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la restaurazione

 

 

FONTI

 

La Carta costituzionale di Luigi XVIII di Francia

Nel 1814 Luigi XVIII di Borbone, fratello di Luigi XVI, riottenne il trono: la monarchia francese era così ripristinata, dopo l'esperienza rivoluzionaria e l'epopea imperiale. Il nuovo sovrano, consapevole della delicata situazione venutasi a creare nel Paese e abilmente consigliato dal suo ministro degli Esteri, il principe di Talleyrand, decise di tentare la strada della mediazione fra restaurazione dell'Antico Regime e mantenimento di alcune conquiste della Rivoluzione. Esito di questo fragile equilibrio fu la Charte octroyée, o "Carta concessa", del giugno 1814. Con essa il sovrano da un lato riaffermava il carattere divino assoluto della sua autorità (egli si proclamava infatti «re di Francia» e non «re dei Francesi»), dall'altro veniva incontro alle istanze di coloro che chiedevano il mantenimento di alcune delle più importanti conquiste della stagione rivoluzionaria. La nuova Carta costituzionale configurava un Parlamento bicamerale eletto a suffragio rigidamente censitario; inoltre conservava in vita buona parte dell'apparato burocratico e amministrativo creato dalla prima stagione rivoluzionaria (la fase liberale del 1789-91) e perfezionato da Napoleone. La Costituzione rappresentava dunque un faticoso compromesso tra vecchio e nuovo; immagine della situazione di grande difficoltà nella quale s'inserì il ritorno, sul trono di Francia, degli ultimi esponenti della dinastia borbonica.

La Divina Provvidenza, col richiamarci nei nostri Stati dopo una lunga assenza, ci ha imposto dei grandi obblighi. La pace era il primo bisogno dei nostri sudditi: ce ne siamo occupati senza indugio; e questa pace tanto necessaria alla Francia come al resto dell'Europa è firmata. Una Carta costituzionale era richiesta dall'attuale stato del Regno; noi l'abbiamo promessa e la pubblichiamo. Abbiamo considerato che, benché l'autorità tutta intiera risiedesse in Francia nella persona del Re, i nostri predecessori non avevano avuto esitazione a modificarne l'esercizio, a seconda della diversità dei tempi; così i Comuni hanno dovuto il loro affrancamento a Luigi il Grosso, la conferma e l'estensione dei loro diritti a san Luigi e a Filippo il Bello; l'ordine giudiziario è stato stabilito e sviluppato dalle leggi di Luigi XI, di Enrico II e di Carlo IX; e infine Luigi XIV ha regolato quasi tutte le parti dell'amministrazione pubblica con varie ordinanze la cui saggezza non era ancora stata superata. Noi abbiamo dovuto, sull'esempio dei Re nostri predecessori,, apprezzare gli effetti dei progressi sempre crescenti dei lumi, i nuovi rapporti che questi progressi hanno introdotto nella società, la direzione impressa agli spiriti da un mezzo secolo e le gravi alterazioni che ne sono risultate; abbiamo riconosciuto che il voto dei nostri sudditi per una Carta costituzionale era l'espressione di un bisogno reale; ma cedendo a questo voto abbiamo preso tutte le precauzioni perché questa Carta fosse degna di noi e del popolo che siamo fieri di comandare. Uomini savi, scelti nei primi corpi dello Stato, si sono riuniti a dei commissari del nostro consiglio per lavorare a questa importante opera. Nello stesso tempo che riconoscevamo che una Costituzione libera e monarchica doveva soddisfare l'attesa dell'Europa illuminata, abbiamo dovuto pure ricordarci essere nostro primo dovere verso i nostri popoli di conservare, per il loro proprio interesse, i diritti e le prerogative della nostra Corona. Abbiamo sperato che istruiti dall'esperienza fossero convinti che solo l'autorità suprema può dare agli istituti da essa stabiliti . forza, la permanenza e la maestà di cui cosa stessa è rivestita; che quindi, quando la saggezza dei Re si accorda liberamente col voto dei popoli, una Carta costituzionale può essere di lunga durata; ma che, quando la violenza strappa delle concessioni alla debolezza del Governo, la libertà pubblica versa in pericolo non minore dello stesso trono. Infine, abbiamo cercato i principi della Carta costituzionale nel carattere francese e nei venerandi monumenti dei secoli passati. [...]
Sicuri delle nostre intenzioni, forti della nostra coscienza, ci impegniamo, davanti alla Assemblea che ci ascolta, ad essere fedeli a questa Carta costituzionale, riservandoci di giurarne il mantenimento, con una nuova solennità, davanti agli altari di Colui che nella medesima bilancia pesa i re e le nazioni. Per questi motivi, noi abbiamo volontariamente, e per il libero esercizio della nostra autorità reale, accordato ed accordiamo, fatto elargizione e concessione ai nostri sudditi, sia per noi che per i nostri successori, e per sempre, della seguente Carta costituzionale.

Luigi XVIII, in G. Galasso, Critica e documenti storici, Martano, Napoli-Firenze 1972, vol. III, pp. 130-131.

 

Il patto della Santa Alleanza

Capolavoro del ministro degli Esteri austriaco Metternich, principale ispiratore delle scelte politiche dell'imperatore asburgico Francesco II, fu il patto della Santa Alleanza. Esso venne elaborato in margine al Congresso di Vienna e ottenne la partecipazione entusiastica dello zar Alessandro I e il sostegno di Austria, Prussia e (dopo il 1817) Francia. Il patto si configurava come un appello, dai contenuti piuttosto generici e confusi, avanzato in nome dei valori cristiani sovvertiti dalla Rivoluzione francese, al sostegno reciproco fra le principali potenze europee. Dietro i toni e gli accenti tipicamente paternalistici, la Santa Alleanza nascondeva una chiara volontà conservatrice: gli aderenti erano accomunati dal rifiuto dell'eredità rivoluzionaria e dal desiderio di mantenere immutato l'assetto politico appena ripristinato a Vienna. R ministro austriaco e gli altri sovrani si rendevano perfettamente conto che un simile delicato equilibrio sarebbe rimasto lettera morta se non fosse stato supportato da un quadro di alleanze militari destinato a prevedere anche l'intervento diretto nella vita dei singoli Stati.
Bersaglio della polemica di liberali e rivoluzionari di tutta Europa, la Santa Alleanza rappresentò lo strumento attraverso il quale la carta politica di Vienna e i rapporti di forza che essa sottintendeva rimasero sostanzialmente inalterati fino al 1848.

In nome della santissima ed indivisibile Trinità.
Le loro Maestà, l'Imperatore d'Austria, il Re di Prussia e l'Imperatore di tutte le Russie, in seguito ai grandi avvenimenti che hanno segnato in Europa il corso degli ultimi tre anni, e principalmente alle grazie che è piaciuto alla Divina Provvidenza di spargere sugli Stati i cui governi hanno riposto in Essa sola la loro fiducia e la loro speranza, avendo acquistata l'intima convinzione che è necessario stabilire il cammino da seguire dalle Potenze nei loro reciproci rapporti, sulle sublimi verità che c'insegna l'eterna religione di Dio salvatore: Dichiarano solennemente che il presente atto ha per solo oggetto di manifestare al cospetto dell'universo la loro ferma determinazione di prendere per norma della loro condotta, sia nell'amministrazione dei loro rispettivi Stati, sia nelle loro relazioni politiche con qualunque altro governo, i precetti di quella santa religione, precetti di giustizia, di carità e di pace, i quali, lungi dall'essere unicamente applicabili alla vita privata, devono al contrario influire direttamente sulle risoluzioni dei prìncipi, e guidare tutti i loro passi, essendo questo il solo mezzo di consolidare le umane istituzioni, e di rimediare alle loro imperfezioni.
Di conseguenza le Loro Maestà hanno convenuto gli articoli seguenti:
Art. I. Conformemente alle parole delle Sante Scritture, le quali comandano a tutti gli uomini di riguardarsi come fratelli, i tre monarchi contraenti rimarranno uniti con legami di vera ed indissolubile fratellanza, e considerandosi come compatrioti, in qualunque occasione ed in qualunque luogo si presteranno assistenza, aiuto e soccorso; e considerandosi verso i loro sudditi ed eserciti come padri di famiglia, li guideranno nello stesso spirito di fratellanza da cui sono animati per proteggere la religione, la pace e la giustizia.
Art. 2. Di conseguenza, il solo principio in vigore, sia fra i detti governi, sia fra i loro sudditi, sarà quello di rendersi reciprocamente servizio, di manifestarsi con una benevolenza inalterabile le scambievoli affezioni da cui devono essere animati, di considerarsi tutti come membri di una medesima nazione cristiana, riguardandosi i tre Principi alleati, essi stessi, come delegati della Provvidenza a governare tre rami della stessa famiglia, cioè: l'Austria, la Prussia, e la Russia, dichiarando così che la nazione cristiana di cui Essi e i loro popoli fanno parte, non ha realmente altro sovrano se non quello a cui solo appartiene in proprietà il potere, perché in lui solo si trovano tutti i tesori dell'amore, della scienza e della saggezza infinita, cioè a dire Dio, il nostro Divin Salvatore Gesù Cristo, il Verbo dell'Altissimo, la parola di vita.
Le Loro Maestà raccomandano in conseguenza con la più tenera sollecitudine ai loro popoli, come unico mezzo di godere di quella pace che nasce dalla buona coscienza, e che sola è durevole, di fortificarsi ogni giorno di più nei principi e nell'esercizio dei doveri che il Divin Salvatore ha insegnato agli uomini.
Art. 3. Tutte le Potenze che vorranno solennemente approvare i sacri principi che hanno dettato il presente atto, e riconosceranno quanto importi alla felicità delle azioni già abbastanza agitate, che quelle verità esercitino da ora in poi sugli umani destini tutta l'influenza che lor appartiene, saranno accolte con altrettanta premura quanta affezione in questa Santa Alleanza.
Fatto in triplo e sottoscritto a Parigi, l'anno di grazia 1815, il 14-26 settembre.
FRANCESCO FEDERICO GUGLIELMO ALESSANDRO

C. Metternich, in G. Galasso, Critica e documenti storici, cit., vol. III, pp. 132-133.

 

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

 

Il Congresso di Vienna

Il Congresso di Vienna è stato variamente considerato dai contemporanei, legittimisti e conservatori come De Maistre o de Bonald, liberali come Sismondi, democratici come Compagnoni. I primi l'accusavano di non aver attuato integralmente il legittimismo, la concezione patrimoniale dello Stato, la rivalutazione della religione; i liberali sostenevano che esso aveva violato i nuovi principi di nazionalità e di libertà, ponendo così le premesse di una nuova rivoluzione, e i democratici, guardando con ammirazione all'America, rilevavano la differenza tra un Paese incamminato a un bell'ordine sociale congiunto al benessere e una corrotta Europa, dove vigeva un'educazione artificiosa e antiquata, che invecchiava gli uomini.
Man mano che il Risorgimento si attuava nelle forme degli Stati nazionali italiano e tedesco, la storiografia ottocentesca con Tivaroni e con Treinschke accentuò la sua visione negativa della Restaurazione come fenomeno puramente reazionario. In seguito si è venuti a un'analisi approfondita e articolata delle varie correnti ideologiche e culturali, come dell'azione diplomatica e amministrativa svolta dai governi dal 1814 in poi. Ne è emerso un giudizio più sereno, che ha messo in luce i principi che hanno guidato il Congresso, le eminenti personalità di Metternich e di Talleyrand, le realizzazioni, pur incomplete, di tante speranze. A. M. Bettanini, storico diplomatico, dopo una frase di tutta condanna, secondo cui «il Congresso segnò la fine della guerra, non già della tirannia, poiché al dominio napoleonico si sostituì la dittatura sull'Europa delle quattro maggiori Potenze», valorizza l'opera di Talleyrand, rivolta a correggere il principio della forza in nome della legittimità delle conquiste.

La politica di Talleyrand, da lui seguita a scopo di pratico interesse, ebbe il suo lato di bontà perché risultò moralmente superiore al metodo, che pareva dovesse prevalere, della violenza. E il Congresso di Vienna poté così elaborare uno Statuto europeo dotato di una meravigliosa stabilità che costituì la legge fondamentale dell'Europa. Fu detto che la vitalità di queste disposizioni, che trovarono applicazioni per un secolo, fu dovuta al bisogno che l'Europa aveva di riposo. La legge della necessità superò dunque quella della fede giurata nei trattati. Questo motivo ha indubbiamente la sua importanza, ma non si può negare che la vitalità di quelle disposizioni derivò essenzialmente dal valore intrinseco di quei principi di diritto pubblico fissati a Vienna, che, nonostante l'opposizione di alcune potenze, che li ritenevano contrari alle loro convenienze, Talleyrand cercò, e in parte riuscì, a far trionfare [...]. E si può dire che il nuovo ordine europeo usciva col riconoscimento dell'uguaglianza degli Stati, per cui consacrava le regole relative agli agenti diplomatici, e le massime relative alla libera navigazione sui cosiddetti fiumi internazionali [...]. L'atto di Vienna consacrò i principi di solidarietà tra gli Stati; solidarietà economica attuata nelle commissioni fluviali e solidarietà ideale attuata nell'art. 118, che pronunciando l'interdizione del commercio degli schiavi salvaguardava gli interessi generali dell'umanità e della civiltà e preparava un fecondo terreno alle Convenzioni posteriori.

A. M. Bettanini, Il sistema degli stati europei dal 1492 al 1815, in Questioni di storia moderna, Mondadori, Milano 1958, pp. 307-310.

Uno storico attento soprattutto allo sviluppo dell'idea europeistica, come C. Curcio, vede nel Congresso un passo avanti in questo divenire nel nome del diritto, della religione, della pace. Per la prima volta era realizzato un sistema europeo, secondo una direttiva volontaria, cosciente e unitaria.

Riviveva in quel disegno e in quell'intendimento dell'Europa non solo un mondo che era stato esaltato fin lì come il più saldo, il più onesto, il più buono, un mondo che univa la fede e il diritto, l'ossequio ai grandi principi e ai grandi valori della vita e la dedizione a quel che è superiore, trascendente, immortale o ritenuto tale; ma riviveva o viveva per la prima volta la fiducia in una reciproca difesa, per cui i grandi avrebbero aiutato i piccoli e questi avrebbero seguito quelli, e la pace sarebbe regnata. Europa: si pronunciava questo nome senza sottintesi e con lealtà. Ogni stato, ogni dinastia si sentiva partecipe di una comunità che, a costo anche di non guardare molto lontano, credeva a se stessa, aveva il senso di se stessa; ogni Stato, ogni dinastia sapeva di essere una parte integrante di quel mondo che si componeva, dunque, di elementi vari, ma armonici o armonizzati.

C. Curcio, Europa — Storia di un'idea, Sansoni, Firenze 1958, vol. Il, pp. 561-564.

 

Eredità dell'Illuminismo cosmopolitico, ma anche del Romanticismo, che assumeva una fisionomia risolutamente nazionale nei vari popoli non rinnegando la comune aspirazione europea. Tali motivi sono visibili anche in Italia, dove pure il clima della Restaurazione fu particolarmente pesante, per il frazionamento politico e il predominio austriaco. I rapporti fra Italia ed Europa, fattisi più stretti nell'età rivoluzionaria, continuarono a svilupparsi in maniera complessa; se vi fu un'influenza negativa mediante l'azione repressiva dell'Austria in Italia, della Santa Alleanza e delle forze reazionarie e conservatrici europee in generale, vi fu pure un'influenza positiva che si manifestò in una serie di stimoli europei al nostro movimento nazionale.
Se tuttavia limitiamo il nostro esame al Congresso di Vienna quale fu, e non quale fu considerato o per quanto poté influire sugli avvenimenti successivi, dobbiamo riconoscervi presente una rivalità di concezioni sull'ordine europeo. Così nota acutamente lo storico inglese David Thomson.

L'alleanza tendeva a perpetuare la divisione politica dell'Europa in stati dinastici e insieme a cercare una soluzione per le dispute sorte fra questi stati e un'azione comune fra le maggiori potenze [...]. Nell'insieme la nuova sistemazione rifletteva una mescolanza di elementi d'unione e disunione. I principii del legittimismo, che furono alla base dell'organizzazione interna dei singoli stati, erano rafforzati dal progetto zarista di una Santa Alleanza, la quale, facendo appello al vecchio concetto della Cristianità unita, presupponeva una comunità di stati fondati sulle stesse basi, governati cioè dal legittimismo monarchico. Solo in un contesto pressoché uniforme di questo tipo, essa aveva possibilità di funzionare. Viceversa il principio della balance of power, che aveva determinato la nuova sistemazione territoriale, non presupponeva affatto monarchie orientate in uno stesso senso. Ammetteva anzi tensioni e rivalità fra i diversi stati, ed era applicabile alle loro relazioni per quanto diverse fossero le rispettive riunioni periodiche per conservare l'equilibrio in atto e risolvere gli eventuali contrasti fra le maggiori potenze, corrispondeva pienamente a questo concetto dell'equilibrio territoriale. Era inoltre compatibile anche con una diversità di regimi all'interno dei singoli paesi, e lasciava posto a tutte le possibili evoluzioni politiche. L'Inghilterra agì dunque secondo la logica sottoscrivendo la Quadruplice e non la Santa Alleanza e respingendo la tesi di un comune intervento negli affari interni, tesi che lo zar, dal suo punto di vista con eguale logica, sosteneva e proponeva.

D. Thomson, Storia d'Europa dalla Rivoluzione Francese ai giorni nostri, Mondadori, Milano 1961, pp. 91-97.

Lo storico americano E. V. Gulick individua, nell'ambito dell'attività diplomatica del Congresso di Vienna, alcuni elementi di novità e altri di richiamo alla tradizione diplomatica del XVIII secolo. Da una parte i plenipotenziari furono capaci, pur senza comprendere la novità rappresentata dai primi segnali del nazionalismo, di garantire all'Europa, per la prima volta dopo secoli, un lungo periodo di pace; gli assetti politici definiti a Vienna, nonostante alcune significative modificazioni, sarebbero rimasti validi, nella realtà dei rapporti di forza che essi configurarono, fino al 1914. Il merito dei diplomatici di Vienna fu di intendere l'Europa come una grande unità politica, l'equilibrio della quale sarebbe stato mantenuto solo in un quadro generale e globale. Legata alla tradizionale politica dell'equilibrio, invece, appare a Gulick la logica che imponeva la creazione degli Stati cuscinetto e la ricerca di una stabilità intesa come bilanciamento di forze. Tale strategia riproponeva le scelte già compiute in occasione delle guerre di successione settecentesche, senza tener conto delle novità che erano da allora intervenute.

Tutti dunque, eccetto Talleyrand, garantirono al proprio paese vasti acquisti territoriali. Talleyrand sostenne a tempo debito la restaurazione dei Borbone, con mille risorse riuscì a partecipare alle riunioni ristrette del congresso e, entro certi limiti, fu responsabile del recupero di parte della Sassonia. Qualunque possa essere il giudizio sui singoli contributi di questi uomini, ricchi di talento e di risorse, si dovrebbe osservare che essi, al contrario dei loro eredi del 1919, considerarono il continente come un'unità e ne studiarono i problemi come parti di un unico insieme internazionale. Come gruppo, essi sono stati a volte lodati per aver preparato un secolo di pace e più spesso criticati per non aver accettato con maggiore audacia il nuovo principio di nazionalità. Per quanto riguarda il primo punto, si può obiettare che, anche se non vi furono guerre mondiali, il secolo fu denso di guerre minori ma comunque importanti. Inoltre, il mancato scoppio di una guerra generale in Europa non può essere ragionevolmente attribuito agli accordi conclusi a Vienna e a Parigi nel 1814-15, dato che molte parti importanti di questi accordi subirono di lì a poco dei mutamenti. Quanto al secondo punto, va osservato che questi statisti, all'inizio di un'epoca di transizione, non erano ancora in grado di capire le nuove forze della democrazia e del nazionalismo. Nella Polonia del congresso, dove il principio di nazionalità venne applicato in misura notevole, gli accordi furono presto infranti.
I protagonisti del congresso si ispirarono comprensibilmente ai più familiari principi del sistema di equilibrio delle potenze. Nell'ambito di tale concezione essi condussero a termine una serie di abili operazioni e contribuirono tangibilmente a por fine alla tirannia napoleonica, a concedere all'Europa un momento di respiro e a dare alla Francia giuste frontiere. Inoltre, con la creazione di un sistema di conferenze, fecero compiere alla diplomazia un notevole passo avanti. D'altro canto, i loro esperimenti si rivelarono spesso inutili, transitori o pericolosi per la generazione successiva. Fatta eccezione per Alessandro, la loro mentalità fu rigidamente ortodossa: nessun atto politico o diplomatico uscì, in ultima analisi, dalla norma, o costituì un progresso durevole e veramente creativo. Come il secolo che si apriva doveva ben presto dimostrare, questi uomini capaci, queste personalità indubbiamente interessanti avevano servito l'Europa in modo solo limitatamente adeguato.

E. V. Gulick, L'ultima coalizione e il Congresso di Vienna (1813-1815),
in Storia del mondo moderno, vol. IX: Le guerre napoleoniche e la Restaurazione (1793-1830), Garzanti, Milano 1982, p. 802.

 

Le origini del Risorgimento

Premessa l'importanza delle riforme settecentesche e la vigoria d'accento di precursori come Carli e Alfieri, l'influenza della Rivoluzione francese fu più profonda in Italia che in molta parte d'Europa. Essa spazzò via le vecchie fondamenta della vita politica e creò le condizioni che avrebbero consentito la nascita di una nazione italiana. «L'Italia si avviò da un cosmopolitismo razionale a un nazionalismo liberale: il Risorgimento fuse la brama di felicità umana e di resurrezione dell'antica grandezza in un moderno spirito di nazionalità» (I. H. Kohn, L'idea del nazionalismo, La Nuova Italia, Firenze 1956, p. 611).
Anche Napoleone svolse il suo ruolo in tale sviluppo, se pure asservì l'Italia agli interessi francesi e ne avversò l'unificazione.

Egli introdusse fra di noi – scrive Ferrari – i due grandi principi rivoluzionari dell'eguaglianza e della costituzione e indirettamente ci fece un gran bene quale meraviglioso suscitatore di energie svegliando ciò che di grande dormiva in noi, dandoci l'esempio e la pratica del nuovo Stato moderno, insegnando la grande virtù della disciplina, con l'obbligare a combattere per una bandiera quelli che fino allora non avevano osato brandire un'arma od erano solo avvezzi alle miserabili risse degli odi individuali e campanilistici.

A. Ferrari, L'esplosione rivoluzionaria del Risorgimento, Mondadori, Milano 1925, p. 119.

In rapporto alla Restaurazione, il Risorgimento può ancora venire considerato come un'evoluzione o come una rivoluzione. Per la prima tesi propende Luigi Bulferetti, operando un allargamento del concetto di Restaurazione che include le principali correnti ideologiche da cui mosse il Risorgimento. Lo storico piemontese rivela come i principi restaurati abbiano conservato in buona parte le riforme napoleoniche accordandole con il principio di legittimità e con l'illuminato assolutismo settecentesco, le abbiano anzi allargate e adattate alle circostanze, contribuendo alla maturazione della coscienza civile e politica dei sudditi.
Gli uomini più importanti del Risorgimento si formarono del resto nel clima della Restaurazione, al quale vanno riportati molti elementi vitali del progresso italiano. Mentre le vecchie forze politiche si riducono a pochi centri e poche corti, l'idea nazionale si fa strada in Piemonte, in Lombardia come nelle due Sicilie, anche se l'ordine stabilito e sostenuto dalle truppe e dalla polizia non viene ancora intaccato. Sono gli stessi principi a largire riforme, aspirare all'espansione, offrire asilo agli esuli; gli antichi Stati allora si esauriscono veramente e la penisola acquista unità politica, oltre che culturale, e partecipa alle correnti ideali, «in modo non diverso da regione a regione, perché alcuni processi si compiono per gradi pressoché simili nei patrioti piemontesi, napoletani, lombardi, toscani» (I. L. Bulferetti, La Restaurazione, in Questioni di Storia del Risorgimento e della unità d'Italia, Mondadori, Milano 1951, p. 144).
In senso assai diverso vedono la Restaurazione altri storici di orientamento liberale e marxista, da Omodeo a Salvatorelli e a Candelore. Costoro considerano, cioè, l'età della Restaurazione come una parentesi involutiva che non solo frenò le spinte innovatrici, ma addirittura fece compiere alcuni passi indietro. Così scrive Salvatorelli.

L'Italia della Restaurazione, non solo è in regresso sostanziale rispetto alla precedente Italia rivoluzionaria, ma anche all'Italia napoleonica che pure era stata già essa una reazione. Napoleone, con tutto il suo dispotismo e in parte anche grazie ad esso, rimescolò tutto il vecchio mondo, portò nuove forze, nuovi ceti nel campo dell'azione pubblica e mantenne (nonostante le sue tendenze intime) il principio della sovranità popolare al posto dell'antico diritto divino. Le sue stesse necessità cesaree lo avevano costretto a mortificare, ma altresì ad eccitare, il fremito della vita nuova. Tutto questo venne meno con la Restaurazione.

L. Salvatorelli, Pensiero ed azione nel Risorgimento, Einaudi, Torino 1944, pp. 79-80.

Perfino rispetto al Settecento la Restaurazione rappresenta, agli occhi di Salvatorelli, un passo indietro: infatti, anche quando le singole conquiste del riformismo vennero mantenute, cambiò l'orientamento e lo spirito, venne a mancare la forza morale che aveva portato alle riforme, considerate ora come un punto d'arrivo oltre il quale non ci si poteva più spingere. Rispetto a quest'epoca reazionaria, il Risorgimento è totalmente rivoluzionario: volle abbattere e abbatté i molti principi per ridurre l'Italia a unità, trasse forza dalle idee di nazionalità, di libertà e di autodecisione dei popoli a scegliere il proprio destino. La Restaurazione per contro affermò fino all'ultimo il principio di legittimità, di assolutismo, sia pure paterno o illuminato, di privilegio nobiliare ed ecclesiastico, di intervento. Quindi si deve parlare di due principi opposti, tra i quali non può cogliersi un legame di sviluppo, bensì di scontro: in questa prospettiva il Risorgimento fu una vera rivoluzione sovvertitrice del recente passato, un moto che «ha la sua spina dorsale nella formazione di una coscienza nazionale come l'autocreazione della nazione da parte del popolo» (I. L. Salvatorelli, Pensiero ed azione nel Risorgimento, cit., pp. 92-96).
Pasquale Villani individua un rapporto di continuità tra Settecento riformatore, giacobinismo e Risorgimento.

Senza voler stabilire rigide correlazioni, è indubbio che le istanze liberali e costituzionali erano soprattutto sostenute da alcuni ambienti intellettuali e da esponenti dei ceti medi (esplicite erano in questo senso le accuse di Metternich), cioè dai nuovi strati di proprietari fondiari e di operatori mercantili e artigiani diventati più numerosi nella seconda metà del Settecento e nei primi decenni dell'Ottocento e maturati politicamente attraverso le esperienze dirette o indirette della Rivoluzione francese, della occupazione e delle guerre napoleoniche.
Nei paesi nei quali non vi erano libertà di stampa e garanzie costituzionali le aspirazioni liberali e costituzionali furono mantenute vive attraverso le società segrete, tra le quali la Carboneria ebbe un posto rilevante. L'incrocio – talora anche la confusione tra varie istanze e posizioni dottrinarie e politiche – poteva essere favorito dalle stesse forme occulte di queste associazioni in cui confluivano vecchie esperienze massoniche, reviviscenze giacobine, istanze egualitarie. Ciò spiega l'influenza che in esse ebbe un vecchio rivoluzionario, seguace di Babeuf, come Filippo Buonarroti.
Le punte più avanzate dello schieramento erano in primo luogo i giovani intellettuali, soprattutto studenti universitari e gli ufficiali e sottufficiali dell'esercito, i più anziani dei quali si erano formati nel clima della Rivoluzione francese e dell'impero napoleonico, i più giovani tra i fermenti del romanticismo.

P. Villani, L'età contemporanea, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 74-75.

 

La solidarietà delle potenze vincitrici

Durante il periodo napoleonico le grandi potenze europee avevano seguito la politica delle coalizioni, con lo scopo di contrastare con la guerra all'imperatore la conquista d'Europa. Dopo la sua sconfitta, esse costituirono una specie di "concerto" per difendere la pace e l'ordine stabiliti nel Congresso di Vienna. Nacquero così due organismi politici: la Quadruplice Alleanza (patto di Chaumont) tra Inghilterra, Russia, Austria e Prussia, e la Santa Alleanza tra Russia, Prussia e Austria. Caratteristica di tutti e due gli organismi era la solidarietà per mantenere lo status quo europeo, minacciato dalla Francia sconfitta e insoddisfatta e dall'aspirazione dei popoli all'indipendenza nazionale e alle libertà costituzionali.
È questione dibattuta tra gli storici se le due alleanze s'ispirarono a principi ideologici o a interessi pratici e concreti. I liberali sostengono che gli statisti europei, ben consci che i Tedeschi aspiravano all'unità nazionale, gli Italiani e i Cechi fremevano sotto il dominio austriaco, i Belgi sotto gli Olandesi, i Polacchi sotto i Russi, e gli Slavi e i Greci sotto i Turchi, nei trattati di Chaumont e della Santa Alleanza si accordarono per isolare e immobilizzare la Francia, «nazione rivoluzionaria» che alimentava l'anelito dei popoli all'indipendenza e alle istituzioni liberali.

Il tema politico di questo periodo — afferma Croce — è fatto consistere nell'opera ricostruttrice delle restaurazioni e della correlativa azione della Santa Alleanza, che doveva contrastare, ricacciare indietro e disperdere il moto liberale [ ... ], impedire la rivoluzione o trasformazione che si annunciava nei desideri e nelle domande di costituzioni, e nelle sette, cospirazioni e rivolte per ottenerle. I sovrani si consociarono e si promettevano appoggi per ispegnere i focolai rivoluzionari dovunque covassero o divampassero affinché dalla casa del vicino l'incendio non si attaccasse alla propria.

B. Croce, Storia d'Europa del secolo XIX, Laterza, Bari 1932.

Come nel 1918 — aggiunge Fisher — i popoli esausti dissero ad una voce: «Basta col militarismo prussiano», così nel 1815 i vincitori decisero tutti insieme che la rivoluzione francese doveva essere debellata per sempre ed ogni germe di liberalismo immediatamente soffocato, affinché non crescesse sino a diventare una perniciosa febbre rivoluzionaria. Dietro la tetra reazione, nota prevalente della politica continentale fino al 1848, si celava il ricordo della rivoluzione recente e l'ossessionante paura di un suo possibile rinnovarsi.

H. A. L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari 1938, vol. III.

Nei Congressi di Aquisgrana (1818), di Cartsbad (1819), di Troppau (1820), di Lubiana (1821) e di Verona (1822), il «concerto conservatore» soffocò l'anelito liberale e nazionale dei popoli insorti; nel 1833 nel Congresso di Münchengrätz trionfò contro la politica del non intervento di Luigi Filippo, nel 1835 con il convegno di Toeplitz s'affermò in Polonia e a Cracovia, nel 1840, con il patto tra Inghilterra, Russia, Prussia e Austria impose alla Francia la sua volontà di disinteressarsi dell'Egitto. Assolutismo e liberalismo si fronteggiano in Europa per tutto il periodo che va dal 1815 al 1848.
Metternich e Mazzini sono i rappresentanti di queste due opposte politiche: il primo vede la condizione della pace nell'ubbidienza cieca dei popoli ai prìncipi assoluti, indipendentemente dalla loro nazionalità, nella subordinazione di gran parte d'Europa agli Asburgo in uno spirito di collaborazione e di reciproca integrazione; il,secondo concepisce la pace e il progresso nell'ideologia opposta, nell'indipendenza e nella libertà delle Nazioni; l'Europa progredirà solo quando avrà distrutto l'Impero asburgico, carceriere delle Nazioni.

 

Due protagonisti del Congresso di Vienna: Metternich e Talleyrand

Non sono mancate le ricerche storiografiche sui grandi protagonisti del Congresso di Vienna. I giudizi sono spesso contrastanti sia sul piano più strettamente politico, sia su quello più personale, che si definisce attraverso difetti e qualità. Tra le figure che più hanno attirato l'interesse della storiografia troviamo Metternich e Talleyrand, il primo per il ruolo decisivo avuto nelle varie fasi del Congresso, il secondo per l'abilità con la quale seppe trattare gli interessi della Francia fino a inserirla nel concerto delle grandi potenze.
Lo storico austriaco Von Srbik, tra i più noti biografi di Metternich, delinea un ritratto dello statista decisamente positivo, facendo di lui il più grande rappresentante del principio di solidarietà tra gli Stati e dell'equilibrio europeo.

Il Metternich rappresenta l'eredità del pensiero supernazionale dell'epoca prerivoluzionaria [...] un credo che ha il diritto di ottenere il posto che gli spetta nella storia delle idee, dello Stato, della società, nella grandiosa lotta delle forze spirituali della storia moderna. Il Cancelliere non considerava gli Stati individualità isolate ma membri costitutivi della società internazionale, regolata da leggi che ne devono garantire l'ordine e la pace. I veri diplomatici avevano il compito di convincere i governanti che uno Stato isolato non esiste, che gli Stati formano una società, quasi una famiglia; un accorto diplomatico non deve mai perdere d'occhio gli interessi della comunità. La salvezza della società è nella solidarietà contro i tentativi del singolo, nel rispetto e nel riguardo reciproci. La solidarietà tra le grandi Potenze, stabilita a Vienna, per lui aveva lo scopo di salvaguardare l'ordine sociale interno ed esterno e perciò di combattere solidamente la rivoluzione, distruttrice dell'equilibrio di forze. Il dovere di solidarietà tra le grandi Potenze di conservare l'ordine sociale dava a ciascuna di esse il diritto di intervenire con autorità, con forza negli affari interni di uno Stato in quanto «senza autorità non vi può essere ordine e senza ordine non vi può essere vera libertà. La parola libertà non ha per lui il valore di un punto di partenza ma di un punto d'arrivo; il punto di partenza è l'ordine; solo sul concetto dell'ordine si può appoggiare quello di libertà». La funzione di suprema tutela dell'ordine ce l'ha soltanto la monarchia di diritto divino, pertanto il Metternich non accettava i principi della sovranità popolare, del costituzionalismo e della democrazia nei quali vedeva la sovranità delle fazioni. La democrazia per lui era la negazione dell'autorità, dell'ordine che solo l'autorità garantisce; era il prevalere della forza cieca del numero sulla forza illuminata della ragione; era lo scatenarsi degli appetiti compressi, anziché la serena interpretazione delle superiori leggi della natura.
In questo modo il Metternich assurge a rappresentante della ragione, che ha il dovere categorico di combattere l'emotività e l'irrazionalità delle masse, di costringerle alla ragione. Contro la tesi liberale egli elevò l'antitesi della sua teoria dell'ordine: alla dottrina individualistica della libertà contrappose la sua esigenza dell'autorità statale: al principio disgre- gatore della nazionalità contrappose la sua concezione della solidarietà e della società degli Stati: nel suo sistema, il Settecento compie l'ultimo sforzo per arginare le forze ch'esso stesso ha scatenato, e di cui il nuovo secolo si è impadronito.

F. Valsecchi, H. von Srbik e la sua concezione unitaria della storia tedesca, in "Rivista Storica Italiana", fasc. III, 1937.

Lo storico francese Jean-Baptiste Duroselle traccia un breve riepilogo della fortuna storiografica di Talleyrand, particolarmente esaltato dagli storici inglesi, in quanto, in ogni circostanza, appoggiò le scelte politiche dell'Inghilterra, fino a non opporsi all'insediamento della Prussia lungo il Reno. Questo fatto è invece, come è ovvio, visto come un segno grave di debolezza dagli storici francesi. Così Duroselle descrive l'arte diplomatica del ministro francese.

La sua abilità fu infinitamente superiore a quella di Metternich, benché, secondo l'ambasciatore Léon Noél, non all'altezza di quella del cardinal Consalvi. Seppe reintrodurre la Francia nel concerto europeo, salvare la Sassonia, ottenere il ritorno dei Borboni a Napoli al posto di Murat [...]. Tali successi si trasformarono in un'autentica leggenda, che egli d'altronde coltivò con cura e con consumata abilità. Il recente e notevole studio di Léon Noél rimette le cose a posto. Molti degli autori che hanno scritto su Talleyrand sono diplomatici, e tra questi numerosi diplomatici anglo-sassoni. Il diplomatico britannico sir Henry Bulwer nel 1868 scrive: «Talleyrand se ne sta a Vienna come se fosse ambasciatore del più gran re del mondo». Altri diplomatici inglesi, Duff Cooper, sir Harold Nicolson, parlano del suo «clamoroso trionfo a Vienna». Albert Sorel, nel 1892, e Sainte-Beuve l'ammirano nonostante i suoi errori. Tra i diplomatici francesi Maurice Paléologue e il conte di Saint-Aulaire, fanno la stessa cosa. Lo storico italiano Guglielmo Ferrero definisce la sua azione a Vienna come «il capolavoro della storia degli ultimi secoli» (Noél).
Certo, il suo principale storico, Lacour-Gayet, dà un giudizio molto più sfumato. Una delle critiche maggiori che gli sono state mosse è stata quella di avere attirato, con il pretesto di salvare la Sassonia, la Prussia sul Reno. Léon Noél nota che egli non ne fu responsabile, ma che non fece nulla per impedirlo (benché le sue istruzioni, redatte da lui, dicessero: «Bisogna impedire che i prussiani s'impadroniscano di Magonza o di qualunque pezzo di territorio a sinistra della Mosella»). «La verità — scrive Léon Noél — è che su questo problema essenziale, come su tutti gli altri che il congresso dovette affrontare, Talleyrand si sforza, dietro l'apparenza di altere dichiarazioni di principio, di appoggiare con tutto il suo potere la politica inglese». Pitt, Castlereagh e Wellington avevano tutti pensato che la Prussia sul Reno sarebbe stato il mezzo migliore per impedire alla Francia di conquistare Anversa. A quindi comprensibile che gli storici inglesi testimonino a ogni occasione un'infinita benevolenza per "Talley"».

J. A. Duroselle, Congresso di Vienna,
in Il mondo contemporaneo. Politica internazionale, Sansoni, Firenze 1979, vol. VII, tomo I, pp. 85-86.

 

La politica dell'equilibrio

Lo storico inglese A. J. P. Taylor ha escluso ogni "ideologia" dalla politica internazionale europea di questo periodo. Non ci sono state in Europa prima del 1848 "guerre di religione" tra Santa Alleanza e Rivoluzione, ma accordi e solidarietà fra grandi potenze solo per difendere i loro interessi concreti, pratici e immediati.

Le ideologie furono un tema minore e l'equilibrio delle potenze agi in base a calcoli puri, qua si come nei tempi precedenti la rivoluzione francese. Ne derivò che il secolo XIX, contrariamente a quanto si crede, non fu un'epoca di agitazioni e di sconvolgimenti, ma straordinariamente stabile nelle relazioni internazionali, se paragonata non solo al caos del secolo XX ma anche con i secoli che la precedettero [...]. Dei rivolgimenti di fortune che avvennero in questi secoli non ve ne furono nel secolo XIX, nonostante il suo presunto carattere rivoluzionario. Le grandi Potenze, che scatenarono la prima guerra mondiale nel 1914, sostanzialmente erano le stesse grandi Potenze del Congresso di Vienna.

A. J. P. Taylor, L'Europa delle grandi potenze, Laterza, Bari 1961.

Anche Gulick, al pari di Taylor, insiste sull'applicazione, da parte delle potenze riunite a Vienna, della politica dell'equilibrio. La riedizione delle strategie adottate in occasione delle guerre disputate nel corso del Settecento non permetteva che si mettessero a punto altri criteri di regolazione dei rapporti tra gli Stati, tra i quali, per esempio, il rispetto delle identità nazionali. Anche statisti di consumata esperienza come Talleyrand, fautori del ripristino sui troni dei "legittimi" sovrani, inserivano la loro proposta nel tradizionale quadro della restaurazione degli equilibri preesistenti, sovvertiti dalle armate napoleoniche. Il trionfo di questa concezione però non fu in grado di trovare, né volle farlo, un'adeguata risposta al problema delle nazionalità oppresse, un problema che sfuggiva all'ottica diplomatica tradizionale.

Nel suo complesso l'accordo, pur ingiusto sotto molti aspetti, incompleto in parecchi dettagli, destinato ad essere modificato di continuo, era tuttavia notevolmente coerente con l'ideale di ristabilire un equilibrio tra gli stati europei: rappresentò infatti l'ultimo grande trattato di pace in Europa coscientemente basato su quei principi dell'equilibrio dei poteri che presto la critica liberale ottocentesca avrebbe screditato. Tali principi, che avevano goduto di largo consenso e applicazione nel XVIII secolo, e di cui tra il 1792 e il 1814 si era fatto ampio abuso, avevano solo di recente ritrovato il loro posto nell'ambito della politica europea, come risulta dalle principali decisioni che portarono alla pace finale: la restaurazione dei Borbone, la moderazione della prima pace di Parigi, l'uso, a Vienna, di indennità reciproche nella distribuzione dei compensi, il concetto di una forte Europa centrale avanzato da Castlereagh, l'atteggiamento di Metternich nei confronti degli acquisti territoriali russo-prussiani, e la cauta moderazione della seconda pace di Parigi. I ripetuti rinnovi del trattato di Chaumont, che culminarono nella quadruplice alleanza, sottolineavano un concetto derivante da analoghe esperienze del passato e affrontavano, perfezionandolo, un metodo per salvaguardare l'equilibrio delle potenze. Il periodo 1814-15 è infatti uno dei migliori esempi dell'attuazione pratica del classico equilibrio europeo tra le potenze: innumerevoli documenti del tempo ne utilizzano la terminologia, azioni di ogni genere furono giustificate in termini di equilibrio, tutti quanti i progetti diedero corpo ai suoi concetti e ai suoi scopi.
La teoria dell'equilibrio, anche se dominò decisamente lo spirito del trattato di pace, non lo pervase in modo tale da escludere altre concezioni. La legittimità reclamava i suoi diritti, ma persino Talleyrand, che a Vienna la propugnò con così grande zelo, la considerava, nel contesto di una più ampia teoria dell'equilibrio delle potenze, come un elemento subordinato. Il principio di nazionalità, figlio violento e ribelle della rivoluzione francese, trovava i suoi campioni – soprattutto Stein per ciò che concerneva la politica tedesca e, limitatamente ai suoi progetti polacchi, Alessandro – ma, eccetto queste, non ottenne alcuna vittoria significativa. Il prin- cipio della ragion di stato, una delle motivazioni più ovvie delle potenze al congresso, rappresentò una costante attrattiva per i vari statisti. Cionondimeno, esso rimase generalmente subordinato all'equilibrio di potere; le richieste esorbitanti dei singoli potevano infatti venire fronteggiate da una resistenza congiunta degli altri governanti e statisti, soprattutto perché il fatto fondamentale nelle relazioni internazionali di quel periodo consisteva nella relativa parità di potenza di cinque stati, condizione nella quale nessuno poteva dominare gli altri.

E. V. Gulick, L'ultima coalizione e il Congresso di Vienna (1813-1815), cit., pp. 800-801.

Il fatto stesso che l'Inghilterra non aderì alla Santa Alleanza e preferì il terreno più concreto del patto di Chaumont, documenta che le grandi potenze dopo il 1815 non agivano al servizio di idee astratte, ma per i loro interessi. Con la Quadruplice Alleanza l'Inghilterra si proponeva di mantenere la tradizionale politica della bilancia delle forze e il suo dominio sui mari; con la Santa Alleanza Metternich cercò di affermare la preponderanza dell'Austria sul continente. Queste le vere ragioni per le quali la politica internazionale europea della prima metà del XIX secolo assunse, logicamente e non ideologicamente, un carattere immobilistico e conservatore. Il sistema della Santa Alleanza combatté i moti liberali e nazionali in quanto volevano modificare lo status quo stabilito a Vienna; la solidarietà tra Inghilterra, Austria, Prussia e Russia trovò la sua vera giustificazione nello scopo di impedire alla malcontenta Francia di modificare i trattati viennesi. L'Inghilterra appoggiò tutti gli interventi austriaci contro i moti rivoluzionari in Italia per impedire alla Francia di sostituirsi all'Austria e di modificare la situazione nel Mediterraneo; le potenze occidentali intervennero nella guerra d'indipendenza greca per non permettere alla Russia di rompere lo status balcanico a suo favore, e nel 1833, con il trattato di Múnchengrátz, si impegnarono a conservare inalterata la situazione in Polonia e in Turchia. Unanime fu la condanna da parte di Inghilterra, Austria, Russia e Prussia della politica del non intervento di Luigi Filippo, perché mirava a scardinare l'equilibrio in Polonia e in Italia.

La preoccupazione delle grandi potenze in questo periodo – conclude Taylor – non era effettivamente il vicino Oriente (dove non c'era urto deliberato d'interessi russi e austriaci, ma solo la paura che per isbaglio si scontrassero se avessero perso di vista gli altri pericoli) ma la Francia, impegnata costantemente a modificare i trattati di Vienna, e contro di essa impostarono tutti i loro piani strategici.

A. J. P. Taylor, L'Europa delle grandi potenze, cit.

Fino al 1850 le potenze vincitrici furono per la Francia come una camicia di Nesso: a ogni sua minima iniziativa esse sistematicamente erano pronte a immobilizzarla. Tutta la politica internazionale europea della prima metà del secolo è in questo contrasto: la Francia che mira a distruggere i trattati di Vienna; Inghilterra, Austria, Prussia e Russia che solidalmente glielo impediscono.
Più cauto e più attento E. Fueter si guarda bene dal generalizzare e ammette in ciascun Paese la prevalenza del motivo politico o ideologico a seconda delle particolari circostanze e interessi.

In realtà, nella politica internazionale fino al 1848 agirono contemporaneamente interessi concreti e motivi ideali ma in rapporti diversi da luogo a luogo. L'ideologia conservatrice prevalse in quegli Stati i cui istituti erano lontani dai principi di eguaglianza e di costituzionalità della rivoluzione. Perciò la crisi di paura determinata dal periodo parossistico della Rivoluzione francese ebbe massima durata nell'Austria, che incarnava nel modo più genuino l'ancien régime, ma è naturale che l'Inghilterra abbia abbandonato prima di altre grandi potenze il concetto che fosse assoluto dovere di tutti gli Stati combattere il pericolo rivoluzionario.

E. Fueter, Storia universale degli ultimi cento anni, Einaudi, Torino 1950.

Ciò spiega perché Metternich diede alla sua politica internazionale un carattere accentuatamente ideologico, di crociata, di "guerra santa" per la salvezza della civiltà contro la minaccia del pericolo liberale e nazionale, mentre l'Inghilterra si preoccupò soltanto dell'equilibrio delle forze e del predominio dei mari. Di conseguenza, essa fu meno incline delle altre potenze a subordinare le proprie finalità nazionali alla solidarietà conservatrice, si fece guidare esclusivamente non da una politica di principi ideologici, ma dagli interessi che potevano cambiare volta per volta; con Castlereagh appoggiò la Santa Alleanza, con Canning l'osteggiò, con Palmerston nel 1847 incoraggiò il movimento italiano per reazione all'intesa franco-austriaca, nel 1848 l'ostacolò per paura di un'espansione francese in Italia.
Tale politica, nota ancora Fueter, ebbe determinante importanza per il continente europeo.

L'atteggiamento della Gran Bretagna ebbe l'importante conseguenza che l'alleanza dei conservatori perdette la possibilità di disporre dell'unica grande potenza marittima. In tutti i casi in cui dei ribelli contro la legittimità potevano essere ridotti alla ragione solamente con l'aiuto di una grande flotta, la decisione dipese solo dall'Inghilterra. Se ora si considera che l'esito dei due casi di moti insurrezionali che le Potenze della Restaurazione lascia- rono senza soluzione — cioè la lotta di liberazione delle colonie ispano-americane e la insurrezione dei greci — fu deciso sul mare, è facile rendersi conto di che cosa praticamente abbia significato tale politica autonoma della Gran Bretagna.

E. Fueter, Storia universale degli ultimi cento anni, cit.

Ma anche la stessa politica ideologica della Santa Alleanza mascherava interessi concreti e pratici dell'Impero asburgico. Se fossero prevalse in Europa le idee di nazionalità e libertà, se fosse stata permessa a ogni popolo la propria indipendenza, l'Impero austriaco, composto da un mosaico di nazioni diverse per lingua, religione e razza, si sarebbe fatalmente sfasciato. Da qui la necessità di soffocare a tutti i costi i moti nazionali e liberali, sia pure in nome dell'ideologia.

 

Il principio di nazionalità

I principali avvenimenti politici, i moti carbonari, le guerre d'indipendenza greca, polacca, italiana e l'unificazione tedesca richiamano alla mente la grande forza del movimento nazionale dei popoli. Il principio di nazionalità, sorto in reazione al cosmopolitismo settecentesco, sancito solennemente nell'art. 3 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789, alimentato e poi soffocato da Napoleone, induce nell'Ottocento ciascun gruppo geografico, stretto da sentimenti di solidarietà linguistica, culturale ed economica, a costituire un'entità etnica, storica, politica ben definita con una fisionomia spirituale e con un proprio compito da svolgere nella comunità dei popoli. Le nazioni, come gli individui, sentono il diritto di essere libere, di avere governanti propri e liberali. La fede nella libertà, nell'indipendenza e nell'autodecisione delle nazioni diviene il più importante articolo del credo liberale per tutto il secolo e oltre. Da essa nacque l'opposizione irriducibile al settecentesco criterio del baratto dei territori e delle popolazioni, alle usurpazioni, al dominio straniero e a ogni intervento esterno. Ogni popolo tese a governarsi da sé, non accettò più di considerarsi dominio personale dei monarchi. Questo vivace senso della nazionalità spiega la rinascita degli studi, della lingua, delle tradizioni, della storia, propri del secolo, e aiutò efficacemente i popoli ad acquistare coscienza di se stessi, della loro individualità e dei loro diritti. In suo nome si condurranno le guerre d'indipendenza in Europa e nell'America latina; in suo nome l'Impero asburgico, antinazionale per eccellenza, sarà considerato il nemico dei popoli; Metternich, che lo sostiene, e Mazzini, che lo nega, sono gli antagonisti principali del secolo.

Nei popoli assoggettati dell'Europa e dell'America — scrive Benedetto Croce — si accesero speranze e si levarono richieste d'indipendenza e di libertà. E queste richieste si facevano più energiche e frementi quanto più si opponevano repulse e repressioni; e le speranze presto si ravvivavano, e i propositi si rafforzavano attraverso le delusioni e le sconfitte. Erano in Germania, in Italia, in Polonia, nel Belgio, in Grecia e nelle montane colonie dell'America latina, sforzi e moti di oppresse nazioni contro dominatori e tutori stranieri; o di nazioni e di mutilate membra di nazioni costrette all'unione politica con Stati che dovevano la loro origine e conformazione a conquiste, a trattati, a diritti patrimoniali di famiglie principesche, o di nazioni tenute scisse in piccoli Stati, che per siffatto sminuzzamento si sentivano impedite, fiaccate e rese impotenti alla parte che loro spettava di esercitare nella comune vita mondiale, e mortificate nella loro dignità di fronte alle altre unite e grandi.

B. Croce, Storta d'Europa del secolo XIX, cit.

Lo storico Federico Chabod attribuisce a Rousseau una chiara affermazione del principio di nazionalità, proprio quando il pensiero illuministico tendeva a esaltare l'universalismo dei caratteri comuni del genere umano, in una visione razionalistica e cosmopolitica della vita.

Per il razionalismo settecentesco le diversità dei costumi ecc. tra popolo e popolo sono un dato di fatto, di cui il legislatore deve tenere il debito conto, ma ch'è augurabile vadano sia pur lentamente attenuandosi in guisa da consentire sempre maggior influsso ai precetti generali, dettati dalla ragione, e da condurre ad una civiltà sempre più «illuminata», ma anche sempre più uniforme e poggiata su comuni principi; mentre per Rousseau la diversità è, più ancora che un dato di fatto attuale, una volontà di avvenire, nel senso che occorre sempre più salvaguardare non solo, ma, ove possibile, accentuare le diversità, le particolarità, ecc. Gli uni accettano uno stato di cose; l'altro vuole questo stato di cose.

F. Chabod, L'idea di Nazione, Laterza, Bari 1961, p. 45.

Secondo Chabod un altro grande teorico del principio di nazionalità è il tedesco Herder.

Il senso della «individualità» nazionale è in Gottfried Herder potentissimo. Egli muove de considerazioni sulla lingua, che ha, sempre, un determinato carattere nazionale, che è l'espressione del «carattere» della «maniera di pensare, di un popolo, di guisa che alla nostra lingua ma terna «ci lega un accordo dei nostri organi più fi ni e delle attitudini più delicate, e a essa lobbia mo restar fedeli»: che furono concetti di grande importanza anche per il successivo svolgersi del l'idea di nazione (la lingua è, per i Mazzini, Mancini, ecc. uno dei «contrassegni» più alti e chiari di una nazionalità), e che testimoniane che l'idea politica di nazione non costituisce se non un aspetto di un imponente movimento d pensiero, che tutto abbraccia, dalla poesia e dal l'arte (vedi Winckelmann) al linguaggio, alle dottrine filosofiche, alla politica. [...] Herder riesce a pensare un'idea della nazione nuova, asse diversa da quella sin qui avuta: nel senso che mentre, sin allora, si era creduto sempre in una natura umana «comune» a tutti, e soltanto «modificata» attraverso l'ambiente e l'educazione, cioè attraverso il clima (elemento naturalistico) e la storia (elemento volontaristico), lo Herder affermava la diversità fondamentale, originaria, naturale, delle nazioni. Ogni nazione diviene un quid a sé stante, chiuso in sé, impenetrabile dagli altri; anche fisicamente, i suoi caratteri sono «permanenti», durano millenni senza mescolanze straniere «se rimane attaccata al suo suolo come una pianta». E moralmente ogni nazione è un mondo a sé, con i suoi valori, un suo modo di pensare, con un suo «processo naturale» di costumi e di idee, di spirito e di moralità, che non si deve alterare.

F. Chabod, L'idea di Nazione, cit., p. 93.

 

Le riforme liberali in Inghilterra

Dopo il 1820 incominciò in Inghilterra il lento e contrastato cammino verso una trasformazione liberale dello Stato. I problemi erano diversi, resi più acuti dalla Rivoluzione industriale iniziata alcuni decenni prima. I limiti del diritto di associazione danneggiavano infatti la classe operaia, impedendole ogni organizzazione di tutela dei propri interessi. I dazi di importazione sul grano (Corn Laws), mentre favorivano i grandi proprietari terrieri, colpivano un genere di prima necessità come il pane, rendendolo più caro. E ancora un altro problema dava un carattere illiberale alla vita politica inglese: la discriminazione politica verso i cattolici e i dissidenti protestanti, eredità storica delle lotte religiose dell'età moderna. Lo storico Pasquale Villani traccia il cammino di questo non facile processo verso la costruzione di uno Stato liberale.

Intorno al 1820 qualche nuovo orientamento cominciò a farsi sentire anche nel governo tory con l'ingresso nella compagine ministeriale di uomini, come Robert Peel, George Canning, William. Huskisson, più sensibili alle esigenze di riforme ritenute ormai indilazionabili. Nel 1824, sotto la pressione dell'opinione pubblica liberale e radicale, furono abolite le Combinations laws, le leggi che, limitando il diritto di associazione, colpivano duramente i primi tentativi di organizzazione sindacale dei lavoratori. Nonostante qualche successivo ripensamento e una più rigorosa repressione degli atti di violenza, e nonostante soprattutto la proibizione dello sciopero e della raccolta di fondi di solidarietà (1825) i sindacati operai ebbero una prima diffusione. Fu anche moderato il sistema delle Corn Laws rendendolo più elastico con l'applicazione della scala mobile, che permetteva l'importazione di grano dall'estero quando i prezzi di quello prodotto in Inghilterra erano troppo alti. La discriminazione politica verso i dissidenti protestanti e verso i cattolici era un'altra delle eredità storiche che offuscava il carattere liberale e tollerante del regime costituzionale britannico. Non vi era intolleranza ideologica ed era garantita la libera espressione e la pratica dei diversi culti, ma la classe dirigente e parlamentare, fondata sul blocco di potere aristocrazia fondiaria-clero anglicano, era preclusa a elementi estranei. Nel 1828 i dissidenti protestanti (metodisti, non conformisti, ecc.) provenienti cioè dallo stesso ceppo da cui era nata la chiesa anglicana, furono ammessi a ricoprire le più alte cariche civili e militari dalle quali erano stati precedentemente esclusi con i Test and Corporation Acts.

P. Villani, L'età contemporanea, cit., p. 89.

Una delle più significative battaglie combattute dalle forze liberali fu quella per la riforma elettorale del 1832. Non venne attaccato il principio censitario, ossia il voto legato al livello economico, ma aumentò il numero dei votanti, attraverso una riforma delle circoscrizioni elettorali ottenuta con l'eliminazione dei cosiddetti «borghi putridi»; così commenta questo cambiamento P. Villani.

La nuova legge non aveva nulla di rivoluzionario. Il criterio censitario era pienamente riaffermato, ma scomparivano alcune circoscrizioni elettorali – i così detti «borghi putridi» quasi disabitati, proprietà di grandi elettori che ne facevano mercato o che comunque potevano designare a colpo sicuro il deputato. Nuovi centri, nati e cresciuti grazie alla rivoluzione manifatturiera e al commercio internazionale, poterono inviare propri rappresentanti alla Camera dei Comuni, ma l'Inghilterra rurale del Sud e del Sud-Est conservava una situazione privilegiata rispetto alle zone settentrionali e occidentali dove si erano verificate le maggiori trasformazioni demografiche e socia li. Tuttavia, nonostante le barriere censitarie il numero degli iscritti nelle liste elettorali aumentava per la estensione del diritto al voto anche agli affittuari che pagassero un affitto d almeno 10 sterline e passava da circa 500.00C a 800.000, un numero cospicuo per quei tempi, quando si ricordi che il corpo elettorale francese dopo la rivoluzione di luglio era rima sto intorno a 200.000 iscritti. Conviene ricordare, per inciso, che qui si parla del numero degli aventi diritto al voto, degli iscritti cioè c iscrivibili nelle liste elettorali, e non dei votan ti effettivi che erano in numero sempre inferiore per la percentuale variabile di astensioni. Il significato più importante della riforma sta non tanto nei pur considerevoli miglioramenti apportati al sistema elettorale quanto nell'esito della battaglia politica. Sul piano dei principi non si riconosceva alcun diritto alla «sovranità popolare», ma la sconfitta dei gruppi più conservatori, arroccati soprattutto nella Camera dei Lords e la parte avuta dalla pubblica opinione e dalle associazioni progressiste aprivano una nuova fase nella politica inglese e creavano speranze e anche molte illusioni.

P. Villani, L'età contemporanea, cit.

 

 

 

 

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