero. Per i cacciatori disseminati nei primitivi villaggi lungo i fiumi del nord, per i contadini che lottavano per strappare il pane al suolo ingrato della Russia centrale, la vita era ben poco cambiata dai giorni del ducato di Moscoviti, salvo che per le tassa più alte e per il maggior numero di soldati che ciascun villaggio doveva fornire all'esercito. I piani di Pietro, che prevedevano un nuovo sistema di governo locale, nuovi tribunali, e una rete di scuole elementari in tutto il paese, erano stati abbandonati per disinteresse o per mancanza di fondi. Anche a Mosca, dove nel 1755 era stata fondata una nuova università, «le strade affondavano in tre arscine (misura russa corrispondente a poco meno di un metro) di ignoranza». La nuova libertà conquistata dai proprietari terrieri non aveva fruttato un'analoga libertà per i loro servi, sebbene l'obbligo del proprietario terriero di servire lo zar fosse stato a lungo considerato una giustificazione morale nei confronti della servitù della gleba. Al contrario, la maggior parte dei proprietari terrieri esigeva dai propri servi un canone più alto, o più lavoro. Il collegio delle miniere non era riuscito a ricavare sufficiente profitto dalle fonderie di ferro statali negli Urali, che dal 1740 erano state quasi tutte cedute a imprenditori privati. Per un breve periodo, nel decennio 1750-60, la Russia aveva prodotto ed esportato più ferro di qualunque altro paese europeo, ma verso il 1763 la produzione era già in declino. Non si riusciva più a trovare né carbone né minerali di ferro in zone che non fossero troppo remote e, poiché il carbone di legna usato nei forni di fusione non poteva essere sostituito col coke, i produttori russi si videro ben presto superare dalla concorrenza della Gran Bretagna. Mentre Pietro il grande si poteva vantare di aver mantenuto stabile il bilancio durante la grande guerra del nord, nessuno dei suoi successori si era preoccupato di seguirne l'esempio. Nonostante nuove e ingegnose forme di tassazione indiretta, e nonostante l'incameramento delle rendite dei fondi ecclesiastici, sanzionato fin dal 1757 che avevano determinato un sensibile aumento delle entrate, quando la Russia uscì dalla guerra dei sette anni il tesoro era pressoché esaurito. Per otto mesi, nel 1762, i soldati russi in Pomerania non ricevettero un solo copeco della loro paga.

I. Young, La Russia, in Storia del mondo moderno, vol. VIII: Le Rivoluzioni d'America e di Francia, 1763-1793, Garzanti, Milano 1982, pp. 393-394.

Il "vuoto di potenza" della Polonia

Nello stesso periodo in cui, declinando la potenza svedese, si affermavano l'autoritarismo in Russia e la piena indipendenza della Prussia, la Polonia era già avviata sulla strada della sua inarrestabile decadenza.
Strana monarchia quella polacca, dalla scomparsa degli Jagelloni resa elettiva da parte della nobiltà che le poneva a ogni elezione patti sempre più onerosi e dopo il 1652 si riservava il diritto di veto su ogni atto del governo. A ogni elezione si rinnovavano rivalità e intromissioni dei grandi Stati europei, della Francia, degli Asburgo, infine della Russia.
Per sottolineare con chiarezza la grande debolezza di Varsavia, lo storico polacco A. Kaminski ha parlato di eclipsis Poloniae: il Regno infatti, agli inizi del Settecento, nonostante la sua vasta estensione territoriale, appariva la pallida ombra della potente Polonia degli Jagelloni del XVI secolo.
Se la strategia di politica estera era ancora degna di una potenza di primo piano (e a questo proposito bisogna ricordare la grande vittoria di Vienna sugli Ottomani nel 1683), la concomitante concorrenza di monarchie ben più efficienti e aggressive, quali la Prussia e la Svezia, il consolidamento dell'Impero asburgico e l'ascesa della Russia stavano modificando radicalmente i rapporti di forza nella regione.
Per giunta, la ferma volontà dell'aristocrazia fondiaria di impedire la costituzione di una forte autorità monarchica, in sintonia con quanto stava avvenendo in Europa negli stessi anni, rese ancora più evidente la fragilità di questo "gigante" territoriale minato al suo interno.
L'eclipsis Poloniae sarebbe presto diventata, secondo Kaminski, vero e proprio sfacelo politico.

«Eclipsis Poloniae», questa la frase coniata da un eminente statista del tempo, il vicecancelliere della Lituania Stanislaw Szczuka, per definire la situazione in cui venne a trovarsi l'Unione polacco-lituana (Rzecz pospolita) agli inizi del XVIII secolo. Per il momento sarebbe stato difficile parlare di «crollo» nei confronti di uno stato che aveva ancora un suo posto in ogni consesso europeo e il cui appoggio era ricercato da potenze anch'esse travagliate da profondi rivolgimenti interni. Non era ancora il periodo in cui la Polonia, strettamente controllata da potenti vicini, sarebbe divenuta il bersaglio indifeso delle mire di altri stati. D'altra parte, però, la crescente anarchia stava già mettendo l'Unione in condizioni di non poter approfittare come avrebbe dovuto delle occasioni che le si presentavano. I contemporanei considerarono la cosa come la momentanea eclissi di uno stato fino a poco tempo prima potente. Ma se nel 1721 in questa parte dell'Europa i lunghi anni di guerre apparivano ormai come una cosa del passato, lo stesso poteva dirsi anche del vecchio equilibrio politico tra i suoi vari stati. Gli Asburgo, ottenuta la corona d'Ungheria e succeduti alla Spagna nei domini italiani e in quello dei Paesi bassi, erano diventati immensamente più forti. La Russia con le riforme di Pietro e la conquista della costa baltica era assurta al posto di prima potenza del nord. In Prussia un rigido sistema di governo stava gettando le basi del militarismo. Tutto questo mentre la Svezia non aveva ormai più voce in capitolo e la Turchia riusciva solo a sprazzi a dimostrare una certa attività politica. In questo quadro la Polonia, paralizzata nella sua attività diplomatica e costretta a subire l'interferenza dei suoi potenti vicini, precipitò nella fase più nera del cosiddetto «periodo sassone». Il fenomeno era la risultante di tutta una serie di complicati processi che avevano avuto avvio fin dagli inizi del XVI secolo. C'erano alla base la posizione della szlachta, la piccola nobiltà polacca che godeva di privilegi eccezionali rispetto ai servi della gleba e alla classe media, nonché l'egemonia dei magnati, le cui rivalità minacciavano l'unità del paese. Era inoltre significativo che in un momento in cui la maggior parte degli stati europei marciavano verso l'assolutismo, in Polonia si verificasse invece un indebolimento del potere regio, legato alle libere elezioni e limitato dai pacta conventa. La dieta (il sejm), che avrebbe potuto compensare i difetti dell'autorità regia, era a sua volta afflitto da quel liberum veto che dal 1652 in poi aveva permesso a singoli individui di bloccare ogni progetto di legge, paralizzando così ogni tentativo di riforme e impedendo che venisse portata avanti una politica sistematica sia in campo finanziario che militare. Le tasse permanenti, prelevate soprattutto dai possedimenti della chiesa e della corona, riuscivano a mala pena a coprire le spese per il mantenimento dell'esercito in tempo di pace, composto a partire dal 1678 di 12.000 uomini. E anche le imposte «straordinarie» di guerra, destinate al reclutamento di altri contingenti, venivano riscosse solo con enormi difficoltà, per cui in caso di un conflitto la Rzecz pospolita si trovava ad avere un esercito non pagato e ribelle. A tutto questo si aggiunga l'abbassamento del potenziale economico della Polonia. Basata essenzialmente sull'agricoltura, l'economia polacca ricevette un duro colpo dalla caduta dei prezzi verificatasi nel XVII secolo. E il più intenso sfruttamento dei contadini con cui la szlachta cercò di compensare la progressiva diminuzione della propria rendita fondiaria servi solo ad abbassare l'efficienza e la produttività delle aziende agricole. Anche ammettendo che una politica mercantilista avrebbe potuto favorire una certa ripresa, l'ipotesi era da scartare per il semplice fatto che lo stato non era in grado di prendere decisioni del genere. Gli immensi danni causati dalla guerra verso la metà del secolo avevano comunque lasciato segni profondi in tutta l'economia.

A. Kaminski, L'eclissi della Polonia, in Storia del mondo moderno, vol. VI: L'ascesa della Gran Bretagna e della Russia, 1688-1713, Garzanti, Milano 1982, pp. 816-817.

Anche lo storico americano Tilly parla di autentico «suicidio» della Polonia per definire la paradossale evoluzione politica in atto a Varsavia dopo l'uscita di scena degli Jagelloni.
Egli lo attribuisce all'iniziativa della nobiltà fondiaria, veramente miope nella sua ostinata difesa di una posizione di privilegio istituzionale (la scelta del re e il controllo del suo operato) ed economico.
Gli aristocratici polacchi contribuirono a rendere decisamente peggiori le condizioni di vita dei contadini, sempre più asserviti alla terra, e a deprimere una fiorente attività mercantile e commerciale, cresciuta in passato intorno ai porti battici.

Lo Stato polacco funzionava molto diversamente, in un modo che lo portò al suicidio. La nobiltà terriera in Russia e in Polonia coltivava grano in grandi tenute, il che con la crescita demografica e gli aumenti dei prezzi del XVI secolo le dava cospicue opportunità di profitto. Ma i proprietari polacco-lituani avevano un maggiore accesso ai mercati dell'Europa occidentale grazie a porti come Danzica. Essi crearono una economia feudale che fini per privare città, prima fiorenti, del loro ruolo come entità politiche indipendenti e centri del commercio interno. Escludevano i contadini e i mercanti polacchi dal commercio dei cereali, trattando direttamente con mercanti stranieri. Prosperavano grazie ai guadagni dell'esportazione, importavano merci occidentali e trattavano lo Stato come cosa propria.
La «repubblica dei nobili» che si formò in Polonia diede rappresentanza a quel decimo privilegiato della popolazione, il che offri ai nobili i mezzi sia per rafforzare il loro controllo sui contadini, sia (dal 1572 in poi) per fare della monarchia elettiva lo strumento della nobiltà.
Col progredire di questo processo i nobili resero il servaggio contadino sempre più duro e generale.
Frattanto gli eserciti privati dei nobili, composti a buon mercato con i loro sudditi, superavano di gran lunga numericamente le forze armate della corona. Sebbene la ricorrente triplice divisione della vita politica polacca – re, magnati, piccola nobiltà – desse al monarca frequenti opportunità di allearsi con la nobiltà minore dal tardo XVI secolo in poi, questa divisione pregiudicò ogni tentativo regio di creare efficaci sistemi fiscali e militari centralizzati.

Ch. Tilly, Le rivoluzioni europee, 1492-1992, Laterza, Roma-Bari 1993, pp.

Il declino dell'Impero turco

Gli stessi pregi e gli stessi difetti dell'assolutismo, per cui le fortune dello Stato dipendevano tutte dalla personalità valente o fiacca del sovrano, sono evidenti nel XVII secolo sia in Occidente sia in Oriente.
Tuttavia, mentre la Francia di Luigi XIV costituiva uno Stato nazionale che poteva vantare un'attiva borghesia produttrice di ricchezza, la Turchia – su cui il Re Sole contava nella lotta tenace contro gli Asburgo – era uno Stato che dominava con la forza dell'oppressione i vari popoli cristiani dei Balcani e aveva una struttura economica e politica arretrata.
Ancora forti militarmente (ma il nerbo del successo era basato su «i premi smisurati e le pene atrocissime», poiché bene intendono i Turchi che i supplizi e le ricompense sono le redini dello Stato, notava Montecuccoli), avevano perso molto del fanatismo religioso che era stata la potente molla iniziale della loro espansione; pure per il mondo islamico era terminato il tempo delle guerre di religione.
Taluni storici considerano causa preminente del declino dell'Impero turco l'illanguidirsi dei sentimenti che gli avevano dato consistenza e unità; altri la ricercano nell'arretrata e corrotta struttura amministrativa anacronistica rispetto ai potenti vicini, Austria e Russia; altri infine nell'insofferenza dei popoli oppressi.
Tra le altre cause che aiutano a comprendere le ragioni di uno sfacelo annunciato, si può anche ricordare il progressivo indebolimento dell'autorità del sultano: questi infatti era sempre più incapace, a causa dell'inefficienza e della corruzione dell'apparato burocratico e amministrativo che lo circondava, di contenere le spinte centrifughe e separatiste delle regioni periferiche dell'Impero.
Accanto a questo fattore, però, lo storico turco A. N. Kurat sottolinea la completa disorganizzazione degli eserciti ottomani e la loro inferiorità nei confronti delle truppe delle potenze cristiane. Se il sultano era in grado di ammassare ingenti riserve belliche, arruolate per lo più fra mercenari, i comandi degli eserciti diedero prova di grande impreparazione e incapacità a livello tattico; anche gli armamenti, poi, si rivelavano inadeguati e spesso superati rispetto ai potenziali bellici di Austria, Polonia e Russia.

La pace di Passarowitz rivelò infatti che i turchi non erano più un pericolo militare per i loro vicini. Le sconfitte di Petrovaradin e di Belgrado avevano mostrato come un esercito molto più piccolo ma ben guidato, specie se agli ordini di un comandante dotato della lucidità e della determinazione di Eugenio, potesse sconfiggere delle forze turche, di gran lunga inferiori quanto a comando ed equipaggiamento. Ma c'era dell'altro. I turchi avevano ripetutamente dato prova della loro capacità di resistenza e della loro voglia di dar battaglia, nonché dell'enorme quantità di riserve belliche che riuscivano a radunare. Se nel complesso non seppero trarre miglior partito da questi vantaggi fu perché erano nettamente inferiori per quel che concerneva un concentramento efficiente delle loro risorse, le ricognizioni, l'impiego funzionale della cavalleria e dei cannoni da campo, e l'organizzazione del comando supremo. Dal punto di vista tattico, facevano troppo assegnamento sul terrore suscitato da un assalto in massa e sugli scontri a corpo a corpo, proprio come in mare preferivano lo speronamento e l'abbordaggio a un combattimento di artiglieria. La loro grande fama di artiglieri si basava sul gran frastuono degli assedi. In realtà essi non si erano tenuti al passo con la rivoluzione tecnica operata dai cannoni da campo mobili, per non parlare poi del moschetto a pietra focaia. Sia nell'ordine di marcia che nella disciplina in battaglia erano inferiori ai tedeschi. Non c'è dubbio che le stesse dimensioni dei loro eserciti campali aumentassero i problemi logistici delle campagne balcaniche; pur vantando una lunga esperienza in materia e un'elaborata organizzazione per gli approvvigionamenti, essi si muovevano con una quantità eccessiva di ingombranti bagagli e con troppi civili al loro seguito. Non c'è dubbio che il tesoro rinvenuto nelle tende del gran visir dopo la cattura rispondesse a un'esigenza di ordine pratico, ma ci volevano troppi uomini per piantare e decorare questi appartamenti di seta suddivisi in numerose camere, insieme con quelli di altri pascià. E fra i molti particolari sorprendenti relativi alla débácle di Senta c'è quello del bottino, comprendente 9.000 carri e 60.000 cammelli.

A. N. Kuret, La ritirata dei turchi (1683-1730),
in Storia del mondo moderno, vol. VI: L'ascesa della Gran Bretagna e della Russia, 1688-1713, Garzanti, Milano 1982, p. 769.

 

 

 

 

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