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napoleone
FONTI
Il colpo di Stato del 18 Brumaio (1799)
La prolungata assenza di Napoleone dalla Francia in occasione della campagna d'Egitto confermò la cronica debolezza del governo direttoriale. L'immobilismo del regime e le contraddizioni che lo laceravano indussero Napoleone, all'indomani della disfatta di Abukir, a fare precipitosamente rientro in Francia, per assumere il pieno controllo della situazione. Si era alla vigilia del colpo di Stato del 18 Brumaio (novembre del 1799): il generale, d'intesa con il direttore Sieyès, preparò l'introduzione di una nuova Costituzione, quella dell'Anno VIII, con cui si rafforzava il potere esecutivo a discapito dell'autonomia delle Camere, depositarie del potere legislativo. Accentrando il potere nelle proprie mani, Napoleone intendeva mettere al riparo quei valori borghesi, sanciti nella Carta costituzionale del 1791, che i ricorrenti tentativi giacobini minacciavano. Il futuro Primo console si accreditava come ideale "uomo d'ordine", garante, anche grazie all'incondizionato sostegno dell'esercito, della difesa degli autentici valori rivoluzionari.
Al mio ritorno a
Parigi, ho trovato la discordia in tutte le Autorità e l'accordo stabilito su
questa sola verità: che la Costituzione era per metà distrutta e non poteva
salvare la libertà. Tutti i partiti sono venuti da me, mi hanno confidato i loro
progetti e hanno chiesto il mio appoggio. Io ho rifiutato di essere l'uomo di un
partito. Il Consiglio degli Anziani mi ha chiamato. Ho risposto al suo appello.
Un piano di restaurazione generale era stato concordato da uomini in cui la
nazione è abituata a vedere i difensori della libertà, dell'eguaglianza, della
proprietà. Esso richiedeva un esame calmo, libero, scevro da ogni influenza e
timore. Di conseguenza il Consiglio degli Anziani ha deciso il trasferimento del
Corpo Legislativo a Saint-Cloud e mi ha incaricato di disporre le forze
necessarie alla sua indipendenza. Ho creduto mio dovere verso i miei
concittadini, verso i soldati che si sacrificano nelle nostre armate, verso la
gloria nazionale acquistata a prezzo del loro sangue l'accettare il comando. I
Consigli si riuniscono a Saint-Cloud. Le truppe repubblicane ne garantiscono
dal di fuori la sicurezza.
Ma alcuni assassini stabiliscono al di dentro il terrore. Parecchi Deputati,
armati di pugnali ed armi da fuoco, fanno circolare tutto intorno minacce di
morte. I piani che dovevano essere sviluppati vengono riposti. La maggioranza è
disorganizzata, gli Oratori più intrepidi sono sconcertati, l'inutilità di ogni
saggio proposito è evidente. Allora porto dinanzi al Consiglio degli Anziani il
mio sdegno e il mio dolore; chiedo ad esso di assicurare l'esecuzione dei suoi
generosi disegni, rievoco i mali della Patria che hanno fatti concepire. Il
Consiglio si unisce a me con nuove attestazioni della sua costante volontà. Mi
presento quindi al Consiglio dei Cinquecento: solo, senza arme, col capo
scoperto, così come mi avevano richiesto e applaudito gli Anziani. Venivo a
ricordare alla maggioranza le sue volontà e ad assicurarla del suo potere. I
puntali che minacciavano i Deputati sono ben presto levati contro il loro
liberatore; venti assassini si precipitano su di me e cercano il mio petto; i
Granatieri del Corpo Legislativo, che io avevo lasciati alla porta della sala,
accorrono e si frappongono fra gli assassini e me. Uno di questi bravi
Granatieri (Thornè) è colpito con una pugnalata. Poi essi mi liberano. Nello
stesso tempo grida di «fuori della legge» vengono rivolte al «difensore della
legge»: grida feroci degli assassini contro la forza destinata a reprimerli.
Costoro si affollano intorno al presidente, minacciandolo con la parola e le
armi alla mano, e gli ordinano di pronunciare il «fuori della legge». Ne sono
avvertito. Do l'ordine di sottrarre il presidente alla loro furia e sei
Granatieri del Corpo Legislativo se ne impadroniscono. Subito dopo, altri
Granatieri entrano a passo di carica nella sala e la fanno sgombrare. I faziosi,
impauriti, si disperdono e s'allontanano. La maggioranza, liberata dai loro
colpi di mano, rientra liberamente e pacificamente nella sala delle sedute;
ascolta le proposte che le debbono essere fatte per la salute pubblica; delibera
e prepara la risoluzione salutare che deve diventare la legge nuova e
provvisoria della Repubblica.
Francesi! Voi riconoscete senza dubbio in questa condotta lo zelo di un soldato
della libertà, devoto alla Repubblica. Le idee di conservazione, di sicurezza,
di libertà sono rientrate nei loro diritti grazie alla dispersione dei faziosi
che opprimevano i Consigli e che, per quanto siano diventati i più odiosi degli
uomini, non hanno cessato di essere i più spregevoli.
Napoleone I, Proclami, discorsi e scritti militari e politici, Sonzogno, Milano 1930, pp. 50-51.
I fondamenti ideologici del primo Impero francese
Alla base dell'ideologia imperiale, gradualmente elaborata da Napoleone e
culminata nell'assunzione diretta da parte sua della carica di imperatore, sta
una sintesi di conservazione e innovazione. Il grande generale creò quello che è
stato definito un governo cesaristico, fondato cioè su una forte autorità
centrale che aveva il proprio fulcro nella persona dell'imperatore, arbitro dei
destini della nazione. Il contesto era quello di un governo parlamentare, ma di
fatto durante l'epopea imperiale non si tennero mai regolari elezioni:
l'imperatore creò un regime di stampo assolutistico, gravitante esclusivamente
attorno alla sua persona.
Questo discorso, che risale alla fine del 1804, bene illustra le linee
principali del programma napoleonico: l'imperatore si presentava ai suoi sudditi
(anche se la Dichiarazione dei diritti del 1789 parlava di "cittadini") come il
difensore dell'ordine, delle libertà fondamentali, della continuità con la
migliore e più autentica tradizione rivoluzionaria, accreditandosi come il
nemico giurato del caos e del radicalismo giacobino. La politica estera
rappresentava invece un forte elemento di discontinuità rispetto al passato:
tramontava definitivamente, infatti, ogni tentativo di creare uno stabile
equilibrio europeo, mentre veniva riaffermata con forza la necessità di imporre
la supremazia francese sul continente. Tale scelta avrebbe sconvolto la vita
politica europea del decennio successivo.
Signori
deputati dei dipartimenti al corpo legislativo, Signori tribuni e membri del mio
consiglio di Stato, io m'accingo a presiedere l'apertura della vostra sessione.
Voglio imprimere così un carattere più imponente ed augusto ai vostri lavori.
Principe, magistrati, soldati, cittadini noi tutti non abbiamo nella nostra
carriera che un fine solo, l'interesse della patria. Se questo trono, sul quale
la Provvidenza e la volontà della nazione mi hanno fatto salire, è caro ai miei
occhi, è perché esso solo può difendere e conservare gl'interessi più sacri del
popolo francese. Senza un governo forte e paterno, la Francia potrebbe temere il
ritorno dei mali che ha già sofferto.
La debolezza del potere supremo è la peggiore calamità dei popoli. Soldato o
Primo Console, io non ho avuto che un pensiero; Imperatore io non ne ho altro:
la prosperità della Francia. Sono stato così fortunato da celebrarla con le
vittorie, da consolidarla con i trattati, da strapparla alle discordie civili e
preparare la rinascita dei costumi, della società, della religione. Se la morte
non mi sorprende a mezzo il mio lavoro, spero di lasciare alla posterità un
ricordo che serva per sempre d'esempio e di sprone ai miei successori.
Il mio ministro vi esporrà la situazione dell'Impero. Gli oratori del mio
Consiglio di Stato vi presenteranno le varie necessità della legislazione. Ho
ordinato che vi sottopongano i conti presentatimi dai ministri sulla gestione
dei loro dicasteri. Son soddisfatto del prospero stato delle nostre finanze.
Tutte le spese sono coperte dalle entrare; per quanto grandi siano stati gli
apprestamenti bellici nei quali siamo impegnati, non chiederò al mio popolo
nessun altro sacrificio.
Sarei stato lieto, in un'ora così solenne, di veder regnare la pace nel mondo;
ma i principi politici dei nostri nemici, la loro recente condotta verso la
Spagna ce ne fanno ben conoscere le difficoltà, io non voglio accrescere il
territorio della Francia, ma conservarne l'integrità. Non ho l'ambizione di
esercitare in Europa una maggiore influenza, ma non voglio indebolire quella che
ho acquistata.
Nessuno Stato sarà incorporato nell'Impero, ma non sacrificherò i miei diritti
né i vincoli che mi legano agli Stati che ho creato.
Offrendomi la corona il mio popolo ha preso l'impegno di fare ogni sforzo
richiesto dalle circostanze per conservarle quello splendore che è necessario
alla sua prosperità e alla sua gloria, come alla mia.
Ho piena fiducia nell'energia della Nazione e nei suoi sentimenti verso di me.
I suoi più cari interessi sono l'oggetto costante delle mie cure.
Napoleone I, Proclami, discorsi e scritti militari e politici, cit., pp. 61-63.
INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE
Napoleone: uomo di guerra o di pace?
Furono molti, in Francia e fuori, a considerare tutta l'epoca napoleonica
iniqua e deleteria per l'Europa. Sulla traccia di Madame de Staél,
Napoleone era considerato il nemico della cultura e della civiltà.
Difficilmente, neppure i più severi critici, arrivano a negare al Corso quelle
qualità militari che l'avevano reso tante volte vincitore degli eserciti
coalizzati. Anche lo storico inglese Fisher, solitamente attento ai
grandi fenomeni culturali, economici e politici della storia europea, scrivendo
di lui si sofferma ampiamente sull'aspetto militare, la narrazione delle
campagne, lo svolgimento dei piani tattici e strategici.
In questo terreno, che pure gli era congeniale, Napoleone non fu tuttavia un
innovatore.
L'esercito francese
non gli deve nessun brevetto militare, salvo quello della vittoria. Napoleone
non ha inventato nulla, né un nuovo cannone, né un nuovo schieramento, né nuovi
criteri per l'attacco e per la difesa. Egli prese quel che si trovò sottomano
già pronto: l'armamento, il manuale per la manovra, la tattica e la strategia
della vecchia armata reale di Francia nella quale aveva prestato servizio
durante il suo noviziato. In campo tattico, la sua preferenza andava all'ordine
misto, come quello che univa al vasto fronte del fuoco di linea la massiccia
forza d'urto dell'attacco in colonna: ma questo alternarsi di battaglioni in
linea e battaglioni in colonna non fu da lui adottato senza varianti, e spesso
fu limitato a quei settori del campo di battaglia dove Napoleone voleva soltanto
contenere il nemico, mentre nel settore decisivo l'attacco era affidato a grandi
masse di uomini caricanti in colonne non dispiegate. In generale, tuttavia, egli
lasciava ai suoi dipendenti i dispositivi tattici minori.
Affare suo era la «grande tattica» col movimento delle divisioni verso la
battaglia, con la scelta del punto cruciale da attaccare, e con la
concentrazione su di esso del fuoco di artiglieria. Qui Napoleone cadde
raramente in errore.
H. A. L. Fisher, Napoleone, Il Mulino, Bologna 1964, pp. 26-27.
Non mancano, anche su questo terreno, i critici. Per Michelet, e per
altri storici nazionalisti, il merito delle gloriose vittorie francesi è
soprattutto del nuovo esercito di massa, educato ai principi della Rivoluzione,
entusiasta e pronto al sacrificio, enormemente più dotato di spirito combattivo
dei vecchi eserciti mercenari, retti da una pesante disciplina e da una
gerarchia di casta, al servizio di una causa dinastica lontana dai sentimenti
del soldato.
Considerazioni più costruttive sull'imperatore Napoleone sono suggerite ad
alcuni storici dalla valutazione delle sue qualità militari. Alla scuola
d'artiglieria egli avrebbe appreso il rigore dei calcoli matematici,
l'ammirazione per l'ordine e per la giustizia, elementi questi ch'egli portò nel
campo politico, legislativo e amministrativo.
Se vogliamo limitarci a vedere in Bonaparte un genio della guerra, non possiamo
dimenticare che la situazione di guerra egli la ereditò già dalla politica del
Direttorio e per mantenere quelle conquiste; esistono parecchie prove della sua
buona volontà di concludere la pace, anche con l'Inghilterra, e questa si ebbe
finalmente nel 1802; la rottura della pace di Amiens grava almeno in parti
eguali sulla responsabilità dell'Inghilterra e di Napoleone, anzi, se dobbiamo
ascoltare Pariset, «nel bilancio delle responsabilità le parole più gravi
sono a carico di Napoleone, gli atti più gravi a carico dell'Inghilterra»; e
pure le guerre successive sono dovute soprattutto all'ostilità dell'Inghilterra.
Pariset di rincalzo, pur ammettendo errori ed eccessi della politica
napoleonica, attribuisce alla Russia, che non voleva rinunciare a esercitare la
sua preminenza in Germania, il permanere d'un lungo periodo di lotte in Europa.
«La storia del mondo, per dieci anni, ebbe per contenuto il duello fra Napoleone
e Alessandro» (G. Pariset, La révolution — Le consulat et l'Empire, Le
Cerf, Paris 1922, vol. III, p. 379.). Lo storico inglese Felíx Markham
affronta il problema dei rapporti tra monarchia napoleonica ed equilibri
europei, attribuendo la responsabilità della permanente condizione di
belligeranza al disegno politico dell'imperatore dei Francesi. Se l'Inghilterra
si faceva paladina della strategia dell'equilibrio, che aveva trionfato in
occasione delle guerre di successione del XVIII secolo e che imponeva ora una
lotta continua per indebolire la potenza francese, Napoleone, forte del suo
ruolo di difensore della Rivoluzione, si accreditava invece come elemento di
fortissima discontinuità rispetto al passato. Egli non avvertiva affatto come
prioritario il consolidamento di nuovi rapporti di forza in Europa; non faceva
anzi mistero di voler "colonizzare" gli Stati che conquistava di volta in volta,
imponendo sui vari troni membri (quasi sempre fratelli o sorelle) della propria
famiglia, garanti del legame che univa i vari reami alla Francia. Tale strategia
aveva lo scopo di rafforzare il controllo dell'Impero sulla periferia, imponendo
l'assoluta supremazia della Nazione francese su tutte le altre.
Alcuni storici hanno cercato di spiegare l'estensione dell'impero napoleonico a gran parte dell'Europa come una conseguenza inevitabile della lotta contro l'Inghilterra e del blocco continentale. Ma questa tesi non tiene sufficiente conto dell'ambizione innata di Napoleone e del carattere radicale della sua politica europea. Fin dal 1805 Talleyrand aveva visto la contraddittorietà sostanziale tra le conquiste di Bonaparte e il suo desiderio di essere ammesso nel novero dei sovrani legittimi dell'Europa. Se si voleva perpetuare la dinastia napoleonica e conservare le frontiere naturali della Francia, Napoleone doveva riconoscere l'esistenza di un equilibrio tra le potenze europee. Perciò Talleyrand desiderava concludere con l'Austria una pace «generosa» dopo Austerlitz, e dopo Tilsit cominciò segretamente a scindere le proprie responsabilità da quelle dell'imperatore, nel proprio interesse e anche nell'interesse, quale a lui appariva, della Francia e dell'Europa. Ma nei suoi accordi e nelle sue alleanze Napoleone trattava sempre le altre nazioni come vassalle, non come pari, e in tale atteggiamento era implicita l'aspirazione a una monarchia universale. Ma se era facile sconfiggere i monarchi, non era altrettanto facile calpestare la volontà dei popoli. Alla luce degli avvenimenti successivi al 1815 è strano che Napoleone da imperatore abbia tenuto in così scarsa considerazione la spinta del nazionalismo. A Sant'Elena egli circondò la propria vita di un alone di leggenda presentandola come una lotta contro la tirannia monarchica a vantaggio dei popoli; ma si tratta di una deformazione della realtà e di una mistificazione, giacché l'impero napoleonico fu la negazione del principio di nazionalità, soprattutto dal 1810 in poi.
F. Markham, L'avventura napoleonica, in Storia del
mondo moderno,
vol. IX: Le guerre napoleoniche e la Restaurazione, 1793-1830, Garzanti,
Milano 1982, pp. 391-392.
L'Impero
L'Impero napoleonico, nonostante la sua estensione e la sua apparente forza, era in realtà un organismo piuttosto fragile: minato dallo stesso blocco continentale che portò più danni al continente che non all'Inghilterra verso cui era diretto, percorso da sentimenti antifrancesi sempre più diffusi tra i popoli, subì dalla sfortunata campagna di Russia il suo colpo decisivo. Il sogno di un'Europa unita sotto l'egemonia francese diventava così impossibile.
Analizzando le cause della debolezza del primo Impero, lo storico francese Jacques Godechot coglie la fragilità del regime nel suo tentativo di imitare una tradizione della quale rappresentava la più compiuta negazione. Napoleone era colui che aveva portato al suo naturale compimento gli assetti rivoluzionari, creando una monarchia di tipo borghese, con una sua nuova nobiltà e con una nuova base di consenso. Il nuovo regime, però, era consapevole della propria naturale discontinuità rispetto al governo plurisecolare della monarchia borbonica. Perciò ne imitò alcuni aspetti, quali l'incoronazione da parte del pontefice, la ricerca dell'appoggio della Chiesa, la costituzione di un'aristocrazia legata al regime, l'introduzione di una nuova etichetta di corte assai simile a quella utilizzata a Versailles. Così facendo, Napoleone si esponeva alle critiche di chi temeva la restaurazione di un nuovo governo assolutistico; inoltre otteneva un aperto disprezzo da parte della vecchia aristocrazia e dell'alto clero, ostinatamente devoti ai Borboni, senza riuscire ad attirarsi la simpatia dei monarchici e delle Destre, che rimpiangevano Luigi XVI. Si meritava infine il rancore dei giacobini e dei radicali, che consideravano l'Impero quale liquidazione della stagione rivoluzionaria e delle sue principali conquiste.
Napoleone,
insomma, si stava rapidamente muovendo verso l'instaurazione di un regime molto
simile a quello delle vecchie monarchie. Innanzitutto egli volle essere
incoronato dallo stesso papa con una cerimonia ancor più solenne che ai tempi
dei Borbone: Pio VII esitò, ma preoccupato della fragilità del recente concordato
si indusse infine ad accettare. La cerimonia ebbe luogo con grande fasto a
Notre-Dame il 2 dicembre 1804: come Carlo Magno, l'imperatore prese la corona
dalle mani del pontefice e se la pose sul capo. I realisti furono scandalizzati;
quanto ai veterani repubblicani, essi probabilmente pensarono come il generale
Delmas: «Che buffonata! Peccato che non siano presenti i trecentomila uomini che
hanno dato la vita perché non vi fossero più cerimonie come questa ... ». Da
quel giorno l'aquila romana adornò il tricolore e, insieme con le api dorate, fu
iscritta sullo stemma della nuova dinastia. La decorazione della Legion d'onore,
creata nel 1802, assunse ben presto la forma di quella dei vecchi ordini
cavallereschi, soprattutto quello di San Luigi: il nastro era dello stesso
colore e anche la medaglia era di foggia molto simile. Nel 1804 i titoli
principeschi furono ripristinati per la famiglia di Napoleone. Nel 1804 fu
creata una nobiltà imperiale che ebbe i suoi grands feudataires, i suoi
principi, duchi, conti e baroni ereditari: costoro potevano istituire
fidecommessi a favore dei primogeniti ma, a differenza dell'antica nobiltà, non
avevano privilegi fiscali o giuridici. Napoleone cercò di fondere la nuova con
la vecchia nobiltà, ma gli émigrés che erano tornati in patria
disprezzavano questi figli di contadini «travestiti da signori» che conservavano
il linguaggio e i modi della loro origine.
Tutto questo irritò i repubblicani senza peraltro che Napoleone riuscisse a
conciliarsi i realisti. La propaganda, il nuovo strumento che l'imperatore aveva
preso in prestito dalla rivoluzione, fu intensificata. La censura sulla stampa
periodica divenne più rigorosa e il numero dei giornali fu ridotto: il 3 agosto
1810, infine, fu decretato che in ogni dipartimento, tranne in quello della
Senna, potesse essere pubblicato un solo giornale e che inoltre non potesse
essere stampato alcun articolo politico che non fosse tratto dal «Moniteur»,
l'organo ufficiale del governo. Anche la stampa non periodica venne sottoposta a
censura, mentre gli scrittori filogovernativi ricevettero generose sovvenzioni.
Qualsiasi manifestazione letteraria originale fu vietata: madame de Staél fu
mandata in esilio, Chateaubriand e Benjamin Constant vennero perseguitati.
Naturalmente anche il teatro fu sottoposto a un rigido controllo: tanto le
compagnie quanto le stesse rappresentazioni furono soggette a una specie di
disciplina militare. La propaganda imperiale penetrò nelle arti, nell'istruzione
e persino nella chiesa. Nonostante tutto, l'opposizione non si spense, cosicché
le prigioni continuarono a essere piene come nel passato e il minimo sarcasmo
contro l'imperatore o il regime era punito con l'arresto: per questi pessimi
versi, «Oui, le Grand Napoléon / est un grand Caméléon», nel 1804 il poeta
Desorgues fu internato in un manicomio. A volte gli elementi sospetti venivano
inviati al confino, sotto la sorveglianza della polizia, in particolari
distretti o nelle fortezze; altre volte potevano essere costretti a entrare
nell'esercito oppure i loro figli venivano tenuti, per così dire, in ostaggio in
licei o scuole militari.
J. Godechot, La Francia durante le guerre (1793-1814), in
Storia del mondo moderno,
vol. IX: Le guerre napoleoniche e la Restaurazione, 1793-1830, cit., pp.
359-360.
L'Impero e le nazionalità
Il secolo dei Lumi aveva ritenuto di poter attuare sulla terra il regno della
ragione, liberando la società umana dai residui religiosi, metafisici, politici
del passato, considerati quali perniciosi effetti dell'arbitrio e dell'errore.
Eppure fu proprio la Rivoluzione francese, nel suo sforzo di portare a
realizzazione l'ambizioso programma illuministico, che infuse nuova, inattesa
vitalità nelle strutture tradizionali contro le quali era partita in lotta con
audace baldanza. Questa rinata vitalità, rivelatasi nei principali temi del
movimento romantico, si manifestò come generale rivolta contro l'Illuminismo e
la Rivoluzione, nella rivendicazione della libertà nazionale contro il
cosmopolitismo, della fede tradizionale contro i culti deistici, della
tradizione popolare contro il razionalismo naturalistico.
Ma quale parte ebbe l'Impero napoleonico nel promuovere tale reazione? Fu la
Rivoluzione a suscitare le nuove energie o piuttosto la trasformazione di essa
nell'imperialismo militaristico, agnostico ma apparentemente attento ai valori
religiosi, sorto dal popolo ma richiamantesi ai modelli di Diocleziano e di
Carlo Magno? Lo storico francese Lefebvre così sintetizza i caratteri del
grande Impero.
La guerra del 1805
fece dell'impero francese il semplice abbozzo del grande Impero che degli atti
legislativi cominciarono ad organizzare. Napoleone considerava le sue nuove
creazioni come «degli stati federativi o vero impero francese». Benché evocasse
volentieri i ricordi storici adottò un'organizzazione originale. In testa i re
ed i principi ereditari e sovrani nei loro domini: Giuseppe Luigi Murat che egli
fece granduca di Berg il 15 marzo; in seguito, i principi vassalli, sovrani
anch'essi e pure ereditari, ma il cui dominio, tenuto in «feudo» comporta una
nuova investitura ad ogni mutazione: Elisa a Piombino, Berthier divenuto
principe di Neuchâtel; al terzo gradino i principi che non hanno né esercito né
moneta: Talleyrand fatto principe di Benevento e Bernadotte principe di
Pontecorvo, due dominii che il re di Napoli e il papa si erano fino allora
disputati; più in basso ancora i feudi semplici, che conferiscono soltanto dei
diritti utili: sei ducati che Napoleone s'è riservato nel regno di Napoli,
dodici che egli ha costituito in Venezia per distribuirli a dei francesi.
Né è tutto. I principi e i re, teoricamente indipendenti, sono personalmente
vassalli di Napoleone benché i loro stati non siano dei feudi. Fanno parte,
infatti, della famiglia imperiale alla quale la costituzione dell'anno XII aveva
attribuito uno statuto particolare che fu promulgato il 31 marzo 1806; esso crea
per la famiglia uno stato speciale, conferisce al capo dell'Impero la guardia
dei minori e la patria potestà sui maggiori, compreso il diritto di autorizzare
il loro matrimonio e di imprigionarli. Del resto i principi, anche sovrani,
restano grandi dignitari dell'Impero. Così l'edificio è fondato, per una buona
parte, sulla nozione di un patto di famiglia, nella quale si ritrova ad un tempo
il ricordo dell'alleanza borbonica e l'attaccamento di Napoleone al suo clan.
Per lui, il legame familiare è il più solido ed estende questa politica agli
stati alleati. Il 15 gennaio 1805 Eugenio ha sposato Augusta di Baviera e nello
stesso tempo è stato adottato dall'Imperatore, con esclusione però di ogni
diritto sulla Francia; l'erede del Granducato di Baden è stato sposato ad una
parente di Giuseppina, Stefania di Beauharnais anch'essa adottata; Berthier ha
dovuto abbandonare M.me Visconti per impalmare una principessa bavarese; l'anno
dopo, Gerolamo si alleerà con la Casa di Württemberg. Lo stesso motivo si è
aggiunto ora alla cura di assicurarsi un erede diretto per raccomandare un
secondo matrimonio all'imperatore.
Il Grande Impero, nato dalle circostanze, non realizzava meno una prima
raffigurazione di quell'idea romana implicata nel nuovo titolo assunto da
Napoleone nel 1804. Egli non esitava più ora a darsi apertamente per il
restauratore dell'Impero romano d'Occidente e ad arrogarsi le prerogative di
Carlo Magno, suo «illustre predecessore». Era ovvio che queste pretese storiche
si facessero particolarmente nette nei confronti del papato. La lettera del 13
febbraio 1806 ricordò che Carlo Magno, se era stato consacrato imperatore romano
dal papa, non aveva meno considerato questo come suo protetto ed aveva
costituito il dominio temporale solo come parte integrante del suo impero. Lo
stesso pensava Napoleone. «Voi siete il papa di Roma, diceva a Pio VII, ma io ne
sono l'Imperatore». Questa formula meravigliosa e di una brevità veramente
imperiale lasciava intravedere che il Grande Impero, ancor prima di essere
costituito, non appariva già come l'embrione di un dominio universale.
G. Lefebvre, Napoleone, Laterza, Bari 1962, pp. 218-219.
Markham in particolare sottolinea la mancata comprensione da parte di Napoleone del fenomeno del nazionalismo e delle sue autentiche cause. Lo storico inglese vede nelle continue rielaborazioni alle quali Napoleone sottopose la cartina politica dell'Europa una mentalità da tipico sovrano assoluto, incapace di tenere nella giusta considerazione le aspirazioni indipendentistiche dei popoli. Perciò, se da un lato contribuì in misura notevole alla disgregazione del precedente assetto politico, dall'altro si rivelò incapace di sostituirlo con una realtà veramente nuova, finalmente in grado di soddisfare le attese delle popolazioni sottomesse.
Dall'illuminismo e
dalla rivoluzione, di cui i era figlio, Napoleone aveva ereditato una mentalità
cosmopolita. Nulla è più significativo, al riguardo, della sua completa
incapacità di comprendere la psicologia del giovane patriota austriaco, Staps,
che tentò di assassinarlo a Vienna nel 1809; avendogli parlato qualche tempo
dopo l'arresto, egli concluse che l'attentatore doveva essere pazzo. Nel 1789 in
Francia si era scritta dopotutto una dichiarazione dei diritti dell'uomo, non
dei francesi soltanto. Nel 1802 lo sfacelo del vecchio regime pareva preludere
alla costruzione di un'Europa unita, regolata da una legislazione e da
un'amministrazione illuminate e uniformi. Napoleone era orgoglioso del codice
civile a lui intitolato, ed esso divenne il principale veicolo per la
propagazione dei principi amministrativi e sociali della rivoluzione fino a
paesi lontani come l'Illiria e la Polonia. A Girolamo, re di Vestfalia, egli
disse: «In Germania come in Francia, in Italia e in Spagna il popolo aspira
all'eguaglianza e al liberalismo. I vantaggi del Code Napoléon, la
regolarità e la pubblicità dei processi, la giuria, questi sono i tratti per i
quali la vostra monarchia deve distinguersi [...]. I vostri sudditi devono
godere di una libertà e di un'eguaglianza sconosciuta al resto della Germania».
Napoleone non previde, finché non fu troppo tardi, che sgombrare il terreno
degli avanzi del vecchio regime avrebbe significato permettere ai germi del
nazionalismo di crescere rigogliosi. A dire il vero non fu il solo a commettere
questo errore, che fu abbastanza diffuso tra i contemporanei. Fino al 1805
d'altronde le forze morali e le ideologie dominanti parevano essere dalla sua
parte. Fu solo nel 1804 che Beethoven cancellò la dedica dell'Eroica a
Napoleone, mentre Goethe, indifferente ai clamori del nazionalismo tedesco,
rimase un suo ammiratore fino alla fine. I protagonisti del congresso di Vienna
d'altronde non si preoccuparono del principio di nazionalità più di Napoleone, e
con minori attenuanti, giacché i segni premonitori del suo incontenibile
sviluppo erano già evidenti. Bisogna ammettere che la marcia degli avvenimenti e
l'evoluzione delle idee sotto l'incalzare della rivoluzione e poi delle guerre
napoleoniche furono così rapide che pochi spiriti riuscirono a tenere il passo.
Agli inizi della sua ascesa Napoleone parve disposto a incoraggiare le
aspirazioni nazionali in Italia. Alla repubblica cisalpina successe nel 1802 la
repubblica italiana e poi, nel 1805, il regno italico di cui fu viceré Eugenio
Beauharnais. Il regno di Napoli, invece, fu dato nel 1806 a Giuseppe e nel 1808
a Murat. Altri territori italiani vennero assegnati a membri della famiglia
Bonaparte o a dignitari imperiali. Nel 1806 i ducati di Parma e Piacenza furono
annessi all'impero francese, e lo stesso destino toccò nel 1808 alla Toscana e
nel 1809 allo Stato pontificio. Le province illiriche strappate all'Austria nel
1809 rimasero pure sotto il controllo diretto di Napoleone che vi insediò un
governatore generale. Il titolo di re di Roma dato a suo figlio nel 1811
preannunciava ormai l'inserimento dell'Italia in un impero europeo.
F. Markham, L'avventura napoleonica, in Storia del mondo moderno,
vol. IX: Le guerre napoleoniche e la Restaurazione, 1793-1830, cit., pp.
392-393.
Il Codice Civile
Già con la Costituzione consolare dell'anno VIII veniva sanzionata la
prevalenza dei notabili, scelti dall'esecutivo su liste di fiducia: al Primo
console spettava l'iniziativa delle leggi e tutto il potere esecutivo. Negli
anni successivi si attuò una profonda attività di riforma e di ricostruzione
della finanza con la creazione della Banca di Francia; dell'amministrazione con
la costituzione del prefetto – massima autorità di ogni dipartimento – del
sottoprefetto e del sindaco, nominati tutti dal centro e responsabili verso di
esso. L'opera ebbe il suo coronamento con la promulgazione del Codice Civile
(21 marzo 1804) preceduto dal concordato e seguito dai codici penale e
commerciale. Solo allora ebbero realizzazione concreta alcune concezioni
teoriche affermate dalla Rivoluzione: sul tronco del diritto romano vennero
innestati i principi di eguaglianza e di libertà, cosicché vennero eliminati
tutti i privilegi, affermata la libertà economica, con l'intangibilità della
proprietà privata; ammesso il divorzio; abolita ogni servitù. Poiché poi, con
alcune modificazioni in senso conservatore e a vantaggio della Francia, tale
codice fu portato in tutta Europa, esso fece sperimentare dovunque i principi
rivoluzionari che nell'Ottocento dovranno rimodellare le istituzioni politiche e
civili del continente. Ma quanta parte del Codice che porta il suo nome va
attribuita a Napoleone? Non manca chi, sottolineando il fatto della
subordinazione dei collaboratori, dà un significato taumaturgico alla sua
attività riformatrice.
Merezkowski riferisce l'opinione di Bonaparte stesso, così: «La mia vera
gloria non è nelle vittorie, ma nel Codice. Il mio Codice è l'ancora di
salvezza della Francia, il mio titolo di benemerenza verso la posterità» (dalle
Memorie di Lacour-Gayet e di Antonmarchi); e commenta: «Il suo scopo è lo
scopo non raggiunto dalla Rivoluzione, di affermare, consacrare finalmente
l'impero della ragione ed il pieno godimento di tutte le facoltà umane». Il
Codice gli sembra «una delle più belle creazioni uscite dalle mani di un uomo»
con un senso della misura e della moderazione che servì a fondare un governo
stabile non compromesso dagli estremismi rivoluzionari (D. Merezkowski,
Napoleone, Firenze 1934, pp. 209-210).
Tali meriti vengono riconosciuti anche da un vecchio ministro di Luigi XVI, che
confessava: «Le vittorie di Bonaparte mi lasciavano piuttosto un'impressione di
terrore che di ammirazione. Ma da quando ho conosciuto la discussione sul Codice
Civile non provo per lui che la più profonda venerazione, veramente bisogna
convenire che era un prodigio» (Lacour-Gayet, Napoléon, Paris 1828, p.
19). Perfino Madame de Staël,
polemicamente ostile all'imperatore, dispotico e immorale, scrive: «Nel Codice
Napoleonico, e anche nel codice di procedura criminale, sono riuniti principi
assai buoni, derivati dall'Assemblea Costituente: l'istituzione del giurì,
ancora di speranza della Francia, e diversi perfezionamenti nella procedura che
l'hanno tratta dalle tenebre in cui era prima della Rivoluzione e in cui ancora
si trova in molti Stati di Europa» (M. De Staël,
Considerazioni sui principali avvenimenti della rivoluzione francese,
Paris 1821, cap. XVII). E Metternich conclude: «Il suo istinto soltanto lo ha
fatto diventare legislatore, amministratore e condottiero. La forma della sua
intelligenza lo portava sempre al positivo. Odiava le idee vaghe, gli facevano
orrore i sogni dei visionari e le astrazioni degli ideologi, e chiamava
chiacchiere vuote tutto quello che non aveva in sé chiarezza e utilità».
In tempi posteriori, dopo le pagine di Sorel che in Napoleone ammira
soprattutto le doti di legislatore e di amministratore, si è rilevato che egli
non fece che riprendere un progetto della Convenzione insediando nel 1800 la
commissione per il Codice, e che questa lavorò per anni sotto la
direzione di Cambacérès, con il contributo di tecnici del diritto,
amministratori e funzionari di provenienza e idee diverse. Non mancò, è vero, il
contributo di realismo e d'energia dello stesso Napoleone, ma esso, almeno in
parte, si dovette alla smania d'intervenire in ogni faccenda. Del resto, anche
varato il Codice, egli si riservò il diritto di regolare con decreti
tutta una serie di materie legislative, riformando in vari casi particolari le
disposizioni generali impartite (L. Salvatorelli, Leggenda e realtà di
Napoleone, Einaudi, Torino, 1947, pp. 102-103).
La vita culturale
Pure l'interesse per l'istruzione va sottoposto a un più attento esame. Con
la legge del 1802 le scuole pubbliche dei tre gradi – primario, secondario e
superiore – venivano affidate all'organizzazione dello Stato. In realtà
l'istruzione elementare venne lasciata ai Comuni sotto la sorveglianza dei
prefetti, cosicché non divenne mai obbligatoria; quella secondaria venne
impartita nei licei di Stato, ma anche in scuole private e religiose; nel 1806
venne istituita l'Università imperiale con criteri corporativi e monopolistici.
Gli storici socialisti insistono sul fatto che Napoleone abbandonò gli intenti
di provvedere a una vera istruzione popolare come aveva voluto fare la
Convenzione. Egli si interessò in particolare all'istruzione secondaria, dove il
regime disciplinare era severo e quasi militaresco, l'insegnamento basato sulle
lingue classiche e sulla matematica, mentre venivano trascurate storia e
filosofia come materie che sviluppano il senso critico e l'autonomia del
giudizio. Così egli avrebbe mirato – sostiene pure Salvatorelli – a
preparare sudditi sottomessi e devoti, funzionari capaci e docili, ufficiali
disciplinatissimi. Le altre cure dedicate all'Istituto di Francia, alla stampa,
al teatro, alla letteratura, a biblioteche e musei risponderebbero agli stessi
scopi di controllo dell'opinione, aumento del benessere, accresciuto prestigio
delle istituzioni e della persona dell'imperatore.
Nel 1814 – scrive Thomson – Napoleone fece del sistema di educazione secondaria francese il migliore d'Europa, ma non rivolse le stesse cure a quella elementare. Parigi venne abbellita e si attuarono nuove opere pubbliche. Ma a progetti così benefici si -accompagnavano crescenti restrizioni della vita sociale e della libertà politica La stampa era fatta segno ad un'opprimente censura tanto che nel 1810 a Parigi si pubblicavano solo 4 giornali e veniva censurata anche la corrispondenza. Così la Francia diventava sempre più uno stato di polizia.
D. Thomson, Storia d'Europa, Mondadori, Milano 1961, p. 57.
Contraddizioni dunque anche in questa materia. Eppure molte sopravvivenza dell'età napoleonica non ci appaiono oggi né strane né antidemocratiche. Il monopolio statale dell'istruzione è realizzato in maniera molto più completa negli Stati moderni che nel dispotico Impero; esso va dall'istruzione elementare alla secondaria e all'università. L'Istituto imperiale, specie di Ministero dell'Educazione fondato nel 1808, durò per tre generazioni dopo la caduta dell'Impero e rinacque ai giorni nostri assai potenziato. I licei napoleonici, oggi, paiono soltanto agli Inglesi, forse, «metà monasteri e metà caserme». Tali li considera Fisher, che aggiunge, a chiarimento, un confronto con l'istruzione come è vista nel suo Paese.
In Inghilterra, dotazioni private mantengono esenti le più vecchie scuole e Università dal fastidioso assoggettamento a una supervisione da parte dello Stato e hanno preservato un civile e rispettabile contemperamento con le scuole statali, sotto una forma di libertà.
H. A. L. Fisher, Napoleone, cit., p. 131.
La "guerriglia" come risposta popolare al dispotismo napoleonico
In tre casi, in Spagna, Calabria e Tirolo, l'amministrazione militare
napoleonici si trovò di fronte a una situazione più vasta e complessa che non
una semplice sommossa popolare, provocata dai danni prodotti dall'esercito
d'occupazione e dal fiscalismo dei governi filofrancesi. I ribelli si
organizzarono militarmente e ricorsero al metodo dello scontro armato con le
truppe francesi, secondo un modello di guerra per bande. La reazione francese fu
ovunque la stessa: l'invio di rinforzi militari nei luoghi della rivolta, la
punizione esemplare dei responsabili o dei simpatizzanti per ottenere un effetto
dissuasivo, l'assunzione di funzioni amministrative da parte dell'autorità
militare e la temporanea sospensione da quelle funzioni del personale civile
(stato d'assedio).
Lo storico Raffaele Giura Longo descrive il caso che si verificò in
Calabria.
In Calabria si erano
determinate da tempo alcune condizioni estremamente favorevoli al divampare
della resistenza armata. Già nel 1799, per esempio, il ricorso alla "guerra per
bande" e al reclutamento di masnade di "briganti" aveva trovato un vigoroso
incoraggiamento e una autorevolissima legittimazione da parte del cardinale
Ruffo. Egli aveva fatto appello a squadre di irregolari di ogni risma per
muovere contro la Repubblica partenopea e per riportare a Napoli, con la forza
di quelle bande, i Borboni cacciati via dai giacobini (con il concorso, anche in
quell'occasione, delle truppe francesi). Da allora le bande armate non avevano
proceduto alla completa smobilitazione e avevano in tal modo esercitato una
pressione sulla vecchia dinastia, dalla quale si attendevano una particolare
protezione e un appropriato riconoscimento per la collaborazione offerta. Alcuni
protagonisti di quell'impresa, in primo luogo il famigerato Fra' Diavolo, erano
restati in allerta, pronti a ripetere ancora una volta le loro gesta certo
feroci, ma anche così vistosamente sanzionate dalla benedizione di un principe
di Santa Romana Chiesa. E a poco potevano valere i contrasti nel frattempo
intervenuti nel seno stesso dell'organizzazione ecclesiastica, a testimonianza
del disagio morale espresso da chi vedeva accomunata la pietà religiosa a una
così grave e violenta trasgressione dei più elementari principi cristiani.
L'azione delle bande riprese dopo che nel 1805 i Borboni dovettero nuovamente
lasciare Napoli per rifugiarsi a Palermo. In quella occasione la guerriglia
calabrese era sostenuta da agenti inviati con uomini e mezzi sia dalla polizia
borbonica della corte palermitana, sia dagli inglesi alleati dei Borboni e
fortemente interessati a presidiare il Mediterraneo contro le mire napoleoniche.
Le bande meridionali potevano non solo contare direttamente su provviste e aiuti
scaricati nottetempo sulle coste calabresi da imbarcazioni angloborboniche
salpate dalla vicina Sicilia; ma si giovarono anche dell'intervento militare
regolare inglese che, anche sulla terraferma, riuscì a tenere in scacco per
qualche tempo l'esercito napoleonico, mentre la flotta britannica insidiava dal
mare tutta la costa tirrenica del Regno, comprese le grandi isole del Golfo. Il
4 luglio del 1806, l'esercito inglese al comando del generale Stuart sconfiggeva
i francesi a Maida, in Calabria appunto, in una battaglia che prefigurava per la
prima volta, e con molto anticipo, le tecniche militari poi vittoriose
definitivamente contro il grande Corso. Il successo inglese di Maida significò
molto nella esplosione della rivolta in Calabria, poi divampata nelle altre
regioni del Mezzogiorno continentale: ripresero allora con maggiore incisività
le incursioni delle bande armate, che si erano riorganizzate in gran numero.
R. Giura Longo, Abbasso l'imperatore. La guerriglia contro l'imperatore, in "Storia Dossier", ottobre 1992, anno IV, n. 66.
L'Italia napoleonica
Vediamo anzitutto qual era l'atteggiamento di Napoleone nei riguardi
dell'Italia e quale compito egli le attribuiva. Secondo Tarle, fin dalla
prima spedizione, egli si sarebbe reso conto dell'importanza strategica
dell'Italia settentrionale, ma non se ne occupò sistematicamente che dopo il
1805, quando fu costituito il Regno italico e i Francesi volsero a trasformarlo
in una colonia economica dell'Impero francese. «Ma non risulta che egli abbia
cercato di conoscere nei particolari la situazione del paese, sua prima
conquista. Qui come altrove, egli perseguì, tuttavia, con irriducibile energia,
l'opera di accentramento dei poteri. L'imperatore a Parigi, il viceré e i
ministri a Milano, i prefetti nei dipartimenti, costituivano le basi
fondamentali dell'amministrazione. In definitiva egli capiva benissimo che la
tradizione storica italiana non aveva preparato, come in Francia, un terreno
favorevole all'accentramento, e ne teneva conto volentieri, finché non vi
scorgeva alcun pericolo».
Fin dalle prime istruzioni date al principe Eugenio, ogni volta che se ne
presenta l'occasione, Napoleone non tralascia mai di attestare la più assoluta
sfiducia verso l'Italia. L'ha conquistata con la forza; dunque soltanto con la
forza può conservarla. Il suo interesse è prevalentemente strategico-militare,
come scrive Salvatorelli: «Egli non nascondeva in nessun modo al Viceré
il proprio interesse per l'Italia, soprattutto, se non esclusivamente, quale
paese in condizioni di fornire fondi e uomini per le guerre europee [...]. Di
anno in anno, l'Imperatore si mostrava sempre più ostile verso ogni spesa
destinata a migliorie agricole, a costruzioni di canali o all'igiene pubblica e
la tendenza che era sempre prevalsa nella sua politica verso l'Italia, si
manifestava sempre più nettamente. Costituire un arsenale ausiliario, fornire
alcuni reggimenti, sia pure poco brillanti, ed assicurarne il mantenimento pur
quando soggiornavano in Francia: questo il compito dell'Italia» (L. Salvatorelli,
Pensiero ed azione nel Risorgimento, Einaudi, Torino 1944, pp. 32-35).
Sappiamo quanto poco conto Napoleone facesse dell'opinione pubblica e dei corpi
rappresentativi; ma mentre dello stato d'animo del popolo francese talvolta si
preoccupò come degli interessi degli industriali, fu completamente noncurante di
quanto riguardava gli altri popoli. Anzi egli era convinto di aver fatto molto
per l'Italia. In esilio a Sant'Elena, dichiarava di aver voluto fare dell'Italia
una «potenza unitaria», riunire la penisola in un solo Regno «dalle Alpi al
mare», con Roma capitale, dotandola di leggi e costumanze francesi; creare una
«patria italiana» distruggendovi i campanilismi e le «abitudini locali». Con il
decreto del 24 aprile 1806 il Viceré fece sapere ai popoli del Regno d'Italia e
degli Stati di Venezia che Sua Maestà ordinava loro di essere «uniti come
fratelli». Tale intimazione esprime nella forma e nello spirito la politica
italiana di Napoleone e la storia del primo Risorgimento indica una reazione a
questo periodo storico in cui gli Italiani furono considerati unicamente «come
fratelli cadetti» dei Francesi (E. Tarle, La vita economica
dell'Italia nell'età napoleonica, Einaudi, Torino 1950, pp. 37-39).
Anche secondo Salvatorelli appare evidente che Napoleone – per varie
considerazioni d'ordine politico e militare generale – non abbia voluto mai la
rinascita dell'Italia.
Riguardo ad essa due cose sono chiare: che Napoleone Bonaparte si è considerato francese e ha subordinato, totalmente, gli interessi dell'Italia a quelli della Francia; le istruzioni al Viceré Eugenio parlano chiaro ancor prima dei suoi atti. Tutt'al più si può trovare che nel 1796-97 il Bonaparte mostrò, in confronto del Direttorio, un interesse più specificamente italiano, perché considerava allora l'Italia una base per la sua fortuna, una riserva o un punto di lancio. Così egli fece la parte dell'eccitatore delle popolazioni padane, di promotore della Cispadana e della Cisalpina; attivo controbilanciato in larga parte sia dall'assolutismo con cui si governò nei confronti della nuova repubblica, sia dal mercato di Campoformio, odioso in sé e più ancora per gli sprezzi e i raggiri con cui piacque al Bonaparte di accompagnarlo. In Italia, come altrove, Napoleone agì a guisa di un grande fenomeno naturale, che sconvolge e trasforma l'ambiente con la sua azione violenta e schiude la via senza volerlo e saperlo a forze non di sua creazione. In Italia gli avviamenti all'autonomia politica furono da Napoleone troncati. La costituzione del Regno Italico si risolse subito in parodia.
L. Salvatorelli, Pensiero ed azione nel Risorgimento, cit., p. 68.
Parlano apertamente, a questo proposito, di "saccheggio dell'Italia" gli storici François Furet e Denis Richet. A loro avviso la parentesi napoleonica, che pure aveva permesso l'introduzione di innovazioni di tipo economico e istituzionale, si rivelò dannosa per gli equilibri politici della penisola, considerata alla stregua di una terra di conquista. Con i proventi dell'Italia si sarebbero dovute pagare le spese di guerra che il bilancio dello Stato francese non era più in grado di sostenere. Le spoliazioni di chiese, i continui saccheggi, le requisizioni indiscriminate risultarono invise alle popolazioni rurali molto più di quanto non potessero apparire benefici i provvedimenti circa l'abolizione della feudalità, immediatamente decretata dai governi provvisori creati un po' ovunque da Napoleone. Questa politica di "preda" provocò il fenomeno delle "insorgenze", le ribellioni e sollevazioni spontanee in nome della difesa dei valori della tradizione culturale e religiosa contro i principi rivoluzionari francesi (spesso considerati astratti e lontanissimi dalla realtà italiana).
Le istruzioni del
Direttorio non soltanto raccomandavano che l'armata vivesse a spese del paese
conquistato, imponendogli fortissimi contributi, ma addirittura di darsi al
saccheggio generalizzato; politica che Carnot già aveva adottato in Belgio due
anni prima.
In aprile il Direttorio aveva manifestato il suo interesse per la Madonna di
Loreto: «Non si potrebbe asportare la Santa Casa e i tesori accumulativi in
quindici secoli dalla superstizione? Si dice che valgano dieci milioni di
sterline». E per tentare Bonaparte aggiungeva: «Fareste un'ottima operazione
finanziaria, che danneggerebbe soltanto pochi frati». Con le prime vittorie
l'appetito aumentò, e il 7 maggio vennero impartite al generale in capo
direttive più particolareggiate:
«Cittadino generale, il Direttorio esecutivo è convinto che per voi la gloria
delle belle arti e quella dell'armata ai vostri ordini siano inscindibili.
L'Italia deve all'arte la maggior parte delle sue ricchezze e della sua fama; ma
è venuto il momento di trasferirne il regno in Francia, per consolidare e
abbellire il regno della libertà. Il Museo nazionale deve racchiudere tutti i
più celebri monumenti artistici, e voi non mancherete di arricchirlo di quelli
che esso si attende dalle attuali conquiste dell'armata d'Italia e da quelle che
il futuro le riserva. Questa gloriosa campagna, oltre a porre la Repubblica in
grado di offrire la pace ai propri nemici, deve riparare le vandaliche
devastazioni interne sommando allo splendore dei trofei militari, l'incanto
consolante e benefico dell'arte. Il Direttorio esecutivo vi esorta pertanto a
cercare, riunire e far portare a Parigi tutti i più preziosi oggetti di questo
genere, e a dare ordini precisi per l'illuminata esecuzione di tali
disposizioni».
Non giudichiamo questa lettera dal punto di vista della morale astratta. Essa è
dettata dalla mentalità dell'epoca, da quel complesso di passioni scatenate
dalla Repubblica chiamato patriottismo. La libertà non ha forse fatto dei
francesi il popolo eletto e della Francia la «grande nazione»? L'opinione
pubblica, anche moderata, plaudiva al saccheggio, e Thibaudeau, nelle sue
Memorie, tuona contro «gli animi cupi, nemici della nostra gloria», che se ne
sdegnavano. Ingenuamente, l'ammiraglio Truguet così commentava le requisizioni
di legno e di canapa: «Facciamo che l'Italia sia orgogliosa di aver contribuito
allo splendore della nostra Marina».
Su questi princìpi Bonaparte era pienamente d'accordo con il Direttorio. Non
aveva forse allettato i suoi soldati, sin dall'inizio della campagna, con la
promessa di un lauto bottino? In tutte le sue lettere al governo egli faceva
balenare i profitti che potevano derivare da qualunque vittoria, anche minima.
In Piemonte, con la fattiva complicità di Saliceti, si impadronì di 400.000 lire
trovate nel Tesoro pubblico, e nelle zone ottenute con l'armistizio di Cherasco
impose un contributo di 5 milioni. Ma questo non gli bastava. «Strada facendo,
scriveva il 28 aprile, esigerò un riscatto dal duca di Parma». Le risorse
offerte dalla Lombardia furono ancora più rilevanti. «Questo paese ci renderà
venti milioni»: la lettera è del 17 maggio, il decreto di applicazione del 19.
Ma in attesa d'incassare una tale somma, bisognava ottenere qualcosa in pegno, e
pertanto si fece man bassa sui Monti di pietà e sulle casse ecclesiastiche
destinate alle opere di carità. Tutto fu confiscato, compresi i gioielli; si
requisirono viveri, cavalli, oggetti di prima necessità. E dopo la Lombardia,
anche altri Stati italiani furono costretti a comprare la propria neutralità: il
duca di Parma dovette pagare 2 milioni, e il duca di Modena dovette sborsarne
10, oltre a una ventina di quadri, fra cui il San Gerolamo del Correggio. In
seguito, con la spedizione nell'Italia centrale, i profitti aumenteranno.
Secondo una stima del dicembre del 1796, il saccheggio aveva già reso 46 milioni
in denaro e 12 in natura; e si trattava soltanto del bottino legale, che andava
ad aggiungersi ai profitti personali dei generali e dei soldati.
F. Furet - D. Richet, La Rivoluzione francese, Laterza, Bari 1980, vol. II.
Più duro ancora ci sembra il giudizio della storiografia marxista, attenta soprattutto a considerare la situazione economica dell'Italia napoleonica, situazione dalla quale non potevano nascere consensi e simpatie atti a costruire un Paese nuovo. Con questi termini si esprime Giorgio Candelore, sviluppando le brevi tesi di Gramsci sul Risorgimento.
La politica napoleonica contrastava duramente le aspirazioni che essa stessa inizialmente aveva non poco contribuito a far sorgere. Il sentimento nazionale svegliatosi nel triennio rivoluzionario e stimolato dalla creazione della Repubblica italiana e del Regno italico, era permanentemente offeso dalla rigida dipendenza dell'Italia dalla Francia e dalla mancata unificazione. L'efficacia delle grandi riforme legislative ed amministrative e dei grandi lavori pubblici, nello stimolare lo sviluppo della borghesia, era stata praticamente annullata dal sistema doganale e dal blocco continentale. Le aspirazioni costituzionali dei gruppi moderati, che si erano stretti intorno a Bonaparte e ai governi da lui istituiti a Milano e Napoli erano rimaste deluse: Napoleone chiedeva alla borghesia e alla nobiltà dei tecnici, dei funzionari, dei magistrati, degli ufficiali, non degli uomini politici che avevano dei propri programmi [...]. L'opposizione crescente del clero e dei possidenti era tanto più grave per Napoleone, in quanto egli non poteva in alcun modo entrare nella simpatia delle masse contadine, esasperate dal fiscalismo e dalla coscrizione e soprattutto non seriamente avvantaggiate dalle riforme napoleoniche, che avevano mirato essenzialmente a rafforzare la posizione dei proprietari. Esistevano tuttavia in Italia i due governi di Milano e di Napoli intorno ai quali si erano venuti formando degli interessi abbastanza cospicui. Quei governi disponevano di eserciti e di amministrazioni bene ordinate e potevano quindi servire come centri di raccolta delle forze patriottiche, potevano inoltre presentarsi eventualmente all'Europa come garanti dell'ordine e della conservazione sociale ed inserirsi quindi con l'appoggio di qualche potenza nel gioco internazionale [...]. Tanto Murat che Beauharnais fallirono entrambi nei loro tentativi di restare in Italia come sovrani indipendenti soprattutto perché non seppero cogliere il momento favorevole per passare dalla parte dei nemici di Napoleone. Questo momento si era presentato nell'intervallo tra la fine della campagna di Russia e l'inizio della campagna di Germania. Eugenio perse la partita per la sua ostinata fedeltà a Napoleone, Gioacchino per la sua politica ambigua, punteggiata da improvvisi colpi di testa.
G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna; 1700-1815, Mondadori, Milano 1956, pp. 355-374.
Un bilancio dell'Italia napoleonica è tracciato da E. Tarle, che mette in , rilievo gli effetti benefici dell'introduzione di una più avanzata legislazione insieme ai danni provocati sia dalle guerre, sia dalla subordinazione economica agli interessi francesi.
Il Regno d'Italia
era, al tempo di Napoleone, un paese di piccole industrie, di lavoro a domicilio
e di industria rurale. Tuttavia, i documenti attestano che in un notevole numero
di industrie esistevano fabbriche abbastanza grandi che davano lavoro e vita a
centinaia di operai; alcuni indizi permettono, è vero, di affermare che an- che
in questi casi gli operai non erano sempre concentrati nelle fabbriche, ma
lavoravano più spesso a domicilio o in piccoli laboratori, indirettamente
collegati con le fabbriche.
[...] L'introduzione in Italia dei Codici civile e di commercio,
indiscutibilmente superiori alla vecchia legislazione, la costruzione di strade
e il miglioramento delle vie di comunicazione, la repressione sistematica, se
pur non sempre efficace, del brigantaggio, il progresso generale della
organizzazione statale, tutte queste condizioni create da Napoleone,
costituirono certamente elementi favorevoli al commercio ed alla industria
italiana. Ma il loro benefico effetto fu gravemente compromesso: a) dalle guerre
continue che sconvolsero la vita economica dell'Europa, e, talvolta, toccarono
direttamente l'Italia; b) dalle continue leve militari, che incrudelirono
specialmente sopra gli operai delle città; c) dal senso di scarsa sicurezza che,
come mettono in evidenza i documenti, regnò costantemente nei circoli degli
industriali e dei commercianti e che fu sempre alimentato dalle confische
arbitrarie di merci, arresti di negozianti, perquisizioni, inattese decisioni
dell'Imperatore in materia di politica doganale e generale, nonché dal timore di
veder soppressa l'apparente «indipendenza» del Regno, ecc.; d) dalle vessazioni,
gli abusi, le difficoltà di ogni sorta da parte dell'amministrazione delle
dogane lungo le frontiere tra il Regno e gli altri possedimenti imperiali
(Piemonte, Province Illiriche, Parma e Piacenza, ex Stati della Chiesa, ecc.);
e) e soprattutto dalla politica economica di Napoleone, che, come abbiamo detto,
cercava soltanto l'utile dell'Impero anche a danno del Regno.
[...] È certo che, agli occhi della classe dei commercianti e degli industriali,
questi elementi disastrosi del regime napoleonico parvero maggiori delle sue
conseguenze benefiche. In Italia, non si constata quell'antagonismo tra
commercianti e industriali, quella discrepanza di opinioni o di atteggiamento
nei confronti della politica economica di Napoleone, che si manifestarono senza
posa in altre parti dell'Impero, dove in generale gli industriali si mostravano
soddisfatti, mentre i commercianti si lamentavano. In Italia, gli uni e gli
altri si sentirono oppressi, egualmente sacrificati agli interessi di una
nazione straniera. Se si fosse domandato al popolo d'Italia come si sostenesse e
quale fine perseguisse il potere di Napoleone nel Regno, la classe dei
commercianti e degli industriali sarebbe stata, più di ogni altra, pronta a
rispondere che si manteneva con la forza della spada – questo era, d'altronde,
anche il parere di Napoleone – e che il fine perseguito era lo sfruttamento del
paese, come confermano tutti gli atti dell'Imperatore.
E. Tarle, La vita economica dell'Italia nell'età napoleonica, cit., p. 231.
I giacobini italiani
La conoscenza dell'Italia napoleonica non può prescindere dalla ricerca storiografica sui giacobini, non tanto e non solo per il loro rapporto con le idee politiche francesi, quanto per la loro relazione con il processo risorgimentale. Nel giacobinismo infatti sono già presenti le idee di unificazione nazionale, sia pure in un'ovvia varietà di posizioni, più o meno moderate o radicali. Una particolare attenzione a questo tema è stata dedicata dallo storico Armando Saitta, che mostra la presenza di idee unitarie e di progetti federalisti.
Fondamentale per la
caratterizzazione del giacobinismo italiano è [...] la congiunzione tra il
complesso delle esigenze politiche, economiche e sociali del suo programma
d'azione e un vigoroso sentimento nazionale, che è acquisizione di un dato di
fatto spirituale e al tempo stesso decisa volontà di realizzazione pratica.
[...]
Certo, non pensiamo minimamente che un unitario del periodo 1796-99 debba
necessariamente essere un giacobino né che ogni giacobino sia stato un unitario:
a smentire questa eventuale seconda equazione, basterebbe fare il nome del Ranza,
che fu sempre un convinto federalista; ma, a parte il fatto che, dopo le
pubblicazioni delle dissertazioni inviate al concorso del 1796, non è più
possibile affermare che la soluzione federale ebbe un maggior numero di
patrocinatori che non quella unitaria, a parte il fatto, anch'esso
incontrovertibile, che la maggior parte dei giacobini italiani furono per una
soluzione unitaria, l'essenziale sta nel fatto che i termini di unità e
federazione nel 1796-99 non si presentavano con quel carattere e quel
significato che assumeranno un quarantennio dopo. Mazzini e Gioberti, insomma,
non c'entrano!
Il nocciolo della questione è dato dal fatto che i giacobini italiani
concepirono il loro programma politico-sociale (democrazia, felicità pubblica,
ecc.) con esiti, sì, cosmopolitici ma pur sempre entro una cornice nazionale, in
congiunzione con un vigoroso sentimento nazionale.
A. Saitta, La questione del giacobinismo italiano, in "Critica Storica", 1965, pp. 241-242.
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