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L'europa di napoleone iii e di Bismarck

 

 

FONTI

 

Il programma imperiale di Napoleone III

Quando ancora era soltanto il presidente della Seconda Repubblica, Luigi Napoleone Bonaparte nell'ottobre del 1852 a Bordeaux tenne un importante discorso, che sintetizzava i cardini del programma di governo del futuro imperatore dei Francesi. Il principe presidente tracciava un quadro della situazione all'indomani della Rivoluzione del 1848 e della sua pericolosa deriva. A suo dire, essa era stata provocata dalle spinte sovvertitrici dell'ordine sociale presenti all'interno dei partiti e delle ideologie che avevano segnato quell'infausto periodo. Il futuro imperatore si presentava come il garante dell'ordine e dell'equilibrio sociale, come colui che avrebbe difeso la religione, minacciata dal radicalismo ateo e neogiacobino manifestatosi in seno alla stagione rivoluzionaria, come il naturale difensore degli interessi dei Francesi, ai quali avrebbe assicurato prosperità e sicurezza. Si tratta di un tipico programma di stampo autoritario e cesarista: il sovrano in pectore metteva in luce tutti gli elementi negativi e forieri di instabilità dei precedenti regimi per accreditarsi come uomo super partes, in grado di avviare la Francia sulla strada di una politica di prestigio e di sviluppo, all'insegna di un ritorno al glorioso passato imperiale. Non stupisce che questo programma abbia suscitato un vasto consenso presso il ceto medio francese, dopo anni di instabilità politica, di furori rivoluzionari e preoccupato per la possibile eversione dell'ordine sociale.

Signori, l'invito della Camera e del Tribunale di commercio di Bordeaux, che ho accettato con premura, mi fornisce l'occasione di ringraziare la vostra grande città per la sua accoglienza così cordiale, per la sua ospitalità così piena di magnificenza, ed io sono anche ben lieto, verso la fine del mio viaggio, di comunicarvi le impressioni che esso mi ha lasciato.
Lo scopo di questo viaggio, lo sapete, era di conoscere personalmente le nostre belle province del Mezzogiorno, di accertare i loro bisogni. Esso ha, tuttavia, condotto a un risultato assai più importante. Infatti, lo dico con una franchezza così lontana dall'orgoglio come dalla falsa modestia, mai un popolo ha testimoniato in modo più diretto, più spontaneo, più unanime, la volontà di liberarsi dalle preoccupazioni dell'avvenire, consolidando nella medesima mano un potere che gli è gradito. Esso conosce, ormai, e le ingannevoli speranze con cui lo si cullava e i pericoli da cui era minacciato. Esso sa che nel 1851 la società precipitava verso la rovina, perché ogni partito si consolava anzitempo del naufragio generale con la speranza di piantare la sua bandiera sui rottami che avessero potuto galleggiare. Sono lieto di aver salvato il vascello inalberando solo il vessillo della Francia. Disingannato sul conto di assurde teorie, il popolo si è convinto che i pretesi riformatori non erano che sognatori, giacché vi era sempre incoerenza, sproporzione fra i loro mezzi e i risultati promessi.
Oggi la Francia mi circonda della sua simpatia, perché io non sono della famiglia degli ideologi. Per giovare al paese, non c'è bisogno di applicare nuovi sistemi; ma di dare, anzitutto, fiducia nel presente, sicurezza nell'avvenire. Ecco perché la Francia sembra voler ritornare all'Impero.
C'è tuttavia un timore al quale devo rispondere. Per spirito di sfiducia, taluni si dicono: «L'Impero, è la guerra». Io invece dico: «L'Impero, è la pace». È la pace perché la Francia lo desidera e quando la Francia è soddisfatta il mondo è tranquillo [...].
Tuttavia [ ... ] ho molte conquiste da fare. Voglio conquistare alla conciliazione i partiti dissidenti e ricondurre nella corrente del gran fiume popolare le derivazioni ostili che vanno a perdersi senza utilità per nessuno. Voglio conquistare alla religione, alla morale, all'agiatezza quella parte ancora così numerosa della popolazione che, nel seno di un paese di fede e credente, conosce appena i precetti del Cristo; che, nel seno della terra più fertile del mondo, può appena godere dei suoi prodotti di prima necessità. Abbiamo immensi territori da dissodare, strade da aprire, porti da scavare, fiumi da rendere navigabili, canali da portare a termine, le nostre reti ferroviarie da completare. Abbiamo, di fronte a Marsiglia, un vasto regno da assimilare alla Francia. Abbiamo tutti i nostri grandi porti dell'Ovest da avvicinare al Continente americano con la rapidità delle comunicazioni che ancora ci mancano. Abbiamo ovunque, infine, delle rovine da rialzare, dei falsi da abbattere, delle verità da far trionfare.
Ecco come io concepirei l'impero, se l'impero dovesse essere restaurato. Queste sono le conquiste che io medito e voi tutti che mi circondate — che volete, come me, il bene della nostra patria — voi siete i miei soldati.

Napoleone III, Documents d'histoire, Paris 1964, in Bendiscioli-Gallia, Documenti di storia contemporanea, Mursia, Milano 1971.

 

I rapporti fra governo e Parlamento nella riflessione di Bismarck

Divenuto cancelliere del Regno di Prussia nel 1861, Ottone di Bismarck era un tipico esponente del ceto dei grandi proprietari terrieri di orientamento politico conservatore. Fin dall'inizio dovette confrontarsi con la dura opposizione liberale in seno al Parlamento di Berlino. Quest'ultima aveva negato uno dei cardini del programma di Bismarck, ovvero l'approvazione al progetto di riorganizzazione delle forze armate prussiane, presentato dal ministro della guerra Albrecht von Roon.
Il cancelliere, di fronte a un'opposizione irriducibile, superò l'impasse con un atto d'imperio: forte del consenso del sovrano, che teneva particolarmente al progetto di von Roon, Bismarck liberò il governo dalla necessità dell'approvazione parlamentare dei suoi provvedimenti, riservandola al solo sovrano. In questo modo il vincolo fra esecutivo e Corona veniva rafforzato ai danni delle prerogative parlamentari. Il Parlamento perdeva ogni possibilità di intervenire nella strategia di governo, che d'ora in avanti sarebbe dipesa soltanto dal rapporto di fiducia fra cancelliere e monarca.
La decisione di Bismarck presentava i risvolti rivoluzionari di un "colpo di Stato" incruento. Alla sua origine vi era la profonda avversione del cancelliere nei confronti del parlamentarismo liberale e della sua pretesa di interpretare la volontà della nazione: a essa contrapponeva il solido punto di riferimento della monarchia degli Hohenzollern, che sarebbe dovuta divenire l'asse centrale del progetto di riunificazione nazionale. Questo sarebbe stato l'orientamento politico dell'Impero tedesco fino al crollo del 1918: si trattava di una paradossale "autocrazia democratica", perché un Parlamento eletto a suffragio universale non aveva alcun potere di controllo nell'operato dell'esecutivo.

In una parola, Signori, per guadagnare la vostra fiducia, bisogna mettersi a vostra discrezione, ciò che è impossibile facciano i ministri del Re di Prussia. In tal caso non saremmo più ministri del Re, ma saremmo ministri del Parlamento, saremmo i vostri ministri, e grazie a Dio, io spero, che a questo punto noli ci arriveremo mai.
Che i ministri abbiano la fiducia del Re, vi è assolutamente indifferente. Il re sarebbe quindi una personalità, che avrebbe minor ingerenza sugli affari prussiani, non dirò d'un qualsiasi membro di questa Camera, ma di ognuno dei capi-partito, con cui devo capitolare, se voglio guadagnarmelo. Quanto ai diritti della Corona, si potrebbe passar sempre semplicemente all'ordine del giorno. Eppure, ci sono pur sempre le disposizioni della Costituzione perfettamente chiare, per cui il Re ha il diritto di decidere la pace e la guerra, e di scegliere i ministri.
Ho detto che con la vostra condotta siete non soltanto in opposizione colla Costituzione, ma anche con le tradizioni, con la storia, col sentimento popolare della Prussia. Il sentimento del nostro popolo è, Dio sia lodato, profondamente monarchico! e tale rimarrà nonostante i vostri lumi, ch'io chiamo confusione d'idee. Voi siete in opposizione colle gloriose tradizioni del nostro passato, quando sconfessate la posizione della Prussia, la sua situazione di grande potenza, conquistata a prezzo di gravi sacrifici che il nostro popolo ha fatti coi suoi beni e col suo sangue, quando voi rinnegate così il passato glorioso del paese, e in una questione di potenza, in cui sono impegnati da un lato la democrazia e i piccoli Stati, dall'altro il trono di Prussia, voi prendete partito pei primi. Sforzandovi per tal modo di mediatizzare la Prussia sotto il principio d'una maggioranza della Dieta, finite per fare voi stessi ciò che ci rinfacciate toto die. Al disopra degli interessi del paese, mettete il punto di vista del partito; e dite: «o la Prussia sia quel che noi vogliamo ovvero vada in rovina». Voi non sentite – e la vostra risoluzione meglio d'ogni altra cosa lo mostra – voi non sentite né pensate come il popolo di Prussia. Ché altrimenti non avreste manifestato certe supposizioni circa i sentimenti da cui l'esercito prussiano in un caso o in un altro sarebbe animato. Di lì si vede quanto siate lontani dal vero popolo e come vi siate abituati allo spirito delle consorterie che la pensano come voi, come vi lasciate illudere sulla vera situazione delle cose da una stampa che è alle vostre dipendenze. [...]
Se il popolo prussiano, Signori, sentisse come voi, non resterebbe altro da dire che lo Stato di Prussia ha fatto il suo tempo e che è ormai ora che altre forme storiche prendano il suo posto. A questo punto non siamo ancor giunti! Vi ricorderò un aneddoto, che in passato, quando in questa stessa aula si discuteva l'imposta fondiaria, spesso è stato citato. Si tratta d'una lettera del re Federico Guglielmo I [ 1713-1740] a un membro degli Stati della Prussia orientale, al tempo dell'introduzione di quell'imposta; in essa, se mi rammento le parole precise, il Re dice: «Ciò ch'io mando in ruina è il nie pozwalam [non lo permetto] dei feudatari; io stabilisco la souveraineté comme un rocher de bronze. Signori, il rocher de bronze sta tuttora ben saldo; esso forma le fondamenta della storia prussiana, della Prussia come grande potenza, e della monarchia costituzionale. Questa rupe di bronzo non riuscirete a scuoterla né colla vostra Unione nazionale, né colla vostra mozione, né col vostro liberum veto!».

O. Von Bismarck, Discorsi, trad. it. di Z. Zini, UTET, Torino 1966, pp. 38-40.

 

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

 

La Francia di Napoleone III

I Secondo Impero venne proclamato il 2 dicembre 1852, dopo che i Francesi, chiamati a votare, avevano risposto con 7.800.000 Sì contro 250.000 NO, proclamando a schiacciante maggioranza la loro volontà di ristabilire l'Impero. La stessa data scelta, il 2 dicembre, aveva un grande significato: era quella della consacrazione di Napoleone I (2 dicembre 1804) e della vittoria di Austerlitz (2 dicembre 1805). Il regime instaurato da Napoleone III è stato definito «democrazia autoritaria», in quanto lasciò sussistere le istituzioni tipiche della democrazia, come il suffragio universale e gli organismi parlamentari, ma ne svuotò il contenuto, intaccandone il funzionamento. Attraverso il controllo della stampa e gli interventi sulle circoscrizioni elettorali, venne manipolata la volontà degli elettori; attraverso la trasformazione dei compiti del Parlamento, ne fu vanificato il ruolo politico. Ecco come R. Pozzi descrive queste decisive trasformazioni volte ad annullare l'effetto politico del suffragio universale.

Il decreto organico del 2 febbraio 1852 sulle elezioni, mentre manteneva il principio del suffragio universale, ristabilito da Luigi Napoleone al momento del colpo di stato, preferiva allo scrutinio di lista lo scrutinio uninominale in due turni, facendo del deputato l'eletto in senso angusto del suo arrondissement. Le sessioni ordinarie del corpo legislativo non duravano mai più di tre mesi, e ai giornali, sottoposti dal decreto organico del 17 febbraio 1852 al duro regime dell'« ammonizione » prefettizia, era fatto divieto di render conto dei particolari delle sedute.
Presidente e vicepresidente erano nominati fra i suoi membri dall'imperatore: la prima carica, dal 1854 al 1865, fu costantemente rivestita da Morny, fratellastro dell'imperatore, abile regista dei dibattiti parlamentari. Eppure, anche così, le elezioni con cui ogni sei anni il paese doveva procedere al rinnovo integrale del corpo legislativo divennero degli insostituibili momenti di confronto politico: offrono oggi dei punti di riferimento sicuri per tracciare la storia dell'evoluzione interna del regime.
Il fatto è che Napoleone III, arrivato al potere con l'appoggio del suffragio universale, «il solo sovrano che riconoscesse», come diceva nella proclamazione del 2 dicembre, se da una parte non poté rinunciare a esso, e creò anzi, attraverso il plebiscito, lo strumento forse più caratteristico di questa democrazia autoritaria, che è quello dell'appello al popolo, dopo i trionfali successi dei plebisciti del 1851 e 1852, non avrebbe mai più osato per tutta la durata dell'impero, fino alla consultazione in extremis del maggio 1870, ricorrere a questo pericoloso strumento. Le elezioni legislative finirono così per assumere ogni volta un significato plebiscitario di accettazione o no del regime. Era perciò inevitabile che il potere intervenisse a «orientare» l'espressione della volontà popolare, ricorrendo a rimaneggiamenti delle circoscrizioni elettorali (giustificati dall'evoluzione demografica, ma aventi come risultato di scomporre dei collegi ostili); utilizzando soprattutto il sistema della «candidatura uficiale», con cui non solo ad un elettorato che si supponeva impreparato si indicava il candidato governativo, ma questi veniva aiutato con tutti i mezzi dall'amministrazione, nel tempo stesso che si moltiplicavano gli ostacoli per i suoi avversari. Di tale pratica, che rappresentava in fondo un adattamento alle dimensioni del suffragio universale di metodi già applicati sotto le monarchie censitarie dal 1815 al 1848, era nuovo soprattutto il franco riconoscimento che ne faceva il regime. Essa trovò comunque uno strumento efficace nella riorganizzazione dell'amministrazione prefettizia portata avanti col decreto del 25 marzo 1852 (rimasto in vigore fino al 1964), col quale mentre si estendevano i poteri del prefetto sulle autorità locali, questi veniva più strettamente subordinato al governo, cui rendeva conto di tutti i suoi atti. La trasformazione dei mezzi di comunicazione, che conobbe proprio negli anni del Secondo impero la sua fase decisiva, contribuì a rendere operante sia l'autorità locale del prefetto che la sua dipendenza dal potere centrale.

R. Pozzi, Secondo Impero, in Il mondo contemporaneo, "Storia d'Europa 3", Sansoni, Firenze 1980, p. 1046.

Secondo lo storico americano Paul Farmer, la debolezza del Secondo Impero francese risiedeva nelle grandi contraddizioni interne che il regime di Napoleone III aveva presentato sin dal suo inizio. L'imperatore aveva cercato di conciliare il ricorso al suffragio universale con un indirizzo politico dispotico e autoritario; aveva intrapreso una politica estera favorevole alle spinte nazionalistiche, sottovalutandone le effettive conseguenze; si era presentato quale punto di mediazione fra movimento liberale, esigenza di ordine sociale e necessità di uno sviluppo industriale. Tali obiettivi, una volta raggiunti, avrebbero decretato il completo superamento del suo regime. Secondo Farmer, non è insensata l'ipotesi che fa risalire all'autoritarismo cesaristico del Secondo Impero l'origine delle dittature impostesi in Europa dopo il 1914. Osserva però che un simile addebito non può essere rivolto al governo di Napoleone III. Nel suo fermo intendimento di instaurare un governo personale a garanzia dell'ordine e della pace sociale, Napoleone III non arrivò mai a concepire il disegno di irreggimentare l'opinione pubblica, attraverso le strutture di una capillare propaganda o di un'articolata ideologia totalitaria, quale sarà perseguito dalle dittature del XX secolo.

Le cause del crollo del secondo impero vanno cercate nelle sue intime contraddizioni. In politica interna, si era rivelata impossibile una conciliazione tra il principio bonapartista del potere autoritario da un lato e lo sviluppo del processo di industrializzazione e del movimento liberale dall'altro. In politica estera, Napoleone 111 non aveva ben individuato le forme che il nazionalismo avrebbe assunto: invece di deboli stati federali sottoposti alla tutela francese, esso aveva dato vita in Germania e in Italia a potenti stati unitari che avevano completamente modificato l'equilibrio di forze in Europa. Infine, contro i suoi più profondi convincimenti, che ancora dopo Sadovà lo inducevano a mantenersi fedele ai suoi principi e ad accettare il fatto compiuto, egli fu spinto dai suoi consiglieri e dall'opinione pubblica francese a svolgere un'azione diplomatica avventuristica pur di salvare il prestigio del regime.
Una volta finito il regno di Napoleone III, la Francia sembrò ripudiare tutto ciò che aveva caratterizzato quel regime. Ma in realtà l'impero lasciò un'impronta profonda nella vita politica e nelle istituzioni del paese. Se indubbiamente il predominio del parlamento, che fu una delle principali caratteristiche della terza repubblica, rappresentò un ritorno alla tradizione orleanista più che uno sviluppo delle stentate concessioni fatte da Napoleone III negli ultimi anni, tuttavia il suffragio universale – altro elemento caratteristico della terza repubblica – fu forse più un'eredità dell'impero che non del regime repubblicano del 1848. Infatti i conservatori che elaborarono la costituzione del 1875 non osarono abolirlo proprio per il fatto che questa istituzione era stata ripetutamente esaltata all'epoca di Napoleone III e ad essa si era fatto frequentemente ricorso. D'altra parte, a Napoleone III va attribuita la responsabilità di un altro elemento caratteristico della terza repubblica: la riluttanza dei repubblicani a consentire che la carica di presidente venisse assunta da chi avesse mostrato di aspirare alla conquista del potere personale e il fatto che non volessero affidarne la scelta alla massa degli elettori.
Nei vent'anni che seguirono la prima guerra mondiale, quando in tutta l'Europa sorsero movimenti politici che tentarono di costituire governi autoritari fondati su principi democratici, il secondo impero sembrò acquistare un significato nuovo e più vasto rispetto al passato. Alcuni studiosi hanno ritenuto di poter affermare che Napoleone III, in quanto dittatore che aveva governato in nome del popolo e consultato la volontà popolare per mezzo dei plebisciti, debba essere considerato il precursore di demagoghi autocratici come Hitler e Mussolini. Tuttavia le differenze fra il regime dell'imperatore francese e quello dei due dittatori moderni sono forse più profonde dei punti di contatto. Infatti, a differenza dei più tardi esponenti dell'ideologia totalitaria, Napoleone III non fece alcun tentativo di creare un movimento o partito politico unico che avesse il compito di sostenere il suo regime e di soffocare tutte le altre correnti di opinione. Egli era troppo profondamente un uomo del pieno Ottocento per poter concepire ciò che più tardi i nazisti tedeschi avrebbero chiamato Gleíchschaltung, cioè, l'irreggimentazione di tutta la vita nazionale pubblica e privata sotto un unico capo. Tra tutte le incoerenze di Napoleone III, questa è certamente la più perdonabile.

P. Farmer, Il secondo impero in Francia, in Storia del mondo moderno,
vol. X: Il culmine della potenza europea, 1830-1870, Garzanti, Milano1982, pp. 590-592.

 

La politica estera di Napoleone III

L'iniziativa francese divenne ardita e intraprendente con l'instaurazione del Secondo Impero, quando Napoleone III volle riportare la Francia al ruolo di Stato-guida dell'Europa. Gli storici sono discordi nel determinare il vero obiettivo dell'imperatore francese: Bourgeois l'ha individuato in una politica di espansione verso l'Italia; Pingaud nella costruzione di una grande alleanza internazionale; Oncken nella ricerca della sicurezza dell'Impero; Droz nella volontà di uscire dall'immobilismo; Piero Orsi nello scopo apparente di promuovere la rigenerazione dell'Europa mediante il principio di nazionalità, nell'intento reale di distruggere l'Impero asburgico e instaurare il predominio francese nel continente.

Napoleone III aveva capito che il principio destinato a trionfare nel suo secolo era quello delle nazionalità e si era persuaso che la Francia facendosene sostenitrice avrebbe acquistato una potenza morale preponderante e avrebbe forse potuto ottenere degli ingrandimenti ed arrivare a quei confini delle Alpi e dei Reno da essa sospirati come i confini naturali del paese. La Francia era la sola grande potenza che non aveva da perdere alcun territorio per il trionfo di quel principio che avrebbe invece indebolito le altre potenze. I due paesi vicini, Italia e Germania, per poter costituirsi a nazione avevano bisogno o dell'aiuto o della tolleranza della Francia e l'avrebbero pagata con la cessione di qualche territorio ambito dalla Francia sui suoi confini. Il nuovo ordinamento d'Europa si sarebbe, secondo Napoleone III, conciliato con la grandezza reclamata da un Impero napoleonico. Egli immaginò che questo nuovo ordine di cose avrebbe riconciliato i popoli e assicurato la pace perpetua. Questo il significato della sua celebre espressione: «l'Impero è la pace».

P. Orsi, Il Secondo Impero e la politica europea dal 1825 al 1870, in L'Europa del XIX secolo, CEDAM, Padova. 1934.

La guerra di Crimea per Napoleone III fu la premessa necessaria all'attuazione del suo piano: rompere l'alleanza tra Russia e Austria, indispensabile per intraprendere qualsiasi azione al centro d'Europa; lanciare nel futuro congresso della pace il progetto di una nuova Europa; proporre, come primo esperimento, la soluzione della questione italiana. Con l'intervento nella guerra del 1859 egli raggiunse i confini naturali delle Alpi e sostituì nella penisola all'influenza asburgica quella francese. In quella maniera Napoleone III si ricollegava alla tradizione francese che aveva considerato l'Italia una pedina francese in funzione antiasburgica. L'intransigente opposizione di Napoleone Ili alla soluzione unitaria del Risorgimento derivava dal timore di creare al fianco della Francia uno Stato che nell'avvenire le avrebbe potuto nuocere1.
Anche i numerosi trattati di commercio che Napoleone III fece con il Belgio, la Svizzera, l'Italia e lo Zollverein, sono espressioni evidenti della sua volontà europeista. Con essi l'imperatore voleva significare che l'Europa avrebbe potuto trovare pace e benessere abbattendo le barriere doganali e i dazi protettori e favorendo il libero scambio tra le nazioni. A quest'intento, secondo Schefer, sono da riportare la spedizione nel Messico e l'apertura del Canale di Suez. Specialmente con l'intervento nel Messico, Napoleone III si proponeva di fermare l'imperialismo degli Stati Uniti e di aprire lo sfruttamento di quel ricco sottosuolo americano a tutti i popoli2.
Nella questione polacca del 1863 l'imperatore non agì soltanto in nome della politica delle nazionalità, ma anche per restaurare l'antica amicizia con la Polonia e per coalizzare l'Europa contro l'invadenza russa; nel 1865 a Biarritz espresse a Bismarck la propria simpatia per il movimento nazionale tedesco e poi spinse l'Italia ad allearsi con la Prussia nell'intento di indebolire l'Austria, ancora legata ai principi della Restaurazione, nella speranza di fare della Francia la protettrice dei nuovi Stati, germanico e italiano.
Il politico e storico Adolphe Thiers giudicò la politica estera dell'imperatore un grave errore, che avrebbe nuociuto grandemente agli interessi francesi.

1 P. Silva, La politica di Napoleone III in Italia, in "Nuova Rivista Storica", 1927.
2
C. Schefer, La grande pensée de Napoléon III. Les origines de l'expédition du Messique, Paris 1933.

Prima dei cambiamenti portati dalla dottrina delle nazionalità, la Francia poteva far sentire nel mondo la sua influenza pacifica ed irresistibile; nel continente poteva collocarsi tra la Prussia e l'Austria e portandosi ora verso l'una ora verso l'altra, imporre la sua volontà; nell'insieme dell'Europa poteva mettersi tra l'Inghilterra e la Russia, e volgendosi verso l'una o verso l'altra fermare ogni proposito ambizioso. Bisognava mantenere questa situazione d'equilibrio nell'interesse non solo della Francia ma anche dell'Europa, poiché essa ne assicurava l'indipendenza impedendo che una potenza assumesse proporzioni allarmanti per le altre. Napoleone imboccando la via delle nazionalità aveva permesso che la Germania si raccogliesse attorno alla Rus- sia costituendo un grosso pericolo per la Francia. Era dovere di essa di impedire a tutti i costi l'unione degli Stati tedeschi del nord e del sud.

A. Thiers, in P. Orsi, Il Secondo Impero e la politica europea dal 1852 al 1870, cit.

 

La Prussia e l'unità nazionale tedesca

Alla base dell'unificazione tedesca ci fu un'idea di nazione ben diversa da quella che si era affermata presso altri popoli in Europa. Connessa a questa idea era infatti la convinzione di un primato nei confronti delle altre nazionalità europee, primato da cui era facile ricavare poi un principio di dominio e di assoggettamento di altri Stati. Questo aspetto del principio di nazionalità nella cultura tedesca è messo in rilievo da Federico Chabod.

L'idea di missione e addirittura di primato [...] fin dall'inizio dell'800 in Germania aveva affiancato l'idea di nazione, quasi necessario lievito perché quest'ultima potesse pienamente affermarsi. L'idea di missione per i tedeschi non è la missione educatrice del Mazzini ma è l'istanza irresistibile di predominio sugli altri; il primato tedesco non è quello morale e civile del Gioberti, ma è assiso sulla forza delle armi, derivato dal concetto di nazione etnica, presupposta pura di sangue e superiore alle altre.

F. Chabod, L'idea di Nazione, Laterza, Bari 1961.

Fra Italiani, Greci e Polacchi l'idea di nazione fu intimamente legata non solo all'unità e all'indipendenza, ma soprattutto alla libertà, cioè al rispetto degli altri popoli. Ciò non si verificò in Germania: in nome della «nazione pura» e «superiore», Bismarck, Guglielmo II e Hitler si lanceranno nelle guerre di assoggettamento e di predominio. Altro fattore dell'imperialismo germanico è da ricercare, secondo Meinecke, nella condotta politica e sociale della borghesia tedesca.

Questa classe, sviluppatasi in ritardo, ma subito enormemente, in virtù della rivoluzione industriale divenne in breve tempo la forza dominante della società tedesca senza possedere la cultura e la maturità civile e sociale necessaria per fare buon uso della sua potenza. I nuovi miracoli della macchina a vapore e della ferrovia in Germania diedero origine al nuovo culto del carbone e del ferro. Ne nacque un realismo che si impadronì della vita dello spirito, pose fine a una forma di vita intesa solamente come perfezionamento e spiritualizzazione della persona umana, e tese a considerare piuttosto gli uomini nella loro convivenza quale collettività, formazione sociale, e la nazione come un tutto. Da qui la ribellione della borghesia tedesca contro lo Stato di polizia, la richiesta di costituzioni che aiutassero gli industriali a conquistare il potere.

F. Meinecke, La catastrofe della Germania, La Nuova Italia, Firenze 1952.

È espressione della volontà di questa borghesia lo Zollverein del 1834, cioè la lega doganale tra gli Stati tedeschi, allo scopo di sopprimere tutti gli intralci daziari e doganali nelle loro frontiere e di stabilire una sola linea di tariffe uniformi con gli Stati stranieri. È ancora opera di questa borghesia la costruzione di una vasta rete ferroviaria in tutto il territorio della lega e l'introduzione del più intransigente protezionismo nazionale con l'evidente scopo di rafforzare il sentimento dell'unità all'interno e di chiusura verso l'esterno. Lo Zollverein e la rete ferroviaria divennero uno strumento efficace d'unità contro il tradizionale e gretto particolarismo dei principi, avviò i Tedeschi a collaborare sotto la direzione della Prussia, sviluppò nella borghesia tedesca la convinzione che l'unità nazionale era condizione di dominio e di potenza. Purtroppo questa non aveva la preparazione, l'esperienza, la cultura e la misura della borghesia occidentale. Agrari, industriali e commercianti tedeschi non erano passati per le lotte politiche e sociali dell'Inghilterra e della Francia, non avevano conosciuto e sperimentato il liberalismo economico, ma, chiusi nel particolarismo protezionistico e nell'assolutismo dei principi, erano rimasti arretrati socialmente. Assurti a un ruolo determinante nella vita del Paese, cercarono solo la ricchezza, il progresso economico, al di là di ogni limite e freno.

Sostanzialmente la borghesia tedesca — scrive Vermeil — rimase refrattaria alle idee liberali, mantenne al suo interno la feudalità agraria, la prolungò con la feudalità industriale di un capitalismo corporativo, lasciò che questa feudalità industriale si affermasse in misura schiacciante su un'agricoltura arretrata, e, grazie all'Unione doganale, praticò una specie di nazionalismo economico che trasferiva sulle frontiere le barriere abbattute all'interno [ ... ]. Quando lo sfruttamento delle ricchezze minerarie sarà avviato a largo sviluppo, quando a partire dal 1850 apparirà la grande industria e il paese si libererà dalla schiacciante concorrenza inglese, allora si farà luce lo spirito d'iniziativa, e il gusto della speculazione non conoscerà più freni. Questa evoluzione economica e politica rivelava una Germania che voleva unificarsi all'interno per rinforzare le proprie tradizioni e cercava di chiudersi all'interno.

E. Vermeil, La Germania contemporanea, Laterza, Bari 1956.

Eppure la borghesia tedesca fu richiamata a ideali umani da nobili storici. È di questo tempo la formazione del «liberalismo classico» con a capo Heinrich von Treitschke, che, scrive Meinecke, aveva lo scopo di umanizzare la borghesia.

Il liberalismo classico si proponeva di suscitare nella vita tedesca il bisogno di una sintesi di spirito e di potenza, di civiltà, stato e nazione, di concezione universalistica e nazionale, di spiccare il volo verso le altezze e insieme calcare con forte passo la terra, fondendo armoniosamente i diritti di un libero e fiero individualismo con le esigenze della collettività statale e nazionale, ma non fu possibile per la mancanza nella classe borghese di cultura, equilibrio e umanità.

F. Meinecke, La catastrofe della Germania, cit.

Dei due problemi fondamentali della vita tedesca, l'unificazione e la libertà, fu risolto soltanto il primo in opposizione al secondo. Gli anni decisivi furono tra il 1862 e il 1870. In essi il principe Ottone di Bismarck, tipico esponente del prussianesimo, fondandosi sulla teoria del diritto della forza, impose dall'alto, con le armi, la soluzione della "piccola Germania", cioè l'unione degli Stati tedeschi sotto la Prussia, con l'esclusione dell'Austria.
La Germania non si formò per volontà del popolo e con la forza del popolo, né tanto meno si diede una costituzione che rispecchiasse le istanze della nazione, essa fu l'opera soltanto del militarismo e dell'autocrazia che rimasero connotati essenziali e costanti del nuovo Stato.

Il militarismo prussiano — scrive Meinecke —è stato uno dei principali ostacoli all'evoluzione democratica, avendo esso apportato fra i Tedeschi un livellamento che ne ha ristretto la visuale, una soluzione che ne ha impedito il ragionamento, un'estinzione delle varie ricche fonti di vita e un convenzionalismo che, anche sotto il manto della disciplina, non è riuscito a frenare tutti i mali impulsi e le male passioni.

F. Meinecke, La catastrofe della Germania, cit.

Il ruolo della Prussia nella Germania unificata e il peso del suo modello di Stato autoritario vengono posti in evidenza dallo storico Enzo Collotti.

L'effettivo dominio della monarchia [ ... ] esprimeva anche la forza della Prussia come stato egemone, per cui il federalismo dell'impero era spesso apparente o poteva essere addirittura giocato come elemento di frattura per riaffermare la priorità della Prussia; la posizione semidittatoriale attribuita al Reichskanzler (Cancelliere del Reich), che nel caso specifico di Bismarck assunse una fisionomia apertamente bonapartista; il carattere del tutto illusorio attribuito al Reichstag (Parlamento del Reich), al quale nessuna forza veniva conferita dal suffragio universale (nel senso limitato in cui era allora possibile), di fronte al Reichsrat (Consiglio del Reich) dominato dalla Prussia, che per parte sua respinse per i propri organismi parlamentari sino al 1918 il suffragio universale.

E. Collotti, Età bísmarckiana e guglielmina, in Il mondo contemporaneo, "Storia d'Europa I", Sansoni, Firenze 1980, pp. 272-273.

Protezionismo doganale, convergenza di interessi tra industria pesante e latifondo, sconfitta conseguente del liberismo furono i fattori della politica interna di Bismarck, secondo Collotti che vede una continuità storica fino almeno al 1918 nell'alleanza sociale tra una parte degli industriali e i grandi produttori agrari. La crisi economica europea sviluppatasi dopo il 1870 infatti diede solo breve vita a un tentativo liberistico della politica economica tedesca, riconvertitasi rapidamente, sotto la pressione dell'industria pesante, al protezionismo.

Gli interessi siderurgici furono tra i più energici sostenitori di una conversione protezionista. Gli anni della crisi favorirono quella organizzazione corporativa degli interessi che, al di là di ogni forma di rappresentanza politica, costituirà un aspetto tipico del modello tedesco di «socialimperialismo» quale si andrà sviluppando sino al 1918 ed anche oltre; furono gli anni in cui nacquero le federazioni dell'industria pesante e degli agrari, che avrebbero avuto un peso decisivo sugli indirizzi protezionisti. Di fatto, isolate le resistenze liberiste, nel luglio del 1879 si compì la svolta protezionista che doveva costituire l'espressione diretta degli interessi su cui poggiava d'ora in poi il sistema bismarckiano e si può senz'altro ben dire la politica del Reich.
L'unificazione degli interessi dell'industria pesante e del latifondo avvenne tecnicamente mediante l'introduzione di una serie di dazi protettivi a favore di alcuni beni essenziali di produzione interna, materie prime come ferro e legname per il versante industriale; cereali e bestiame per il versante agricolo. Essendo colpita l'importazione dall'estero in questi settori fu più facile per i produttori manipolare il mercato e innalzare i prezzi e con ciò i profitti. Ma questo era il prezzo della composizione degli interessi divergenti e insieme della garanzia della fiducia a Bismarck.

E. Collotti, Età bismarckiana e guglielmina, p. 273.

 

La politica interna di Bismarck

L'autoritarismo di Bismarck è considerato da molti storici di vario orientamento come una grave calamità per la Germania. I compromessi con il gruppo sociale più debole per ridurre la pressione di quello momentaneamente più forte, per poi invertire il comportamento una volta che i rapporti di forza fossero cambiati, come successe nei confronti dei cattolici prima e dei socialisti poi, diedero alla politica interna del cancelliere un carattere oscillante e apparentemente contraddittorio.
Questa linea di instabilità e, alla fine, di intrinseca debolezza è messa a fuoco dallo storico francese Edmund Vermeil.

L'opera del Bismarck fu una serie di compromessi che non seppero evitare né la crisi sociale, né lo squilibrio economico, né la latente decomposizione della struttura politica. Sul piano costituzionale la coesistenza tra costituzionalismo del 1848 ed egemonia prussiana, tra istituzioni federative e unitarie, tra monarchia imperiale e parlamento nazionale, diede luogo a una specie di sintesi zoppicante tra l'autocrazia tradizionale e le apparenze della democrazia a venire. Del Parlamento il Cancelliere non tenne mai serio conto, ma tutto cercò di risolvere col compromesso. La collaborazione tra industria pesante e grande proprietà terriera, tra cattolicesimo tedesco e piccola Germania luterana, tra gruppi dirigenti della vecchia scuola e masse proletarie, fu una serie di successi stentati che seguirono la rottura col nazional-liberalismo, il Kulturkampf e le leggi antisocialistiche. Per la sua mentalità di autocrate e di Junker il Bismarck non capi che la vera funzione dello stato moderno consiste nell'adeguarsi all'educazione politica delle masse; egli, invece, escluse deliberatamente il popolo, le classi sociali e i partiti politici da ogni effettiva partecipazione alla direzione degli affari pubblici, non capi la gravità del problema dei rapporti tra borghesia e proletariato, specialmente per un paese che si era industrializzato così frettolosamente come la Germania. La sua politica fu instabile e contraddittoria, sempre in cerca del compromesso: ora perseguitò gli operai, ora ne fece i rentiers dello Stato nazionale; ora gettò in carcere i preti cattolici, ora ne sollecitò il favore. Bismarck, consapevole dei grandi contrasti che intimamente minavano la vita sociale tedesca, credette di risolverli machtstaat con lo Stato forte, col nazionalismo esaltato. Preferì servirsi di un'onnipotente e spaventosa burocrazia, che organizzava tutto tecnicamente, secondo gli ordini ricevuti dall'alto. In questo modo evirò politicamente le classi e in modo specifico la borghesia e il proletariato, e, inconsapevolmente, preparò al Reich e all'Europa il grave pericolo di classi destinate al governo della nazione prive di qualsiasi educazione politica.

E. Vermeil, La Germania contemporanea, cit.

Notevole fu, nel periodo bismarckiano, lo sviluppo economico; ma anche qui, secondo alcuni storici, il cancelliere commise gravi errori: cedendo al dominante prussianesimo, al posto di un logico e utile liberismo, impose un controproduttivo protezionismo che impedì alla quadruplicata popolazione proletaria e all'aumentata produzione lo sfogo necessario. Più tardi, la ricerca tedesca di mercati e di sbocchi esteri susciterà l'inquietudine inglese e degli altri Stati del mondo e confluirà nella prima guerra mondiale. Si può dire che il suo metodo nell'affrontare i problemi è stato il compromesso, spesse volte ibrido, instabile e non risolutivo.

Il Bismarck — scrive Vermeil — con la sua abilità nei compromessi non seppe risolvere il vero grande problema determinante della vita tedesca: l'unione tra religione cristiana e idealismo tedesco, tra umanesimo occidentale ed empirismo sociale, tra democrazia parlamentare e monarchia imperiale, tra socialismo internazionale ed espansione economica, sollecitata da un inquietante neo-militarismo. Ingenuo è stato sperare che tanti precarii compromessi un giorno potessero mettere capo a una specie di democrazia organizzata, integratrice delle energie popolari nell'unità del Reich. Non poteva essere questo il fondamento della democrazia, e il sistema bismarckiano certamente, fatalmente doveva portare al fallimento.

E. Vermeil, La Germania contemporanea, cit.

 

La politica estera di Bismarck

Anche in politica estera Bismarck credette di risolvere i problemi con il compromesso. Con alleanze ibride e malsicure credette di risolvere i più gravi problemi: con il patto dei Tre Imperatori cercò di accordare Austria e Russia, concorrenti nei Balcani; con la Triplice Alleanza legò allo stesso carro Italia e Austria, divise da contrasti territoriali, con il risultato che al momento decisivo le parti contraenti si schierarono in campo opposto.
Il bilancio complessivo di tutta la politica bismarckiana, esaminato nelle sue conseguenze vicine e lontane, appare a Luigi Salvatorelli nettamente negativo.

Almeno il cinquanta per cento dei guai della Germania guglielmina, sfociati nella guerra del 1914 e nella disfatta del 1918, e trapassati nella Germania di Weimar, sono da attribuire al Bismarck. Dalla sua politica provennero in larga misura l'insufficienza degli uomini di governo, che Bismarck non si curò affatto di alleviare, e l'inesperienza politica dei partiti tedeschi, che egli tenne studiosamente lontani da ogni settore politico effettivo.

L. Salvatorelli, Bismarck, in "Rivista Storica Italiana", anno LX, fasc. I.

Pure grave è la responsabilità di Bismarck nell'involuzione politica che interessò l'Europa centro-orientale, dove per la Russia e per l'Austria egli fu un potente incoraggiamento alla prosecuzione e accentuazione della politica reazionaria e assolutistica.

Se la Russia non ebbe uno svolgimento liberale — secondo Salvatorelli — l'influenza tedesca vi giocò una gran parte, e, per quanto passiva, non meno reale e importante. Analoga influenza conservatrice e cristallizzatrice esercitò sull'Austria-Ungheria ma per modi diversi e più complessi. Non si trattò soltanto di rafforzamento morale portato dall'autoritarismo dinastico, aristocratico, militaresco della sorella più giovane, ma più potente, ai connotati analoghi dell'altra. Ci fu anche, capitale, la resistenza sviluppata dalla Germania bismarckiana contro una evoluzione federalistica dell'Austria-Ungheria che desse agli elementi slavi il posto che loro spettava. Bismarck personalmente agì in questo senso; dopo di lui, il pangermanesimo razzistico continuò, intensificandola, l'opera sua. La mancata evoluzione federalistica dell'Austria-Ungheria rese insanabile la crisi della monarchia asburgica, e portò alla prima guerra mondiale.

L. Salvatorelli, Bismarck, cit.

In Italia l'influenza di Bismarck, aggiunge Croce, determinò, sia pure per breve tempo, un arresto dello sviluppo democratico. Al suo fascino si devono il trasformismo di Depretis, la politica autoritaria di Crispi, i conati dittatoriali di Pelloux. Anche per la formazione morale dell'Europa la sua opera è da considerarsi negativa.

I successi spettacolari del Bismarck nel campo militare, le sue vittorie straordinarie nella diplomazia, fondati sullo spirito degli antichi regimi, sembrarono il risultato della sua etica avversa all'etica liberale, straniera agli ideali della civiltà moderna, e diedero al sistema da lui inaugurato una forte presa nel mondo moderno, tanto che in molte sue parti fu riprodotto ed ebbe efficacia in ogni paese, generando una nuova disposizione degli animi a un nuovo fare e un nuovo linguaggio.

B. Croce, Storia d'Italia, Laterza, Einaudi, Bari 1959.

L'affermazione che attribuisce a Bismarck il merito di avere preservato la pace d'Europa per molti anni sembra a Salvatorelli un giudizio dal «valore più apparente che sostanziale». Infatti, nel. Congresso di Berlino del 1878, egli sprecò (coadiuvato dalla diplomazia inglese) un'occasione unica per avviare a una soluzione organica il problema balcanico, per cui la situazione in quel settore andò peggiorando, avviandosi alla catastrofe del 1914.
Non meno labile fu l'efficacia della politica di Bismarck nelle altre scottanti questioni europee, nelle quali la sua bravura si riduceva unicamente a rimandarne la soluzione.

Per i grandi problemi europei il Bismarck non seppe trovare una soluzione. La sua politica internazionale dopo il '70, sinceramente pacifica, capolavoro di equilibrio, fu tuttavia puramente statica, o, per essere più esatti, fu lo sforzo quotidiano per mantenere un equilibrio instabile, per la permanenza del provvisorio. Questo è il carattere del Patto di contrassicurazione con la Russia, dell'amicizia inglese, della stessa alleanza coll'Austria, basata sul mantenimento dell'impero dualistico, e, soprattutto, della politica verso la Francia, che si potrebbe chiamare un tenere il lupo per le orecchie. La politica internazionale bismarckiana dopo il 1870 fu un perpetuo e generale rinvio, imitato largamente dagli altri uomini politici, contemporanei e successori, tedeschi e non tedeschi. Di rinvio in rinvio l'Europa arrivò al 1914.

L. Salvatorelli, Bismarck, cit.

Ad ogni modo la politica diplomatica assicurò alla Germania un posto di sicurezza fra le grandi potenze e garantì all'Europa un lungo periodo di pace. Bismarck aveva però sfruttato al massimo ogni possibilità e portato a un punto pericoloso di rottura sia i suoi rapporti con il Parlamento, sia le relazioni dell'Impero con l'Inghilterra e con la Russia. In parte le responsabilità di Guglielmo II vanno riportate alle premesse autoritarie e imperialistiche del grande cancelliere ch'egli subito volle licenziare.

Certo — scrive Eyck — il Bismarck lasciava la sua opera nelle mani d'un uomo assolutamente incapace di svilupparla e anche solo di conservarla. Fu questa la disgrazia della Germania. Ma fu colpa del Bismarck aver fatto in modo che quest'uomo avesse in mano un potere troppo grande per un comune mortale. E fu pure dovuto a un errore del Bismarck il fatto che né l'Impero tedesco avesse un parlamento che potesse tenere a freno il sovrano, né il popolo tedesco l'indipendenza spirituale che sarebbe stata necessaria in una simile situazione. Sotto la guida di Bismarck il popolo tedesco era divenuto unito, forte e potente. Ma il senso della libertà, dell'indipendenza personale, della giustizia e dell'umanità era stato fatalmente indebolito dal governo del grande statista, dalla sua politica utilitaria e realistica. Non fu quindi un semplice caso se la sua opera non riuscì duratura e se la corona prussiana e la dinastia degli Hohenzollern, da lui innalzate a una potenza mai prima raggiunta, vent'anni soltanto dopo la sua morte andarono in rovina.

E. Eyck, Bismarck, Einaudi, Torino 1950, p. 400.

Il mantenimento della pace in Europa non era certo lo scopo principale della politica estera di Bismarck, interessato piuttosto all'isolamento della Francia e all'affermazione dell'egemonia tedesca nel continente. Tale è il giudizio di Enzo Collotti.

L'ipotesi che Bismarck mirasse a mantenere in Europa un equilibrio immobilistico fine a se stesso sostenuto da taluni interpreti squisitamente diplomatici [ ... ] appare oggi difficilmente accettabile. Sono proprio gli elementi costitutivi di questo equilibrio apparentemente immobilistico che confermano come esso non rispondesse astrattamente a un ideale di conservazione della pace in Europa, ma fosse viceversa destinato a tradurre l'esigenza dell'impero germanico di tenere la Francia isolata dopo la severa lezione di Sedan e nello stesso tempo di evitare aggregazioni di potenze che costringessero la Germania a prospettarsi una vigilanza non solo politica ma anche militare su due fronti [...]. Una valutazione dell'esigenza bismarckiana di evitare alleanze che potessero ritorcersi contro l'impero germanico in chiave puramente di conservazione dell'equilibrio esistente appare scarsamente credibile e realistica. Per Bismarck, la conservazione della pace in Europa si inquadrava in una prospettiva più lungimirante ed in una valutazione più realistica degli interessi germanici: una guerra avrebbe compromesso troppo rapidamente il successo conseguito sulla Francia e l'obiettivo non soltanto di isolare quest'ultima, ma anche di contribuire a proiettarne gli interessi fuori del continente europeo. Spingere la Francia verso l'Africa (come sarebbe apparso evidente al momento della questione tunisina, 1881), entrava già da tempo nel gioco bismarckiano di promuovere gradualmente l'egemonia tedesca sull'Europa. La conservazione della pace non era dunque fine a se stessa, ma in determinate condizioni lo strumento essenziale per conseguire un risultato di portata ben più ampia.

E. Collotti, Congresso di Berlino, in Il mondo contemporaneo, "Politica Internazionale", Firenze 1979, p. 66.

 

L'Impero asburgico

Nella storia dell'Europa l'Impero asburgico ha una parte molto importante: mise ordine e pace in una zona dei continente dove s'incontravano popoli diversi per nazionalità, per lingua e per religione; fu pilastro essenziale dell'equilibrio internazionale; salvò la civiltà europea dall'attacco dei Turchi; con Maria Teresa e Giuseppe II fu lo Stato illuminato per eccellenza, che seppe ottenere l'attaccamento e la stima di Italiani, Ungheresi, Polacchi, Boemi e Croati. Vienna fu per lungo tempo il fulcro della politica e della civiltà europee. Nel XIX secolo, dopo le dure vicende con Napoleone, l'impero austriaco appare come svuotato delle sue capacità creative, delle sue risorse di governo e soprattutto di quell'intelligenza politica che nel lungo passato gli aveva suggerito le soluzioni più adatte alle esigenze dei tempi, non è più un'istituzione aperta e dinamica, sembra essersi fermato e non capire più lo scorrere dei tempi e delle idee.
Metternich non solo non risolvette il problema di fondo dell'Impero, ma lo esasperò tramandandolo in termini più gravi. Né migliore sorte ebbero i tentativi di riforma di Francesco Giuseppe, l'imperatore che andò incontro all'isolamento politico nella guerra di Crimea, perse l'Italia e la Germania, si attirò l'opposizione della Russia e l'odio degli Slavi. Pertanto il fallimento dei tentativi riformatori compiuti dall'Impero per garantire la propria sopravvivenza rivela la profondità della crisi, ma anche la scarsa comprensione dei suoi motivi di fondo e l'incapacità di trovare soluzioni adeguate. Enzo Collotti mostra come il predominio politico della nazionalità germanica, caratteristica specifica dell'Impero, sia stato un fattore di conservazione difficilmente modificabile.

È vero in buona parte che l'elemento tedesco non aveva praticato nella tradizione austriaca una politica deliberatamente prevaricatrice, ma non era per questo meno vero che le leve dell'amministrazione, della direzione culturale e del potere economico si trovavano in mano all'elemento austro-tedesco, perché lo stato moderno in Austria, quale era uscito dalle riforme settecentesche, era stato forgiato dalla dinastia asburgica come stato dell'elemento fondamentalmente tedesco.

E. Collotti, L'impero austro-ungarico, in Il mondo contemporaneo, "Storia d'Europa 1", cit.

Ernesto Sestan affronta il problema della crisi dell'Impero asburgico, mostrando come gli elementi costitutivi della struttura politica, esercito, clero, alta aristocrazia fondiaria, burocrazia fossero ormai inadeguati a reggere una trasformazione in senso moderno dello Stato. La coscienza nazionale delle differenti etnie presenti nell'Impero era ormai una nuova realtà che minava dall'interno la compattezza e la solidità dell'organismo politico.

Si deve riconoscere che se la monarchia asburgica non riusciva a tener dietro alle altre monarchie nell'unificazione dello stato, ciò era dovuto non principalmente a incapacità dei sovrani e dei governanti, ma a una serie di difficoltà interne che gli altri stati non conoscevano o conoscevano solo in piccola misura [...] Innanzi tutto, si sa, la pluralità nazionale, non un grosso ostacolo fino a tutto il '700, divenne un ostacolo sempre più grosso, insormontabile, via via che anche le nazionalità fino allora più trascurate e addirittura obliose di sé, sloveni [...] o illirici come si dissero in principio, o ruteni di Galizia, eccetera, prendevano coscienza della loro individualità nazionale e cominciavano a lottare per liberarsi dalla coltre universale del germanesimo amministrativo [...]. Per onestà di storici non si possono non riconoscere le tremende difficoltà che ogni statista austriaco – senza confronto con statisti di altri paesi – incontrava ad ogni passo, quando si scostasse dal troppo comodo, ma a lungo andare insostenibile sistema assolutistico, basato sulle colonne tradizionali dell'Impero: esercito, clero, alta aristocrazia fondiaria, burocrazia, ivi compresa la polizia, e il sentimento ed attaccamento dinastico che le comprendeva tutte.

E. Sestan, Le riforme costituzionali austriache del 1860-1861, Trieste 1960.

Così, dopo molti ostacoli e ritardi, i fautori più avanzati d'una riforma federale dovettero attendere la dura sconfitta di Sadowa per ottenere il compromesso del 1867 che istituiva la monarchia austro-ungarica.

Questa curiosa istituzione – commenta Fisher – ebbe una certa durata soltanto perché conferiva uguali poteri alle due razze più forti dell'Impero: la tedesca e la magiara. Nella Cisleitania, comprendente le diciassette province dell'Austria, dominavano i tedeschi, nella Transleitania (Ungheria, Croazia, Slavonia, Transilvania e alcune regioni di frontiera) i magiari. «Occupatevi dei vostri barbari» disse l'ungherese Andrassy al tedesco Beust «e noi ci occuperemo dei nostri» [...] Il compromesso non fu accordo tra due popoli e due governi, ma un contratto concluso separatamente dall'Austria e dall'Ungheria con la casa sovrana d'Asburgo. Legate da questo inceppante compromesso, le due tendenze autonome passarono attraverso 50 anni di tempeste: comprendendo che da quando i cannoni prussiani le avevano cacciate dalla Germania e da Venezia, il loro avvenire era ormai a sud-est, si tuffarono sempre più profondamente nel vortice balcanico, mentre a garanzia della loro accresciuta efficienza adottavano i principi di governo parlamentare, ormai invalsi nell'Europa occidentale. Il compromesso però non risolveva il problema fondamentale dell'Impero, anzi lo esasperava. Sotto il giogo delle due razze dominanti, si agitava il mondo irrequieto e sotterraneo degli slavi. I Cechi della Boemia, gli Slovacchi, i Croati e i Serbi dell'Ungheria non potevano sopportare la bella combinazione che aveva affidato il destino dell'Impero austriaco all'orgogliosa aristocrazia magiara e ai nobili e borghesi austriaci di lingua tedesca. La popolazione slava della duplice monarchia era stata sempre separata dalla posizione geografica, da diversità di lingua e di costumi e da profonde differenze religiose; mal s'accordavano i Cechi con gli Slovacchi, gli Slovacchi con i Serbi e questi con i Croati e cogli Sloveni.

H. A. L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari 1938, vol. III.

Secondo lo storico italiano P. Verley, però, anche l'Ausgleich austro-ungarico del 1867 non fu in grado di risolvere i gravi problemi delle nazionalità che continuavano a scuotere l'edificio imperiale. Il "compromesso" fu infatti, per Verley, la naturale conseguenza della disfatta militare di Sadowa, che aveva umiliato la potenza militare di Vienna e aveva costretto il governo asburgico a venire a patti con l'etnia ungherese, la seconda dell'Impero dopo quella tedesca. Il tentativo del 1867 ottenne il risultato di ritardare soltanto la disgregazione della duplice monarchia: essa si sarebbe consumata all'indomani della ben più grave sconfitta militare subita nella prima guerra mondiale. Molti aspetti restarono infatti irrisolti: l'Ausgleich non prevedeva il ricorso al suffragio universale, ragione per cui l'Impero asburgico, anche se suddiviso in due aree etniche e geografiche distinte, non perse il suo connotato autoritario, in ciò simile alla Germania degli Hohenzollern. Le nazionalità dell'Impero non videro poi accolte le loro rivendicazioni: la divisione in Cisleitania (parte dell'Impero a prevalente etnia tedesca e controllata da Vienna) e Transleitania (parte dell'Impero a prevalente etnia magiara e slava e controllata dalla corte di Budapest) arrivò a soddisfare la sola popolazione ungherese. La sua dominazione nei confronti degli Slavi della penisola balcanica si rivelò altrettanto oppressiva di quella tedesca.

La Patente del febbraio 1861 era stata un insuccesso. Fin dall'inizio del 1865 Francesco Giuseppe pensò pertanto a una soluzione dualistica del problema delle nazionalità soggette, ossia a un'intesa con gli Ungheresi per continuare a contenere gli Slavi. Egli entrò in relazione con i magnati ungheresi, con personalità rappresentative come il conte Gyula Andrássy; all'Ungheria fu tolto lo stato d'assedio e la Dieta, in cui aveva la maggioranza il capo del partito liberale Ferenc Deák, poté tornare a riunirsi. Furono avviati negoziati fra il governo austriaco e la Dieta ungherese al fine di pervenire a un nuovo statuto che riconoscesse la costituzione ungherese del 1848. I negoziati si impantanarono allora in dettagli procedurali; solo la guerra austro-prussiana, mettendo il governo austriaco in una situazione di inferiorità, ne accelerò la conclusione. Deák si era rifiutato di aderire all'appello di Bismarck, che voleva far sollevare gli Ungheresi contro Francesco Giuseppe, e se l'Ungheria non fornì un solo soldato all'esercito imperiale, almeno non sfruttò la situazione, forse per timore di dare l'esempio alle altre nazionalità dell'Impero, avviando così un processo di disintegrazione. Quindici giorni dopo Sadova, Francesco Giuseppe chiamò Deák a Vienna e accettò il suo piano. Il Compromesso del 17 febbraio 1867 definì un nuovo dualismo, che andò molto oltre quello della Prammatica Sanzione.
La Monarchia asburgica era ora divisa non più in due parti bensì in due Stati distinti ed eguali, la Cisleitania (Austria, Galizia, Boemia, Moravia, Bucovina, Dalmazia) e la Transleitania (Ungheria, Transilvania, Slovacchia, Croazia), separate dal corso del fiume Leitha. I due Stati erano monarchie costituzionali; le loro costituzioni erano diverse pur presentando numerose somiglianze: in entrambi i casi il potere legislativo era esercitato da due Camere, una Camera dei Signori, o dei Magnati, composta da membri ereditari o nominati a vita dal sovrano, e una Camera dei Rappresentanti eletti in base a un suffragio censitario assai restrittivo. Un legame più stretto era nondimeno previsto fra i due Stati a causa dell'esistenza di interessi politici ed economici comuni. Essi avevano pertanto in comune tre ministeri: quello degli Esteri, che rappresentava la «Monarchia austro-ungarica», quello della Guerra e quello delle Finanze, che disponeva di risorse messe a disposizione per il 70% dall'Austria e per il 30% dall'Ungheria. I tre ministri comuni erano nominati e revocabili dall'Imperatore; due delegazioni parlamentari erano incaricate di controllarli. Infine un accordo temporaneo di dieci anni, rinnovabile, regolava i problemi economici comuni: dogane, ferrovie, moneta.
Questo compromesso avrebbe consentito alla monarchia austro-ungarica di rinviare di mezzo secolo il momento della sua disintegrazione. Esso consisté in una spartizione delle minoranze slave fra le due nazionalità più numerose, ma, all'interno di ogni Stato, si sarebbero ormai posti gli stessi problemi delle nazionalità. [...] La Monarchia austro-ungarica aveva dunque evitato il peggio nel 1866-1867, ma i problemi fondamentali erano stati solo procrastinati. Se la Monarchia, nel 1867, appariva rafforzata, essa non apparteneva ormai più all'Europa Occidentale bensì all'Europa balcanica.

P. Verley, La duplice monarchia austro-ungarica, in Storia Universale Feltrinelli, vol. XXVII, Feltrinelli, Milano 1975.

 

La Russia nella prima metà dell'Ottocento

Nicola I, salito al trono dopo la morte di Alessandro I, represse la rivolta liberale del 1825, scoppiata nell'esercito, e cercò in ogni modo di rafforzare lo Stato autoritario, rendendo più efficace e più dura la repressione contro le idee di libertà e di democrazia che si erano diffuse nelle élite colte russe fin dal secolo precedente. Lo storico Marc Raeff così presenta l'azione politica svolta dallo zar.

L'amministrazione della polizia fu riorganizzata, e dotata di una rete di agenti segreti e di un efficace apparato di repressione, il Corpo dei gendarmi, subordinato alla Terza Sezione della Cancelleria privata di Sua Maestà Imperiale. L'insediamento di questo apparato poliziesco ha permesso a certi giornalisti e «storici» di scrivere che Nicola I ha anticipato il totalitarismo; un giudizio anacronistico se mai ce ne furono, giacché al sistema di Nicola faceva difetto la caratteristica essenziale del totalitarismo: un'ideologia. È vero che il governo fece qualche debole tentativo, peraltro con scarso successo, di costituirsi una sorta di teoria, o, meglio, una legittimazione intellettuale con la famosa «trinità» di Uvarov, il ministro dell'Educazione: ortodossia, autocrazia, nazionalismo integrale (o populista). Ma a parte i modesti servizi che poteva rendere alla censura, la formula non ebbe alcuna presa sugli ambienti colti, e neppure sulle élites governative. Ciò dimostra, se ce ne fosse bisogno, l'impossibilità per un regime tradizionalista e conservatore di darsi un'ideologia nell'accezione moderna del termine, e l'incapacità del governo russo a giustificare la sua politica mediante concezioni e idee teoriche chiare e coerenti. D'altra parte, il governo di Nicola I si adoperò energicamente a impedire che le nuove idee politiche liberali penetrassero nel paese, e che lo spirito critico si propagasse tra il pubblico istruito. La censura divenne severissima: tutte le espressioni sospette, suscettibili di venir interpretate come una critica negativa della situazione esistente nel paese, furono proscritte. Divenne più difficile importare pubblicazioni estere [ ... ]. Analogamente, le autorità impedivano nella misura del possibile ai russi di viaggiare in Europa, e la polizia sorvegliava da vicino tutti i viaggiatori. In compenso, gli studenti venivano regolarmente inviati all'estero (soprattutto in Germania) per perfezionare i loro studi; e numerosi giovani intellettuali in erba poterono circolare in Europa e frequentarvi corsi pubblici nelle università (basta pensare alle biografie di uno Stankevic, di Granovskij, di Bakunin, di Botkin, ecc.). E se Herzen ebbe delle difficoltà a ottenere il permesso di recarsi all'estero, esso gli fu però alla fine accordato (e, ciò che più conta, con un trasferimento di fondi). Infinitamente più grave, per le conseguenze che ebbe, fu il rifiuto di autorizzare la pubblicazione di nuovi giornali e periodici. Dopo il 1848 divenne praticamente impossibile fondare una rivista o un giornale; e quelli che già esistevano furono sottoposti a una censura sempre più rigida e repressiva.

M. Raeff, La Russia degli zar, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 141-142.

Raeff non si limita tuttavia a delineare la figura dello zar come artefice di un più forte Stato autoritario, ma ne mette in luce anche gli aspetti fortemente innovatori. Le stesse riforme di Alessandro II furono in certo qual modo elementi di rinnovamento, ma incontrarono l'insuccesso dovuto soprattutto all'apparato burocratico estremamente arretrato del Paese e anche alla mancanza di alleanze sociali: infatti la frattura con le classi colte e con i nuclei della borghesia imprenditoriale toglievano alle riforme la possibilità di agire come veicolo di un autentico processo di modernizzazione del Paese, rendendo insostenibile il peso della mancanza delle fondamentali libertà civili e politiche.

Il metodo e le grandi linee di riforme di Alessandro II erano stati elaborati sotto il regno di Nicola I. Certe riforme, o tentativi concreti di riforma, erano stati anzi intrapresi in quegli anni. Com'è ben noto, questo impegno riformatore toccò il ministero del Demanio e la riorganizzazione amministrativa dei contadini di Stato, la politica scolastica [...], la riforma dell'amministrazione municipale di Pietroburgo, che nel 1864 servirà di modello, la «codificazione» delle leggi, il risanamento delle finanze, l'incoraggiamento dato ai primi passi dell'industrializzazione. Il governo di Nicola sembrava addirittura pronto a coronare tali sforzi con una trasformazione delle basi del regime sociale ed economico del paese moventesi su due direttrici: abolizione del servaggio, e ristrutturazione dei due principali aspetti — amministrazione e giustizia — della vita locale. E tuttavia, un siffatto programma di riforme era gravemente in ritardo [...]. Perché riuscisse, lo si sarebbe dovuto attuare senza indugi. Ma sincronizzare la Russia con quella ch'era l'ora dell'Europa nella seconda metà dell'Ottocento, e realizzare infine la visione di Pietro il Grande in un mondo che non era più il suo, era un compito titanico. Si è talvolta tacciata la politica riformatrice legata da Nicola I ad Alessandro II di bismarckismo avanti lettera. Ma è giocoforza osservare che si sarebbe trattato di un bismarckismo più radicale. Con l'assistenza di una burocrazia rinnovata e professionalizzata, lo Stato avrebbe gettato le fondamenta di una società moderna.

M. Raeff, La Russia degli zar, cit., p. 148.

 

Le riforme di Alessandro II

L'abolizione della servitù della gleba fu opera dello zar Alessandro II nel 1861. Grazie a una serie di decreti imperiali i contadini acquistarono la libertà personale e la parità giuridica con gli altri cittadini e, contemporaneamente, ebbero la possibilità di riscattare le terre che coltivavano. Una riforma di tal genere, com'era prevedibile, suscitò opposizioni molto dure e resistenti. Così lo zar dovette rafforzare quello stesso apparato repressivo che era uno degli elementi più criticabili della sua politica, allontanandosi ancor più da quel movimento liberale e costituzionale che ormai aveva conquistato tutti gli Stati europei.
Così M. Raeff descrive l'inevitabile contraddizione dell'opera riformatrice di Alessandro II.

Benché desiderata dalla grande maggioranza, la riforma chiave, l'abolizione del servaggio, suscitò anche, all'atto pratico, una massiccia opposizione e numerose critiche. Bisognava spezzare questa opposizione; e ciò era possibile soltanto facendo appello all'autorità autocratica dello stesso imperatore. Il che implicava la conservazione, e anzi il rafforzamento dell'autorità autocratica personalizzata, se non addirittura la resurrezione, per dir così, di questa vecchia tradizione politica russa. Nello spezzare l'opposizione al suo programma riformatore, l'autorità autocratica attingerà i suoi strumenti e i suoi metodi all'arsenale dello Stato di polizia burocratico, sia pure illuminato. Ne segue che le stesse contraddizioni e gli stessi paradossi che avevano da sempre caratterizzato un tal metodo di governo ricompaiono fatalmente, in maniera ancor più acuta, a metà dell'Ottocento. Non si trattava infatti soltanto di avviare la trasformazione di una società tradizionale, ma di insediare una società civile moderna ed un sistema economico fondato sull'industrializzazione e sugli scambi internazionali su grande scala. Ora, nella maniera in cui le riforme furono introdotte sotto Alessandro II si scorgevano chiaramente le tracce del paternalismo dell'ancien régime [...] propria del modello [...] del Settecento. Forzatamente, si fece ricorso quasi esclusivamente alla burocrazia professionalizzata, cui vennero ad aggiungersi i quadri usciti di fresco dalle università e dagli istituti scientifici, ossia un'élite tecnocratica a tendenza didascalica e autoritaria.

M. Raeff, La Russia degli zar, cit., p. 156.

La riforma, secondo gli storici, presentava grossi e gravi difetti. Il problema sociale russo non richiedeva soltanto l'abolizione della schiavitù, esigeva anche la distribuzione delle terre, che incontrava l'opposizione più intransigente dei nobili.

Lo zar — scrive Lo Gatto — escogitò un compromesso, una via di mezzo per contenere contadini e proprietari insieme, ma finì con lo scontentare tutti e due: abolì la schiavitù e concesse soltanto un terzo delle terre, ad altissimo prezzo e organizzate nel Mir o comunità di villaggio. La soluzione non poteva soddisfare il contadino, il quale riscattando il suo lotto di terra con l'obbligo di pagarne il prezzo in 49 anni al governo, non ne acquistava il diritto di proprietà come persona ma come membro del Mir. Ciò significava la continuazione della sua dipendenza, tanto più grave, in quanto che al Mir con la riforma erano deferiti i diritti di polizia, di cui disponeva prima il proprietario, e contro i contadini inadempienti potevano essere prese le misure più severe, come i lavori forzati, l'esilio in Siberia e simili. In breve il Mir divenne uno strumento di oppressione perché si trasformò in un certo senso in strumento di fisco che aveva il diritto di rivalersi su tutta la comunità per l'inadempienza di uno dei suoi membri.

E. Lo Gatto, Storia della letteratura russa, Sansoni, Firenze 1946.

 


L'unificazione in Italia e in germania

 

 

 

 

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