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l'ITALIA DURANTE LE GUERRE DI SUCCESSIONE

 

 

FONTI

 

Un protagonista: Vittorio Amedeo II di Savoia

Vittorio Amedeo II di Savoia può essere considerato il fondatore della potenza sabauda nella penisola italiana. Sino alla sua ascesa al trono, infatti, il Piemonte sabaudo era sempre rimasto ai margini delle più importanti vicende politiche italiane ed europee e per lo più gravitante nell'orbita d'influenza francese. L'eredità che egli lasciò ai suoi successori fu fondamentale: egli fu il primo sovrano piemontese a cogliere il legame che univa i conflitti fra le potenze e la definizione di nuovi rapporti di forza nella penisola italiana. Egli cercò dunque di prendere parte ai principali conflitti scoppiati a partire dalla guerra della Lega di Augusta (1686-97), al fine di ottenere ingrandimenti territoriali per il proprio Stato. Il Piemonte divenne così un autentico cuscinetto fra la potenza austriaca, attestata a Milano, e la presenza francese. Primo principe sabaudo a fregiarsi del titolo di re, ottenuto grazie all'acquisizione nel 1713 della Sicilia, Vittorio Amedeo viene ricordato anche per il programma di riforme promosse all'interno dei suoi domini e che poi venne accantonato dai suoi successori, Carlo Emanuele III e Vittorio Amedeo III. Così viene delineata la figura del sovrano sabaudo dallo storico italiano Ludovico Antonio Muratori.

Fra i più illustri principi che s'abbia mai avuto la real casa di Savoia, veniva in questi tempi conceduto il primo luogo a Vittorio Amedeo re di Sardegna, siccome quegli che, portando unita insieme una mente maravigliosa con un raro valore e una corrispondente fortuna, avea cotanto dilatati i confini de' suoi stati e portata una corona e un regno nella sua nobilissima famiglia [si era infatti visto riconoscere il titolo di "re"]. S'era questo generoso principe, pieno sempre di grandi idee, ma regolate da una singolar prudenza, tutto dato alla pace, a far fiorire il commerzio ed ogni arte nel suo dominio, a fortificar le sue piazze, ad accrescere le forze militari e gl'ingegneri e massimamente a fabbricare con grandi spese la quasi inespugnabil fortezza della Brunetta, e ad abbellire ed accrescere di abitazioni Torino. Con un corpo di leggi avea prescritto un saggio regolamento alla buona amministrazione della giustizia ne' suoi tribunali e a molti punti riguardanti il bene de' sudditi suoi. Aveva anche ultimamente atteso a far fiorire le lettere col fondare un'insigne università, a cui chiamò dei rinomati professori di tutte le scienze: nella qual congiuntura con istupore d'ognuno levò le scuole ai padri della Compagnia di Gesù e agli altri Regolari ancora in tutti i suoi stati di qua dal mare [esclusa la Sardegna] per istabilire una connessione e corrispondenza di studi fra la Università di Torino e le scuole inferiori, con un migliore insegnamento per tutti i suoi stati d'Italia.

L. A. Muratori, Annali d'Italia, Einaudi, Torino 1976.

 

Il ruolo del monarca secondo Pietro Leopoldo di Toscana

Pietro Leopoldo di Toscana (1765-90) fu un tipico sovrano "illuminato", anche grazie all'educazione che aveva ricevuto alla corte di Vienna dalla madre Maria Teresa d'Asburgo. Destinato a salire al trono di Vienna come Leopoldo II (1790-92), elaborò un'attenta riflessione circa il ruolo, le prerogative e i limiti dell'autorità del monarca. Sinceramente preoccupato del bene dei suoi sudditi, egli si concepiva come depositario di un'autorità non assoluta, in quanto vincolata allo scrupolo rispetto della legge fondamentale, che avrebbe dovuto imporre a ogni re di perseguire l'utile del suo popolo. È questo il contratto che egli descrive in questa efficace riflessione: un "patto" per molti aspetti simile all'accordo che vincolava il monarca inglese al rispetto delle prerogative parlamentari, concepite come migliore garanzia per la salvaguardia della libertà del popolo. Tale patto limitava l'autorità del sovrano, impedendogli d'incorrere in decisioni arbitrarie e contrarie all'interesse generale dei suoi sudditi. L con questo spirito, pervaso da sincere aspirazioni umanitarie, che Pietro Leopoldo elaborò il rivoluzionario codice penale del 1786, importantissimo per le garanzie assicurate ai cittadini.

La mia professione di fede è di sostenere vivere e morire nella religione cattolica apostolica e romana; di non perseguitare, ma proteggere le persone che non hanno o affettano di non avere religione, di sostenere i vescovi ai quali spetta l'ispezione degli affari della disciplina della Chiesa. Credo che il Sovrano, sia pure ereditario, non è che un delegato e un impiegato del popolo, per il quale è fatto, cui deve tutte le sue cure, pene, vigilie [...]; che a ciascun paese occorre una legge fondamentale o contratto tra il popolo e il sovrano che limiti l'autorità e il potere di quest'ultimo; che quando il sovrano non la mantiene, rinuncia di fatto al suo posto che gli è dato a questa condizione e non si è più obbligati a ubbidirgli; che il potere esecutivo è nel sovrano, ma il legislativo nel popolo e nei suoi rappresentanti; che questo, a ciascun mutamento del sovrano, può aggiungere nuove condizioni alla sua autorità; che il Sovrano non può immischiarsi né direttamente né indirettamente negli affari di giustizia civile e criminale, né mutare le forme e le pene [...]; che il Sovrano deve dare un conto esatto annuale al popolo delle erogazioni delle rendite pubbliche e finanze, che non ha il diritto di imporre arbitrariamente tasse né gabelle né imposte quali si siano; che solo il popolo ha questo diritto dopo che il Sovrano ha esposto i bisogni dello Stato e che il popolo, a mezzo dei suoi rappresentanti, li ha trovati giusti e ragionevoli; che il Sovrano deve rendere conto ed avere l'approvazione per i cambiamenti di sistema, nuove leggi ecc., pensioni, gratificazioni a dare, prima di pubblicarle; che gli ordini del Sovrano non acquistano forza di leggi se non dopo il consenso degli Stati; che il militare non può essere impiegato fuorché per la difesa del paese e mai contro il popolo; che nessuno può essere giudicato né arrestato fuorché sopra un mandato dei giudici ordinari, e giudicato secondo le forme ordinarie e mai per ordine arbitrario sia pure dello stesso Sovrano; infine credo che il Sovrano non deve regnare che con la legge.

Pietro Leopoldo D'Asburgo-Lorena, Professione di fede,
in F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze, Principato, Milano 1971.

 

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

Equilibrio europeo e assetto italiano nel Settecento

Le varie paci stipulate dalle diplomazie europee nel corso del XVIII secolo avevano lo scopo di garantire, attraverso limitati spostamenti dei confini politici, lo stabilirsi di un durevole equilibrio nel continente, basato sulla presenza delle principali potenze: Francia, Austria, Prussia, Russia e Inghilterra. Lo storico inglese J. O. Lindsay collega quindi il consolidarsi di una certa stabilità politica sullo scacchiere europeo alla definizione di nuovi rapporti di forza in Italia, autentico teatro delle lotte per la preponderanza nel Vecchio Continente. Un'ultima svolta negli assetti italiani si ebbe con le paci di Vienna (1738) e di Aquisgrana (1748). Per loro effetto la penisola venne affidata a un equilibrio tripolare, fondato sulla concomitante presenza in posizione preponderante dell'Austria asburgica, delle Corone borboniche di Napoli e di Parma e dell'astro nascente del Piemonte sabaudo, ormai Regno di Sardegna. Quest'ultimo comunque, proprio come avverrà nel corso dell'Ottocento, era ostacolato dalla preoccupazione crescente degli altri Stati italiani.

Il quadro degli stati italiani mutò notevolmente nel corso del XVIII secolo, in parte in conseguenza della pace di Utrecht, che tolse Napoli e Milano alla Spagna e li trasferì al'imperatore asburgico, e ancor più a causa della politica di Elisabetta Farnese. Nel 1748 quest'ultima era suscita a porre Carlo sul trono di Napoli e della Sicilia, ed aveva assicurato a Filippo il ducato di Parma. A guisa di compenso per la perdita di Napoli, gli Asburgo avevano ottenuto il diritto alla successione in Toscana, e il Piemonte era stato compensato della perdita della Sicilia con la Sardegna. Questi mutamenti, che si compirono entro il 1748, furono il risultato di trentacinpe anni di manovre diplomatiche e di cinque guerre. Alla fine della guerra di successione spagnola, nel 1713, le grandi potenze riconobbero a Filippo d'Angiò la sovranità sulla Spagna e sulle Indie, ma non sui domini italiani che dal XVI secolo appartenevano alla Spagna. Milano, Napoli e la Sardegna furono assegnate all'imperaiore quale risarcimento per la rinuncia alle sue pretese sulla corona spagnola, mentre la Sicilia fu data al duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, a compenso dei servizi resi agli alleati durante la guerra, anche se la sua fedeltà alla loro causa era stata molto dubbia. È tipico dell'atteggiamento dei principi italiani in quest'epoca il fatto che essi preferissero veder aumentare la potenza degli Asburgo piuttosto che quella dei Savoia, e queste gelosie favorirono la causa asburgica nella penisola per tutto il XVIII secolo. Nel 1717 Elisabetta Farnese inviò una spedizione in Sardegna, e nel 1718 una seconda in Sicilia. Le grandi potenze — l'Inghilterra, la Francia e l'imperatore — agirono di conserva, e la Spagna fu sconfitta, ma fu tuttavia deciso che l'imperatore cedesse ai Savoia la Sardegna in cambio della Sicilia.

J. O. Lindsay, La penisola iberica e l'Italia,
in Storia del mondo moderno, vol. VII: Il vecchio regime, 1773-1763, Garzanti, Milano 1982, p. 370.

 

I trattati di Utrecht e di Rastadt, di Vienna, di Aquisgrana e l'Italia

Le profonde e numerose ripercussioni che le tre guerre di successione ebbero in Italia – i cambiamenti di dominazione, l'affermazione di nuove dinastie, l'estensione territoriale di qualche Stato, la riduzione del dominio straniero, i nuovi ordinamenti – hanno dato luogo a una ricca letteratura storica che ha posto problemi di grande importanza.
Le tre guerre – e su questo punto c'è un consenso quasi generale – apportarono all'Italia un radicale capovolgimento, che ebbe effetti positivi. I trattati di Utrecht e di Rastadt (1713-14), che concludevano la guerra di successione spagnola, sostituiscono alla dominazione spagnola quella austriaca, nettamente migliore, allargano i domini dei Savoia e fanno Vittorio Amedeo II re di Sicilia. Ma se guardiamo bene da questo punto di vista nazionale-statale la sostituzione dell'Austria alla Spagna in Lombardia e nel Mezzogiorno, nota Salvatorelli, «dovrebbe considerarsi come negativa, come una passività, poiché l'Austria rappresentò un governo migliore dello spagnolo, cioè più adatto a conciliarsi e conquistarsi i sudditi, senza contare che in Lombardia il dominio straniero veniva anche ad essere più solido per la vicinanza al nucleo degli stati asburgici» (I. L. Salvatorelli, Il Settecento, in Pensiero e azione del Risorgimento, Einaudi, Torino 1950, p. 36).
La guerra di successione polacca apportò con la pace di Vienna del 1738 un rivolgimento più profondo: Sicilia e Napoletano ai Borboni, Toscana ai Lorena, Parma e Piacenza agli Asburgo. Furono decisioni, scrive Spini, che in Italia diedero veramente luogo a una nuova fase della storia.

La vecchia e flaccida Italia di un tempo è suggellata definitivamente nella propria tomba ed una nuova, migliore, comincia a profilarsi con la sostituzione dei Lorena alla frolla dinastia medicea e dei Borboni in luogo di quel dominio austriaco che, nei venti anni della propria permanenza a Napoli ed in Sicilia, non ha saputo fare altro che distribuire prebende alla camarilla italo-spagnola di Vienna e titoli del Sacro Romano Impero alla nobiltà locale, per corazzarne la vanità e legarla alla dinastia asburgica. E i Borboni o i Lorena, che adesso si trapiantano nella penisola, non escono più dal muffito ambiente delle corti sonnolente e bacchettone della vecchia Italia, ma provengono dal tanto più libero e vivace ambiente dell'Europa cosmopolita. Quelle cerchie di studiosi che a Napoli hanno imparato a leggere i libri del Locke o del Pufendorf e ad amministrare la filosofia cartesiana o la scienza newtoniana, quei preti coscienziosi, che stanno qua e là imparando ad abbeverarsi alla severa spiritualità giansenista, quella borghesia di giuristi e di intellettuali, che alligna nei centri universitari e nelle capitali, in attesa di sfoderare le armi in difesa del regio diritto contro il privilegio curiale ed aristocratico, troveranno ben presto, in questi nuovi dinasti, dei sovrani dotati di ben altra sensibilità ed energia dell'antica classe dirigente principesca. L'importanza di questo avvicendamento al potere risalta tanto più evidente al confronto con gli ambienti in cui la vecchia classe dirigente italiana mantiene tuttavia il potere nel cerchio chiuso delle sue oligarchie, come le repubbliche di Venezia, di Lucca, di Genova. Da Passarowitz in poi, Venezia si trasforma nella città dell'eterno carnevale, dove un'aristocrazia gaudente ed infingarda consuma allegramente le rendite delle sue proprietà terriere di terraferma, paga di circondarsi delle incantevoli pitture dei suoi Tiepolo e dei suoi Canaletto o Guardi, senza neppure tentare uno sforzo di rinnovamento o di apertura della propria cerchia. Lucca è un centro agricolo, circondato da ville signorili, in cui si profondono i tesori accumulati dal lavoro dei padri. Genova, anche se in paragone mantiene una vitalità economica assai più intensa, rivela bene la fiacchezza e l'incoscienza del suo vecchio patriziato, in quel misto di debolezza e di malgoverno di cui è fatto il suo dominio sulla Corsica. Quest'ultima, già nel corso della guerra di successione polacca, è esplosa in una rivoluzione, di cui il governo genovese non saprà venire a capo altrimenti che implorando l'intervento di truppe francesi e preparando così, con le sue stesse mani, il passaggio a più o meno breve scadenza dell'isola sotto i Borboni di Francia.

G. Spini, Dall'Impero di Carlo V all'Illuminismo, Cremonese, Roma 1960, p. 808.

L'Italia ricevette la sistemazione definitiva alla fine della guerra di successione austriaca, nel trattato di Aquisgrana del 1748, sulla base dell'equilibrio di possedimenti e di influenze tra Borboni e Asburgo.

Le due Case rivali – commenta Valsecchi – si divisero l'influenza, il dominio sulla penisola. Da una parte, un'Italia asburgica: Milano sotto la diretta dominazione austriaca; Firenze, che dai Medici passa alla Casa imperiale, sia pure come ramo distaccato e a sé stante; Modena che verrà anch'essa assorbita nell'orbita asburgica dalle combinazioni della politica matrimoniale di Maria Teresa. Dall'altra un'Italia borbonica: i due infanti di Spagna che s'insediano sui troni di Napoli e di Parma. E infine, una terza Italia: l'Italia dei vecchi Stati, usciti immuni dalla tempesta delle guerre, Venezia e Genova, Roma e Piemonte, indipendente di nome ma non di fatto.

F. Valsecchi, Condizioni politiche e sociali dell'Italia nell'età dell'Illuminismo,
in La cultura illuminista in Italia, Einaudi, Torino 1957, p. 58.

È giusto ricordare che fra le antiche dinastie italiane s'è imposta per intraprendenza, coraggio e abilità quella dei Savoia, che con Vittorio Amedeo II ottenne la Sicilia e il Monferrato, con Carlo Emanuele III Tortona, le Langhe e il Novarese, Vigevano, la Valle d'Ossola.
Ingrandimenti notevoli che fecero del Piemonte uno Stato con frontiere naturali e anche mediterraneo; in questo potenziamento sabaudo alcuni storici, come vedremo, hanno colto un fatto di immensa importanza per la storia italiana.

 

Il problema nazionale italiano nella politica delle grandi potenze

Uno dei principali problemi sui quali gli storici italiani non sono d'accordo riguarda il valore e il diverso significato che gli Stati europei attribuirono alla questione italiana nella prima metà del Settecento. Più esplicitamente: resasi l'Italia con l'estinzione della dinastia spagnola (1700) un paese "disponibile", i grandi Stati europei affrontarono il problema con la prospettiva di creare un'Italia autonoma come base dell'equilibrio europeo, o si lasciarono guidare dal desiderio di trovare una soluzione, anzi un espediente, che componesse i loro complessi interessi?
Gli storici d'ispirazione nazionalistica, «troppo preoccupati di rendere più antico e perciò più vulnerabile il processo di emancipazione dallo straniero», insistono nella prima interpretazione. Così Solini e Rota.
Altri storici, liberi da ogni pregiudizio nazionalistico, hanno opposto che le quattro grandi potenze operarono soltanto una semplificazione parziale del vecchio assetto italiano, una nuova divisione delle zone di influenza e niente più. Austria, Spagna, Francia e Inghilterra nella penisola italiana avevano troppi interessi per pensare a una soluzione d'indipendenza. Gli Asburgo, scrive Quazza, nella Lombardia, nel Napoletano e nelle isole scorgevano «regioni vitali per la tutela del nucleo centrale dell'Impero e per l'ampliamento del raggio espansivo della loro economia e potenza nel Mediterraneo» (I. G. Quazza, L'Italia e l'Europa durante le guerre di successione, in Storia d'Italia, Einaudi, Torino 1959, vol. II, p. 652). Essi seguivano il consiglio del principe Eugenio di Savoia, che li incitava a far valere tutti i loro diritti imperiali in Italia e a spingere verso il centro del Mediterraneo i tentacoli del dominio e dell'ambizione. I Borboni di Spagna non desistevano dalla tenace volontà di riconquistare i loro ex domini nella penisola, ai quali la Spagna si sentiva legata da rapporti familiari, politici, economici e militari plurisecolari. Ne fu prova il tentativo del cardinale Alberoni.
Nei Francesi era sempre viva la tradizione inaugurata da Carlo VIII, da Luigi XII e da Francesco I, ma agivano ancora di più i molteplici e grossi interessi degli industriali e commercianti di cotone, sete, lane, tessuti d'oro e d'argento, porcellane e carta, che nell'Italia settentrionale trovavano i migliori mercati. Né dell'Italia poteva disinteressarsi l'Inghilterra, entrata ormai, con la conquista di Gibilterra e di Minorca, nel Mediterraneo e interessata, perciò, alle sorti delle varie regioni della penisola. La comparsa degli Inglesi nel Mediterraneo, secondo Silva, si ripercosse in modo determinante nella politica delle tre grandi potenze continentali verso il problema italiano. Nemici acerrimi dei Borboni, padroni della Francia e della Spagna, essi cercarono, per difendere i loro interessi nel Mediterraneo, d'impedire che l'Italia cadesse sotto il dominio francese o spagnolo. Questo spiega perché l'Inghilterra durante queste guerre appoggia l'espansione in Italia dei Savoia e degli Asburgo.

Due sono le direttive della politica inglese riguardo all'Italia: la direttiva dell'appoggio ai Savoia, se e in quanto erano contrari alla Francia; e accanto a questa, anzi più importante di questa, la direttiva austrofila, destinata a durare fin nel secolo XIX, determinata non da speciali simpatie per gli Asburgo, ma dall'interesse britanni- co a sostenere la posizione e la potenza austriaca nella penisola italiana, per impedire che vi si sostituissero l'influenza e il dominio dei Borboni, già padroni della Spagna e della Francia.

P. Silva, Il Mediterraneo, Garzanti, Milano 1942, p. 204.

La consapevolezza dell'importanza del settore italiano nel gioco dell'equilibrio europeo impegna l'Inghilterra ad adoperarsi per stabilire e mantenere buoni rapporti tra i Savoia e gli Asburgo, come avvenne nella guerra di successione austriaca, e spiega la dura reazione inglese contro di essi quando passano nel campo opposto, come per esempio nella guerra dei Sette anni, nella quale essa cercò di attrarre a sé la Spagna promettendole aiuto per riconquistare le province italiane passate all'Austria. Ma in linea di principio l'Inghilterra durante la prima metà del Settecento è sostenitrice a oltranza, nei riguardi della questione italiana, degli interessi degli Asburgo e dei Savoia. Nel 1717, appena Alberoni cercò di attuare il suo ardito progetto di riconquistare i possedimenti in Italia, l'Inghilterra subito spedì la sua flotta contro quella spagnola, la distrusse e costrinse Filippo V con la pace dell'Aia (1720) a tener fede ai deliberati di Utrecht e rafforzò la posizione austriaca con la sostituzione del suo dominio dalla Sardegna alla Sicilia.
Quando l'Inghilterra, per la politica pacifista di Walpole, si disinteressò del continente, i Borboni approfittarono della guerra di successione polacca per impossessarsi di Napoli e della Sicilia, e gli Asburgo per avere Parma e Piacenza e per mettere i Lorena in Toscana. Gli Inglesi si accorsero dell'errore del loro ministro, lo costrinsero a dimettersi e nella guerra di successione austriaca ritornarono a difendere in Italia le posizioni degli Asburgo e dei Savoia. A questi ultimi, nella pace di Aquisgrana, fecero ottenere Vigevano, Voghera e l'Alto Novarese; agli Asburgo fecero confermare la Lombardia e, contro l'insediamento dei Borboni a Parma e Piacenza, rafforzarono la posizione austriaca sul Po promuovendo il matrimonio tra il duca di Modena, Francesco d'Este, e una principessa d'Asburgo. In questo modo, mediante i possessi estensi di Massa e Carrara, era assicurato il collegamento tra Lombardia, Toscana e Tirreno.
Il ministro francese d'Argenson, dal canto suo, nel 1745 progettò di spartire i possessi austriaci in Italia tra i Savoia e gli Estensi e di assegnare la Savoia e la Sardegna ai Borboni. La Francia, cioè, quando non può avere il dominio diretto sull'Italia, cerca il modo di eliminare le altre potenze, agitando progetti e assetti federalistici sotto la sua tutela.
Tutte queste preoccupazioni straniere per la questione italiana, osserva Quazza, vanno viste nella loro realtà storica, cioè come espressioni degli interessi particolari delle grandi potenze, ma non significano affatto ch'esse intuiscano e vogliano l'indipendenza d'Italia come condizione dell'equilibrio europeo.

Che il problema italiano sia al centro della politica europea non può essere posto in dubbio, quando si constata che il tema ricorrente di tutte le guerre e di tutti i negoziati e delle manovre diplomatiche è, all'inizio, la contesa per il possesso dell'eredità spagnola in Italia e, dopo il 1713, la lotta per la successione nei ducati di Parma e di Toscana [...]. Tuttavia, l'affannosa vicenda politico-diplomatica non segna una svolta decisiva nel giudizio che i dirigenti degli Stati danno all'assetto italiano: non c'è ancora un salto nella visione dell'Italia da insieme di parti in equilibrio a sistema organico; non si delinea l'esigenza di impostare su basi tendenzialmente unitarie, o genuinamente federative, la carta della Penisola. Si viene, è vero, in parte affermando, con l'insediamento di Carlo di Borbone nel Mezzogiorno e del fratello Filippo a Parma, e con l'assegnazione della Toscana a un principe austro-lorenese, il principio di eliminare o ridurre, introducendo dinastie straniere autonome, il diretto predominio straniero. Ma i legami di questi nuovi principi con la Spagna e con l'Austria rimangono ancora troppo stretti per indicare una profonda modificazione nella concezione europea della questione italiana. Si tratta d'una semplificazione soltanto parziale del vecchio assetto, d'una nuova divisione delle zone d'influenza, non del riconoscimento d'una autonomia italiana in fieri.

G. Quazza, L'Italia e l'Europa durante le guerre di successione, Einaudi, Torino 1959, vol. II, p. 645.

Le grandi potenze, conclude Quazza, subirono l'assetto «equilibrato» della penisola come R «minor male», come l'unica soluzione capace di comporre complessi e difficili contrasti, per ragioni egoistiche, ma non per una coscienza europea del problema italiano.

 

Il problema del Risorgimento nella prima metà del Settecento

È convinzione degli storici nazionalisti che le origini del Risorgimento italiano vadano fatte risalire alle modificazioni politico-territoriali apportate nella penisola dalle guerre di successione: riduzione dei territori soggetti allo straniero, introduzione di nuove dinastie autonome, accrescimento territoriale e potenziamento politico dei Savoia. Dopo la caduta del fascismo, il problema è stato visto e prospettato con l'animo sgombro da ogni passione nazionalistica e preconcetta. Salvatorelli, in opere di riconosciuto valore storico, ha scritto che i cambiamenti e gli ingrandimenti territoriali avvenuti in Italia a causa delle guerre di successione hanno un valore del tutto materiale e non possono assolutamente spiegare un movimento d'origine spirituale qual è il Risorgimento. Inoltre, i cambiamenti di dinastie e di governi sostanzialmente legavano e non liberavano l'Italia dalle potenze straniere, perché non erano state promosse se non in minima parte da forze indigene.

Alla fine del primo cinquantennio del '700 di fronte ai modesti ampliamenti locali del Piemonte troviamo che l'Impero asburgico aveva incamerato il Milanese e il Mantovano come suoi feudi e riaffermato di fatto il suo alto potere su Parma e Piacenza, nella Toscana e più in generale sulle cose italiane; e anzi in Toscana governava, sia pure con un governo separato, lo stesso imperatore, a cui sarebbe successo un membro della famiglia imperiale. La Repubblica di Venezia era priva ormai, nelle faccende italiane, di ogni influenza, di ogni voglia e capacità di contrastare ed equilibrare il potere straniero; anzi, il suo territorio era stato impunemente violato dai belligeranti. In misura ancora maggiore questa sorte era toccata allo Stato pontificio, che aveva perduto fin l'ultimo resto d'importanza politica. Nel Regno di Napoli (come a Parma e Piacenza) la nuova dinastia era portata dallo strettissimo vincolo dinastico a stringersi alla Spagna e seguirne le direttive. Infine, il fatto principale era che le trasformazioni avvenute nell'assetto d'Italia non erano state se non in minima parte opera di forze indigene: ancora una volta le sorti della penisola erano state decise dalle potenze straniere, che ne avevano fatto il proprio campo di battaglia. In conclusione: i risultati politico-territoriali della prima metà del Settecento per l'Italia sono ben lontani dal presentare per il processo del Risorgimento quell'importanza che molti credono, o affettano di credere.

L. Salvatorelli, Il Settecento, in Pensiero e azione del Risorgimento, Einaudi, Torino 1950, p. 37.

Sulla mancanza di forze nazionali indigene, di un centro comune, di un vincolo spirituale organico, di una coscienza italiana, nel primo cinquantennio del Settecento, hanno posto l'accento altri storici autorevoli come Quazza e Valsecchi.

Nonostante le illusioni o le pretese di taluni storici – scrive Quazza – bisogna rinunciare a tracciare, prima del 1748, un cammino vera. mente comune a tutt'Italia verso un più alte equilibrio tra Stato e Società verso un più soddisfacente nesso fra le strutture economiche E sociali e la vita politica e morale. Dal chiuso delle piccole «nazioni» provinciali e regionali non esce uno sforzo su scala generale. Quasi tutto ciò che di nuovo, di progrediente si leva al di sopra della grigia conservazione dell'antico viene, anzi, dalla imitazione, o ad dirittura – anche attraverso le vicende politico territoriali, in questo senso condizione di progresso – dalla pressione dell'Europa: non solo nell'azione politica interna dei governi e dei gruppi sociali, ma anche nell'ispirazione etico-civile di quegli scrittori che riescono a farsi sentire da tutto il paese. Oggetto, dunque, più che soggetto di storia, e realtà troppo multiforme, l'Italia può nel periodo 1710-1748 essere studiata soprattutto come il più dibattuto tema politico dei contrasti europei.

G. Quazza, L'Italia e l'Europa durante le guerre di successione, Einaudi, Torino 1959, vol. II, p. 643.

Profondi fossati dividevano le regioni italiane, aggiunge Valsecchi, povertà e desolazione regnavano ovunque, mancavano commerci e industrie, l'agricoltura era primitiva, nelle popolazioni non c'era unità morale. Questa Italia, divisa e misera, nel grande conflitto europeo non disse una parola, subì la volontà degli altri.

Fra i due contendenti stranieri, Borboni e Asburgo, c'era un'Italia indipendente solo di nome; di fatto trascinata a rimorchio dalla politica europea, oggetto e non soggetto della politica europea. Fra le grandi forze in contrasto, costituisce una zona grigia, un peso morto, che gravita ora su questo ora su quello dei due grandi centri d'attrazione, Asburgico e Borbonico. La politica italiana non si fa in Italia: si fa a Parigi, a Vienna, a Madrid, a Londra. V'è, sì, il Piemonte, che s'inserisce nella grande contesa europea, e cerca di trarne profitto: il Piemonte, l'unico fra gli Stati italiani capace di iniziativa. Ma è un piccolo Stato, le cui forze non reggono, non possono reggere al paragone delle grandi Potenze europee. Il suo gioco, di farsi strada attraverso le rivalità europee, si esaurisce man mano: quando, ad Aquisgrana, la lotta europea si conclude, e l'assetto italiano si stabilizza, i Savoia rimangono confinati nel loro ambito provinciale, all'estremo lembo della penisola. Un'Italia, dunque, alla completa mercé dell'Europa; un'Italia asservita allo straniero, anche dove conserva una parvenza d'indipendenza formale.

F. Valsecchi, Condizioni politiche e sociali dell'Italia nell'età dell'Illuminismo,
in La cultura illuminista in Italia, Einaudi, Torino 1957, p. 50.

 

I Savoia e l'Italia

Altro punto fermo sul quale alcuni storici nazionalisti insistono riguarda la grande importanza nazionale che in questa prima metà di secolo avrebbe avuto la Casa di Savoia: Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III in questo periodo avrebbero ripreso la funzione "italiana" che nei secoli precedenti era stata già iniziata da Emanuele Filiberto e da Carlo Emanuele I e, attraverso i loro ingrandimenti e conquiste, avrebbero accentuato il carattere unitario della loro politica. Rota, Pontieri ed Ercole vollero fissare le origini del Risorgimento nella guerra di successione spagnola, con la quale il Ducato dei Savoia divenne un Regno.

Momento culminante per la Casa (dei Savoia), attorno al 1700. I Savoia sentono questa specie di più vasto e affrettato respiro dell'Europa nel Mediterraneo e attorno ad esso; avvertono più vivo ed assillante il senso della loro piccolezza e quasi servitù di fronte alla vicina monarchia di Francia, il desiderio di muoversi liberamente e di crescere. Mentre lavorano a far delle Alpi una barriera protettiva, portando lì il confine politico, vogliono conservare e accrescere i contatti col vasto mondo [...]. Vittorio Amedeo richiama a noi l'avo Carlo Emanuele I. Ma, come la scena su cui egli ora si muove è più ampia e la politica sabauda ha più nessi con la storia europea, e cerca di raggiungere i suoi fini in una determinata sistemazione di tutta Europa, così Vittorio Amedeo II è una più complessa personalità, quasi si,sia anch'esso adeguato ai tempi. Ambizione non minore ma più oculata. Orgoglio più contenuto, maggior dominio su se stesso, più accortezza e furberia e calcolo. È la virilità, in confronto alla giovinezza un po' leggera e spavalda e avventurosa [...]. Con Vittorio Amedeo si presenta quasi perfetta l'opera di creazione di un popolo, la formazione di un suo spirito e carattere, la quasi identificazione popolo-principe che nel XVI secolo non esisteva ancora [...]. Anche l'attuale posizione di preminenza della Corte sabauda su le altre Corti italiane è più netta che non fosse ai tempi di Filiberto e di Carlo Emanuele I. E quindi è più vigilato e sospettato ogni suo atteggiamento, più attivo il brigare altrui per attraversare la strada [...]. Scriveva nel novembre 1712 da Londra, al suo governo, l'inviato toscano Rinuccini: «Questa idea» – cioè la conquista d'Italia – «è certamente nello spirito del signor Duca di Savoia, e per avvantaggiarne l'esecuzione bisogna che rivolti tutte le sue mire all'acquisto del Milanese che è il fosso più largo che egli abbia da passare per condursi al suo fine. Non potendo da solo, aspetterà le occasioni che facciano scoppiare la guerra. E si daranno certamente, quando sia determinato dalla Provvidenza divina l'ingrandimento di questa Casa». Su tale atteggiamento antisabaudo fa calcolo l'Austria per guadagnar amici o disarmar nemici. Verso la fine della prima guerra di successione, agenti austriaci sussurravano nell'orecchio dei Principi o ministri italiani che essi male avrebbero provveduto ai casi loro accostandosi alla Francia. Avrebbero costretto l'Impero ad allearsi con i Savoia: «alleanza che porterebbe questo Principe all'eredità di tutti gli stati ereditari e al dominio di tutta Italia...». La «Provvidenza divina» non determinò allora a favore dei Savoia, che una cosa più modesta: l'acquisto di qualche altra provincia lombarda e della lontana Sicilia.

G. Volpe, Italia e Savoia, in "Nuova Antologia", Roma, 1° giugno 1925.

Implicitamente, la storiografia d'impronta sabaudista ha sottovalutato la novità degli effetti dell'Illuminismo. Osserva invece Valsecchi che se vita nuova c'è nell'Italia della prima metà del XVIII secolo, essa si deve attribuire alle nuove dinastie straniere e non alle vecchie Case regnanti – e tra queste anche quella dei Savoia – che rimangono chiuse nell'anacronistica tradizione.

La conquista asburgica e borbonica ha portato l'Italia a contatto con la nuova vita europea, con le nuove esperienze europee. Le nuove dinastie, le grandi dinastie europee insediate in Italia, gli Asburgo e i Borboni, portano nella penisola l'impulso riformatore che anima l'Europa. Gli Stati «nazionali», gli Stati che si trovano sotto la guida delle dinastie e delle aristocrazie locali, rimangono chiusi nella cerchia della tradizione: Venezia, Genova nella loro rigida struttura aristocratica, Roma nella sua struttura teocratica. Non vi sono, qui, nuovi sovrani che devono gettare nuovi fondamenti alla loro potenza; come non vi sono in Piemonte, dove la dinastia, ben salda in sella, non sente la spinta di allontanarsi dalle vie del passato. A Torino, è vero, Vittorio Amedeo II si dedica a una vasta e feconda attività di riordinamento, di riorganizzazione, di potenziamento dello Stato. Ma non è opera riformatrice, nel senso attribuito alla parola dalla nuova filosofia dei lumi, non ubbidisce a una ispirazione dottrinaria, non si propone, come il riformismo dei sovrani illuminati, una trasformazione radicale dei rapporti politici e sociali. Chi prende risolutamente la via delle riforme, chi si prepara ad «abbattere la vecchia fabbrica per costruirne una nuova» sono i principi nuovi, i principi stranieri, che importano dall'Europa in Italia i criteri del nuovo «dispotismo illuminato».

F. Valsecchi, Condizioni politiche e sociali dell'Italia nell'età dell'Illuminismo,
in La cultura illuminista in Italia, Einaudi, Torino 1957, p. 60.

All'analisi critica di Luigi Salvatorelli, questa interpretazione della storia moderna d'Italia appare fondata sul mito e non ha alcun fondamento nei fatti.

La storia dice che fino alla metà del sec. XVI l'importanza dello Stato sabaudo per la vita politica generale d'Italia è pressoché nulla: nel sistema dei principati e della loro «bilancia», sterna giunto alla formazione completa alla età del sec. XV, esso non ha parte; la funzione immaginosamente attribuitagli di «guardiano delle porte d'Italia» esso non l'ha assunta affatto nel periodo delle invasioni straniere, mentre più tardi – a conclusione di una delle tante guerre infruttuose di Carlo Emanuele I – è stato proprio il duca di Savoia con la cessione di Pinerolo alla Francia nel trattato di Cherasco, a riaprire quella porta; la ricostruzione territoriale dello Stato da parte di Emanuele Filiberto fa onore alla tenacia e alla sagacia del principe, ma fu altresì effetto dell'equilibrio stabilito tra Francia e Spagna, né modificò sostanzialmente l'asservimento d'Italia nel periodo spagnolo; la politica di Carlo Emanuele I, celebrata come affermazione di nazionalità indipendente, fu soprattutto aspirazione d'ingrandimento in qualsiasi direzione, in Francia e Svizzera alla pari che in Italia; il programma d'unione della Lombardia al Piemonte fu un espediente di Enrico IV e in generale della politica francese più ancora che idea direttiva dei Savoia; dalla morte di Vittorio Amedeo I (1673), per un cinquantennio, lo Stato sabaudo, ridotto a dipendenza francese, subisce un'eclissi quasi totale; nelle guerre europee dalla fine del secolo XVII a metà del sec. XVIII, il Piemonte si mantenne, ricuperò l'autonomia, effettuò ampliamenti territoriali, conquistò la corona regia, ma non si sostituì in Lombardia alla dominazione straniera né trasformò sostanzialmente la situazione politica inferiore dell'Italia; nel quarantennio 1740-1780 subì di nuovo un parziale esautoramento, per l'accordo austro-francese, che gli toglieva la base principale della sua politica estera attiva.
Il mito sabaudo ha fatto sì che episodi della storia d'Italia perfettamente analoghi tra loro siano stati posti in luce del tutto differente secondoché si trattasse del Piemonte o di altro Stato. Le aspirazioni dei Savoia su Genova non avevano natura diversa e valore ideale superiore a quelle di Austria e Spagna sulla Valtellina; le congiure del Vachero e del Della Torre, in cui pescarono infelicemente a danno di Genova il primo e il secondo Carlo Emanuele, non valevano più di quella del Bedmar a danno di Venezia, dietro cui sarebbe stata la Spagna; l'assorbimento sabaudo del Monferrato non era un fatto sostanzialmente diverso da quello di Ferrara e Urbino da parte del papa. Carlo Emanuele I, lanciatosi sulle orme del capo della Controriforma, Filippo II, alla preda nella Francia dilaniata dalle guerre di religione, lavorava contro l'equilibrio europeo e a danno dell'Italia, mentre Ferdinando I di Toscana e Sisto V seguivano una politica più italiana; e l'uomo che intorno al 1615 si era atteggiato a campione dell'indipendenza italiana contro gli Asburgo è lo stesso uomo che una dozzina di anni più tardi si schierava con loro nella guerra per la successione del Monferrato, incappando nella disgrazia di trovarsi insieme con gli autori di quel sacco di Mantova che pose fine a uno dei centri della cultura italiana. Insomma, fino alla rivoluzione francese la politica sabauda è quella di uno stato di terzo ordine che cerca con tutti i mezzi di mantenersi e d'ingrandirsi, e riesce a passare dal terz'ordine al secondo. Si ammirano giustamente in quest'opera tenacia, arte politica, forza guerresca, non ci si ritrova un nesso particolare con la politica nazionale, salvo quelle generico e lontano dell'utilità per quando il Piemonte si sarebbe rivolto a una simile politica che per allora gli rimaneva ignota.
La linea del Risorgimento segue tutt'altra traiettoria: quella del rinnovamento culturale e delle riforme interne, in cui il Piemonte, E particolarmente il governo piemontese, non hanno nessuna parte direttiva o soltanto ragguardevole.

L. Salvatorelli, Il problema del Risorgimento,
in Pensiero e azione del Risorgimento, Einaudi, Torino 1950, p. 38.

Esaminando in modo più specifico la politica espansionistica di Vittorio Amedeo li, nella quale i nazionalisti vedono i sintomi evidenti dell'egemonia sabauda su tutta la penisola, così scrive Valsecchi.

Con l'acquisto del Regno di Sicilia, Vittorio Amedeo II poté sembrare che veniva a premere sull'Italia dai due estremi, nord e sud, quasi ad anticipare il 1860. Ma, senza stare a discutere quanto vi sia di reale e quanto di apparente o fantastico in una simile rappresentazione, il punto è che questo nuovo avviamento durò l'espace d'un matin. Già nel 1720 Vittorio Amedeo II dovette rinunciare alla Sicilia e contentarsi in cambio della Sardegna, non solo più piccola e meno importante, ma priva di quella posizione geografica dominante e suggestiva della Sicilia. Non era un vero scambio, ma poco meno di una detronizzazione. Il possesso della Sardegna non ebbe importanza per gli ulteriori destini sabaudi-italiani, se non si volesse rilevare che essa fu il rifugio della dinastia durante il periodo napoleonico sotto la protezione della flotta inglese, in comunanza di destino con i Borboni accantonati in Sicilia. La rapidità con cui il cambio avvenne, a un olimpico aggrottar di sopracciglia delle grandi dominante; i suoi privilegi scompaiono. Come scompaiono i privilegi del clero. Le riforme di Giuseppe II radono al suolo la potenza politica della Chiesa, che viene sottomessa allo Stato, e ne radono al suolo la potenza economica confiscandone i beni, sottoponendoli a una pressione fiscale. Un livellamento, che si risolve, per la Lombardia, in una rigorosa subordinazione a Vienna. La Lombardia sotto Maria Teresa si era in qualche modo governata da sé; il predominio patrizio era stato, in qualche modo, l'espressione delle forze locali. Ora non più: ora le nostre sorti si decidono a Vienna: è Vienna che comanda e dispone a proprio arbi- trio di noi. Ma certo è che questo brutale intervento dal di fuori contribuisce a mutare radicalmente faccia alle cose, a far piazza pulita del passato, dei residui del Medioevo, che ancora ingombrano la via. È il nuovo stato che sorge, con Giuseppe II, in Lombardia; è la vecchia società che tramonta. Anche se, morto l'imperatore, molte delle sue riforme verranno revocate, l'opera sua non sarà stata vana nel preparare l'avvenire.

F. Valsecchi, Condizioni politiche e sociali dell'Italia nell'età dell'Illuminismo,
in La cultura illuminista in Italia, Einaudi, Torino 1957, p. 62.

In Toscana il benessere spirituale e materiale ch'essa ha goduto nell'Ottocento è il risultato delle riforme del granduca Leopoldo, fratello di Giuseppe II e molto diverso da lui: meno astratto, legato alle cose concrete, fece le riforme che il Paese richiedeva, al di fuori di ogni schema intellettuale e con l'aiuto delle forze più vive e progredite. Sovrano assoluto illuminato, ridusse la potenza del clero, in cui vedeva un pericoloso rivale dello Stato, ma dedicò i suoi maggiori sforzi alle trasformazioni economiche che tanto bene dovevano apportare ai cittadini.

Le sue riforme mirano a potenziare l'economia del paese, a smantellare le barriere che intralciano il libero sviluppo del commercio e dell'industria; ma al culmine dei suoi pensieri sta «una riforma agraria, che spezzi il vecchio latifondo e dia vita a una piccola proprietà, ad un medio ceto rurale di piccoli possidenti, un vivaio di gente nuova», secondo le sue stesse parole, che avrebbe dovuto costituire la base del nuovo ordine sociale.

F. Valsecchi, Condizioni politiche e sociali dell'Italia nell'età dell'Illuminismo,
in La cultura illuminista in Italia, Einaudi, Torino 1957, p. 63.

L'attività riformistica dei Borboni a Parma e a Napoli fu «meno vigorosa e rigorosa, meno coerente e conseguente, meno influenzata da un programma sistematico di principi e di dottrine» (F. Valsecchi, Condizioni politiche e sociali dell'Italia nell'età dell'Illuminismo, in La cultura illuminista in Italia, Einaudi, Torino 1957, p. 63).
Specialmente a Parma esse furono di poco effetto. Il nuovo duca, Filippo di Borbone, legato ancora alla mentalità dell'Antico Regime, è più sensibile al fasto che al rinnovamento e affida l'amministrazione a Spagnoli e a Francesi, per dedicarsi agli svaghi. L'uomo di sua fiducia è il francese Du Tillot, «dotato, certo, di una sensibilità abbastanza agile e viva per sentirsi uomo del suo tempo e per subire l'influsso delle idee che circolano nell'aria, ma non è temperamento da andare a fondo alle cose, da obbedire a un ben meditato programma; è un empirico, che mira alla soluzione di problemi pratici, non all'attuazione di un disegno sistematico. Gli manca la spinta di una convinzione profonda, di una dottrina ispiratrice; gli mancano la risolutezza e la forza che solo l'appoggio del sovrano e il consenso del paese avrebbero potuto dargli. Si trova, invece, di fronte a un sovrano indifferente e a un paese inerte. Per conseguenza, a Parma, il riformismo borbonico fu un fuoco di paglia»'. A Napoli, Carlo di Borbone non è un sovrano illuminista alla maniera di Giuseppe II e di Leopoldo, non s'ispira né a una dottrina né a un piano organico e definitivo, ma ha buon senso e segue i consigli di una schiera di pensatori progressisti (Genovesi, Filangieri, Galiani, Caracciolo) di fama e di prestigio internazionali. Essi per lui sono il pungolo incessante di rinnovamento e collaboratori del ministro Tanucci, il giurista toscano capo dei movimento riformista, anche quando a Carlo III, divenuto re di Spagna, succedettero Ferdinando e Maria Carolina. «La collaborazione fra il governo e le forze "progressive" locali raggiunse il suo vertice. I filosofi celebrarono "nella età di Ferdinando" la nuova età dell'oro; salutarono nel debole e mediocre sovrano il "novello Tito" che inaugura il regno della saggezza e della giustizia; il re apparve destinato ad attuare il programma ch'era nei loro voti: uno Stato forte e rispettato, clero e feudalità sottomessi al diritto comune; infranti i vincoli imposti dal vecchio regime alla libertà della terra, del lavoro, del commercio» (F. Valsecchi, Condizioni politiche e sociali dell'Italia nell'età dell'Illuminismo, in La cultura illuminista in Italia, Einaudi, Torino 1957, p. 65).
Il programma, purtroppo, non fu attuato, o fu attuato parzialmente o male. Senza dubbio, il fallimento è da attribuire, secondo Valsecchi, alle difficili condizioni del Paese, molto arretrate, ma soprattutto alla mediocrità di Ferdinando «incapace di elevarsi al di sopra delle contingenze della giornata» e alla vanità di Maria Carolina, che «s'era messa alla testa del movimento innovatore, più che per una sua salda convinzione, per una certa femminile inclinazione alla moda del tempo, una moda del momento, che, passato il momento, si lascia cadere».
Nonostante questi limiti, restrizioni e parziali fallimenti, le riforme giovarono grandemente all'Italia: esse ruppero il vecchio mondo inerte, rigido e chiuso, impressero alla società un nuovo impulso e una nuova vita, al posto della nobiltà e dell'alto clero valorizzarono nuove classi, favorirono la borghesia, risollevarono il popolo dall'antica schiavitù.

L'Italia resta, sì, come un tempo, divisa, ma le riforme, con l'unità dei loro indirizzi e delle loro mete, danno una fisionomia più uniforme al volto della penisola; ma il pensiero, con la nuova, intensa circolazione delle idee da un capo all'altro della penisola, crea una fitta rete che lega fra di loro gli spiriti migliori della nazione.
L'Italia resta, sì, come un tempo, asservita, ma non più la cappa di piombo della dominazione spagnola, che irrigidiva il paese nell'immobilità sotto il suo peso. I rami delle dinastie straniere, trapiantati a Firenze, a Napoli, a Parma, si vanno man mano distaccando dai tronchi originari di Vienna e di Madrid, vanno man mano acquistando carattere e fisionomia italiana, si vanno trasformando in dinastie italiane. Anche là dove si tratta di province soggette direttamente allo straniero, come in Lombardia, l'opera dei sovrani illuminati ha creato nuovi fermenti, ha suscitato nuove energie, ha ridato al paese nuova coscienza di sé. L'Italia intera va acquistando una nuova coscienza di sé. Non è ancora una coscienza politica, una coscienza nazionale nel pieno senso della parola: i tempi non sono maturi. Ma è già coscienza di costruire un'individualità ben definita, di appartenere a una famiglia comune, dotata di sue peculiari doti morali e spirituali, legata da comuni interessi, da comuni esigenze, da comuni destini.

F. Valsecchi, Condizioni politiche e sociali dell'Italia nell'età dell'Illuminismo,
in La cultura illuminista in Italia, Einaudi, Torino 1957, p. 67.

 

Il rapporto tra le riforme e il Risorgimento

Carlo Morandi nei suoi studi sul Settecento riscontra che le riforme ebbero ripercussioni nei politici e negli storici del Risorgimento: per la Restaurazione esse costituirono «un'età felice, di sicuro benessere, di prosperità e di graduale e fecondo progresso»; per gli scrittori del "Conciliatore" il problema italiano consisteva «nell'ampliare e arricchire l'orizzonte di nuovi motivi»; per i moderati (Balbo, D'Azeglio, Gioberti ecc.) bisognava condurre a termine l'opera lasciata a metà dai sovrani illuminati, integrandola con mete più immediate e precise; anche per i democratici le riforme indicavano quello ch'era necessario ai bisogni delle popolazioni; per Botta e Manzoni esse avrebbero certamente portato il popolo italiano alla conquista graduale, ma profonda, delle nuove idee; per Carducci, invece, le riforme furono «cataplasmi» incapaci di «rifare il sangue di quel vecchio popolo italiano» (I. C. Morandi, Il problema delle riforme nei risultati della recente storiografia, in Problemi storici italiani ed europei del XVIII e XIX secolo, Mondadori, Milano 1937, pp. 81-909). Non furono apprezzate dagli storici che considerarono il Risorgimento un moto dell'Ottocento, completamente staccato dal tempo precedente; furono, invece, valutate dalla storiografia storicistica che in esse vede il punto di partenza del Risorgimento. In questa prospettiva si è indagato sulla loro iniziativa: Rota e Schipa sostengono ch'esse furono imposte ai principi «dagli evidenti bisogni del paese e dalla pressione degli spiriti più vigili»; per Invernizzi e Olmo furono «opera dei principi, imposte dal supremo interesse dello Stato, ch'è quanto dire dall'interesse personale dei sovrani».
Sempre nella stessa prospettiva si è pure indagato sull'origine delle riforme. Fra gli altri, Anzilotti ha sostenuto ch'esse derivano «dal maturare di un processo iniziatosi tre secoli avanti, diretto a ristabilire l'equilibrio tra città e campagna e a trasformare l'economia dello Stato cittadino in un'economia regionale e più tardi nazionale» (A. Anzilotti, Movimenti e contrasti per l'unità italiana, Laterza, Bari 1930).
Per Bulferetti esse affondano le radici nei secoli precedenti della storia italiana.

Non edificò forse Federico II il primo Stato burocratico accentrato, in Sicilia, già nel sec. XIII? non rivendicarono allo Stato cittadino e regionale le funzioni legislative e giudiziarie i comuni e i principati? e le milizie nazionali non furono l'aspirazione di Machiavelli? e il giurisdizionalismo non è vecchio sulla Penisola almeno quanto il curialismo della In coeva Domini? e l'abbattimento della feudalità, col conseguente sorgere di nuovi ceti borghesi e con l'imporsi della ricchezza mobiliare, non fu da noi attuato su vasta scala sin dall'età comunale? e il laicizzarsi della cultura non fu proprio del decadere della Scolastica e del Rinascimento?

L. Bulferetti, L'assolutismo illuminato in Italia, Mondadori, Milano 1944.

A diversa conclusione arriva Salvatorelli. Se, egli pensa, i caratteri essenziali delle riforme italiane sono l'antifeudalismo massimo in Lombardia e minimo nel Napoletano, un'amministrazione uniforme e accentrata, l'abolizione di ogni privilegio, l'anticurialismo, la tolleranza religiosa, l'incipiente laicizzazione dello Stato e della vita sociale, l'addolcimento delle leggi penali, essi sono identici alle riforme degli Stati europei e devono considerarsi il risultato dell'azione esercitata nella penisola dalla cultura europea. Salvatorelli in particolare attribuisce alla graduale penetrazione dell'influenza culturale francese lo sviluppo di tale strategia riformatrice e coglie dietro questa matrice l'impronta dell'Illuminismo, estremamente sensibile soprattutto nella seconda metà del Settecento.

Che cos'è tutto questo riformismo se non l'applicazione dei principii di quel filosofismo o nazionalismo, formatosi in Inghilterra tra la fine del Seicento e i primi del Settecento, trapassato in Francia, che ne divenne la roccaforte col Voltaire e gli enciclopedisti, e propagatosi in Germania, in Italia e nel resto d'Europa? L'Italia tiene un posto assai onorevole nella pratica riformistica con Bernardo Tanucci, con Pier Leopoldo e con gli ottimi coadiutori di questo. Altrettanto onorevole è il suo posto nel campo delle idee: gli scrittori italiani rimangono piuttosto timidi nella parte filosofico-religiosa, pur mostrandosi impregnati di razionalismo e di sensismo; sono assai più arditi nel campo economico ed amministrativo, e loro caratteristica è soprattutto il cambiato concetto della politica superante la vecchia ragion di Stato per l'utile sociale, per la liberazione e l'elevazione dell'individuo. Ma questo moto, nel campo pratico e nel teorico, è schiettamente europeo; l'Italia lo riceve dal di fuori con i principi riformatori stranieri (anche se coadiuvati vigorosamente dai ministri paesani) e soprattutto con la diffusione della scienza, della filosofia della Weltanschauung di oltralpe.

L. Salvatorelli, Il problema del Risorgimento,
in Pensiero e azione del Risorgimento, Einaudi, Torino 1950, p. 42.

Salvatorelli sottolinea il carattere europeo dell'Illuminismo italiano, facendo intendere che le scelte compiute dagli Stati italiani non furono il frutto di un autonomo processo di maturazione politica. Questa tesi è oggi pienamente condivisa, anche se non è avvertita come un limite della nostra esperienza politica, perché è chiaro comunque che la forza delle idee e della politica illuminista sta proprio in questo suo essere, sia pure in maniera diversa, espressione di una cultura europea. Con queste conclusioni non s'accorda certamente il pensiero degli storici nazionalisti e sabaudisti, fermi nel convincimento che il rinnovamento settecentesco italiano è autoctono, originato da un processo intrinseco della cultura italiana, e che il Risorgimento è in rapporto con esso, con l'avviamento unitario derivante dall'assetto politico della penisola e dall'opera "italiana" di Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III. Questo clima morale e politico avrebbe favorito fra gli Italiani una maturazione patriottica, che deve essere considerata il punto di partenza della nostra resurrezione nazionale.
Secondo Salvatorelli, il riformismo italiano ha molto merito sul piano amministrativo, economico e giuridico, ma non per questo si può considerare inizio del Risorgimento; esso non affrontò i problemi dell'indipendenza, dell'unità e dello Stato costituzionale; nessuno dei riformatori pensò mai di cacciare gli stranieri, ma è risaputo che essi ricevevano il verbo dall'estero e non pochi degli spiriti eletti esaltavano il governo austriaco. Inoltre, altro motivo che svuota il riformismo di qualsiasi carattere nazionalistico è l'assenza se non l'opposizione del popolo.

Una limitazione essenziale conviene fare al riformismo settecentesco italiano, teorico e pratico, per quel che riguarda l'avviamento dato da esso al Risorgimento. Mancò ad esso una partecipazione popolare, e quindi una larga base nazionale [...]. Alle riforme dei governi i popoli rimasero indifferenti o addirittura si mostrarono ostili: si ricordino le avversioni popolari-devote toscane alle riforme ricciane-leopoldine. Al che si aggiunge che, se il regalismo non si ridusse a puro assolutismo regio, pure non può negarsi che il rafforzamento di questo ne fosse non solo scopo diretto, ma il risultato principale. I sovrani cercarono nella loro opera riformatrice di migliorare l'amministrazione rendendola più uniforme, la giustizia rendendola più spedita e più umana, le condizioni economiche e intellettuali dei loro popoli favorendo industrie e commerci, abolendo taluni dazi e vincoli alla libertà del lavoro, promovendo e diffondendo la cultura. Ma in conclusione essi non affrontarono i problemi fondamentali posti esplicitamente dal filosofismo o derivanti necessariamente dalle premesse di questo, e pertanto già maturi nelle coscienze superiori: uguaglianza civile, libertà civile e politica, regolamento costituzionale dello Stato, controllo e partecipazione del popolo al governo. E perciò è nettamente da respingere la tesi, secondo la quale, se il corso delle riforme settecentesche italiane non fosse stato interrotto dalla rivoluzione francese, esso avrebbe condotto di per sé, per vie pacifiche e puramente indigene alla resurrezione nazionale.

L. Salvatorelli, Il problema del Risorgimento,
in Pensiero e azione del Risorgimento, Einaudi, Torino 1950, p. 46.

Il Risorgimento s'inizia, sì, nel Settecento, ma non con i trattati di Utrecht, di Vienna e di Aquisgrana, né con i cambiamenti di alcune dinastie, né tanto meno con l'acquisto di un pezzo di territorio da parte dei Savoia. Sostenere queste tesi vuol dire ridurre un problema squisitamente spirituale a una serie di conquiste territoriali; vuol dire rimanere fuori dal vero spirito del Risorgimento. Le origini del Risorgimento vanno ricercate nel Settecento, conclude Salvatorelli, solo e in quanto in questo secolo avviene il ricongiungimento dell'Italia al corso generale della civiltà europea; questo ricongiungimento permise all'Italia di riattaccarsi alla sua tradizione del Rinascimento e a risorgere.

L'Italia riceve il pensiero di Oltralpe, lo assimila, lo rinforza con i succhi del proprio terreno, stimolati dall'innesto esterno. L'Italia del Settecento ripiglia i fili interrotti della sua tradizione; il Risorgimento si riattacca al Rinascimento. Ma il riattacco non è fatto direttamente, rimanendo sul suolo nazionale; esso si compie attraverso l'Europa. Ricongiungendosi all'Europa, dopo l'isolamento controriformistico e seicentesco, l'Italia comincia a ritrovare se stessa.

L. Salvatorelli, Il problema del Risorgimento,
in Pensiero e azione del Risorgimento, Einaudi, Torino 1950, p. 43.

 

 

 

 

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