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il risorgimento italiano

 

 

FONTI

 

Il programma politico neoguelfo

Nel 1843 fu pubblicata a Bruxelles l'opera li Primato morale e civile degli Italiani dell'abate piemontese Vincenzo Gioberti, che sarebbe diventato il testo di riferimento del movimento neoguelfo italiano. Gioberti vi sintetizzava le linee fondamentali del pensiero moderato di orientamento cattolico, che avrebbe incontrato larghi consensi presso l'opinione pubblica italiana. Egli proponeva un'idea di Italia unita capace di fondere il valore della tradizione culturale e spirituale del nostro Paese (individuata nella Chiesa cattolica e nel Papato) con l'esigenza di un reale rinnovamento politico, in grado di portare al compimento dell'unità. Tale obiettivo, però, non si poteva raggiungere attraverso una rivoluzione popolare o mediante una guerra di vaste proporzioni contro l'Impero d'Austria, bensì per via diplomatica: Gioberti immaginava l'Italia unita come Confederazione di liberi Stati sovrani presieduta dal pontefice, nel suo ruolo di suprema guida morale e religiosa.
Il riferimento all'elemento religioso come criterio d'identificazione del popolo italiano è l'aspetto più originale del pensiero neoguelfo. Esso ebbe il merito di configurare il fenomeno risorgimentale non come un'operazione puramente politica e militare, bensì come reale occasione di crescita del popolo italiano e di consapevolezza delle sue radici.

I sistemi degli unitari [...] sono intrinsecamente viziosi, perché non muovono da un'idea patria, non corrispondono alle specialità italiane, non hanno una base nazionale, e sono castelli in aria o frutti di dottrine e imitazioni di esempi forestieri. Se v'ha qualcosa di certo in politica, si è che le mutazioni civili di un popolo non hanno durata, né vita, quando non sono un portato spontaneo di quello, e quasi il risultamento necessario delle sue condizioni effettive. Le rivoluzioni tentate o malamente effettuate da cinquant'anni in qua nell'Italia, nella Spagna, nella Germania e altrove, non furono che imitazioni mal condotte della rivoluzione di Francia partorite e governate dalle opinioni e dai successi gallici. Questa è la ragione per cui tali conati riuscirono vani, o stentatamente attecchirono, come piante già floride e rigogliose ma intisichite, perché trasposte sopra un terreno peregrino e posticcio, perché educate sotto un cielo diverso e aliene dal loro genio natio [...].
Ecco io dico qual è il vero principio dell'unità italiana [...]. Questo principio è sommamente nostro e nazionale, poiché creò la nazione ed è radicato in essa da diciotto secoli: è concreto, vivo, reale, e non astratto e chimerico, poiché è un instituto, un oracolo, una persona; è ideale, perché esprime la più grande idea che si trovi al mondo: è sommamente efficace, poiché è effigiato dal culto, corroborato dalla coscienza, santificato dalla religione, venerato dai principi, adorato dai popoli, ed è come un albero, che ha le sue radici in cielo, e spande i suoi rami su tutta quanta la terra; è perpetuo quanto la nostra famiglia e il regno terrestre del vero, perché è la guardia divina di questo e quasi il patriarcato del genere umano; è pacifico per essenza e civile, perché inerme e potentissimo per la sola autorità del consiglio e della parola; è infine perfettamente ordinato in se stesso e nel modo del suo procedere, perché è un potere organato da Dio stesso e costituisce il centro della società più mirabile, che si possa trovare o immaginare fra gli uomini. Imperocché errano coloro che vogliono far del papa un movitore e un artefice di risse, di tumulti, di violente rivoluzioni; quasi che un tal uso disordinato di potenze fosse possibile e desiderabile nel capo supremo del sacerdozio. [...]
Indicibili sono i beni che l'Italia riceverebbe da una confederazione politica, sotto l'autorità moderatrice del pontefice. Imperocché tal colleganza accrescerebbe la forza e la potenza dei vari principi, senza nuocere all'indipendenza loro, e accomunerebbe a tutti i beni di ciascheduno. Rimoverebbe le cagioni delle discordie, delle guerre, delle rivoluzioni interne; e metterebbe un ostacolo insuperabile alle invasioni forestiere; giacché l'Italia, presidiata com'è dalle Alpi e ricinta dal mare, può resistere da sé sola, purché sia unita, agli assalti di mezza Europa. Restituirebbe alla penisola lo antico onore, ricollocandola fra i potentati di prima schiera; e dove i suoi principi non sono oggi pur consultati, quando si tratta dei comuni interessi di Europa, essi tornerebbero ad avere la parte che loro si addice nell'indirizzo del continente. Raccozzando le forze e le ricchezze dei vari stati, porgerebbe loro il modo di creare e allestir di concreto un comune naviglio per difendere le porte marittime e tutelare la libertà del Mediterraneo contro le prepotenze straniere; al che ninno di quelli per sé solo è bastevole.

V. Gioberti, in G. Galasso, Critica e documenti storici, Martano, Napoli-Firenze 1972, vol. III, pp. 148-150.

 

Il programma politico di Cavour

Il conte Camillo Benso di Cavour, primo ministro piemontese dal 1852 al 1861, fu il vero artefice politico dell'unità d'Italia. Questo intervento presso il Parlamento piemontese nasce dalla circostanza che alcuni deputati avevano biasimato la decisione di inviare un corpo di spedizione in Crimea. Egli ebbe modo di esporre le ragioni e gli obiettivi della sua strategia diplomatica. Da fine e accorto politico, Cavour comprendeva che un disegno di unificazione nazionale portato avanti in assenza di aiuti militari da parte di potenze esterne alla penisola si sarebbe risolto in un completo fallimento, com'era accaduto con la "guerra regia" intrapresa da Carlo Alberto nel 1848. Cavour aveva individuato sullo scenario politico internazionale alcune potenze disposte ad appoggiare un movimento di indipendenza che modificasse in profondità gli equilibri di Vienna: si trattava della i Francia del Secondo Impero e della Gran Bretagna di lord Palmerston. Tra loro il Piemonte avrebbe dovuto cercare un alleato capace di sostenerlo nella guerra contro l'Austria.

Vengo, o signori, alla questione italiana. Io ho detto che i plenipotenziari della Sardegna (al congresso di Parigi) avevano per missione di richiamare l'attenzione dell'Europa sulla condizione anomala ed infelice dell'Italia, e di cercare di portarvi qualche rimedio. Nella condizione di cose creata dalla pace (dopo la guerra di Crimea) nessuno di voi certamente sarà per credere che fosse possibile l'ottenere rimedi portanti seco modificazioni nella circoscrizione territoriale dell'Italia. [...] Le grandi soluzioni non si operano, o signori, colla penna. La diplomazia è impotente a cambiare le condizioni dei popoli. Essa non può, al più, che sancire i fatti compiuti e dare loro forma legale. Tuttavia, anche sul terreno della diplomazia, e mettendo per base i trattati esistenti, ai quali non era il caso di portare modificazioni, vi era mezzo di portare la questione d'Italia, se non davanti al Congresso, almeno dinanzi alle potenze in esso rappresentate. [...]
La Francia e l'Inghilterra, riconoscendo lo stato anomalo in cui si trovava l'Italia in forza dell'occupazione di gran parte delle sue province per parte di una potenza estera, manifestarono il desiderio di veder cessata questa occupazione e ritornate le cose allo stato normale. Ma una obbiezione veniva mossa alle istanze che per noi si facevano. Ci si diceva: sta bene che l'occupazione dell'Italia centrale debba cessare, e cessi; ma quali saranno le conseguenze dello sgombro delle truppe estere, se le cose rimangono nelle attuali condizioni? I plenipotenziari della Sardegna non esitarono a dichiarare che le conseguenze dello sgombro, senza preventivi provvedimenti, sarebbero state di un carattere il più grave, il più pericoloso, e che perciò non sarebbero stati giammai per consigliarlo; ma soggiunsero, che essi ritenevano come, mercé l'adozione di alcuni acconci provvedimenti, quello sgombero si sarebbe reso possibile. [...] D'accordo sopra questo principio, cioè sopra la massima utilità che vi sarebbe di far cessare l'occupazione straniera nelle province del centro d'Italia e sulla necessità di far precedere lo sgombero delle truppe estere da provvedimenti speciali, fu deciso dal Governo francese, con quello dell'Inghilterra, che la questione sarebbe sottoposta al Congresso di Parigi; e, come avrete rilevato, essa lo fu nella tornata dell'8 aprile. [...]
Nessun risultato positivo si può dire essersi ottenuto: tuttavia io tengo essere un gran fatto questa proclamazione che si fece per parte della Francia e dell'Inghilterra, della necessità di far cessare l'occupazione dell'Italia centrale, e dell'intendimento per parte della Francia di prendere tutti i provvedimenti a quest'uopo necessari. Sul terreno della diplomazia era difficile trattare altri argomenti italiani, sottoporre altre questioni alle deliberazioni del Congresso. [...]
Io vi ho esposto, o signori, i risultati delle negoziazioni alle quali abbiamo partecipato. [...] Rispetto alla questione italiana non si è, per vero, arrivati a gran risultati positivi; tuttavia si sono guadagnate, a mio parere, due cose: la prima, che la condizione anomala ed infelice dell'Italia è stata denunziata all'Europa non già da demagoghi, da rivoluzionari esaltati, da giornalisti appassionati, da uomini di partito, ma bensì da rappresentanti delle primarie potenze dell'Europa, da statisti che seggono a capo dei loro governi, da uomini insigni, avvezzi a consultare assai più la voce della ragione che a seguire gli impulsi del cuore.
Ecco il primo fatto che io considero come di una grandissima utilità.
Il secondo si è che quelle stesse potenze hanno dichiarato essere necessario, non solo nell'interesse d'Italia, ma in un interesse europeo, di arrecare ai mali d'Italia un qualche rimedio. Non posso credere che le sentenze profferite, che i consigli predicati da nazioni quali sono la Francia e l'Inghilterra, siano per rimanere lungamente sterili. Sicuramente, se da un lato abbiamo da applaudirci di questo risultato, dall'altro io debbo riconoscere che esso non è scevro di inconvenienti e di pericoli.
Egli è sicuro, o signori, che le negoziazioni di Parigi non hanno migliorato le nostre relazioni con l'Austria! [...]
Questo fatto, o signori, è grave, non conviene nasconderlo; questo fatto può dar luogo a difficoltà, può suscitare pericoli, ma è una conseguenza inevitabile, fatale di quel sistema reale, liberale, deciso, che il re Vittorio Emanuele inaugurava salendo al trono, di cui il Governo del Re ha sempre cercato di farsi l'interprete, al quale voi avete sempre prestato fermo e valido appoggio.

C. Cavour, Discorsi parlamentari, a cura di A. Saitta, La Nuova Italia, Firenze 1965, vol. XII, pp. 354-362.

 

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

 

I vari orientamenti del dibattito politico risorgimentale

L'articolato dibattito che precedette e accompagnò la stagione risorgimentale italiana ebbe il merito di elaborare alcune prospettive politiche e istituzionali destinate a trovare concreta attuazione con la creazione del nuovo Stato unitario. Tale dibattito presentò da subito diversi orientamenti culturali e ideologici e differenti filoni di pensiero. Tutti erano però accomunati dall'esigenza di superare la permanente situazione di divisione politica nella quale versava la penisola italiana. Gli orientamenti più originali all'interno del dibattito risorgimentale furono tre: quello liberale piemontese e lombardo; quello democratico mazziniano e federalista; infine, quello moderato cattolico di ispirazione neoguelfa. La recente storiografia si è occupata di ciascuno di questi importanti filoni della nostra tradizione preunitaria.
Lo storico liberale Rosario Romeo analizza puntualmente, attraverso le biografie intellettuali di alcuni politici piemontesi, il passaggio dal tradizionale costituzionalismo piemontese al moderno liberalismo. Il modello costituzionale a base bi- camerale, di tipo inglese, esprimeva le aspirazioni della nobiltà piemontese che apprezzava i privilegi che l'aristocrazia britannica aveva mantenuto nello Stato costituzionale. Romeo fa tuttavia osservare che nel primo Ottocento le differenze sociali, politiche, economiche tra Inghilterra e Piemonte erano molto grandi. Queste stesse differenze rendevano difficile il radicarsi di un liberalismo autentico, fondato non sull'idea di conservazione di privilegi, ma su un nuovo concetto di Stato e di rapporti tra cittadini e potere politico. Tuttavia, nel, corso dei primi decenni del secolo, questa trasformazione, sia pure in modo graduale e difficile, riuscì a compiersi, creando un gruppo politico di governo sinceramente liberale, politicamente avanzato rispetto agli altri Stati della penisola. Così Romeo descrive il passaggio dal costituzionalismo al liberalismo.

Nell'ammirazione per la costituzione d'Inghilterra s'annidava [...] un equivoco assai grave: ché ben altro era il significato di quelle istituzioni in un paese a struttura sociale già modernamente articolata come l'Inghilterra, e in paesi come il Piemonte di allora, dove la preminenza politica della nobiltà sarebbe servita a proteggere e a garantire un insieme di rapporti sociali notevolmente arretrati, e in cui gli elementi e i rapporti borghesi erano ancora ben lontani dall'avere raggiunto quella importanza dominante che avevano invece in Inghilterra, dove essi informavano largamente la vita economica e amministrativa, la cultura e il costume. Appunto questo equivoco spiega come preferenze costituzionali venissero espresse anche da uomini come il La Tour, per altro verso legato, come si è visto, a idee di privilegio aristocratico e corporativo. Perché il vecchio costituzionalismo si svolgesse a moderno liberalismo occorreva che tutto ciò venisse superato in una diversa e più ampia concezione dei rapporti politici e sociali: ed è questo il senso profondo dell'evoluzione della parte migliore della nobiltà piemontese in questi decenni.

R. Romeo, Dal Piemonte Sabaudo all'Italia liberale, Einaudi, Torino 1963, pp. 54-55.

In Francia il movimento cattolico-liberale fu iniziato da Lamennais che, in un primo tempo teorico del legittimismo della Restaurazione, fu poi, insieme a Lacordaire, Montalembert e Gerbert, sostenitore di un accordo tra libertà e cattolicesimo. La pubblicazione che raccolse le nuove idee fu "L'Avenir", che ebbe però vita più difficile quando il principale collaboratore H. D. Lacordaire, dopo la condanna espressa dal pontefice Gregorio XVI della conciliazione tra cattolicesimo e liberalismo, si sottomise alla Chiesa. A questo punto la rottura con la Chiesa cattolica, da parte di Lamennais, fu aperta e totale. Nell'opera Parole di un credente, apparsa nel 1834, manifestò i principi di un cristianesimo democratico, di ispirazione sociale, che suscitò adesioni e polemiche. Così scrive G. Verucci a proposito di questo decisivo e radicale cambiamento, parlando del nuovo regno cristiano ipotizzato da Lamennais.

Un regno che è costituito dal trionfo su questa terra dei principi morali del Cristianesimo, della giustizia e della carità, dell'eguaglianza, intesa come annullamento di ogni differenza sociale fra ricchi e poveri, della libertà, intesa come annullamento di ogni dipendenza dell'uomo dall'uomo, e che è stata riportata agli uomini dal Cristo: un Regno insomma le cui dimensioni sono essenzialmente terrestri. Il suo avvento sarà segnato, secondo Lamennais, dalla vittoria del popolo, che incarna la volontà di Dio, sulle autorità civili ed ecclesiastiche, veri ministri di Satana, che lo hanno sempre oppresso: perché per Lamennais la sovranità appartiene al popolo, che crea i re. Un empito rivoluzionario trascorre per queste pagine, facendosi più concreto nell'appello a un esercito popolare e all'internazionale dei popoli, ma la difesa del diritto di proprietà era espressamente introdotta dal Lamennais per evitare le accuse di sovversivismo, e in fondo la rivoluzione era meno nella sostanza che nella forma poetica e apocalittica.
Nondimeno l'impressione che il libro destò in Francia e all'estero, sugli uomini di governo e in tutti i ceti della popolazione, impressione testimoniata dalla rapidità delle edizioni, dal numero delle adesioni entusiastiche, delle confutazioni e delle traduzioni, fu enorme. Nel mondo cattolico le reazioni furono generalmente sfavorevoli. Alcuni giornali colsero l'occasione per dare di nuovo addosso alla scuola lamennaisiana, che riconoscevano essersi largamente diffusa e restare ancora potente.

G. Verucci, Félicité Lamennais, dal cattolicesimo autoritario al radicalismo democratico, Loffredo, Napoli 1963, p. 55.

In Italia il cattolicesimo liberale ebbe largo seguito, pur suscitando da un lato l'avversione netta dei Gesuiti e del cattolicesimo conservatore e, dall'altro, l'opposizione dei democratici. Lo storico M. Themelly pone l'accento sul consenso suscitato, specialmente nel Mezzogiorno d'Italia, dall'opera di Gioberti e dal suo neoguelfismo che sembrerà potersi realizzare con il papa «liberale» Pio IX.

Le millecinquecento copie della prima edizione del Primato furono esaurite nel giro di poche settimane: il favore del pubblico fu vivo soprattutto nell'Italia meridionale. In tutto il paese le personalità più rappresentative del liberalismo espressero, con varia gradazione d'entusiasmo, il loro consenso: sorvolando su alcune riserve si posero sostanzialmente nella scia di Gioberti, continuandone il discorso di fondo o dibattendo alcuni problemi particolari, Balbo, D'Azeglio, Capponi, Montanelli, Centofanti, Galeotti, Trova, Bozzelli, perfino l'anticlericale Settembrini. Solo Silvio Spaventa, tra i liberali meridionali, rimane intransigentemente critico. Ma il libro suscitò anche una fitta bordata di confutazioni: fu attaccato a sinistra da tutta la democrazia, a destra dai Gesuiti. Le accuse che più toccarono Gioberti furono quelle che indicavano nel Primato un'opera clericale e reazionaria, ma la condanna dei Gesuiti gli rivelò che l'autorità ecclesiastica aveva respinto le sue tesi.

V. Lo Curto - M. Themelly, Gli scrittori cattolici dalla Restaurazione all'Unità,
Letteratura Italiana, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 160-161.

A Gioberti va il merito, secondo Themelly, di essersi posto, in modo realistico, il problema di un radicamento delle idee liberali nella società italiana, tenendo conto degli interessi concreti presenti nelle classi sociali e delle forme attive di coinvolgimento dei ceti medi.

Si rivela [...] quella che fu la forza effettiva di quel movimento, l'esigenza che fu per la prima volta giobertiana di aderire alla realtà del paese impegnato in un complesso processo di trasformazione, di accogliere e rappresentare con la maggiore ampiezza e articolazione possibile le aspirazioni di una società in movimento, senza trascurare, come amava ripetere, nessuna idea valida, nessuna forza effettiva. Quello che Gioberti chiamava mediazione dialettica era lo sforzo di stabilire un rapporto organico con gli interessi profondi delle classi e dei gruppi emergenti. Privilegiò la borghesia perché scorse in quella una forza egemone. Nella volontà di radicare il programma politico nelle aspirazioni e negli interessi di larghi strati sociali [...] si coglie il preannuncio della politica cavouriana e si motiva storicamente la prevalenza dell'organico blocco borghese liberale moderato nei confronti dei gruppi democratici e radicali.
Tra le principali forze collaboranti a realizzare i fini liberali e nazionali Gioberti colloca, accanto agli intellettuali, un moderno partito cattolico. Ma in realtà il partito cattolico altro non è che l'organizzazione degli «intellettuali dialettici» e dell'intero ceto medio. Auspica che la creazione del partito cattolico avvenga per mezzo d'una operazione drastica: il distacco decisivo dal cattolicesimo teocratico e reazionario emblematicamente rappresentato nel gesuitismo.

V. Lo Curto - M. Themelly, cit., p. 163.

Lo storico marxista Giorgio Candelore ricollega la formazione di una corrente cattolico-liberale in Italia all'influenza esercitata dal giansenismo, ponendo in primo piano, come iniziatore del movimento cattolico liberale italiano, Alessandro Manzoni.

Il giansenismo aveva preparato il terreno allo sviluppo del cattolicesimo liberale: esso infatti aveva contribuito efficacemente alla disgregazione e alla trasformazione della vecchia tradizione guelfa ed aveva costituito il primo esempio in Italia di un movimento cattolico (sebbene in contrasto più o meno aperto con i decreti papali), disposto a procedere almeno in parte a fianco delle forze progressive. Il giansenismo inoltre lasciava in eredità agli uomini del Risorgimento, e non soltanto ai cattolici liberali, alcuni importanti fermenti culturali e politici, che poi matureranno in modi nuovi, come lo spirito antigesuitico, l'esigenza di una religiosità non esteriore, il rigorismo morale, l'ostilità contro gli abusi ecclesiastici e feudali, il desiderio di nuovi metodi educativi. In modo particolare il giansenismo lasciava in eredità al cattolicesimo liberale l'aspirazione a una riforma della Chiesa, la quale, in forme nuove ed intesa in modo più o meno ampio a seconda dei vari uomini, permeò di sé tutto il movimento.
Certamente influenzato dal giansenismo, sebbene non nella misura e nel senso preteso da alcuni studiosi, fu l'uomo che si deve considerare l'iniziatore del cattolicesimo liberale italiano: Alessandro Manzoni. Indubbiamente il pensiero politico manzoniano cominciò a formarsi prima della conversione dello scrittore milanese al cattolicesimo, sotto l'influenza dell'illuminismo, della Rivoluzione e del nascente liberalismo francese. Ma, a differenza di quanto avvenne per altri uomini convertitisi nello stesso periodo, il Manzoni, dopo la conversione, non divenne reazionario, ma cattolico liberale. Ciò si dovette in gran parte al fatto che la sua conversione avvenne sotto l'influenza di giansenisti, oltre che ai contatti da lui tenuti per parecchio tempo con gli ultimi rappresentanti del giansenismo repubblicano italiano e francese, come il Degola e il Grégoire.

G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 25-26.

Il ricco panorama delle nuove idee politiche del primo Ottocento ha nel pensiero democratico di Mazzini una delle espressioni più significative. Lo storico F. Della Peruta mette a fuoco i principi ideali del pensiero politico mazziniano, dando rilievo alla sua concezione di unione europea.

I documenti costitutivi della Giovine Europa, l'Atto di fratellanza e lo Statuto, redatti da Mazzini, fissavano con concisione i motivi ormai consolidati della sua impalcatura sistematica: la fratellanza e l'eguaglianza così degli uomini come dei popoli; l'umanità, interprete della legge di Dio, quale elemento essenziale della nuova epoca «sociale»; l'associazione come unico mezzo dato all'umanità per conoscere e realizzare la sua legge di vita e attuare il «progresso continuo»; il dovere della «missione» per gli uomini singoli e per i popoli storici, intesa quest'ultima quale affermazione della loro nazionalità, e così via. Nei programmi di Mazzini la nuova associazione avrebbe dovuto poggiare sulla Giovine Italia, sulla Giovine Germania e sulla Giovine Polonia, perché la futura Europa dei popoli, destinata a sostituire quella dei re, era vista come il risultato di una sua concentrazione intorno alla Germania, alla Polonia e all'Italia, nazioni guida, rispettivamente, delle razze germaniche, di quelle slave e di quelle greco-latine, perché né la Francia, la cui missione era giudicata esaurita, né l'Inghilterra, che con i suoi governi ispirati soltanto all'egoismo nazionale e commerciale non rappresentava alcun principio valido nel sistema europeo, né tanto meno l'Austria o la Russia, personificazioni del dispotismo, avevano in sé potenza iniziatrice. Questa individuazione delle strutture portanti della Giovine Europa fatta da Mazzini discendeva dall'insieme delle idee da lui maturate sulla questione dell'«iniziativa», idee che circolano in tutti i suoi scritti principali del 1834-1835 ma che hanno la loro esposizione più sistematica nell'articolo Dell'iniziativa rivoluzionaria in Europa, pubblicato nella "Revue républicaine" all'inizio del 1835.

F. Della Peruta, Scrittori politici dell'Ottocento, Milano-Napoli 1969, tomo I, p. 150.

Candeloro mette a confronto il pensiero di Mazzini con quello di Buonarroti, sottolineando il carattere puramente politico e non sociale del contenuto del programma mazziniano.

Mentre [...] il Buonarroti, partito dal democraticismo di Rousseau, era giunto, attraverso l'esperienza robespierrista e l'esperienza babuvista, all'idea di una lotta per l'eguaglianza, non solo giuridica, ma sociale, svolta dalle masse dirette da un ristretto gruppo di capi pazientemente educati nelle sette a questo compito di guida, e vedeva nelle lotte sociali della Francia dopo il '30 una conferma del suo pensiero, traendone la speranza nello scoppio non lontano di una rivoluzione generale in cui l'Italia avrebbe avuto il suo posto, Mazzini preconizza una rivoluzione soltanto democratica (sebbene egli cominci a usare il termine democrazia solo alcuni anni dopo) e nazionale. Questa rivoluzione deve essere per lui essenzialmente politica; il suo aspetto sociale deve consistere soltanto nel fatto che essa deve creare le condizioni necessarie per il progresso materiale delle masse popolari. [...]
L'idea della repubblica dovrebbe bastare, secondo Mazzini, per mettere in movimento le masse popolari, purché sia chiaro che la repubblica è un governo che si basa sulla «volontà generale» e che rinnega il privilegio; un governo «in cui non esiste una classe che manchi del necessario, — in cui le tasse, i tributi, i gravami, gl'inceppamenti alle arti, all'industria e al commercio son ridotti al minimo termine possibile; perché le spese, le esigenze, e il numero de' governanti sono ridotti al maggior grado possibile d'economia, — in cui la tendenza delle istituzioni è volta principalmente al meglio della classe più numerosa e più povera, — in cui il principio d'associazione è più sviluppato, — in cui una via indefinita è schiusa al progresso colla diffusione generale dell'insegnamento, e colla distruzione d'ogni elemento stazionario, d'ogni genere d'immobilità».

G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, 1815-1846, Marzorati, Milano 1958, vol. II, pp. 70-71.

 

Cavour, Mazzini e Garibaldi: tre personalità diverse

L'unificazione italiana nel suo periodo culminante è soprattutto opera di tre grandi protagonisti: Cavour, Mazzini e Garibaldi. Essi, sebbene discordi e irriducibili avversari ideologicamente e politicamente, di fatto furono reciprocamente necessari, fino al punto che l'opera di ciascuno di essi sarebbe stata vana o impossibile senza quella degli altri. Il conte di Cavour, scrive Salvatorelli, non avrebbe certamente potuto presentare come urgente e inderogabile la questione italiana agli statisti europei, riuniti nel. 1856 a Parigi, e a Napoleone III, se Mazzini con la sua tenace propaganda e i suoi moti e martiri non l'avesse tenuta viva all'interno d'Italia e in tutta Europa. Dopo la seconda guerra d'indipendenza, l'unificazione si sarebbe arrestata in un vicolo cieco senza l'iniziativa di Garibaldi nel Sud; per essa e per la pressione di Mazzini Cavour si convertì all'unità. D'altra parte, senza l'abilità diplomatica di Cavour le iniziative mazziniane e garibaldine sarebbero state facilmente stroncate per l'opposizione delle grandi potenze (L. Salvatorelli, Pensiero ed azione del Risorgimento, Einaudi, Torino 1950).
Di Cavour gli storici mettono in evidenza, prima d'ogni cosa, l'intelligente realismo politico, la fiducia nello Stato liberale.

Nella sua educazione alla scuola del manchesterismo, il Cavour — scrive Guido De Ruggiero — non attinse solo una veduta generale delle leggi che allora regolavano gli scambi, ma anche qualcosa di più profondo, che non si lasciava formulare in termini astratti di una scienza: cioè la percezione della capacità espansiva della società industriale moderna, la fiducia nell'iniziativa, nell'ardimento individuale, che spezzava le invecchiate consuetudini per lanciarsi in una via nuova, piena di rischi e di speranze. In Italia il demone dell'industrialismo sopravvenne più tardivo e meno vivace; ma la sua assenza nel periodo culminante del Risorgimento accresce oggi l'ammirazione per il Cavour che ebbe l'energia spirituale di anticiparne dentro di sé l'avvento, e di comunicarne, per quel ch'era possibile, l'efficacia all'appesantito moderatume del suo tempo. Divenne convinto borghese e sostenitore dello Stato liberale, che si alimenta dei grandi contrasti, che compone insieme le violente passioni, ciascuna delle quali, operando isolata, sarebbe distruttiva e nefasta, mentre concorrendo con le altre, è l'elemento di vita e di progresso. Nei nostri partiti del Risorgimento mentalità era così ristretta che ciascuno non solamente immaginava che da essa dipendeva la salvezza d'Italia, ma ancora che il partito avversario fosse la causa di sicura rovina. Eppure tra di essi si stabilì una superiore collaborazione nella lotta, per cui tutti ugualmente, ma per vie diverse, servirono la causa comune. È evidente che questo più alto risultato, questa sintesi, non si effettuò se non in virtù di uno Stato, di un'arte di governo che diede a ciascun partito la propria chance, fidando sulla razionalità che presiede allo svolgimento, alle competizioni e alle selezioni della libertà umana. Il Cavour impersonò in sé eminentemente questo Stato e quest'arte liberale di governo per cui si accentrò in un medesimo foco politico la discorde varietà delle forze italiane del Risorgimento.

G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Laterza, Bari 1925, pp. 336-340 passim.

Cavour – assertore dello Stato costituzionale, della pluralità dei partiti e della loro lotta organizzata nel. Parlamento, del governo come espressione della maggioranza, e della minoranza nella sua funzione di critica e di controllo dell'azione governativa – respinse qualsiasi tentazione dittatoriale; a chi gli suggeriva ch'era «cosa impossibile unificare l'Italia col Parlamento ma fattibile con un potere forte e quasi assoluto» egli rispose: «Io non ho fiducia alcuna nelle dittature civili, sono convinto che con il Parlamento si possono fare molte cose che sarebbero impossibili con il potere assoluto. Non mi sento mai così debole come quando la Camera è chiusa» (Carteggio D'Azeglio, II, Torino 1865).
Edotto dall'esperienza della prima guerra d'indipendenza che l'Austria non si poteva cacciare né con l'aiuto dei principi italiani, né per mezzo del popolo, né con le forze del solo Piemonte, puntò sull'alleanza con Napoleone III, l'unico sovrano europeo interessato a fare una politica antiasburgica. Convertitosi nel 1860 all'idea unitaria, si convinse che essa non si poteva attuare nella maniera in cui indicava Mazzini ma per l'azione di uno Stato, già costituito amministrativamente, militarmente e politicamente, aiutato e rispettato in campo internazionale.

Alla luce di questo senso dello Stato — scrive lo storico tedesco Heinrich Treitschke — deve essere considerata la sua opera, molto spesso giudicata spregiudicata e immorale. Una mente politica non può sorvolare, con luoghi comuni di moralità, sul terribile conflitto che agita la coscienza del fondatore di uno Stato. All'uomo di Stato non è concesso, al pari del semplice cittadino, di considerare sacra e come il maggiore dei beni la purezza immacolata della sua condotta e della sua fama. Egli vive per gli scopi vitali del suo popolo, deve sapere interpretare i segni dei tempi, deve rintracciare l'idea superiore nel groviglio degli eventi e svolgerla in mezzo a duri combattimenti. Questa sola è la sincerità politica, questa la virtù politica, che rimarrà sempre incomprensibile per i sentimentali. Scaldarsi le mani alle fumanti rovine della patria per la comoda soddisfazione di dire a se stesso: io non ho mai mentito, è la virtù del frate non dell'uomo di Stato. E finché ci saranno degli uomini, non vi potrà essere macchia sulla grandezza d'animo dello statista che fece l'Italia, agendo il più moralmente che fosse permesso di fare a un mortale. Nel 1860 il suo cuore era agitato dalla consapevolezza di una missione storica, considerava come la massima impresa della nuova storia la liberazione dell'Italia e dagli stranieri e dai falsi principi e dalle teste calde che la potevano compromettere, e non ebbe incertezze né scrupoli nel perseguirla.

H. Treitschke, Cavour, Sansoni, Firenze 1921.

La figura di Cavour è delineata in modo positivo dallo storico liberale Rosario Romeo, che vede in lui il rappresentante più autorevole e prestigioso di quella classe politica che unì la fiducia nello sviluppo economico della borghesia all'idea di un moderno Stato liberale. Cavour fu quindi il vero artefice dell'unificazione nazionale, colui che seppe coniugare gli ideali liberali con il realismo di una politica estera intelligente e accorta, inserendo la questione italiana nel contesto delle relazioni internazionali e creando le condizioni che avrebbero favorito il decollo economico dell'Italia. Egli fu, secondo Romeo, l'esponente di un ceto, quello dei proprietari terrieri illuminati, e di una cultura, quella della Restaurazione, profondamente antirivoluzionaria, destinati a essere superati dalla storia; ma la sua opera rimane, come costruzione aperta a nuovi, fecondi sviluppi.

Si è [...] detto che lo Stato unitario, proprio perché disegnato alla luce della cultura politica della Restaurazione, era già vecchio al momento della sua fondazione, nel 1860. E certamente il movimento operaio organizzato, l'avvento delle masse, la cultura attivistica, l'espansione coloniale e l'imperialismo restarono in larga misura estranei all'orizzonte mentale di un Cavour. Ma all'uomo politico spetta di risolvere i problemi della sua epoca, non quelli dell'avvenire: al quale egli contribuisce soprattutto creando realtà nuove che pongono nuovi problemi. Al superamento della propria epoca Cavour contribuì avviando a compimento la soluzione della questione italiana, che aveva costituito uno dei grandi temi della vita europea nella prima metà del secolo, a livello dei movimenti rivoluzionari e delle relazioni internazionali fra gli Stati. Insieme con la Germania di Bismarck, anche se con un peso assai minore, l'Italia unita sarà il grande fatto nuovo nell'Europa degli ultimi decenni del secolo XIX; e la sua esistenza come Stato agirà profondamente sulle vicende delle nazionalità dell'impero asburgico nel successivo cinquantennio e dopo la caduta della Duplice Monarchia. Fu la creazione del regno d'Italia a rendere del tutto anacronistici i tentativi mazziniani di dar vita a una impossibile riedizione del 1848 negli anni successivi al 1860. E, per quanto riguarda la vita interna dell'Italia, è persino superfluo insistere sul carattere più avanzato dello Stato liberale nei confronti della società che era chiamato a governare. La libertà politica ed economica, avviando l'industrializzazione del paese e ponendo le premesse di una moderna vita politica, rese essa stessa possibile il tramonto del «mondo dei savi», la creazione di nuove élites, lo sviluppo del movimento operaio, i successivi allargamenti del suffragio elettorale e la lenta integrazione delle masse socialiste e cattoliche nello Stato, come si scorgerà nel momento della crisi più profonda della vita nazionale italiana, dopo il 1945. Nel processo di sviluppo dello Stato italiano andarono certamente perdute molte cose che Cavour aveva tentato di salvare, a cominciare dall'egemonia di quei ceti terrieri illuminati di cui egli stesso era stato l'esponente maggiore: ma ciò appartiene alla logica di tutti i movimenti davvero portatori di avvenire.

R. Romeo, Cavour e il suo tempo (1854-1861), Laterza, Bari 1984, p. 260.

Mazzini, anima profondamente religiosa, persuaso che il senso e il valore della vita s'identificano con l'ordinamento divino, non si stancò mai ovunque e sempre come il profeta Geremia, di gridare la sua fede in Dio. Così Omodeo scrive del suo apostolato, che traeva linfa, fra l'altro, dalla concezione romantica dell'idea di popolo.

Operare nel mondo per lui significava collaborare all'azione che Dio svolge, riconoscere e accettare la missione che uomini e popoli ricevono da Dio e ambire all'iniziativa che dischiude nuove vie all'umanità; senza speranze di premio, senza calcoli di utilità. Continuo perciò per lui deve essere lo scorrere del pensiero religioso in quello politico. Le patrie e i popoli sono pensieri di Dio: le patrie esigono cittadini animati da una superiore coscienza umana. Bisogna, perciò, suscitare e creare le condizioni politiche e sociali perché il popolo sia elevato alla patria e alla coscienza del dovere [...]. La storia umana non è guidata dalla mente e dal volere dell'uomo, non dal caso ma da una provvidenza che supera gli accorgimenti politici e che drizza a ignote mete la nave dell'umanità. Questo motivo di Dio, guida della storia, e di una nuova fede religiosa, che s'inaugura dopo la catastrofe napoleonica, era la credenza fondamentale del Mazzini.

A. Omodeo, Missione religiosa e politica di G. Mazzini, in Senso della Storia, Einaudi, Torino 1948.

In nome di questa concezione religiosa egli, vissuto per molto tempo lontano dall'Italia e perciò ignaro dell'effettiva società italiana arretrata e chiusa, condannò e respinse l'individualismo, da lui giudicato punto di partenza dell'anarchismo e del materialismo, stimolo della spietata concorrenza che accende negli uomini la lotta fratricida e rompe la divina unità del popolo; avversò il liberalismo e lo Stato costituzionale; «governo», come egli stesso scrive, «il più immorale del mondo; istituzione corrompitrice essenzialmente perché la lotta organizzata che forma la vitalità di quel governo, sollecita tutte le passioni individuali alla conquista degli onori o della fortuna che sola dà adito agli onori».
Al liberalismo individualistico e agnostico oppone la democrazia, espressione non di una piccola consorteria di politicanti, ma governo del popolo, il solo capace di realizzare l'unità nazionale sulle istanze etico-religiose della fratellanza, della giustizia sociale e della libertà. A queste conquiste il popolo doveva arrivare solo per il senso del dovere intrinseco nella sua coscienza; perciò egli non vide favorevolmente i partiti, le loro lotte, i governi di maggioranza o di minoranza e le opposizioni, poiché, diceva, frantumano l'unità del popolo.

Mazzini non fu soltanto l'«apostolo» del nostro Risorgimento, fu anche un democratico che si pose con serietà e profonda partecipazione il problema della classe operaia. La sua permanenza in Inghilterra, il Paese dove la Rivoluzione industriale da diversi decenni ormai aveva posto all'ordine del giorno la questione dei lavoratori dell'industria, fu decisiva, anche per l'esperienza di lotte e di idee che da essa poté trarre. Conobbe il movimento cartista, così chiamato dalla «carta» dei diritti del popolo che faceva della rivendicazione del suffragio universale una condizione per la soluzione politica della questione sociale. Simpatizzò con questo movimento per il suo contenuto democratico e sociale, pur temendo che non si formasse quella unità di classi sociali, intellettuali e operai, capace di dare uno sbocco costruttivo alle lotte. Lo storico Franco Della Peruta analizza in modo puntuale il pensiero sociale di Mazzini, mettendo in luce l'importanza della sua esperienza inglese.

Mazzini fermò [...] la sua attenzione sulla profonda disuguaglianza sociale che caratterizzava il paese che lo ospitava. L'Inghilterra, osservava a pochi mesi dal suo arrivo a Londra, era un paese che illudeva da lontano, ma che spaventava da vicino; la ricchezza vi era ripartita più inegualmente che in qualsiasi altro luogo della terra, un quinto degli abitanti viveva di elemosina, la proprietà e il danaro erano monopolio di una ristretta minoranza. E qualche tempo dopo così riprendeva, allargandolo, questo giudizio: «L'Inghilterra non è né ben governata, né felice, né tranquilla. La libertà esiste qui, ma la libertà senza l'uguaglianza non è né può essere se non una realtà per un piccolo numero di privilegiati [...]. La ricchezza è immensa, ma concentrata in un piccolo numero di mani, infeudata alla proprietà del suolo o alle grandi agenzie commerciali e manifatturiere, non discende sino al popolo [...]; è tutta accumulata a uno dei poli dell'asse sociale, una povertà immensa come lei pesa sull'altra».
Mazzini faceva giustamente risalire ai profondi squilibri sociali l'origine dei contrasti che scuotevano l'Inghilterra e che minacciavano a suo parere di sboccare in una rivoluzione. Analizzando accuratamente la situazione egli si rendeva conto che il momento storico, al di là della lotta tra tories e whigs — considerata con realismo nel suo contenuto di classe come un conflitto tra l'antica aristocrazia del sangue e del possesso fondiario e la nuova aristocrazia borghese del denaro — era caratterizzato dallo scontro tra ceti abbienti e classi operaie, tra «privilegio» e «lavoro». E la sua comprensione e la sua simpatia andavano naturalmente al mondo del lavoro, al movimento associativo degli operai inglesi — ripresosi rapidamente dalle sconfitte del '34-'35 —, al cartismo, che seguì infatti fin dai suoi primi passi, valutandone subito la portata storica: «Certo, — scriveva già nel marzo 1837 a proposito di un grande meeting operaio per il suffragio universale — quando una classe non rappresentata finora sente e parla a quel modo, è impossibile far retrocedere le loro pretese».

F. Della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Laterza, Roma 1977, pp. 155-156.

Uomo del popolo, cuore pieno di umanitarismo, di egualitarismo e d'inflessibile amore per la libertà di tutti i popoli, Garibaldi non conosceva né l'arte politica né il calcolo diplomatico, amava le idee semplici, chiare e oneste, e agiva improvvisamente, temerariamente, al di fuori di ogni dottrinarismo e alchimia politica. Del pensiero di Mazzini capiva soltanto che combattere per redimere la patria divisa e oppressa era il più grande dovere della vita, ma a differenza dei grandi uomini politici sapeva che per guadagnare al Risorgimento un popolo fatto per il novanta per cento di contadini bisognava associare alle guerre per l'indipendenza anche la volontà di combattere all'interno le ingiustizie, le disuguaglianze, le sperequazioni tributarie, gli sfruttamenti, i costumi feudali. Pensava che la Repubblica fosse la forma perfetta dello Stato, ma la giudicava inadatta al popolo italiano, ancora immaturo; accettò perciò lealmente la monarchia sabauda che con il suo esercito di 40.000 uomini gli dava la maggiore garanzia nella guerra all'Austria. Democratico e rivoluzionario aderì alla Società Nazionale per convincere tutti gli Italiani, di qualsiasi partito, del dovere supremo di unirsi attorno a Vittorio Emanuele per liberare l'Italia.
Garibaldi fu democratico e monarchico a un tempo, ma tiepido verso Mazzini, del quale non sopportava l'astratto dottrinarismo e l'intransigente dogmatismo. Contrariamente all'apostolo genovese, credeva moltissimo nei poteri dittatoriali e soleva spesso dire che quando la nave corre pericolo di naufragare è dovere sacrosanto del capitano di prendere saldamente e coraggiosamente il timone in mano. A lui, più che a Mazzini, lo storico Mack Smith attribuisce il merito di aver tratto il popolo dall'indifferenza politica nella fede del Risorgimento.

La notorietà e l'éclat di Garibaldi furono un ingrediente essenziale nel guadagnare molta gente comune a una causa nazionale che sarebbe altrimenti sembrata remota e senza vantaggi. Non c'è dubbio che il prestigio di Garibaldi fra la gente ordinaria contribuì a nascondere quello che stava accadendo finché fu troppo tardi per opporsi ad esso. In un Risorgimento che si sviluppava lungi da piani preconcetti, da coordinazione e direzione, Garibaldi fu prezioso per quel suo spensierato prendere la legge in mano senza calcolare il costo e le conseguenze; con la sua fede cieca e irragionevole e con il coraggio di assurdi convincimenti mostrò che un uomo può smuovere le montagne e spostare una frontiera.

D. Mack Smith, Garibaldi, Mondadori, Milano 1959.

 

I contrasti fra Cavour e Mazzini

Tra protagonisti così diversi ma nello stesso tempo così forti e decisi, ci furono duri e drammatici contrasti. All'istanza mazziniana che l'Italia dovesse nascere spontaneamente, dalla coscienza del popolo e con il suo sangue, al di fuori di ogni manovra diplomatica, Cavour oppose l'immaturità e l'indifferenza del popolo, non accettò la formula «l'Italia farà da sé», ma ricorse al calcolo politico, al gioco degli interessi internazionali, «diplomatizzò il Risorgimento», ne fece una questione europea, da risolvere con l'abile arte delle alleanze, con la partecipazione a guerre internazionali, con l'intervento di eserciti stranieri, indipendentemente dalla volontà o dal concorso del popolo. A lui interessava creare uno Stato italiano come organismo amministrativo, come potenza politica, economica e militare; il resto – la coscienza nazionale, il consenso e la partecipazione del popolo – sarebbero venuti dopo, con il passare del tempo, con l'azione dello Stato. Evidentemente, scrive Adolfo Omodeo, Mazzini non poteva capire questo linguaggio.

Quel che volesse dire pareggiare un bilancio, mutare un regime doganale, un sistema di amministrazione, avvezzare un popolo a vivere in ordinata libertà, sì che la libertà non discendesse dalle caligini dei sogni e fosse esemplarmente presente in ogni angolo d'Italia, rampogna al papa, al granduca e al Borbone; e resistere al logorio del malcontento che la vita, anche la più felice, crea giorno per giorno, e rovescia sul governo, sintesi visibile della situazione; quel che volesse dire inserirsi tra Francia e Austria e impedire ch'esse si saldassero in un indirizzo reazionario gravante su tutta l'Europa e sul Piemonte innanzi tutto, il Mazzini, bruciato dalla fede dell'azione, non poteva intenderlo.

A. Omodeo, L'opera politica del conte di Cavour, Sansoni, Firenze 1940, vol. II.

Ne diede la prova in occasione dell'alleanza anglo-franco-piemontese nella guerra di Crimea, ch'egli definì «una prostituzione col carnefice della Repubblica romana» e per la quale chiamò Cavour «gioco e strumento degli alleati a tutta rovina dell'Italia». Questi rimproveri sono un'ulteriore prova che a Mazzini sfuggiva ciò che effettivamente Cavour si proponeva di ottenere alleandosi con le potenze occidentali, cioè contribuire a una grande guerra europea in nome del principio della nazionalità, contro le potenze reazionarie, quali erano Russia e Austria e, provocando la neutralità dell'Austria, determinare la rottura di questa triplice alleanza antinazionale austro-russo-prussiana, che era il più grande ostacolo al Risorgimento. Mazzini ancora non si rendeva conto che l'intervento piemontese in Crimea, in tutti i casi, creava la condizione principale per migliorare la questione italiana, che – come sosteneva Cavour – era quella di far sì che tutte le Nazioni rendessero giustizia alle virtù italiane attraverso prove di saggezza civile e di valore militare.

Bisogna riconoscere nel Cavour — aggiunge Omodeo — una mirabile duttilità, il trovarsi sempre all'altezza delle vicende, con una reazione immediata e mai trasmodante, sempre vigile, sempre pronto a scorgere la via per nuove soluzioni, sia che bisognasse lanciare il Piemonte nella guerra di principi e di propaganda, sia che bisognasse piegarlo alla ripugnante alleanza con l'Austria, sia che bisognasse osare o rassegnarsi; la volontà mai fiaccata e mai esasperata; l'accettazione mai trepidante delle responsabilità, una fantastica capacità di ripresa: ciò fece veramente dell'alleanza di Crimea la base della grandezza del Cavour. Egli poté accettare perciò anche quella che è la più pericolosa di tutte le posizioni per un uomo politico: entrare in un'alleanza, in una combinazione col proposito di agire internamente e di padroneggiarla, di mutarne lo spirito; situazione in cui i falsi machiavellici sono travolti come foglie dal vento d'autunno.

A. Omodeo, L'opera politica del conte di Cavour, cit.

Nel 1856, quando le potenze occidentali, per protestare contro i cattivi sistemi di governo dei Borboni, minacciarono di mettere sul trono di Napoli un'altra dinastia, e la Francia avanzò la candidatura di Luciano Murat, Mazzini vi scorse la corresponsabilità di Cavour, il prezzo che questi avrebbe pagato a Napoleone III per averne l'aiuto a conquistare la Lombardia.

Italiano e millantatore di concetti emancipatori, voi tradite deliberatamente l'Italia ripetendo la parte di Ludovico il Moro, chiamando la tirannide straniera al di qua delle Alpi e dando assenso ad un nuovo dominio e ad una potente influenza difficile da sradicarsi dove un governo aborrito da tutti e logorato da lungo tempo nell'opinione sta per cadere. Intanto voi mutilate, per compiacere al tiranno straniero, la libertà dello Stato.

G. Mazzini, Al conte di Cavour, in Edizione nazionale degli scritti editi e inediti, 1906-1913.

Mazzini era ossessionato dalla preoccupazione che Cavour volesse fare la tradizionale "politica del carciofo", cioè ingrandire il Piemonte anche a costo di cedere alla Francia altre regioni italiane; temeva che il Regno di Sardegna pensasse solo al suo egoismo e non si fondesse nell'Italia. Questo convincimento gli impedì di cogliere il vero valore della seconda guerra d'indipendenza. Il io settembre 1859 scrisse a Vittorio Emanuele: «Voi non vi affratellaste al popolo d'Italia, né lo chiamaste ad affratellarsi con Voi. Sedotto dalla triste politica di un ministro che antepone l'arte di Ludovico il Moro alla parte di rigeneratore, Voi rifiutaste il braccio del nostro popolo, e chiamaste senza bisogno, in un'ora infausta, alleate ad una impresa liberatrice le armi di un tiranno straniero».

Il violento contrasto – nota Omodeo – si risolvette costruttivamente perché valse a impedire alla Francia di insediarsi in Italia. Il Mazzini s'oppose al Cavour perché temeva che l'intervento di Napoleone rovinasse la causa nazionale ancora per cinquanta anni, se un'altra forza non vi si opponesse. Pur nella sua parte di vinto, quella forza fu lui, Mazzini. Non solo la sua azione rivoluzionaria aveva fatto precipitare nella guerra l'imperatore Napoleone, ma, a vittoria ottenuta, infrenava la sua politica in Italia, gli impediva di sorpassare di fatto i limiti del mero sussidio militare.

A. Omodeo, L'opera politica del conte di Cavour, cit.

 

I contrasti fra Cavour e Garibaldi

Anche Garibaldi, per la sua mentalità d'eroe romantico, non poteva entrare nell'ordine d'idee di Cavour, non ne poteva comprendere le necessità politiche e i fatali patteggiamenti diplomatici; dava importanza invece a questioni in se stesse buone, ma particolari, che perdevano gran parte del valore se messe in rapporto al tutto. A questo atteggiamento va riportato il suo primo contrasto con Cavour per la cessione di Nizza alla Francia. Il 12 aprile del 1860 Garibaldi dinanzi alla Camera dei deputati rivolse a Cavour tre accuse: di aver agito incostituzionalmente all'insaputa del Parlamento; di aver violato il sacrosanto principio di nazionalità perché aveva fatto vile mercato di popolazioni; infine, di averlo reso straniero in patria.
Alcuni storici, tra i quali l'inglese Mack Smith, trovano fondate e giustificate queste accuse.

La cessione di Nizza e Savoia fu il prezzo della connivenza francese all'annessione piemontese della Toscana e dei Ducati centrali e la cosa fu sbagliata in se stessa in quanto era un delitto di lesa nazionalità che rendeva l'Italia schiava del patronato francese, e per di più della Francia, di quello stesso tiranno, Luigi Napoleone, che aveva schiacciato la Repubblica romana del 1849.

D. Mack Smith, Garibaldi, cit.

Con maggiore serenità e acutezza, Passerin d'Entrèves nella cessione delle due province non ha visto «un vile mercato» ma l'inizio della politica italiana, le premesse dell'azione unitaria del Piemonte.

Si può affermare che proprio quel trattato di cessione delle vecchie province transalpine, che i democratici presentarono come un vile mercato di popoli, abbia segnato in certo senso la fine del vecchio Stato dinastico sabaudo piemontese e abbia creato le premesse immediate per lo sforzo conclusivo dell'unificazione. Bene interpretò il Cerutti quando scrisse che con la perdita di Nizza e Savoia moriva il vecchio Piemonte, e bene scrisse lo stesso Cavour quando in una lettera al fedele Nigra confidava che la spedizione dei Mille era stata determinata e stimolata dalla cessione di Nizza e che la nuova impetuosità del movimento nazionale italiano era una conseguenza del colpo di arresto di Villafranca.

E. Passerin d'Entrèves, L'ultima battaglia politica del Cavour, Einaudi, Torino 1956.

È umano, spiega Salvatorelli, il risentimento di Garibaldi per la perdita della sua città natale, che egli considerava legata, per ragioni storiche e culturali, al contesto politico della penisola italiana; questa ferma presa di posizione, però, non nega la costruttività della politica di Cavour.

Con la cessione di Nizza e, perciò, coll'annessione della Toscana al Piemonte fallì il disegno federalistico napoleonico di un regno dell'Alta Italia e vi subentrò il regno dell'Italia una; per essa il regno sabaudo varcò gli Appennini e generò per un contraccolpo la spedizione dei Mille al grido di «Italia e Vittorio Emanuele» e questa a sua volta fece adottare da Cavour l'idea mazziniana della spedizione nelle Marche e nell'Umbria.

L. Salvatorelli, Rivoluzione toscana e Unità d'Italia, in "La Stampa", a. X, n. 78.

L'opposizione riarse più dura e pericolosa durante la spedizione dei Mille. L'11 settembre 1860 Garibaldi, dittatore di Napoli, chiese a Vittorio Emanuele il licenziamento di Cavour e l'attacco allo Stato pontificio. Il grave passo era il risultato di una lunga serie di circostanze che da tempo preoccupavano Garibaldi. Egli sapeva bene che Cavour aveva cercato di impedire e di ostacolare la spedizione nel Sud; che lo aveva fatto continuamente sorvegliare da suoi emissari; che aveva tentato, invano, di togliergli il governo della Sicilia; che s'era adoperato per impedirgli lo sbarco in Calabria; che aveva messo il veto al democratico Bertani di attaccare da nord lo Stato pontificio; che gli voleva togliere la dittatura nel Napoletano; che s'opponeva decisamente alla sua progettata marcia su Roma e che voleva in qualsiasi modo stroncare il movimento rivoluzionario. Quali le cause di una così tenace opposizione di Cavour? La risposta, chiara e convincente, è data da Valsecchi.

Prima di tutto è assolutamente vero che il Cavour non voleva la spedizione dei Mille ma la dovette subire. Non erano soltanto le complicazioni diplomatiche — in una situazione in bilico, come quella in cui si trovava il Piemonte di fronte alle potenze europee — a preoccuparlo. Erano ancor più considerazioni di opportunità politica. Fino allora, la monarchia aveva tenuto salde le redini del movimento nazionale. Qui, invece, si trattava di una iniziativa che sfuggiva del tutto al suo controllo. Era sorta da sé, al di fuori di ogni intervento governativo, con ostentata indipendenza, in una atmosfera vagamente ribelle; era sorta come una risposta all'appello che veniva dal sud, come una conseguenza delle congiure, dei moti, delle insurrezioni del Mezzogiorno; aveva le sue radici nella Lombardia, nel Veneto, assenti, o poco meno che assenti le vecchie province piemontesi: quasi una manifestazione d'inquietudine; di un bisogno di evasione. La guida di Garibaldi aveva il valore di un simbolo: il simbolo di un malcontento contro gli accomodamenti, i compromessi ufficiali. Garibaldi [...] ma un altro nome si faceva come ideatore, ispiratore dell'impresa, un nome inquietante, Mazzini. Tutto al Cavour consigliava il riserbo.

F. Valsecchi, Garibaldi e Cavour, in "Nuova Antologia", luglio 1960.

Cavour non poteva opporsi apertamente né impedire una spedizione che continuava la sua opera di unificazione nazionale, sarebbe stato lo stesso che contraddire se stesso, ferire il sentimento nazionale, affrontare l'impopolarità, esporsi a un'insurrezione dell'opinione pubblica. Il trionfo di Garibaldi in Sicilia impensierì, preoccupò Cavour per le sue ripercussioni politiche all'interno. L'iniziativa garibaldina, che si era svolta al di fuori e in contrasto con le sue idee, acquistava una propria autonomia, che lo portava a pensare che l'opposizione democratica vedeva ora la possibilità di recitare la propria parte nella grande opera di redenzione nazionale, di contrapporre la propria bandiera alla bandiera monarchica e moderata, che fino ad allora aveva tenuto il campo e occupato tutta la scena; che della Sicilia i democratici volevano fare il centro di irradiazione di un moto di rinnovamento, emancipato dalle influenze conservatrici e dalle pastoie della diplomazia, libero da ogni vincolo, capace di imprimere un nuovo impulso al corso della rivoluzione nazionale; Cavour sa che Garibaldi è l'uomo della rivoluzione, della democrazia estrema, sensibile ai suoi consiglieri mazziniani; sa che il suo programma è Italia e Vittorio Emanuele, ma teme la meta garibaldina di un'Italia per moto di popolo, unita dal di dentro, sorta non dall'affermazione di potenza di uno Stato o dagli accorgimenti della diplomazia, ma sgorgata dalle proprie ultime spontanee risorse; sa che per Garibaldi la Sicilia è un punto di partenza per arrivare a Roma e a Venezia, dove la dinastia sabauda non può giungere, e teme che si voglia sostituire alla monarchia trascinandola con sé per «sottrarla alle ambiguità di una politica opportunistica, imprimerle nuovo slancio e nuovo contenuto: conquistare, insomma, la monarchia alla rivoluzione, e non asservire la rivoluzione alla monarchia». Per la mente realistica di Cavour tutto questo era un grande sogno, che cozzava violentemente con la realtà italiana ed europea. Le condizioni reali delle regioni italiane e della politica internazionale, per Cavour, escludevano categoricamente la minima probabilità di successo al programma di Garibaldi e richiedevano mezzi adeguati alle circostanze: un valido punto di appoggio di uno Stato costituito solidamente e saldamente organizzato, entro il quale inquadrare la nuova costruzione; un esercito regolare, fornito di armi e di quadri rispondenti al bisogno; una diplomazia attrezzata ad affrontare la lotta sul piano internazionale.

Il contrasto tra Garibaldi e Cavour era lo scontro tra monarchia e rivoluzione, tra l'Italia reale e l'Italia ideale; vinse il Cavour, cioè la realtà; per conseguenza il momento culminante del Risorgimento assunse il carattere di conquista, di sovrapposizione delle strutture dello Stato conquistatore sulle regioni liberate. Garibaldi aveva chiesto al re di sostituire una politica di compromessi e di ambiguità con la rivoluzione popolare; Vittorio Emanuele, scegliendo il Cavour, diede all'Italia un'impronta politico-sociale liberale e moderata. Con Garibaldi fu sconfitto il Risorgimento come rivoluzione democratica e sociale.

F. Valsecchi, Garibaldi e Cavour, cit.

 

Cattaneo, un protagonista emarginato

Moderato nell'azione politica, radicale nelle idee, Cattaneo fu un altro dei grandi protagonisti del Risorgimento. Federalista, erede della cultura illuministica lombarda e quindi convinto della necessità di una politica di riforme, temette sia l'astrattezza rivoluzionaria di Mazzini, sia il moderatismo dei liberali. Norberto Bobbio mette bene in luce la personalità di questo intellettuale, che appartiene alla migliore tradizione democratica e riformatrice della cultura italiana.

Il programma moderato prendeva le mosse dalle teorie libero-scambiste per propugnare l'abolizione delle barriere doganali; e Cattaneo fu, in economia, pugnace e fervido assertore del liberismo, e nemico d'ogni impaccio al libero uso e al libero scambio di beni. Nel programma moderato rientrava lo sviluppo delle ferrovie; e il problema delle ferrovie fu uno dei suoi temi prediletti. La pratica istituzione che i moderati caldeggiavano era la lega doganale italiana; e il Cattaneo era favorevole all'adesione del Lombardo-Veneto insieme con l'Austria all'unione doganale tedesca. Dalla lega doganale derivava una delle richieste più urgenti dei moderati, la unificazione dei pesi e delle misure; ed anche ad essa il Cattaneo volse ripetutamente la propria attenzione. In complesso, come vedremo meglio, il suo stesso federalismo, pur così lontano dall'idea della confederazione degli stati italiani proposta dai moderati, era in parte l'espressione dello stesso atteggiamento di sfiducia nei mutamenti troppo repentini.
Moderato rispetto alla via da seguire e al mezzi da adottare per raggiungere il fine della liberazione dell'Italia da vecchie ed estranee istituzioni, moderato il Cattaneo non fu rispetto alle idee: e ciò appunto lo distingue dagli uomini del così detto programma moderato, per il quale egli anzi nutrì sempre diffidenza e sfiducia. Se lo studio della storia che come la natura non fa salti, se l'abito scientifico e positivo lo conducono necessariamente a detestare ogni improvvisazione e ogni azione istintiva e mal preparata, e fanno quindi di lui un riformatore, il netto e schietto laicismo che lo stesso studio della storia aveva alimentato, e la spregiudicatezza teoretica acquistata attraverso il continuo sforzo di disinteressata ricerca del vero, gli danno quella indipendenza d'idee e quella scioltezza che gli consentono d'essere, nella critica delle istituzioni e degli eventi, nella esposizione delle sue tesi sociali e politiche, un radicale. È radicale in quanto accetta e propugna integralmente e senza riserve quella idea liberale, la cui applicazione i progressi della scienza sembrano aver reso inevitabile; in quanto è convinto che il progresso della scienza e il progresso della libertà siano tanto intimamente legati da non potersi separare senza uccidere lo stesso progresso. Il che egli compendia nel motto, assunto a simbolo della sua convinzione e della sua lotta: «libertà e verità».

N. Bobbio, Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino 1971, p.52.

 

L'epopea risorgimentale come fenomeno popolare?

Nel recente dibattito storiografico alcuni storici hanno cercato di mettere in luce in modo più problematico il rapporto fra masse popolari e movimento risorgimentale. Quasi tutti hanno sottolineato la sostanziale assenza di una consapevolezza del problema unitario nelle masse popolari, escluse da qualsiasi dibattito o perché incapaci di coglierne la reale portata, o perché considerate pericolose e destabilizzanti. Il risultato comunque fu identico: il Risorgimento solo in minima parte coinvolse il popolo, che per giunta non si accorse se non molto tardi dell'avvenuta riunificazione, e non per elementi positivi o per un significativo miglioramento delle proprie condizioni di vita.
Lo storico Alfonso Scirocco considera estremamente tardiva la maturazione di una coscienza nazionale presso le popolazioni italiane. Egli insiste soprattutto sulla presenza di notevoli differenziazioni politiche, istituzionali, sociali e culturali all'interno dei vari Stati italiani, differenze che avevano inciso in profondità sulla maturazione della consapevolezza di un'appartenenza unitaria. Ogni Stato presentava una propria storia e una propria originaria evoluzione istituzionale, a cui le singole popolazioni erano legate.

La formazione di uno Stato unitario non fu nei progetti delle classi dirigenti italiane nei primi decenni dell'Ottocento. All'accettazione dell'unità della penisola sotto lo scettro di un solo sovrano si giunse quasi alla vigilia del '60 e per la concomitanza di eventi imprevedibili. Nel 1822 Vieusseux, disegnando un nuovo assetto politico dell'Italia, vedeva come unica prospettiva la formazione di una confederazione; alla metà degli anni quaranta per il successo della proposta giobertiana fu determinante il fatto che non si mettesse in pericolo l'esistenza degli Stati regionali; nel '56 Manin, nel promuovere la Società Nazionale, sostituì al termine unità quello di unificazione, per ottenere la collaborazione dei federalisti alla lotta contro l'Austria.
Sarebbe un errore di prospettiva anticipare la effettiva formazione di una coscienza unitaria. Del resto l'unità dell'impero tedesco fu conseguita conservando gli Stati storici con le antiche dinastie, dimostrazione della possibilità di ispirarsi a modelli diversi da quello della completa unità politica nella formazione degli Stati nazionali.
È perciò necessario cogliere le ragioni della evoluzione negli orientamenti delle classi dirigenti (il plurale è d'obbligo) dei singoli Stati italiani. La svolta è il '48, con la scelta liberale di Casa Savoia e la riluttanza degli altri sovrani ad assecondare le aspettative delle borghesie regionali. La via verso l'unità, aperta da Mazzini col pensiero e l'azione, è percorsa ora dai moderati, con incertezze e pentimenti che si rifletteranno sulle soluzioni adottate al momento dell'unificazione.
Dal 1815 al 1861 la storia della penisola segue un. andamento complesso. Il pluralismo politico voluto dal Congresso di Vienna dà luogo ad una netta distinzione tra gli Stati che delineano i loro ordinamenti in materia autonoma, accogliendo in varia misura l'esperienza dell'età napoleonica. La differenziazione nell'interno della penisola è ancora maggiore se si considerino le componenti degli Stati stessi (Piemonte, Liguria, Savoia e Sardegna; Lombardia e Veneto; Roma e Legazioni; Mezzogiorno e Sicilia), per cui sembrerebbe più proprio parlare, come è stato proposto per l'economia, di aree politiche, che meglio rendono comprensibile l'incidenza di fenomeni come la tradizione repubblicana in Liguria o l'autonomismo siciliano. Per queste ragioni, piuttosto che cercare in astratto caratteristiche e linee di sviluppo comuni a tutta la penisola, vanno individuati gli aspetti propri dei singoli Stati, che vivono in piena autonomia una vita politica, economica, culturale, non finalizzata all'esito unitario, si avvicinano in modo diverso alla modernizzazione in atto nell'Europa occidentale.
Ciò non significa che si debbano seguire separatamente le vicende di ogni Stato, come se si trattasse di vasi non comunicanti. Gli stessi problemi si presentano contemporaneamente a tutti i governi della penisola. È illuminante vedere «in parallelo» le soluzioni adottate, a volte simili, a volte diverse, per dare un'immagine comparata dell'Italia nei vari momenti dell'Ottocento, e mostrare, attraverso le scelte effettuate, come in certe occasioni appaiano più avanzate dinastie poi giudicate reazionarie, e viceversa. La nostra ricostruzione, perciò, tende a privilegiare le partizioni cronologiche più di quanto non si sia praticato tradizionalmente, per cercare nell'interno del breve periodo le tematiche su cui si misurano governi ed opinione pubblica e si determinano quelle distinzioni nel giudizio sull'operato dei sovrani che, nel (relativamente) più lungo periodo dal 1815 al 1860, renderanno inaccettabile il particolarismo statale.

A. Scirocco, L'Italia del Risorgimento, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 7-8.

Lo storico M. Isnenghi parla del popolo come del grande assente 'nella temperie risorgimentale. Isnenghi non si sofferma sulla mancata realizzazione di una riforma agraria o di un reale rinnovamento delle condizioni di vita delle plebi, ma insiste sul concetto di «popolarismo»: egli chiama così la tendenza a fare del popolo l'oggetto di una propaganda assidua e capillare, attraverso una libellistica politica, fatta di numerosi opuscoli destinati a instaurare un legame tra la classe dei colti, alla testa del movimento, e gli strati medi e medio-inferiori.

Varie generazioni di italiani hanno imparato a scuola il risorgimento quale avrebbe dovuto essere, invece che come è realmente stato. In questo senso, si può dire che il risorgimento sia una creazione postuma. Ma non si trattava di una volgare mistificazione di stato. Accanto alle buone ragioni d'una pedagogia edificante, gestita dalle classi uscite vincitrici dallo scontro – esterno e interno, con il nemico nazionale e con il nemico sociale – la presentazione del processo di unificazione politica della penisola come il frutto d'una possente e unanimistica spinta di popolo non è solo un mito postumo, il tentativo di dare una piattaforma, un retroterra storico comune, ma anche un'arma di propaganda nel vivo della lotta, una maniera di vedere e di vivere questa lotta già nel suo farsi, un tentativo dei ceti colti di operare finalmente una sutura con i ceti subalterni, imponendo loro la propria egemonia ideologica; e fra l'altro il concetto guida tenuto in vita dagli intellettuali di una Italia sempre unitariamente esistita come nazione, dotata di una matrice unitaria, di una storia secolare, di una vocazione specifica e finalmente risorgente dopo un sonno di secoli. Nonostante la scarsissima partecipazione popolare, si può quindi parlare di popolarismo nel nostro risorgimento. Resta inteso che si tratta di un'operazione degna di studio e di rilievo, sì, ma che cala quasi per intero dall'alto ed ha il «popolo» non per soggetto ed attore, ma per oggetto e destinatario.
Le origini storiche di questo programma politico-culturale – una pedagogia per il popolo – sono sia illuministe che romantiche. L'uno e l'altro movimento, infatti, tendono a proprio modo a instaurare un circuito ideologico tra la classe dei colti e gli strati medi e medio-inferiori. Il romanticismo allarga la base di massa potenziale, amplia il pubblico destinatario del «messaggio», ma non contraddice per questo verso le ambizioni pedagogiche della cultura, riformatrice del Settecento. Il romanticismo inoltre, concependo e appassionandosi all'idea di una creatività popolare, di una poesia collettiva, di una anima che caratterizzerebbe naturalmente ciascun popolo facendo di esso una nazione, pone le basi per un arricchimento e una maggiore articolazione del rapporto tra il «popolo» e gli intellettuali – poeti, musicisti, oratori, organizzatori politici, raccoglitori di canti popolari e documenti del folclore ecc. – i quali prendono su di sé il compito di interpreti e banditori dell'anima popolare[...].
È probabile che ben poco di questi sforzi di attivazione e conformizzazione ideologica raggiunga effettivamente il «popolo». I giornali quotidiani e periodici sono numerosissimi in tutto l'arco delle vicende risorgimentali: nascono, vivono una vita più o meno effimera, scompaiono, ricompaiono con nuovo titolo, dopo diffide, sequestri, censure, processi per debiti, abbandoni. Il risorgimento nasce in buona parte in tipografia. Il giornalismo politico è appunto una delle nuove e primarie articolazioni storiche del ruolo politico dell'intellettuale: dove per intellettuale non intendiamo solo lo scrittore affermato, il politico di grido, ma anche il notaio, il prete, l'avvocato, il professore, lo studente ecc. che affidano – illuministicamente – alla parola scritta il compito di risvegliare le coscienze e attivare la lotta.

M. Isnenghi, L'unità italiana, in Aa. Vv., Tesi antitesi, Romanticismo-Futurismo, G. D'Anna, Messina-Firenze 1974, pp. 100-102.

 

La tesi liberale

Per la storiografia liberale il Risorgimento fu una rivoluzione che produsse una realtà sociale più ricca e avanzata. Con molto vigore infatti Salvatorelli sostiene che il Risorgimento fu una rivoluzione, in quanto costituì una realtà storica nuova, che sentì, volle e attuò principi, idee e obiettivi ch'erano negati e combattuti dalla Restaurazione. Ma è, ancora più, una rivoluzione perché, per la prima volta nella nostra storia, tante popolazioni di così diverse regioni furono unite in un solo Stato in forza delle idee di nazionalità, di libertà e di diritto dei popoli di disporre del proprio destino, che la Restaurazione aveva cercato tenacemente di soffocare (L. Salvatorelli, Pensiero ed azione nel Risorgimento, cit.). Dello stesso parere è Croce, che esalta la trasformazione spirituale e il progresso politico, economico e sociale che si attuarono in tutto il Paese dal 1871 al 1915.

In questo periodo in Italia si va formando una vita nazionale comune, che supera le grette e meschine vite regionali e dà benessere economico e spirituale. All'interno quei saggi e onesti governanti riuscirono a mitigare gli odi di parte attraverso l'articolazione di un costume civile, morale e parlamentare così progressivo da suscitare nel 1888 l'ammirazione del grande Gladstone, che paragonava il cambiamento dell'Italia alla trasformazione della Francia tra il 1789 e l'Impero. In effetti si era stabilita la vita della libertà, e non stentatamente come presso altri popoli in passato, ma a un tratto, essendosi prese le mosse dal più alto grado altrove raggiunto. Il lungo desiderio di un secolo, il fine ingegno e l'agile spirito di un popolo di antica cultura, permisero di appropriarsi i metodi altrove elaborati e maneggiarli senza sforzo e come cosa naturale. Sparito affatto il regime poliziesco, coi sospetti, lo spionaggio e le vessazioni; dissipata la vigilanza clericale, che si insinuava e gravava in ogni parte della vita pubblica e privata. In cambio, completa libertà nella stampa, nell'associazione, nelle pubbliche discussioni; una libertà a pieno, garantita e che si garantiva da sé col suo stesso esercizio e sindacava l'amministrazione, impediva la violazione delle leggi, rendeva pubblico il controllo della giustizia.

B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1928.

La tesi liberale si ripresenta in forma decisamente rinnovata, nella scelta dei concetti interpretativi e delle argomentazioni, nel secondo dopoguerra, negli anni Cinquanta, a opera di Rosario Romeo, un giovane storico in polemica con la storiografia marxista, postasi al centro dell'attenzione anche per la pubblicazione dei Quaderni del carcere di Granisci. Romeo non ignora i termini del dibattito internazionale sui Paesi in via di sviluppo: ci si chiedeva in quegli anni quali fossero i requisiti che consentono a un Paese di porsi sulla via dell'industrializzazione. Una delle condizioni richieste era individuata nell'esistenza di un capitale precedentemente accumulato, che consente di compiere investimenti. Sulla scorta di queste idee Romeo affronta il problema della mancata riforma agraria da parte della classe risorgimentale, oggetto delle critiche marxiste, e ne fa invece un titolo di merito del ceto liberale. Fu infatti proprio questa mancata riforma che permise l'industrializzazione e quindi lo sviluppo economico del Paese.

Ciò che importa sottolineare è che ogni ricerca modernamente intesa sullo sviluppo capitalistico del nostro paese non può prescindere da questi più recenti progressi della scienza economica, a patto di nascer già invecchiata e superata; ed è pertanto auspicabile che anche i nostri studi storici tengano conto del lavoro svolto parallelamente dagli economisti, teorici e storici, realizzando così una collaborazione che per la storia italiana del XIX secolo potrebbe rivelarsi non meno feconda che per altre epoche: e basta pensare a quel che ha significato la cooperazione tra gli storici politici e quelli del diritto e dell'economia per lo studio dell'età comunale agli inizi di questo secolo [...]. L'accumulazione primitiva in termini moderni, può essere definita come un drastico spostamento, in un paese in fase di economia preindustriale, del rapporto tra consumi e investimenti, diretto a intensificare l'afflusso di risparmio prodotto in altri settori economici al settore degli investimenti industriali. La teoria ha creduto di poter precisare l'entità di questi spostamenti, indicando il meccanismo essenziale di ciò che chiamiamo "rivoluzione industriale" nel passaggio da una aliquota di investimenti netti pari al 5% del reddito nazionale, quale si riscontra nei paesi in fase di stagnazione economica, a una aliquota del 12% o più, che è tipica dei paesi in fase di "big spurt" (grande sviluppo) economico. Ma, qualunque sia il valore di questa semplificazione teorica [...] può ben essere definita come [...] la dislocazione di una parte delle risorse disponibili della società allo scopo di aumentare la riserva di beni usati per produrre altri beni, in modo da rendere possibile un'espansione di risorse da utilizzare nel futuro. Ed è qui che si scorge l'equivoco fondamentale al quale, sul piano economico, si riduce la tesi del Gramsci.
La rivoluzione agraria, e la correlativa conquista della terra da parte dei contadini, si traduce essenzialmente in un innalzamento dei consumi delle masse rurali, e quindi in un ampliamento del mercato; e proprio nella ristrettezza del mercato derivante dalla mancata rivoluzione agraria si indica la limitazione fondamentale dello sviluppo capitalistico italiano, il suo vizio d'origine, che lo avrebbe avviato sulla strada del compromesso con gli elementi feudali ecc.
Ma in realtà, il problema fondamentale di un paese agli inizi del proprio sviluppo industriale non è già l'ampliamento del mercato ma l'accumulazione del capitale come strumento diretto a conseguire un aumento della produttività. Anzi le stesse dimensioni del mercato sono in funzione del livello della produttività.

R. Romeo, Problemi dello sviluppo capitalistico in Italia dal 1861 al 1887, in Nord-Sud, 1958, V, pp. 12-13.

 

La tesi cattolica

Uno degli storici cattolici più stimolanti per l'acutezza della sua critica e per l'ampiezza dei suoi interventi storiografici è Ettore Passerin d'Entrèves. Il suo lavoro di ricerca può essere considerato un approfondimento della critica alla politica liberale laica della fase costruttiva dello Stato italiano durante il processo di unificazione. Due sono i punti principali su cui si appunta la critica di Passerin: il mancato riconoscimento del decentramento amministrativo e la politica di Cavour nei confronti della Chiesa. Lo statista piemontese è accusato di incoerenza, perché la sua teoria dei rapporti Chiesa-Stato si fonda più sul separatismo di matrice illuministica, che prevede il controllo dello Stato sulla Chiesa, che non sui principi liberali. Il pensiero di Cavour in questo campo non deriva dal protestante liberale svizzero Vinet, come molti ritenevano, ma piuttosto dai liberali francesi che tendevano a sottomettere la Chiesa allo Stato.

Si potrebbe forse dire [...] che il disarmo unilaterale degli strumenti di offesa e di difesa statali, gli doveva apparire inopportuno, quando la Chiesa gli stava ancora di fronte bene armata, o per ciò che restava dei privilegi riconosciuti ad essa dai regimi precedenti, o per l'immensa influenza che essa ancora esercitava sull'opinione, sulla cultura, sulla stessa vita politica. Sennonché, a ben vedere, qui ci si aggira in un circolo vizioso: il politico che si aderge a profeta di libertà non ha altro mezzo per essere coerente, che di praticare la sua fede. Se non la pratica, e se gli fanno difetto quelle sole forze che la tesi liberale ritiene legittime, voglio dire le forze della pubblica opinione, la sua politica è incoerente.

E. Passerin d'Entrèves, I precedenti della formula cavouriana "Libera Chiesa in libero Stato",
in "Rassegna storica del Risorgimento", anno XLI, 1954, p. 506.

Anche lo storico Arturo Carlo Jemolo sottolinea la forte e decisa impronta anticlericale della politica ecclesiastica cavouriana, destinata ad avere un grande impatto emotivo presso l'opinione pubblica sabauda, in quanto capovolgeva una plurisecolare tradizione di alleanza fra trono e altare. Jemolo ravvisa una chiara derivazione dal liberalismo francese dei provvedimenti decisi da Cavour, provvedimenti molto simili alle deliberazioni dell'Assemblea Nazionale francese del biennio 1789-91 e confluiti nella più generale Costituzione civile del clero. L'eliminazione del carattere confessionale del Piemonte liberale coincideva con il tentativo di sottoporre la Chiesa a un significativo controllo da parte dello Stato: tale disegno incontrò (a netta opposizione del clero cattolico e valse a Cavour la scomunica papale, e sarebbe stato in seguito alla base della profonda ostilità nutrita dal mondo cattolico verso gli assetti istituzionali del nuovo Regno.

Gioberti nel Rinnovamento constata come la fede dei liberali italiani nella monarchia sabauda venisse rinsaldata dal vedere il Piemonte comportarsi in materia ecclesiastica in modo antitetico a quello dei principi che avevano ritirato le costituzioni, e stringevano sempre più i legami fra trono ed altare. Ma, come contrappeso, Pio IX, pur personalmente benevolo verso Vittorio Emanuele, restava confermato nella sua avversione ai regimi costituzionali dal constatare che solo nel Piemonte si adottavano misure ostili alla Chiesa, l'incredulità era libera di fare propaganda, nello stesso Parlamento si alzavano voci irriverenti per la religione.
Ché proprio nel 1850 si ebbero in Piemonte quelle leggi Siccardi (dal guardasigilli proponente), elogiate dal Gioberti, che consisterono nell'abolizione del foro privilegiato per gli ecclesiastici (che già era venuto meno in molti Stati cattolici), nella necessità di autorizzazione governativa per gli acquisti degli enti ecclesiastici, nell'abolizione delle penalità per la inosservanza dell'astinenza dal lavoro nei giorni festivi. Nelle discussioni di queste leggi si affermò alla Camera il principio che quando uno Stato muta la sua struttura, diviene cioè da assoluto costituzionale, ben può denunciare i Concordati, come ogni trattato internazionale, in quanto questi hanno sempre implicita la clausola rebus sic stantibus, e che l'art. I dello Statuto, con la sua dichiarazione della religione cattolica religione dello Stato, non poteva impedire al Piemonte di adottare leggi anche condannate dalla Santa Sede.
Seguirono condanne della Santa Sede, reazioni dell'episcopato, ancor più gravi controreazioni dello Stato: culminanti con l'allontanamento manu militari dell'arcivescovo di Torino Luigi Franzoni dalla sua sede; ch'egli peraltro continuò fino alla sua morte a governare dall'esilio di Lione.
Con l'alleanza di Cavour e Rattazzi, cioè dei liberali moderati e dei liberali della Sinistra, non immuni da venature giacobine, si ebbe la legge 29 maggio 1855, giunta in porto tra gravi contrasti (ad un certo momento apparve probabile un ritiro di Cavour, che non sarebbe stato discaro al re, desideroso questi di un qualche accomodamento con la Santa Sede), legge che sopprimeva le congregazioni religiose che non fossero dedite alla predicazione, all'assistenza degl'infermi, alla istruzione; i loro beni erano devoluti ad un ente di creazione governativa, la Cassa ecclesiastica; con la vendita dei beni delle Congregazioni soppresse, e con un contributo che avrebbe riscosso dai più ricchi tra gli enti ecclesiastici conservati, la Cassa avrebbe assicurato ai parroci più poveri un minimo reddito (il supplemento di congrua), che per l'innanzi gravava sul bilancio dello Stato.
Non fu invece approvato – per una reiezione del Senato, abilmente manovrato dal re – il disegno di legge sulla introduzione del matrimonio civile.
Anche in altri aspetti lo Stato aveva dismesso il carattere confessionale; i cimiteri erano divenuti comunali, l'Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro aveva perduto ogni traccia delle sue origini di ordine religioso; poteva venir conferito anche a non cristiani.
Il Piemonte giungeva così al fatidico anno '59 come solo Stato costituzionale d'Italia, come solo Stato che avesse una legislazione ecclesiastica condannata dal papa, il solo in cui sulla vecchia disciplina regalista nelle materie ecclesiastiche – così la regola che quanto promana dalla Santa Sede debba essere sottoposto ad una visione governativa prima di avere efficacia nello Stato – si erano inseriti i principi dello Stato moderno, che in nessun ambito riconosce potestà a sé superiori, che non è legato ad alcuna confessione religiosa, ha un proprio codice etico (che nei Paesi di tradizione cristiana collimerà per la più gran parte, quasi mai interamente, con la precettistica religiosa), ma peraltro considera buon cittadino chiunque si conformi a questo codice etico, senza chiedergli se professi o meno una religione.

A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dall'unificazione ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1965, pp. 4-6.

 

La tesi marxista

L'interpretazione gramsciana del Risorgimento si fonda su alcuni principi politici fondamentali: il concetto di egemonia, inteso come capacità di guida e di attrazione da parte di un gruppo politico nei confronti degli alleati, ma anche degli avversari; il concetto del Risorgimento come rivoluzione passiva, come un processo subito dal popolo e non attuato. Tra le due principali forze politiche che furono protagoniste del processo di unificazione nazionale, i liberali moderati da un lato e i democratici del Partito d'azione dall'altro, Gramsci riconosce ai moderati capacità egemoniche, mentre vede nei democratici, per l'assenza di un programma concreto, una fondamentale subalternità nei confronti dei primi.

Si può dire che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dalla elaborazione di una sempre più larga classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche, con l'assorbimento graduale ma continuo, e ottenuto con metodi diversi nella loro efficacia, degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici. In questo senso la direzione politica è diventata un aspetto della funzione di dominio, in quanto l'assorbimento delle élites dei gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e al loro annichilimento per un periodo spesso molto lungo. Dalla politica dei moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere un'attività egemonica anche prima dell'andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione efficace: appunto la brillante soluzione di questi problemi ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato, senza "terrore", come "rivoluzione" senza "rivoluzione", ossia come "rivoluzione passiva" [...].
I moderati erano intellettuali "condensati" già naturalmente dall'organicità dei loro rapporti con i gruppi sociali di cui erano l'espressione. Data questa condensazione o concentrazione organica, i moderati esercitavano una potente attrazione, in modo "spontaneo", su tutta la massa d'intellettuali d'ogni grado esistenti nella penisola allo stato "diffuso", "molecolare", per le necessità, sia pure elementarmente soddisfatte, della istruzione e dell'amministrazione.

A. Gramsci, Sul Risorgimento, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 67-69.

Il Partito d'azione non seppe assumere, secondo Gramsci, un carattere autenticamente popolare, accogliendo le rivendicazioni delle masse contadine ed elaborando quindi un programma concreto capace di mobilitare quella che era la maggioranza del popolo italiano.

Il Partito d'azione non solo non poteva avere – data la sua natura – un simile potere di attrazione, ma era esso stesso attratto e influenzato, sia per l'atmosfera di intimidazione [...] che lo rendeva esitante ad accogliere nel suo programma determinate rivendicazioni popolari (per esempio la riforma agraria), sia perché alcune delle sue maggiori personalità (Garibaldi) erano, sia pure saltuariamente (oscillazioni), in rapporto personale di subordinazione coi capi dei moderati. Perché il Partito d'azione fosse diventato una forza autonoma e, in ultima analisi, fosse riuscito per lo meno a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico (più in là non poteva forse giungere date le premesse fondamentali del moto stesso), avrebbe dovuto contrapporre all'attività "empirica" dei moderati (che era empirica solo per modo di dire poiché corrispondeva perfettamente al fine) un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini: all'attrazione "spontanea" esercitata dai moderati avrebbe dovuto contrapporre una resistenza e una controffensiva "organizzate" secondo un piano [...].
Invece il Partito d'azione mancò addirittura di un programma concreto di governo. Esso, in sostanza, fu sempre, più che altro, un organismo di agitazione e propaganda al servizio dei moderati.

A. Gramsci, Sul Risorgimento, cit., pp. 72-73.

 

 

 

 

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