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la rivoluzione francese

 

 

FONTI

 

L'Assemblea Nazionale abolisce i diritti feudali

Il 4 agosto 1789 l'Assemblea Nazionale decise l'abolizione dei diritti feudali, cancellando in buona misura il volto ancora arcaico e per molti aspetti anacronistico della Francia settecentesca. Il complesso sistema dei diritti e dei doveri feudali, pur con le trasformazioni alle quali era andato incontro nel corso dei secoli, veniva definitivamente liquidato per far posto a una nuova struttura sociale di stampo egualitario, che avrebbe trovato la sua lucida espressione nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino.
Quando si allude alle sopravvivenza feudali nella Francia del XVIII secolo ci si riferisce a tutti quegli ostacoli, di lontana derivazione feudale, che impedivano l'affermazione di una piena e libera proprietà privata e l'esercizio di una completa libertà d'iniziativa da parte di ogni cittadino. Il sistema di gravami feudali ancora in vigore limitava la libera circolazione delle merci, la libera attività imprenditoriale rendeva meno competitivi i prodotti agricoli e commerciali francesi e manteneva in vita dogane interne che corrispondevano ai vecchi feudi medievali. L'abolizione decisa il 4 agosto 1789 avviava dunque la Francia sulla strada di un ordinamento sociale ed economico di tipo liberale, ispirato alle riflessioni degli illuministi.

L'Assemblea nazionale distrugge completamente il regime feudale e decreta che, nei diritti e nei doveri, sia feudali che censuali, quelli che hanno relazione alla manomorta [complesso delle limitazioni alla proprietà privata] reale o personale e alla servitù personale, e quelli che li rappresentano, sono aboliti senza indennità; e tutti gli altri dichiarati riscattabili; e che il prezzo e la modalità del riscatto saranno fissati dall'Assemblea nazionale. Quelli di tali diritti che non saranno soppressi da questo decreto continueranno ciò nondimeno ad essere percepiti fino al rimborso [...]
3. Il diritto esclusivo della caccia e delle garenne [conigliere] aperte è analogamente abolito; e ogni proprietario ha il diritto di distruggere e fare distruggere solo nei propri possedimenti ogni specie di selvaggina, salvo adeguarsi alle leggi di polizia che potranno essere emesse relativamente alla pubblica sicurezza [...]. Il Signor Presidente sarà incaricato di chiedere al Re il richiamo dei galeotti e degli esiliati per il semplice fatto di caccia, la scarcerazione dei prigionieri attualmente detenuti e la decadenza delle procedure in atto a tale titolo.
4. Tutte le giustizie signorili vengono soppresse senza alcuna indennità; tuttavia gli ufficiali di queste giustizie continueranno nelle loro funzioni fintanto che l'Assemblea nazionale non sia giunta a stabilire un nuovo ordine giudiziario.
5. Le decime di ogni natura e i canoni che ne tengon luogo, sotto qualsiasi denominazione siano conosciuti e percepiti [...] vengono aboliti; salvo provvedere ai mezzi per sovvenire in altro modo alle spese per il culto divino, al mantenimento dei ministri di tale culto, all'aiuto dei poveri, al restauro e alla costruzione delle chiese e dei presbiteri e a tutti gli istituti, seminari, scuole, collegi, ospedali, comunità e altri al cui mantenimento tali mezzi sono destinati [...].
6. Tutte le rendite fondiarie perpetue, sia in natura che in denaro, di qualunque specie esse siano, qualunque sia la loro origine, a qualsiasi persona siano dovute [...], saranno riscattabili; gli champart [le decime sul raccolto] di qualsiasi specie e sotto qualsiasi denominazione saranno analogamente riscattabili al tasso che verrà stabilito dall'Assemblea [...].
7. La venalità degli uffici della magistratura e del municipio è soppressa a partire da questo momento. La giustizia sarà amministrata gratuitamente e tuttavia gli ufficiali titolari di questi uffici, continueranno a esercitare le loro funzioni e a percepirne gli emolumenti fin quando l'Assemblea non abbia provveduto ai mezzi onde procurare il loro rimborso [...].
9. I privilegi pecuniari personali o reali, in materia di sussidi, sono aboliti per sempre. La riscossione verrà fatta su tutti i cittadini e su tutti i beni nello stesso modo e con le stesse modalità; si provvederà ai mezzi onde effettuare il pagamento proporzionale di tutti i contributi, anche per gli ultimi sei mesi di imponibile per l'anno in corso.

in A. Soboul, 1789, l'anno I della libertà, Episteme, Milano 1975, pp. 310-312.

 

La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino

Il documento viene considerato a ragione l'emblema della fase più originale della Rivoluzione francese, quella cioè caratterizzata dal desiderio di superare la struttura dell'Antico Regime assolutistico per sostituirlo con un nuovo ordinamento di natura liberale e monarchico-costituzionale. La dichiarazione venne redatta da una sottocommisione della Costituente presieduta dall'arcivescovo di Bordeaux, Champion de Cicé, dopo una delicata e laboriosa rielaborazione. I principi che vi vengono solennemente enunciati proclamano l'assoluta uguaglianza di ogni uomo di fronte alla legge, tutelano la sua legittima aspirazione alla libertà d'opinione, di coscienza e di proprietà, attribuiscono allo Stato (e quindi alla monarchia) il compito di farsene carico e di attuarla nel concreto, configurano un'idea di sovranità che ha nel popolo (e non più in Dio) la sua origine ultima. Il documento, in sostanza, anticipava l'elaborazione della Costituzione del 1791: essa avrebbe cercato di tradurre nel dettato costituzionale i principi teorizzati nella Dichiarazione del 26 agosto 1789.

I Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l'ignoranza, l'oblio o il disprezzo dei diritti dell'uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell'uomo, affinché questa dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro incessantemente i loro diritti e i loro doveri; affinché maggior rispetto ritraggano gli atti del Potere legislativo e quelli del Potere esecutivo dal poter essere in ogni istante paragonati con il fine di ogni istituzione politica; affinché i reclami dei cittadini, fondati d'ora innanzi su dei princìpi semplici ed incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della Costituzione e la felicità di tutti. In conseguenza, l'Assemblea Nazionale riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell'Essere Supremo, i seguenti diritti dell'uomo e del cittadino:
Art. 1. Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull'utilità comune.
Art. 2. Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell'uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione.
Art. 3 Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un'autorità che non emani espressamente da essa.
Art. 4. La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l'esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalla Legge.
Art. 5. La Legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla Legge non può essere impedito, e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina.
Art. 6. La Legge è l'espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno il diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti e impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti.
Art. 7. Nessun uomo può esser accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla Legge, e secondo le forme da essa prescritte. Quelli che procurano, emettono, eseguono o fanno eseguire degli ordini arbitrari, devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto, in virtù della Legge, deve obbedire immediatamente; opponendo resistenza si rende colpevole.
Art. 8. La Legge deve stabilire solo pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto, e legalmente applicata.
Art. 9. Presumendosi innocente ogni uomo sino a quando non sia stato dichiarato colpevole, se si ritiene indispensabile arrestarlo, ogni rigore non necessario per assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla Legge.
Art. 10. Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l'ordine pubblico stabilito dalla Legge.
Art. 11. La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell'uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere all'abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge.

Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino,
in A. Saitta, Costituenti e costituzioni della Francia moderna, Einaudi, Torino 1952, pp. 66-68.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

Una o più rivoluzioni?

Un dibattito, tuttora aperto, imperniato sulla questione dell'attribuzione a una sola classe sociale della funzione preminente nella gestione dell'empito rivoluzionario, per altro assodatamente complesso, è stata suscitata verso la fine degli anni Sessanta del XX secolo a opera di studiosi di vario orientamento: a cadere sotto i colpi della critica fu, in questa occasione, l'interpretazione che, a partire da Tocqueville fino a Jaurès e Soboul, vedeva impresso al vertice del moto di sollevazione essenzialmente il suggello borghese, come ebbe modo di precisare in un suo saggio C. Lucas.

Un tempo gli storici della Rivoluzione francese lavoravano fraternamente nei territori del passato. Erano uniti da convincimenti semplici ma soddisfacenti. Nel XVIII secolo la borghesia francese era divenuta cosciente della crescente disparità fra le sue ricchezze e la sua utilità sociale da un lato, e le sue possibilità e il suo prestigio sociale dall'altro. Il suo cammino era bloccato e il riconoscimento del suo valore negato da una classe decadente di nobili proprietari terrieri, parassiti e privilegiati per nascita. La sua vitalità era inoltre compromessa da una monarchia non soltanto legata ad antiquati valori aristocratici, ma pure incapace di dare al paese quella direzione ferma seppur bonariamente contenuta, sotto la quale sarebbe potuta fiorire l'iniziativa degli uomini d'affari. Il conflitto tra questi elementi aveva prodotto la Rivoluzione francese. Esisteva, inoltre, un conflitto più profondo fra le classi progressiste orientate verso il capitalismo e le classi aristocratiche retrograde. La Rivoluzione francese era stata vinta dalla borghesia, nonostante certe interferenze dal basso, ed era stato così fondato il quadro che avrebbe consentito lo sviluppo dell'economia capitalista, e della società di classi e — eureka — del mondo moderno. Questa, in forma schematica, era l'interpretazione della crisi rivoluzionaria della fine del XVIII secolo, sostenuta dalle grandi autorità della prima metà di questo secolo, a partire da Jaurès fino a Soboul, anche se ciascuno conferiva a essa un accento più o meno esplicitamente marxista a seconda delle proprie convinzioni personali. Ma, marxisti o non marxisti, erano tutti uniti nella convinzione di non poter sfuggire a questo punto nodale della storia.

C. Lucas, Nobili, borghesi e le origini della Rivoluzione francese,
in Il mito della Rivoluzione francese, a cura di M. Terni, Mondadori, Milano 1981, pp. 187-188.

Proprio il dubbio che condusse la storiografia a sviscerare il problema dell'egemonia borghese sulle sorti della Rivoluzione francese è in qualche modo alla base di un exploit critico effettuato da F. Furet e D. Richet, che suscitarono un vespaio di polemiche per le ipotesi formulate nel loro celebre saggio. In quest'opera di spiccato tenore innovativo, infatti, i due studiosi francesi per la prima volta insinuano che, nell'ambito generico di un concetto unitario di rivoluzione come svolta traumatica, l'estate del 1789 si differenzia e acquista una rilevanza peculiare proprio in virtù della sua intrinseca multiformità, individuata nella compre-senza, all'interno del moto, di complicate pulsioni, diverse e contrapposte sia dal punto di vista dell'humus sociale che le generava, sia da quello degli ideali programmatici che ne nutrivano la crescita. Prende allora forma la tesi delle tre rivoluzioni, che denota la sostanziale specificità di moventi che avrebbero condotto all'eversione dell'Antico Regime.

Si può parlare [...] di una Rivoluzione francese? Certo sì se la si considera come una rottura decisiva o una azione fondamentale, concetto insito nell'ipotesi di lavoro [...]. Ma se [...] si rifà la storia delle sue modalità, certamente no. Alla Rivoluzione francese concepita come un tutto unico, abbiamo contrapposto l'idea di uno scontro fra rivoluzioni molteplici, mettendo così in subbuglio la critica. Se ammettiamo la specificità dei movimenti rurali e urbani [...] perché insistere nel supporre una fondamentale unità là dove vediamo soltanto differenza e addirittura antagonismo? Gli studi più notevoli sul contado [...] hanno tuttavia rafforzato la nostra convinzione dell'autonomia delle diverse rivoluzioni e controrivoluzioni. Che il programma delle élites delle Accademie o delle Società scientifiche fosse identico a quello dei contadini della Sarthe o degli artigiani parigini ci sembra una teoria indimostrabile.

F. Furet-D. Richet, La Rivoluzione francese, Laterza, Bari 1974, pp. VIII-II

Tale teoria è stata successivamente contestata, con argomenti probanti, da M. Novelle, il quale, pur dando atto alla descrizione dei due colleghi di essere attenta nella disamina dei particolari, ne evidenzia le pecche a livello di prospettiva. Per lo storico, marxista di stampo non ortodosso, la molteplicità della Rivoluzione del 1789 è sostenibile solo a patto di inserirla in una visione d'insieme, complessa ma in ogni modo "unitaria". Egli si chiede:

è lecito distinguere tre Rivoluzioni autonome, nell'estate dell'89? A parer nostro, sarebbe una deformazione della realtà. L'unità del movimento rivoluzionario è certo discutibilissima sotto molto aspetti, ma non è però semplice coesistenza, che al limite potremmo dire fortuita, di una Rivoluzione del futuro, che sarebbe poi quella borghese, e di furori tradizionali, di un miscuglio di motivazioni economiche e di millenarismo nostalgico che caratterizzerebbe gli atteggiamenti popolari, urbani o rurali che siano. Attraverso mediazioni diversissime emergono uno stesso programma e uno stesso risultato, la distruzione dell'Ancien Régime sociale e politico. Senza la rivolta popolare urbana la Rivoluzione borghese sarebbe fallita, e i furori contadini della Grande Paura tornano utili a una borghesia che ne è atterrita ma ha da guadagnare quanto e più del contado dalla notte del 4 agosto. Al di là delle incomprensioni, delle diffidenze e delle ostilità, la Rivoluzione del 1789 è una sola, il che non ci esime dal metterne in evidenza i livelli specifici.

M. Novelle, La Francia rivoluzionarla. La caduta della monarchia 1787-92, Laterza, Bari 1974, p. 132.

Una rivoluzione borghese?

Nella sua opera fondamentale La Rivoluzione francese (1959) Albert Soboul, tracciando un bilancio dell'esperienza rivoluzionaria, ribadisce la validità dell'ottica "unitaria" e stabilisce una volta per tutte che la Rivoluzione francese fu eminentemente borghese, se pure ne vanno messi in evidenza, quali importanti tratti distintivi, il coefficiente democratico e la notevole componente centripeta. Il tono dello storico appare, a questo proposito, inequivocabile.

Dieci anni di vicende rivoluzionarie avevano però trasformato in modo fondamentale la realtà francese, che ora corrispondeva nell'essenziale alle concezioni della borghesia e dei possidenti. L'aristocrazia d'antico regime era stata distrutta nei suoi privilegi e nel suo predominio, le ultime vestigia della feudalità erano state abolite. Facendo tabula rasa di tutte le sopravvivenze feudali, liberando i contadini dai diritti signorili e dalle decime ecclesiastiche e in certa misura anche dalle costrizioni comunitarie, abbattendo i monopoli corporativi e unificando il mercato nazionale, la Rivoluzione francese accelerò l'evoluzione della società e costituì una tappa decisiva del passaggio dal «feudalesimo» al capitalismo. D'altro canto, distruggendo i particolarismi provinciali e i privilegi locali, rompendo l'armatura a «stati» dell'Antico Regime, essa rese possibile l'instaurazione, dal Direttorio all'Impero, di uno Stato moderno, conforme agli interessi economici e sociali della borghesia. Rivoluzione borghese — ma la più strepitosa, che per la drammaticità delle sue lotte di classe getta in ombra quelle che l'avevano preceduta — la Rivoluzione francese appare tuttavia, per riprendere l'espressione di Jaurès, «largamente borghese e democratica» rispetto a quelle degli Stati Uniti e d'Inghilterra, rimaste «strettamente borghesi e conservatrici». Fu l'ostinazione dell'aristocrazia a rendere impossibile ogni compromesso politico di tipo anglosassone e a costringere la borghesia a continuare non meno ostinatamente la distruzione totale dell'ordine antico: ma essa non poté farlo se non coll'appoggio popolare. Marx ha parlato dei «terribili colpi di martello» del Terrore e della «gigantesca scopa» della Rivoluzione francese. Strumento sociale e politico ne fu la dittatura giacobina della piccola e media borghesia, sostenuta dalle masse popolari cittadine e rurali: categorie sociali il cui ideale era una democrazia di piccoli produttori autonomi, contadini e artigiani indipendenti che lavorassero e commerciassero liberamente.

A. Soboul, La Rivoluzione francese, Laterza, Bari 1971, pp. 651-652.

Ma a Soboul, che aveva posto l'accento sul carattere borghese della Rivoluzione, replicò nel 1967 lo storico inglese Cobban, il quale mise in discussione la legittimità di un'ipotesi basata sulla considerazione delle sopravvivenza feudali quale elemento determinante per lo scoppio della crisi in Francia. Rilevando il malinteso di Soboul, egli ne trae motivazioni sufficienti per contestare lo stesso concetto di rivoluzione «borghese», di cui sottolinea l'inconsistenza. Oggetto della contestazione di Cobban è proprio la questione dei "diritti signorili": se per Soboul la reazione al ripristino di tali oneri andava interpretata in senso «borghese», per Cobban l'antagonismo manifestato dai contadini si rivolgeva, piuttosto, contro la «crescente commercializzazione» delle campagne.

C'è almeno una giustificazione per credere che la rivoluzione della campagna francese non sia stata contro il feudalesimo, ma contro una crescente commercializzazione; cioè che non fu un movimento «borghese», ma fu al contrario diretta in parte contro la penetrazione degli interessi finanziari urbani nelle campagne.

A. Cobban, La società francese e la Rivoluzione, Sansoni, Firenze 1967, p. 52.

Giudicandola alla stregua di un mito storiografico, lo studioso inglese nega la lettura secondo cui nelle campagne francesi nel 1789 si sarebbe verificata una «rivolta borghese contro il feudalesimo» e avvicina piuttosto il malessere contadino alla vivace opposizione che, nel XVII e XVIII secolo, accompagnò in Inghilterra l'eliminazione degli open fields.

In verità non si vede in che modo sia possibile non accettare quanto ogni storico, se avesse osservato l'evidenza, avrebbe per forza accettato, qualora non fosse stato intellettualmente schiavo di una teoria. L'abolizione dei diritti signorili fu opera delle campagne, ammessa controvoglia dagli uomini che redassero i cahiers delle città e dei baliaggi, e imposta al- l'Assemblea Nazionale dalla paura ispirata da una rivolta contadina. Ne deriva che «il rovesciamento del feudalesimo ad opera della borghesia» si avvicina molto a un mito.

A. Cobban, La società francese e la Rivoluzione, cit., p. 53.

Questa querelle stimolò, soprattutto in area anglosassone, ulteriori approfondimenti e analisi più articolate a proposito del carattere – omogeneo o composito? – della Rivoluzione francese. Spetterà a T.C.W. Blanning mettere in luce l'improprietà stessa del termine "borghesia" se applicato ai ceti emergenti della Francia rivoluzionaria e di precisare inoltre come la nobiltà, grazie alla novità legislativa promulgata nel 1789, mantenesse nella società un ruolo ancora rilevante a livello di potere. In questo senso il giudizio dello storico inglese si dimostra esemplarmente equilibrato e assolutamente lontano dai toni accesi e spesso polemici del dibattito storiografico francese.

La cosa che colpisce subito è la portata dei benefici che derivarono alla borghesia, sia a livello nazionale che locale, dal nuovo ordinamento politico. L'elettorato fu diviso in tre – «cittadini passivi», «cittadini attivi» e «elettori eleggibili» – secondo criteri di ricchezza che, di fatto, assegnavano il potere politico ai ricchi. In teoria, un criterio puramente materiale avrebbe dovuto favorire i nobili, invece questi uscirono dalla scena politica nella maggior parte degli 83 dipartimenti in cui la Francia venne divisa. Studi analitici sulle diverse situazioni locali, che hanno sottolineato l'eterogeneità per molti aspetti della Francia rivoluzionaria, hanno confermato che in quasi tutte le comunità furono i borghesi a prendere il controllo. Non costituirono un gruppo fisso, al contrario, gli uomini nuovi erano volta a volta sostituiti da altri uomini nuovi, con il risultato che nel corso degli anni Novanta, furono in molti ad acquisire una certa esperienza di politica attiva. Definire questa nuova classe politica «borghese» in senso marxista sarebbe improprio, sia da un punto di vista di posizione sociale che di coscienza di classe. Diversi per funzione economica, i suoi esponenti possedevano i mezzi di produzione, che fossero sotto forma di capitali, esperienza, macchinari o terre. Non omogenei per opinione politica, i suoi membri erano compatti nel respingere il feudalesimo, l'aristocrazia e l'assolutismo. Purtroppo, però, usare il termine borghese in un'accezione tanto ampia non ci porta molto lontano. Non consente di distinguere tra repubblicani militanti e realisti moderati, né concilia il fatto che le parti più avanzate in Francia, economicamente parlando, erano spesso di destra mentre il repubblicanesimo radicale era più diffuso nelle regioni meno capitaliste. Nondimeno, la politica sociale ed economica dell'Assemblea nazionale fu manifestamente favorevole alla borghesia; introducendo il criterio meritocratico mise in condizioni di vantaggio individui dotati di mezzi e cultura. Sotto la bandiera dell'universalismo – forse addirittura convinti di agire nell'interesse generale, – i rivoluzionari erano attenti a ricavare dalle circostanze il massimo profitto. Anche la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, il documento rivoluzionario più consapevolmente universalista, dichiarò la proprietà privata un diritto naturale e inalienabile (principio non particolarmente importante per la grande maggioranza dei francesi, che non avevano proprietà e nessuna prospettiva di averne). L'abolizione delle barriere doganali interne e dei monopoli commerciali privilegiati, l'introduzione di un sistema uniforme di pesi e misure, il metodo adottato per la vendita dei bíens nationaux, la legge Allarde che aboliva le corporazioni e la legge Chapelier che scioglieva le associazioni dei lavoratori, tutto fu a vantaggio degli interessi borghesi. A un livello più simbolico, l'abolizione dei titoli nobiliari e di alcuni privilegi onorifici degli aristocratici, come il diritto di portare armi e ostentare gli emblemi araldici, l'introduzione dell'appellativo «cittadino» come forma ufficiale di saluto, e molti altri cambiamenti del genere, contribuivano a elevare lo status sociale della borghesia. Ma tali cambiamenti promuovevano solo gli interessi borghesi? Non erano favoriti allo stesso modo – se non addirittura in misura maggiore – dallo smantellamento delle restrizioni del vecchio regime i nobili intraprendenti? Anche i nobili avevano mezzi e cultura, anzi più mezzi e migliore cultura di molti emuli borghesi. In cambio della perdita di un certo numero di privilegi onorifici, ai quali peraltro molti fra loro non attribuivano alcuna importanza, si vedevano offerte opportunità infinite di avanzamento politico ed economico. È indubbio che molti aristocratici consideravano la Rivoluzione opera del diavolo e non sopportarono di vivere in Francia durante il suo svolgersi, ma per ogni conte d'Artois che dimostrativamente emigrava, ce n'erano dozzine che rimanevano a casa e tranquillamente continuavano a trarre il meglio dalle circostanze. Solo una percentuale tra il 7 e l'8 per cento dei nobili francesi emigrò e non di tutti si può dire che fossero irriducibili reazionari.

T.C.W. Blanning, Aristocrazia e borghesia nella Rivoluzione francese,
Sansoni, Firenze 1989, pp. 44-45.

Anche Jacques Solé, che ha passato in rassegna i risultati della ricerca storiografica più recente, ha dovuto concludere circa l'ambiguità dell'ipotesi secondo cui ci fu, da parte di una già aleatoria classe borghese, un preciso disegno politico per l'eliminazione dei residui feudali. Lo storico francese, anzi, propende per la casualità di alcuni eventi fondamentali.

I principi del 1789 non corrispondono, in senso stretto, alle aspirazioni di nessuno dei gruppi della società prerivoluzionaria. Il loro enunciato non era più chiaro al momento della riunione degli stati generali e non dipese dal mandato dei cahiers. Essi furono formulati in modo in gran parte accidentale, conformemente alla natura delle origini della Rivoluzione. La scomparsa dell'Ancien Régime era senza dubbio inevitabile dato il suo tracollo finanziario e data la sua incapacità di riformarsi. La convocazione degli stati generali gli venne imposta dopo diciotto mesi di crisi. I suoi avversari non sapevano, all'inizio, con che cosa rimpiazzarlo e si accontentarono, in un primo momento, di definire un consenso costituzionale e liberale. Dovettero poi integrare politicamente la borghesia alla nazione. Questa spettatrice sempre meglio informata degli affari pubblici non sembrava desiderare di parteciparvi fino al 1788. La convocazione, la preparazione e la composizione degli stati generali la resero, al contrario, attiva. La sua partecipazione a un potere fino a quel momento riservato ai nobili, poco contestata dalla maggioranza di loro, fu disgraziatamente mescolata alla critica, inedita, della loro preponderanza sociale e sollevò così sospetto e incomprensione reciproci. Questi antagonismi, accresciuti dalla redazione dei cahiers, spinsero nobiltà e borghesia ad affrontarsi per il potere, quando erano fondamentalmente d'accordo sulle basi del suo esercizio. La distruzione del privilegio nobiliare divenne dunque la condizione indispensabile per la costituzione di una nuova élite che non era solamente borghese. Ci volle l'intervento popolare per venire a capo, su questo punto, dell'ostruzionismo aristocratico e governativo. L'abolizione del regime feudale scaturì, poco dopo, non da una chiara volontà iniziale, ma da una risposta improvvisata alla rivolta delle campagne. Come è normale, i vincitori di questa immensa crisi sociale e politica affermarono di averne sempre auspicata la soluzione. Questi risultati, in realtà, non erano previsti da nessuno due anni prima. Lungi dall'aver creato la Rivoluzione, i rivoluzionari, la loro mentalità e le loro realizzazioni furono piuttosto prodotti da lei.

J. Solé, Storia critica della Rivoluzione francese, Sansoni, Firenze 1989, pp. 52-53.

Sulla scorta di questi esiti critici è toccato a François Furet dedurre l'uso puramente ideologico del concetto di «Rivoluzione borghese» applicato a una situazione di fatto estremamente composita: i dati empirici dimostrano con sufficiente evidenza il difetto intrinseco della teoria di stampo marxista, fondata su presupposti astratti rispetto al contesto cui si riferiscono.

Il concetto di «Rivoluzione borghese» offre all'interpretazione storica degli eventi francesi un appiglio quasi provvidenziale, presentando una concettualizzazione generale che consente d'inglobare non soltanto i molteplici e abbondanti dati empirici, ma anche i diversi livelli della realtà, giacché rimanda al livello economico in uno con quello sociale e quello politico-ideologico. Sul piano economico, si presume che gli eventi svoltisi in Francia fra il 1789 e il 1799 liberino le forze produttive e partoriscano con dolore il capitalismo; sul piano sociale, esprimono la vittoria della borghesia sulle vecchie classi «privilegiate» dell'Ancien Régime; in termini politici e ideologici, infine, rappresentano l'avvento di un potere borghese e il trionfo dei «Lumi» sui valori e le credenze dell'era precedente. Situata in questi tre trends storici, la rivoluzione è pensata non solo come rottura fondamentale fra il prima e il dopo, ma anche come conseguenza decisiva e a un tempo elemento fondatore di tali trends; e l'insieme dei tre livelli d'interpretazione è sussunto da un unico concetto, quello cioè di «rivoluzione borghese», come se il nocciolo dell'evento, il suo carattere più fondamentale, fosse di natura sociale. È attraverso questo slittamento teorico che, nella storiografia francese, si è passati in maniera insidiosa e permanente da un marxismo fondato sul concetto di «modo di produzione» a un marxismo ridotto a semplice lotta di classe.

F. Furet, Critica della Rivoluzione francese, Laterza, Bari 1980, p. 132.

Una rivoluzione popolare?

È importante sottolineare come la Rivoluzione francese segni l'irruzione sulla scena della storia, con un ruolo di primo piano, delle masse popolari: ciò che in precedenza era rimasto puramente allo stato di sfogo e si manifestava in empiti di furore distruttivo sì, ma saltuario e privo di conseguenze concrete sul piano della rivendicazione sociale (come per esempio nel caso della jacquerie), assurge ora a fenomeno di rilievo, da tenere in reale considerazione; così come la violenza, prima fine a se stessa e senza sbocchi, diventa ora un modo di espressione politica. N termine di un'analisi approfondita, su questo aspetto fondamentale e innovativo della Rivoluzione francese ha fatto il punto lo storico inglese Cobb, che insiste su un concetto di massa popolare che non deve essere ridotto a folla anonima incapace di progettazione politica.

Sia i contemporanei che diverse generazioni di storici liberali o reazionari si sono scandalizzati di fronte allo spettacolo offerto dalla violenza popolare durante la Rivoluzione francese. I contemporanei temettero che queste nuove forme di violenza inaspettate ed imprevedibili potessero essere usate contro i proprietari e la gente rispettabile, anziché contro gli imbroglioni ed i delinquenti. Infatti, ciò che sembra aver scandalizzato sia i contemporanei che gli storici è il fatto che la violenza sia stata popolare (e quindi necessariamente illegale, brutale, caotica e priva di direzione). [ ... ] Eppure questa violenza non è così odiosa o inammissibile come quella della guerra o della diplomazia; non fu gratuita, né prerogativa di una sola classe o di un solo partito; tutte le classi, tutti i partiti furono entusiasticamente favorevoli alla violenza, quando vi erano buone probabilità di poterla usare contro i nemici più diretti, tendendo, tuttavia, a scoprire immediatamente i vantaggi della misericordia quando le cose si mettevano male. Proprio come il tumulto e le dimostrazioni non sono una occupazione esclusiva (almeno in Europa) e la folla è un fenomeno evanescente e fuggevole, così la violenza, nella sua forma fisica, costituisce solo un incidente di un movimento rivoluzionario ricco di ogni possibile elemento.

R. Cobb, Polizia e popolo. La protesta popolare in Francia (1789-1820),
Il Mulino, Bologna 1976, pp. 113-114, 117.

 

L'eredità della Rivoluzione francese

Si è già accennato all'importanza della Rivoluzione francese per la cultura moderna. Non a caso, dunque, a vent'anni di distanza dalla querelle storiografica presa in esame, su questo punto le opinioni di Lefebvre e Furet, studiosi agli antipodi dal punto di vista della matrice storiografica, concordano nel riconoscere nei principi di «uguaglianza», se pure non realizzata appieno, e di «nazione» i tratti fondamentali dell'ideologia della Rivoluzione francese, nonché il lascito più autentico e rilevante per il pensiero contemporaneo. Georges Lefebvre, in proposito, insiste nel mettere in rilievo l'originalità del modello francese rispetto alla tradizione liberale inglese, che fa capo alla Rivoluzione del 1688, e alle implicazioni sociali e culturali della Rivoluzione americana.

Con l'invocare il diritto naturale la Rivoluzione francese conferì alla propria opera un carattere universale che non possedeva la libertà britannica, ma affermò questo carattere con assai maggior forza. Non proclamò soltanto la repubblica: istituì il suffragio universale. Non liberò soltanto i bianchi: abolì la schiavitù. Non si accontentò della tolleranza: riconobbe la libertà di coscienza, ammise i protestanti e gli ebrei nella vita politica e, creando lo stato civile, riconobbe a ciascuno il diritto di non aderire ad alcuna religione.
Ma non fu questo il suo carattere principale. Innanzitutto, essa fu la rivoluzione della eguaglianza. Mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti l'accento non batteva sulla eguaglianza dei diritti perché l'aristocrazia e l'alta borghesia vi si trovavano associate, la borghesia francese fu costretta dall'atteggiamento della nobiltà a metterla in primo piano. Poi i contadini le conferirono una splendida consacrazione abolendo il potere signorile. Per i rivoluzionari, la libertà è il fatto di non obbedire ad alcun uomo se non è autorizzato a comandare dalla legge liberamente consentita; libertà ed eguaglianza sono inseparabili, perché, senza l'eguaglianza, la libertà non è che il privilegio di alcuni. Liberi ed eguali nei diritti, i francesi sono divenuti la nazione una ed indivisibile. E in tal modo la rivoluzione riveste il terzo carattere di aver procurato alla sovranità nazionale un rilievo che essa fino a quel momento non aveva. Essa ha preteso di liberare le nazioni come la persona. Da qui derivò il diritto delle nazioni all'autodeterminazione: la Costituente affermò che l'Alsazia, Avignone, la Corsica appartenevano alla nazione francese non in virtù di trattati conclusi dai principi, ma per il loro libero consenso. Il diritto della gente si trovò ad essere rinnovato come il diritto pubblico interno. La rivoluzione considerava queste nazioni libere, alla sua aurora, come destinate a vivere in pace e a cooperare; l'idea di una società delle nazioni, di una repubblica universale è stata ad essa cara.
Questi caratteri permettono di comprendere la risonanza della Rivoluzione francese nel mondo e il valore che il suo ricordo conserva ancora.

G. Lefebvre, La Rivoluzione francese nella storia del mondo,
in B. Farolfi, Capitalismo europeo e rivoluzione borghese. 1789-1815, Laterza, Bari 1972, pp. 283-284.

I succitati principi di «uguaglianza» e di «nazione» vengono opportunamente sottolineati anche da Furet, il quale, in questo brano, vi coglie le coordinate che hanno governato, in qualità di esempio assiomatico, la riflessione politica e culturale dal 1789 ai nostri giorni.

Due grandi passioni collettive giocarono un ruolo essenziale nella dinamica della rivoluzione, che la spinse in avanti senza che alcuno dei suoi protagonisti potesse controllarne il corso: la prima era centrata sull'uguaglianza e la seconda sull'idea nazionale.
Per i Francesi di fine Settecento la passione dell'uguaglianza fu indubbiamente il sentimento politico dominante, generato dalla società aristocratica o piuttosto da quella patologia della società aristocratica che fu l'Ancien Régime, un mondo in cui le distinzioni di status e di rango non avevano più alcun rapporto con l'esercizio di funzioni politiche e in cui i privilegi, moltiplicati da una monarchia sempre a corto di denaro, avevano sgretolato la legittimità della soggezione sociale pur dando un estremo rilievo agli aspetti esteriori [...]. Appena affermatosi, il principio ugualitario lasciò scorgere tutta la profondità di un nuovo abisso sociale, apertosi non più tra aristocratici e plebei, ma tra ricchi e poveri. La democrazia si dimostrava inseparabile da un'ineguaglianza non più inserita tra le regole imprescrittibili di una soggezione secolare, ma semplicemente presente nella distribuzione delle ricchezze, e tanto più vistosa in quanto incompatibile con i principi dichiarati della società. Adoperando le parole di Hannah Arendt, la rivoluzione francese si scontrò ben presto con la «questione sociale». Dopo aver distrutto l'«aristocrazia» propriamente detta, la rivoluzione dovette ancora lottare contro altre «aristocrazie», però inafferrabili (in quanto non definibili giuridicamente) e continuamente rinascenti dal fondo della società. Per designarle, la rivoluzione adoperò il suo linguaggio, quello del volontarismo politico: se l'aristocrazia di Sieyès aveva il preciso profilo del privilegio, quella di Robespierre fu solo ormai l'avversario indicato dal potere, e aristocratici divennero i foglianti, i girondini, gli hebertisti e i dantonisti. Dopo il 9 termidoro, d'altronde, anche Robespierre diventerà a sua volta il simbolo di un complotto per restaurare l'Ancien Régime.
L'idea di uguaglianza servì da cemento al nuovo Stato-nazione, cui fornì una base più ristretta e insieme più ampia che nel vecchio regno: più ampia perché si radicava nell'universale democratico, e più ristretta perché escludeva i nobili dalla comunità storica.
La «nazione» era una parola enigmatica e onnipotente, che traeva la sua forza da un passato antichissimo ma che la chimica rivoluzionaria aveva rinnovato. Sieyès e i Costituenti vi radicarono l'inalienabile sovranità di un popolo costituito da individui uguali e che escludeva i privilegiati; a partire da loro l'uguaglianza e la nazione diventarono due figure sorelle, che si garantivano l'un l'altra. Nel 1792 la rivoluzione volle ancora disperdere i simboli dell'ineguaglianza rifugiatisi al di là delle sue frontiere, e di lì passò con naturalezza al progetto di emancipare gli altri popoli e d'instaurare l'uguaglianza in Europa. L'idea rivoluzionaria di nazione, ritorta contro il re, trovò una carica inedita in un'elezione messianica della nuova Francia: dalla loro fusione nacque un insieme di sentimenti fortissimi, che unì le classi in un'autentica passione collettiva, integrando le masse nello Stato grazie a un patriottismo ugualitario.
Prima del 1789 la filosofia illuministica, europea e cosmopolita, aveva conquistato solo un pubblico ristretto, aristocratico e borghese, quasi unicamente di origine urbana, mentre grazie alla rivoluzione penetrò nelle masse popolari cittadine e campagnole. Sarà ormai la democrazia più radicale a formare in Francia il fondo del sentimento di appartenenza collettivo, vestendo il particolare dei colori dell'universale e imprimendo alla coesione nazionale – retaggio della monarchia – un dinamismo ancora inedito sulla scena del mondo.
D'allora le due idee congiunte di uguaglianza e di nazione composero il combustibile della rivoluzione, prolungandone il corso senza limiti e insieme senza freni, in una grande lezione pratica che formerà in seguito l'inseparabile commento del 1789 e della Dichiarazione dei diritti.

F. Furet, Introduzione a L'eredità della rivoluzione francese, Laterza, Bari 1989, pp. 16-19.

 

Dagli Stati Generali all'Assemblea Nazionale: la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino

Se vogliamo seguire cronologicamente lo svolgimento della Rivoluzione, possiamo suddividerla in alcuni grandi periodi: la convocazione degli Stati Generali in cui il Terzo Stato si arroga il diritto di rappresentare l'intera Assemblea nazionale, l'organizzazione politica che si attua con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino e la Costituzione del 1791, la guerra e la caduta della monarchia, l'attività febbrile della Convenzione, la "reazione termidoriana". Fin dall'Ottocento gli storici si sono posti il problema se, a partire dal 1789, si possa vedere negli avvenimenti francesi una rivoluzione nel senso classico del termine. Eminente, tra i sostenitori della tesi di uno sviluppo coerente in armonia con il passato, è Tocqueville, "aristocratico" per istinto ma "democratico" per riflessione. Secondo lui la Rivoluzione ha avuto il grande merito di aver distrutto le istituzioni nobiliari, le disuguaglianze e le disparità regionali, l'assolutismo regio e di aver instaurato i principi di libertà e di eguaglianza: «L'89 fu un'epoca di inesperienza, ma anche di generosità, di entusiasmo, di virilità e di grandezza»; non creò ex novo, ma portò a maturazione un processo storico che già operava nell'Antico Regime. Essa accelerò violentemente, è vero, il moto da tempo avviato, ma non ruppe decisamente con il passato. Anzi, secondo Tocqueville, la Rivoluzione integrò l'opera della monarchia sei e settecentesca, mirante allo Stato moderno accentratore con l'ascesa della borghesia; non inventò la democrazia, ne agevolò soltanto le condizioni e il ritmo; fu un naturale portato della storia sull'esempio di quanto era avvenuto nell'Inghilterra degli Stuart.

Tutto quello che la Rivoluzione ha fatto, io non ne dubito, si sarebbe fatto anche senza di essa; non è stato che un processo rapido e deciso attraverso il quale si sono reciprocamente adattati lo stato politico allo stato sociale, i fatti alle idee, le leggi ai costumi. Nel Medioevo la monarchia capetingia ebbe il merito di aver unificato la Francia, di aver dato al popolo francese una torte coscienza nazionale, ma essa pur di poter governare non ebbe scrupolo di dividere i cittadini, di metterli gli uni contro gli altri; da ciò derivarono tutti i vizi e gli errori che portarono alla rivoluzione.

A. De Tocqueville, L'antico regime e la rivoluzione, Longanesi, Roma 1942, p. 46.

Anche l'istituzione delle Assemblee provinciali nel 1757, in quanto vi si parlò di riforme contro abusi e privilegi, si deve considerare come il punto di partenza delle sollevazioni popolari del periodo rivoluzionario; pure l'estremismo delle masse popolari viene da Tocqueville collegato alle «viziose abitudini» e alle cattive tendenze contratte sotto il regime padronale e considerato responsabile dei pericolosi sbandamenti ai quali andò incontro il fenomeno rivoluzionario. Ben diversa è la prospettiva del nostro Salvemini: lo storico radicale riconosce che la parola "rivoluzione", applicata alla Francia, può essere usata anzi nei due sensi di rovesciamento violento e di vasto mutamento graduale delle istituzioni.

Ma in quanto fu violenta e rapida la distruzione della società feudale e del regime monarchico, si può dire che la Rivoluzione francese finì il 21 settembre 1792, quando la monarchia fu formalmente abolita. Invece come creazione di un nuovo ordine sociale e politico, essa continuò fino al colpo di stato di Brumaio, indi fino alla costituzione del Consolato a vita, quando la Francia del secolo XIX, ci si presenta costituita nella sua forma sociale, se non politica, definitiva [...].
I periodi storici sono costruiti per comodità di chi deve ben cominciare da un anno e finire ad un altro, non potendo ogni volta cominciare dal paradiso terrestre per finire al giudizio universale. Ma vi sono periodizzazioni più o meno arbitrarie. Ed a me è sempre sembrato arbitrario prolungare la rivoluzione francese fino al 1794, cioè fino a quando il «terrore» sfocia in «Termidoro». Questo è, secondo me, confondere la demolizione dell'antico regime, che è completa nel settembre 1792, coi primi sforzi che i demolitori fanno per costruire un regime nuovo.

G. Salvemini, La rivoluzione francese, Laterza, Bari 1954, pp. 6-7.

Storici di orientamento culturale affine a Salvemini, com'è il caso di Lefebvre, considerano rivoluzionario un periodo più ampio del solo 1789-92. Nel 1789 però Lefebvre vede realizzarsi non una, ma ben quattro rivoluzioni: la rivoluzione aristocratica, la rivoluzione borghese, la rivoluzione popolare e la rivoluzione contadina. Di queste successive attuazioni, il momento culminante gli appare la rivoluzione giuridica operata con la Dichiarazione dei diritti.

È certo che, il 6 agosto 1789, la borghesia aveva posto in modo definitivo le basi della nuova società. La rivoluzione del 1789 non fu che il primo atto della Rivoluzione francese; ma quelli successivi si riassumono in una lunga battaglia, che, in verità, si prolungò fino al 1830, intorno a questa Carta fondamentale. La «Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino» rimane così come l'incarnazione della Rivoluzione intera.
Si sono fatti molti sforzi per contestarne l'originalità e, -per esempio, per collegarne la sostanza alle dichiarazioni che le colonie inglesi d'America avevano votate nel corso della lotta che loro valse l'indipendenza. Ma non è da dirsi che senza di quelle, la «Dichiarazione» francese non avrebbe visto la luce. Tutto il movimento filosofico francese, nel secolo XVIII, tendeva a riassumersi in quell'atto; il pensiero di Montesquieu, di Voltaire, di Rousseau vi collaborò. In realtà, l'America e la Francia, come prima di loro l'Inghilterra, sono egualmente tributarie di una corrente di idee il cui successo esprimeva l'ascesa della borghesia e che aveva elaborato per loro un ideale comune in cui si riassume l'evoluzione della civiltà occidentale.

G. Lefebvre, L'Ottantanove, Einaudi, Torino 1975, pp. 205-206.

Ancora considerano fondamentale il 1789 nella Rivoluzione gli storici del diritto e delle istituzioni politiche, che vi vedono l'atto di nascita del liberalismo moderno. «La Dichiarazione dei diritti – scrive De Ruggiero – contiene dunque in potenza tre rivoluzioni: una rivoluzione liberale stricto sensu, una rivoluzione democratica e una rivoluzione sociale: ma tutte e tre non rappresentano che l'espansione progressiva di un medesimo spirito individualistico, spinto fino all'esasperazione estrema del socialismo; esse pertanto rientrano tutte ugualmente nella storia della mentalità liberale. Ma per guardare queste tre rivoluzioni in atto, e non soltanto in effigie, bisogna che noi ampliamo il teatro della nostra indagine e guardiamo, insieme con la formula costituzionale, coloro che se ne fanno gli efficaci propugnatori» (I. G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Mondadori, Milano 1962, p. 71).

Nell'89 — continua De Ruggiero — il protagonista è il Terzo Stato, nella Convenzione forze più democratiche con l'abolizione del censo e col suffragio universale, puntato direttamente sullo stato, quindi nel '93 le rivendicazioni di carattere non più meramente politico ma sociale trovano eco nel progetto di Costituzione che Robespierre compilò quando la rivoluzione proletaria era sul suo culmine. Nel breve spazio di tempo tra il 1789 e il 1793 tre rivoluzioni si svolgono l'una nell'altra, e l'una forma nel tempo stesso il complemento e l'antitesi dell'altra. In esse vi è come l'anticipazione e il sommario di tutte le lotte politiche e sociali del secolo XIX.

G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, cit., p. 75.

 

La Repubblica e il "Terrore"

Dalla Dichiarazione dei diritti si venne dunque alla Costituzione civile del clero e alla Costituzione completa; si riunì quindi l'Assemblea legislativa e si venne alla guerra contro gli alleati. La monarchia, con le incertezze di Luigi XVI, le sue riserve mentali, la sua tentata fuga e poi i rapporti segreti con il nemico, si era scavata da sola la sua fossa. La fuga del re segnò una svolta nella Rivoluzione.

Per comprendere l'effetto capitale, sia di questa fuga sia del suo insuccesso — scrive Belloc —bisogna che insistiamo sulla posizione suprema della monarchia nelle tradizioni e nell'istituto della vita politica francese. Sarebbe difficile esagerare l'insipienza della fuga: è impossibile esagerare la rivoluzione causata dal suo insuccesso. Fu considerata virtualmente un'abdicazione. Il forte nucleo di opinione provinciale, silenziosa e moderata che si accentrava ancora sul re e riteneva che fosse la sua funzione dirigere e governare, si sconcertò e, in gran parte, abbandonò, per l'avvenire, la corona.

H. Belloc, La rivoluzione francese, Mondadori, Milano 1951, p. 92.

Il colpo decisivo alla monarchia lo diede la guerra esterna, lo diedero le vittorie sui monarchi stranieri. Fu proclamata la Repubblica, il conflitto si allargò, le difficoltà all'interno e all'esterno crebbero. La Convenzione espresse il "Terrore": ai Girondini si sostituirono i Giacobini.
Ma vale veramente la distinzione tra la Rivoluzione del 1789 e la Rivoluzione dei 1793? Vi insistette Lamartine nella sua Storia dei Girondini, che egli considerò come dei «rivoluzionari idealisti nati per l'avvenire, operai dell'umanità, nemici della violenza, avversari della plebe parigina». Touchard invece, rilevando che in fondo gli uomini del 1793 erano stati in precedenza quelli del 1789, con le stesse idee dunque ma in diverse circostanze, afferma che nell'opera di governo e di difesa della patria in pericolo va ricercato l'atteggiamento degli uomini della montagna: «Montagnardi e girondini presentano molte più affinità di quanto non si pensi – scrive –; i girondini non furono in verità né più borghesi né più provinciali, ma esercitarono il loro potere in condizioni e in momenti diversi» (I. J. Touchard, Storia del pensiero politico, Mondadori, Milano 1963, p. 372).
Solo in nome della salute pubblica, del patriottismo, della nazione in armi, i Giacobini non ammettono fazioni, vogliono l'unità a tutti i costi.
Già i contemporanei han visto in Robespierre l'«incorruttibile», il simbolo della virtù, l'identificazione di morale pubblica e privata, un misto di amore e di terrore. Si pongono qui alcuni problemi, poiché di vero e proprio terrore si trattò. Fu esso un inevitabile sbocco della Rivoluzione o l'espressione delle sue forze più torbide? In esso la Rivoluzione si rivelò, o si trattò d'una breve parentesi di violenza forsennata in un periodo di realizzazioni rispondenti a un piano razionale? I pareri degli storici sono divisi nella valutazione dell'entità e dell'importanza del fenomeno. Tuttavia, pur da un punto di vista liberale, Salvatorelli considera negativamente la violenza del "Terrore". Essa gli sembra estranea alla «grande corrente individualistico-umanitaria» con la quale si identifica la vera Rivoluzione francese e che «approda alla proclamazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, all'abbattimento del dispotismo, all'istituzione delle rappresentanze popolari, alla liberazione economica della borghesia e dei contadini, all'uguaglianza dei cittadini di ogni classe e di ogni ceto davanti alla legge»; è piuttosto l'espressione di un'altra corrente che ha a base «l'ideologia classicistica dello Stato-Moloch, emanazione teorica della volontà popolare, pervertimento dell'idea della res publica classica per effetto del fanatismo nazionalistico-rivoluzionario, erigente Nazione e democrazia in idolo dispotico e sanguinario, in un Moloch ingoiante i cittadini». Causa di questo pervertimento fu «l'astrazione di Rousseau di una volontà generale così trascendente rispetto alle volontà individuali, da poter diventare l'opposto della loro somma». In questo modo essa in effetti costituì una vera controrivoluzione «nonostante le movenze e le vociferazioni rivoluzionarie». Salvatorelli, d'accordo con Croce (B. Croce, Storia d'Europa nel secolo XIX, Laterza, Bari 1932, p. 37 e ss.), non condivide la tesi della giustificazione del "Terrore" a causa della guerra e della prassi rivoluzionaria, e neanche ch'esso fosse necessario contro il pericolo controrivoluzionario.

Se c'è un momento in cui veramente la repubblica francese istituita dalla Convenzione ha potuto apparire sul punto di sfasciarsi è stato il giugno del 1793, all'indomani dell'espulsione e arresto di tutto un gruppo di deputati Girondini. Questo colpo di stato del 2 giugno fu un atto eminentemente antirivoluzionario poiché colpiva a morte la Convenzione, organo supremo della rivoluzione democratica e repubblicana: e fu altresì la provocazione diretta per le diverse insurrezioni provinciali.
Con l'accettazione da parte della maggioranza dei dipartimenti ribelli della nuova Costituzione del 24 giugno, il momento veramente pericoloso fu superato e proprio allora la Montagna rinviò sine die l'applicazione della Costituzione, perpetuando la dittatura, che normalmente era sua, di fatto della Comune, della società dei Giacobini, dei comitati, ufficiali o no. In quanto al Tribunale rivoluzionario, esso nei primi mesi fu piuttosto inattivo; cominciò a infierire verso la fine dell'anno, quando il peggio era passato. La stessa sanguinosa «discronia», e anche più accentuata, si verifica nel rapporto col pericolo esterno. Dal settembre 1793 al giugno 1794 è un succedersi di vittorie degli eserciti rivoluzionari. Contemporaneamente abbiamo a Parigi un certo movimento estremistico, quello di Hébert, di scarsa consistenza ed efficacemente controbattuto dal moderatismo di Desmoulins e Danton. Che cosa fece il Comitato di Salute pubblica, e in esso e per esso Robespierre, asceso al culmine della sua potenza? Anche se non voleva accettare la tesi moderata, avrebbe almeno potuto adoperarsi a consolidare una nuova normalità giocando gli uni contro gli altri. Esso invece soppresse gli uni e gli altri: né più né meno di come ha fatto in Russia, ai nostri tempi, Stalin.

L. Salvatorelli, in "La Stampa", 17 marzo 1962.

«Il Terrore – insiste Salvatorelli – seguì, non precedette» la repressione dei Vandeani e la sconfitta degli austro-prussiani al Geisberg e Londan, cioè venne dopo la liberazione del territorio dal pericolo controrivoluzionario, e si manifestò nella sua edizione più tremenda dopo le vittorie interne ed esterne con la legge di pratile di Robespierre e di Couthon, «la più mostruosa del genere che la storia ricordi, la quale sopprimendo ogni gerarchia, ogni formalità, mandò in un mese e mezzo alla ghigliottina di Parigi più vittime che non tutto il tempo precedente». Altri scrittori, di tinta più radicale, tendono a togliere alla Rivoluzione le più gravi responsabilità di violenza, per attribuirle alle forze che le si opponevano. Secondo Aulard non c'è niente di più falso dell'accusa. Se si eccettua qualche atto di Marat, sia la massa sia i maggiori protagonisti si mantennero estranei alla violenza; piuttosto essa fu voluta, preparata e attuata dapprima dalla monarchia e dalle classi reazionarie. «Di fronte a una Rivoluzione che si svolgeva nella legalità, fu l'antico regime, con la sua resistenza armata, che introdusse la violenza nella Rivoluzione, e fu allora, di fronte a questa violenza, che il popolo di Parigi si ribellò e oltrepassando la violenza s'impadronì della Bastiglia». Gli atti successivi di violenza rivoluzionaria furono imposti o provocati dalla minaccia della reazione e della controrivoluzione; i rivoluzionari avevano il proposito di rimanere nella legalità, e se violenza commisero, a ciò furono costretti per difendersi; abolirono la monarchia perché palesemente si stava adoperando a consegnare la Francia allo straniero e ad abbattere le nuove istituzioni dettate dalla ragione. Alcuni fatti specifici della violenza rivoluzionaria: la rivolta dei contadini che portò all'abolizione dei diritti feudali; la dittatura del Comune di Parigi nel 1793 e i Comitati rivoluzionari non si possono considerare atti sufficienti per affermare che la Rivoluzione eresse la violenza, l'arbitrio e il capriccio a sistema di governo, come avvenne con Napoleone. Essi sono piuttosto conseguenze necessarie, ma limitate e temporanee, di bisogni indifferibili della nazione, alle quali si ricorse non per princìpi ideologici ma come a espedienti per vincere gli ostacoli estremi frapposti dagli avversari reazionari.
In questo senso Aulard spiega e giustifica il "Terrore", «mezzo di difesa rivoluzionaria», come altri difendono l'operato di Danton e di Robespierre. Allo stesso intento si devono riportare gli sforzi di altri storici, come Mathiez e Lefebvre. Per quest'ultimo – tra i maggiori di quanti ne ebbe la Rivoluzione – il "Terrore" svolse funzioni storicamente determinanti e i suoi eccessi furono provocati dai controrivoluzionari.

Il Terrore — scrive Lefebvre — infierì specialmente nelle due zone dove i controrivoluzionari si spinsero sino alla guerra civile e al tradimento aperto. A dispetto degli elementi che lo estesero sconsideratamente e lo insozzarono, esso rimase sino al trionfo della Rivoluzione quel che era stato sin dal primo momento: una reazione punitiva indissolubilmente legata all'impulso difensivo contro la «cospirazione aristocratica». Vero è che 1'85% dei morti —borghesi, artigiani, contadini — apparteneva al Terzo Stato e solo il 6,5% al clero e 1'8,5% alla nobiltà; ma in una lotta di questo genere, i transfughi vengono trattati più duramente degli avversari originari.
Pure, questo è soltanto l'aspetto esterno del Terrore. Non si tarda a scoprirne un altro quando si osserva che, associato al governo rivoluzionario, esso conferiva a quest'ultimo la «forza coattiva» che, restaurando l'autorità dello Stato, gli permetteva di imporre alla Nazione i sacrifici indispensabili alla salvezza comune. Se la maggioranza dei Francesi era favorevole alla Rivoluzione e detestava l'intervento straniero, la loro educazione civica non era però tale da soffocarne l'egoismo e da piegarli universalmente alla disciplina. Il Terrore li obbligò a farlo e contribuì potentemente a sviluppare l'abitudine e il senso della solidarietà nazionale. Senza dubbio i Montagnardi condividevano la volontà primitiva dei sanculotti; resta tuttavia che, sotto questo aspetto, il Terrore fu uno strumento di governo che assoggettava a una severa disciplina la Nazione, senza eccettuare, all'occasione, gli stessi sanculotti.
Infine, non meno che la dittatura dei Comitati si affermò, si rivelò un terzo aspetto del Terrore. Dei Montagnardi biasimeranno la durezza del regime; dei sanculotti gli rimprovereranno di non fare abbastanza per loro; e il Terrore finì per ritorcersi contro i suoi creatori.
Il dramma di Ventoso e di Germinale segnò così una fase nuova della sua storia; esso apparve destinato a mantenere al potere il piccolo gruppo di uomini che, trincerati nei Comitati, incarnavano la dittatura rivoluzionaria.

G. Lefebvre, La rivoluzione francese, Einaudi. Torino 1954. on. 450-451.

Cadde così, per l'opposizione di varie parti della Convenzione, Robespierre, si ebbe una nuova Costituzione e, fra altre stragi, il cosiddetto "Terrore bianco", ebbe inizio il governo del "Direttorio".

 

La "reazione termidoriana" e il "Direttorio"

Quale fu il significato della fine del "Terrore" e della caduta di Robespierre, che pure aveva tentato di appoggiarsi a larghi strati dell'opinione pubblica e al Comune di Parigi? A. Mathiez vede proprio nella politica avanzata della Convenzione e nel suo troppo netto distacco da un lungo, ancora operante passato, il fallimento di quel tipo di governo.

Nata dalla guerra e dalle sue sofferenze, gettata a forza nello stampo del Terrore contrario al suo stesso principio, questa Repubblica, malgrado i suoi prodigi, non era in fondo che un accidente. Poggiando su una base sempre più ristretta, essa non era compresa da quegli stessi che si sforzava di associare alla sua vita. C'era voluto tutto l'ardente misticismo dei suoi autori, la loro energia sovrumana per farla durare fino alla vittoria sull'estero. Non si cancellano in pochi mesi venti secoli di monarchia e di schiavitù. Le leggi più rigorose sono impotenti a cambiare d'un tratto solo la natura umana e l'ordine sociale. Robespierre, Couthon, Saintjust, che volevano prolungare la dittatura per impiantare nuove istituzioni civili ed abbattere il predominio della ricchezza, lo sentivano bene. Non avrebbero potuto riuscire se non a patto di avere in mano essi soli tutta la dittatura.
Ma la intransigenza di Robespierre, che ruppe coi suoi colleghi di governo proprio nel momento in cui essi gli facevano delle concessioni, bastò a far crollare un edificio sospeso nel vuoto delle leggi. Esempio memorabile dei limiti della volontà umana alle prese con la resistenza delle cose.

A. Mathiez, Il Terrore, Einaudi, Torino 1956, pp. 334-335.

Altri, meno fatalisti, giudicano la fine del "Terrore" soprattutto come la fine della dittatura di Robespierre, che una parte dell'assemblea voleva abbattere per distruggere un idolo troppo popolare, un'altra parte per timore di diventarne essa stessa vittima. Comunque sia, la Convenzione riacquistò i suoi poteri e il governo del "Direttorio" per contro non ebbe più la stabilità e l'onnipotenza di cui aveva goduto il Comitato di salute pubblica. Le parti si invertono anche nel giudizio degli storici, poiché quelli della «scuola sociale», inclini a giudicare con simpatia l'operato dei Comitati, sono severi con il "Direttorio"; quanti invece condannano la durezza del "Terrore" appaiono indulgenti per il "Direttorio". Tuttavia fra i primi, che traggono le loro origini da Jaurès, il giudizio sull'operato e sugli intenti dei Termidoriani, che è molto duro in Mathiez, si attenua in Lefebvre, il quale rende giustizia ad alcuni aspetti positivi della loro attività. Ambedue questi storici concordano nel considerare il nuovo regime come il regime fondato sulla classe borghese che va lentamente prendendo coscienza della propria struttura e delle proprie finalità. Secondo questi autori la salvaguardia degli interessi di classe è ben rilevabile nella Costituzione dell'anno III.

Nell'elaborazione di questa Costituzione, due principi guidarono tanto i repubblicani termidoriani quanto i monarchici costituzionali: sbarrare il passo alla democrazia e prevenire l'avvento di qualsiasi dittatura. Si rifecero quindi ai principi della Costituente, interpretandoli come essa aveva fatto all'epoca della revisione del 1791, ritoccandone l'opera alla luce delle prove trascorse, e parlando delle classi popolari con un tono di diffidenza e di disprezzo che la Costituente non aveva conosciuto.
Se ritennero opportuno formulare una Dichiarazione dei diritti, ebbero cura di eliminare l'articolo essenziale: «Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei loro diritti [...]». Si adottò pertanto la seguente definizione: «L'eguaglianza consiste in ciò: che la legge è uguale per tutti». Era proprio quanto aveva voluto dire la Costituente: così concepita, l'eguaglianza diventava una sorta di attributo della libertà, di cui si limitava ad assicurare a tutti il beneficio; lo Stato non aveva altra funzione che quella di garantire questa libertà, mantenendo l'ordine, e ciò equivaleva in pratica a lasciare che parte dei cittadini prendesse il sopravvento sugli altri grazie alla loro capacità e soprattutto alla loro ricchezza.

G. Lefebvre, I Termidoriani, Einaudi, Torino 1955, pp. 226-227.

Partendo però dal presupposto che la Rivoluzione fosse essenzialmente di carattere sociale, Lefebvre considera inevitabile che i Termidoriani, per eludere le istanze democratiche, a un certo punto volessero ristabilire la dittatura, appoggiandosi però, anziché al popolo, all'esercito: e fu l'ora di Bonaparte (I. G. Lefebvre, I Termidoriani, cit., pp. 293-295).
Eppure c'è chi non nega dei meriti alla "reazione termidoriana", che pur tra debolezze, tentennamenti, corruzioni e la grave crisi finanziaria, tentò di riportare in Francia un'atmosfera di moderazione, mirò a raggiungere una pace dignitosa, ridiede fiducia ai coltivatori e agli uomini d'affari. Il "Direttorio" si assunse una grave eredità: «con l'accordare per primo la libertà di parola e la libertà a uomini morti di paura, doveva necessariamente diventare il capro espiatorio della Rivoluzione», commenta Quinet. «Tutti gli fecero espiare quanto avevano subito dai suoi predecessori, senza lamentarsi e perfino con compiacimento».
Pure il "Direttorio", accantonando gli estremismi, consolidò le conquiste della Rivoluzione e mantenne in vita la Repubblica. «Ma tutto si ritorceva contro quel governo. Se nell'applicare le leggi ne mitigava il rigore, commetteva un'indegna debolezza. Se era severo, era peggio del Terrore; se non colpiva tutti coloro contro i quali procedeva, dimostrava inettitudine; se voleva amministrare, tirannide; se lasciava i cittadini liberi di curare i loro interessi, incapacità; se la Francia si divertiva, ciò era segno di scoraggiamento» (E. Quinet, La rivoluzione, Einaudi, Torino 1953, pp. 616-620).
La stanchezza della Francia si ripercuoteva sugli atti e sui componenti del suo governo, che pure durò quattro lunghi anni. E se per alcuni fu un merito del "Direttorio" aver aperto la strada all'avvento di Napoleone, per gli altri questa fu un'ulteriore prova della sua vocazione reazionaria.

 

Quale rivoluzione? La tesi dei conservatori

L'esponente più notevole delle tesi conservatrici è, sul piano storiografico, Hippolyte Taine. Per lui l'autentica Francia è quella della tradizione storica monarchica, delle conquiste, della grande politica europea e coloniale, dei lenti ma sicuri progressi della borghesia degli affari. La Rivoluzione avrebbe malauguratamente interrotto tale processo, precipitando il Paese nel caos, nelle continue guerre, infine nell'avventura napoleonica, contro il cui responsabile Taine scaglia una fiera requisitoria.
Per lui il 1789 segna «il trionfo della ragione pura e dell'irragionevolezza pratica», fonte di rovina, miseria e guerra.

La Francia rivoluzionaria è come un malato preso dal delirio della propria fantasia, in preda alle suggestioni della ragione ragionante, della ragione che dimentica il mondo sul quale dovranno svolgersi i propri esperimenti, e manda in rovina, in un mare di sangue, le tavole dei vecchi valori.

H. Taine, Les origines de la France contemporaine, II, La Révolution, Paris 1983, p. 165.

Così il popolo in rivolta è «la canaglia epilettica e scrofolosa», «la scimmia sanguinaria e lubrica» dal volto sghignazzante. I Giacobini di Parigi non sono che poche migliaia di bruti e di furfanti, «nati dalla decomposizione sociale, come i funghi dal terriccio in fermento». I capi rivoluzionari sono tutti degli sciocchi o dei banditi: Danton un barbaro beccaio degno di esser paragonato ai briganti, Marat un folle che vaneggia nell'orribile e nell'immondo. Robespierre «il supremo aborto e il frutto secco dello spirito classico».
Quale funzione europea avrebbe potuto svolgere una tale Francia sovvertita e sconvolta?
Questa del resto era stata già la tesi dei nemici della Francia rivoluzionaria riuniti nelle diverse coalizioni. L'iniziativa di tale atteggiamento era venuta dall'Inghilterra e aveva ricevuto impulso da un pubblicista di valore, noto per aver difeso le ragioni dell'indipendenza americana. Edmond Burke pubblicò nel 1790 le sue Riflessioni sulla rivoluzione francese in cui, insieme a considerazioni acute sul programma soverchiamente astratto delle riforme francesi, difendeva il ruolo dell'aristocrazia e la conservazione dell'ordine sociale, sola garanzia di una solida costruzione.

Sembra che voi Francesi oggigiorno vi siate in ogni caso allontanati da quella che è la grande e diritta via della natura. Non sono più le forze rappresentative della ricchezza e della proprietà privata quelle che oggi governano la Francia. E in conseguenza di questo, essa proprietà è distrutta senza aver dato luogo al sorgere di una giusta e razionale libertà. Per ora i soli guadagni che voi avete fatto sono quelli di una moneta circolante cartacea e di una costituzione bancarottiera; e quanto all'avvenire, pensate voi seriamente che il territorio di Francia spezzettato in un sistema repubblicano di 83 distretti possa mai essere governato come un organismo unico o essere messo in movimento per impulso di un unico e solo pensiero?
Quando l'Assemblea nazionale avrà portato a termine la sua opera, avrà portato a termine anche la sua rovina. Questi singoli staterelli non vorranno sopportare più a lungo di rima- nere soggetti alla repubblica di Parigi. E non vorranno tollerare che questa sola abbia a monopolizzare gli effetti della cattività del re spadroneggiando nell'assemblea sedicente nazionale; ciascuno di quegli staterelli vorrà la sua parte del bottino compiuto depredando le Chiese e non saprà tollerare che o i frutti del bottino o quelli più legittimi dell'industria locale o ancora il naturale prodotto del suolo, debbano essere mandati ad appagare l'insolenza o a fomentare la lussuria della suburra parigina.
In tutto questo non riconosceranno affatto quei principi di uguaglianza, sotto pretesto dei quali essi furono tentati di ripudiare il loro antico patto di fedeltà verso il sovrano con l'antica costituzione del loro paese.

E. Burke, Riflessioni sulla rivoluzione francese, Il Mulino, Bologna 1935, pp. 128-129.

Invece di aver dato forza allo spirito nazionale e capacità di penetrazione in Eu' roga, Burke conclude dicendo che la Rivoluzione (ma le sue sono profezie non avverate) ha svolto un'azione dispersiva e dissipatrice. Simile azione essa ha svolto pure per Joseph de Maistre (1753-1821), scrittore savoiardo di poco posteriore: questi identifica però il maggiore errore della Rivoluzione nell'aver negato le profonde tradizioni monarchiche e cattoliche, sostituendovi una repubblica atea con una Costituzione rivolta all'uomo, non ai francesi. «Ma l'uomo, io dichiaro, considerato nella sua universalità, non esiste; è un prodotto dello spirito classico, ossia dell'astrattismo filosofico, fatto proprio da quella collezione di milioni di parole che sono stati i deputati dell'Assemblea» (J. De Maistre, Considérations sur la France, Paris 1796, p. 643).
Con più obiettiva indagine, l'importanza della continuità storica è sottolineata da Tocqueville. Mentre Burke e Taine hanno visto nella Rivoluzione una parentesi che sta fuori dello sviluppo storico della Nazione, Tocqueville ha negato originalità alla Rivoluzione per valutarne solo l'aspetto progressivo.

Una cosa sorprendente a prima vista: la Rivoluzione, il cui fine era di abolire dovunque il resto delle istituzioni del Medioevo, non è scoppiata nei paesi ove queste istituzioni, meglio conservate, facevano maggiormente sentire al popolo il loro peso e il loro rigore, ma al contrario, in quelli ove si facevano sentire di meno; sicché il loro giogo è sembrato più insopportabile là dove in realtà era meno pesante [...]. In Francia da molto tempo il contadino andava, veniva, comprava, vendeva, negoziava, lavorava a suo modo. Le ultime vestigia del servaggio non si facevano vedere che in una o due province dell'Est, altrove era completamente scomparso [...]. Ma tutti quei piccoli proprietari erano assai intralciati nello sfruttamento delle loro terre e sopportavano molte servitù delle quali non era permesso loro liberarsi. Questi carichi erano pesanti senza dubbio; ma quel che li faceva loro sembrare insopportabili era precisamente la circostanza che avrebbe dovuto, pare, alleggerire loro il peso: questi stessi contadini erano stati sottratti, più che in nessun'altra parte d'Europa, al governo dei loro signori; altra rivoluzione non meno grande di quella che li aveva resi proprietari.

A. De Tocqueville, L'ancien régime et la révolution, Gallimard, Paris 1856, libro II, cap. 1.

Così per Tocqueville, quando vennero convocati gli Stati Generali (maggio 1789), la Rivoluzione aveva già percorso buona parte della sua strada, in quanto in Francia tutto tendeva alla realizzazione d'una maggiore uguaglianza e d'una maggiore centralizzazione.
Le tesi conservatrici, in definitiva, hanno in comune un apprezzamento altamente positivo della storia in Francia precedente alla Rivoluzione: divergono però nella valutazione della Rivoluzione stessa, fenomeno antistorico per gli uni, e quindi di arresto del fatale progresso, e questa può dirsi la tesi conservatrice estrema; fenomeno conclusivo d'uno sviluppo già in atto nella visione liberaleggiante di Tocqueville. Lo sfondo di tali tesi è spesso l'attaccamento all'istituto monarchico e alla religione tradizionale: esso ispira anche scrittori quali Jacques Bainville, che vede nella Rivoluzione l'origine della rovina del Paese. Con il suo violento trionfo, sarebbe crollata una tradizione gloriosa di ordine e di disciplina, di potenza e di gloria all'ombra della monarchia, che soltanto Napoleone avrebbe in parte restaurato.

 

La tesi degli europeisti e degli universalisti: l'aspetto ideologico, l'aspetto sociale, l'aspetto militare

Già durante il corso della Rivoluzione, il giacobino italiano Filippo Buonarroti avvertiva che la Francia era diventata la nazione-guida del mondo, con quelle indicazioni di rinnovamento sociale, che andavano dallo scardinamento dei troni all'eguaglianza civile e anche economica di tutti i cittadini. Pure nei Girondini c'era un senso di vocazione europea, un sentimento missionario che li induceva a ritenere la Rivoluzione un progetto di liberazione per popoli europei affratellati da uno stesso bisogno di ordine e di pace. Essi parlavano di frontiere naturali, di Repubbliche "sorelle" in un'Europa che avrebbe conosciuto i vantaggi di ordinamenti analoghi nei singoli popoli; così per bocca del deputato Brissot.
Quel, merito fu raccolto oltre le frontiere: il renano Görres, discepolo di Kant, in uno scritto sulla pace del 1795, chiamava la Francia «educatrice d'Europa». Il napoletano Matteo Galdi, considerando i motivi sociali della Rivoluzione fondo comune di un'Europa da rigenerare, auspicò una lega della libertà per i popoli europei, un cosiddetto «gran federalismo». Più entusiasticamente poi un giacobino romano, E. M. L'Aurora, si rivolgeva agli Europei perché rivendicassero i loro diritti, perché si riconoscessero figli della stessa universale madre, l'Europa, della quale prospettava una costituzione unitaria fondata su un nuovo patto sociale. Ma quando si vide che la Francia, invece d'infiammare l'umanità d'amore, seminava odio e guerre, alcuni di quanti l'avevano salutata come benefica affermazione di principi validi per tutti, restarono perplessi e auspicarono un nuovo corso di essa. Tra questi fu il filosofo tedesco Herder, che nel 1793 scriveva: «La semente dell'umanità che sta germogliando in Europa ha necessità di dolci piogge ristoratrici, non di tempeste».
Le reazioni suscitate furono assai diverse nei diversi Paesi: nei Paesi rimasti eminentemente agricoli, dove era forte l'aristocrazia e vigeva la fede più tradizionale, l'atteggiamento fu decisamente controrivoluzionario. Nei centri culturali più vivi, dove esisteva una classe colta e aperta agli ideali di libertà, la Rivoluzione suscitò sorpresa e simpatia, anche se spesso le si preferii la saggezza delle istituzioni britanniche. In Austria prevalse l'atteggiamento più ostile; negli Stati tedeschi che avevano visto l'opera illuminata di Federico II prevalse l'opinione che il vero progresso fosse sempre opera aristocratica; nei porti di mare, tra gli armatori, i negozianti e i banchieri si manifestò una viva simpatia; nella Germania occidentale, ai confini con la Francia, l'uguaglianza civile venne accolta con simpatia e i contadini non vollero più riconoscere gli obblighi feudali.
Secondo F. Fugier, la simpatia tedesca per la Rivoluzione si rivelò tra gli intellettuali, ma non suscitò azione concreta.

I borghesi possono, sì, informarsi con esattezza e interesse sulle riforme occidentali; possono, sì, lamentarsi d'essere confinati nella loro casta, disprezzati da una nobiltà che si fa tanto più lontana quanto più si attenua la distanza materiale; possono, sì, partecipare al di- sagio dei loro figli, laureati senza impiego, ma non si sogneranno mai di concertare una azione comune nei paesi tedeschi; i quadri dell'illuminismo non servono per un uso che non sia intellettuale; tra i vari centri di cultura non si stabilirà nessun legame politico. Nemmeno si penserà all'azione immediata sul piano locale: la mentalità tedesca, quella prussiana in particolare, è troppo segnata dalla piega luterana dell'obbedienza cristiana al principe, e dalla sottomissione federiciana allo Stato. La borghesia resta incapace di legare le aspirazioni di classe a una volontà di trasformazione politica; a quella nobiltà di cui patisce gli insulti, non chiede la partecipazione agli affari di Stato [...]. D'altra parte, le classi medie tedesche, nella loro ricchezza e prosperità, dipendono troppo dal principe per sollevarglisi contro. Diversissima dalle borghesie inglese e francese, intraprendenti e ardite nel manovrare il denaro, quella dei paesi tedeschi resta strettamente sottomessa allo Stato e alle sue direttive economiche, vincolata per di più ad un arcaico sistema di Corporazioni. La libertà del lavoro individuale, quale viene introdotta dalla Rivoluzione in Francia, con le sue possibilità e i suoi rischi, la spaventa. Toccare l'armatura dello Stato, si crede che equivalga a far crollare la propria prosperità. Anche le intelli- genze migliori partecipano di questo stato d'animo apolitico; lo fanno senza esservi costrette né sentirsene umiliate, perché pongono su un altro piano, più in alto, la missione universale della cultura tedesca [...]. La missione della Germania è quella di diventare, attraverso lo sviluppo spirituale e lo sbocciare d'una cultura superiore, l'orgoglio dell'umanità e, a un tempo, il suo modello, la sua educatrice. Essa si opporrà allo spirito occidentale, bassamente materialista e rigidamente nazionale, e porterà il beneficio delle cose sante, della cultura umanistica e morale [...] Di fronte alla Rivoluzione di Francia il pensiero germanico elabora la propria: il Romanticismo. La Rivoluzione francese non sarà contagiosa oltre il Reno. Nel suo insieme quel mondo, nelle profondità del suo spirito e negli atteggiamenti politico-sociali, è più lontano di quanto essa creda.

F. Fugier, Napoléon et l'Europe, Gallimard, Paris 1929, p. 40.

Se la Rivoluzione può essere considerata causa di progresso per l'Europa, il suo influsso va limitato in confini più ristretti per quanto riguarda le immediate conseguenze, spesso addirittura negative, in certi Paesi tedeschi. Ma, conclude Lefebvre, al di là delle particolari vicende, la Rivoluzione per l'Europa ebbe effetti determinanti, di cui gli stessi contemporanei ebbero chiara coscienza. Essa anzitutto si presentò come conflitto sociale, «lotta tra l'aristocrazia e la borghesia, sostenuta dal resto del Terzo Stato, e specialmente dai contadini»; come conflitto politico tra assolutismo e liberalismo; come conflitto intellettuale tra nazionalismo e tradizione. In sintesi si può dire che essa scardinò in Europa le basi dell'Antico Regime. Nonostante le distruzioni belliche, i gravami dell'occupazione, gli arbitri dei generali e la mancanza di scrupoli dei suoi agenti, i suoi principi divennero il lievito di tutto il rinnovamento politico, sociale ed economico europeo del secolo XIX. «Quello che era più importante era ciò che in Europa l'avvenire prometteva alla Rivoluzione francese».
Come si è già visto, una delle parole più usate dagli uomini della Rivoluzione fu «umanità». Già da qualche decennio se ne parlava, ma ora quel sentimento diventava più denso e allusivo, più rivoluzionario. Umanità significava universo, mondo, gente di ogni razza e di ogni colore. L'abate Grégoire proponeva una dichiarazione universale dei diritti delle genti, Clootz auspicava una repubblica universale, Andrea Chénier proclamava che i destini del mondo stavano nel grembo della Rivoluzione. In pratica si ebbe invece un'Europa in rovina e in lutto. Ciò non esclude la portata universalistica della Rivoluzione. Essa, secondo Lefebvre, assicurò l'avvento al potere della borghesia e con esso la formazione dello Stato moderno non solo in Francia ma in tutti gli Stati europei, così che nel movimento generale della civiltà il suo significato oltrepassa i problemi e gli interessi della Francia e inizia un nuovo stadio nella storia del mondo occidentale.

Dopo la fine delle invasioni barbariche, un ardente spirito di conquista spinse gli Europei al dominio del pianeta, alla scoperta e all'assoggettamento delle forze della natura, mentre contemporaneamente, si affermava in loro l'audace volontà di disciplinare l'economia, la società, i costumi per la felicità dell'individuo e il perfezionamento della specie. La borghesia del 1789 garantì allo scienziato la libertà della ricerca, al produttore quella dell'iniziativa; in pari tempo, essa tentò di razionalizzare l'organizzazione politica e sociale. La Rivoluzione francese rappresenta così uno stadio nel destino del mondo occidentale [...]. Essa, ispirandosi ai diritti naturali, conferì alla propria opera un carattere universalistico, quale la Rivoluzione inglese non aveva avuto, e affermò questo suo carattere con ben maggiore vigoria. Essa non si limitò a proclamare la Repubblica, ma istituì il suffragio universale, non affrancò soltanto i bianchi, ma abolì la schiavitù: non si appagò della tolleranza, ma riconobbe la libertà di coscienza, e istituendo lo stato civile, si riconobbe a ciascuno il diritto di non aderire a una confessione religiosa; non liberò solo l'individuo, ma aspirò a liberare le nazioni, anzi le chiamò alla vita.

G. Lefebvre, La révolution française dans l'histoire du monde. Etudes sur la révolution française, Gallimard, Paris 1954, pp. 322-323.

Il rapporto Rivoluzione francese-Europa è stato ampiamente studiato da Jacques Godechot nell'opera La grande nazione. Egli supera del tutto l'impostazione nazionalistica: anzi, neppure la Rivoluzione è vista come un fatto esclusivo e originario della Francia. Essa è un aspetto e un momento di una rivoluzione più vasta, occidentale, atlantica, iniziatasi trent'anni prima in America, irradiatasi in Irlanda (1782-84), nelle Province Unite (1783-87), nel Belgio (1787-90) e in Francia, donde si estese in Germania, Italia, Svizzera, Polonia per toccare poi nell'età napoleonica Malta, l'Egitto, Mosca e l'America spagnola. Non si può parlare quindi della Francia causa degli altri movimenti rivoluzionari: la stessa facilità con cui la Rivoluzione si estese in altri Paesi dimostra che anche in questi c'erano gli stessi problemi, le stesse necessità e le stesse aspirazioni.

In tutti i territori occupati dalle armate francesi, le idee e le istituzioni della Francia si diffusero rapidamente. In quest'espansione ebbero naturalmente importanza la presenza dell'esercito e la volontà stessa del governo francese; ma ciononostante furono i patrioti locali, i «Giacobini» ad esercitare l'attività più intensa per la propagazione delle idee e per l'adozione delle nuove istituzioni.
I patrioti ebbero su queste idee e su queste istituzioni una propria opinione e una propria politica: non furono dei propagandisti docili né delle marionette sottomesse supinamente alla volontà del governo francese, ma al contrario la Francia fu spesso in urto con loro e questi contrasti dolorosi ebbero profonde ripercussioni nelle relazioni tra la Francia ed i suoi vicini.

J. Godechot, La grande nazione, Laterza, Bari 1962, p. 275.

Non si può negare che la Rivoluzione apportò nei Paesi occupati tante benefiche trasformazioni politiche, economiche, sociali e giuridiche, ma non si deve dimenticare, aggiunge Godechot, ch'esse furono accompagnate da metodi e sistemi contro i quali i patrioti si rivoltarono.

I doni della Rivoluzione furono portati sulla punta delle baionette e furono quindi accompagnati da altri meno graditi: l'occupazione militare, le requisizioni, le taglie, mille vessazioni più o meno pesanti a seconda delle regioni. Ciò che però irritò forse più di tutto i patrioti dei paesi occupati fu senza dubbio la sufficienza dei Francesi che, proclamandosi appartenenti alla Grande Nazione non cessarono di vantare tutto quanto essi vennero compiendo. «Tutti i paesi della Grande Nazione – scriveva il 14 agosto 1797 il Courier de l'armée d'Italie – sono segnati da benefici! Felice il cittadino che ne fa parte! Felice colui che può dire, vedendo i nostri grandi uomini: ecco i miei amici, i miei fratelli». Questi elogi che un occupante decretava a se stesso erano per lo meno fastidiosi e finivano per esasperare quando la politica praticata era diametralmente opposta ai principi proclamati, quando la libertà si trasformava in un vero e proprio protettorato, quando l'uguaglianza cedeva il posto alle discriminazioni più ingiustificate, quando alle taglie, alle requisizioni, all'obbligo di mantenere le truppe si aggiungevano il saccheggio e talvolta delle vere e proprie atrocità. L'espressione «Grande Nazione» fu allora ripresa dai nemici della Francia – e spesso dai nemici della libertà – e impiegata in un senso ironicamente peggiorativo. In queste due accezioni il termine «Grande Nazione» espresse tuttavia bene il concetto dell'espansione francese durante il periodo rivoluzionario, designandone a un tempo l'aspetto positivo e l'aspetto negativo: inseparabile dualismo di ogni rivoluzione.

J. Godechot, La grande nazione, cit., p. 5.

 

I rapporti tra Rivoluzione e cristianesimo

Nell'analisi dei rapporti fra Rivoluzione e cristianesimo, Furet individua nell'attività delle varie Assemblee rivoluzionarie un orientamento coerente, destinato a sfociare nella cosiddetta «scristianizzazione». Benché considerata un errore dai suoi stessi promotori, in primis Robespierre, essa esprimeva bene quell'atteggiamento di disprezzo che buona parte delle élites rivoluzionarie provavano nei confronti della religione. Tale mentalità non corrispondeva affatto al sentimento prevalente nelle masse popolari, che infatti risposero ai provvedimenti rivoluzionari con ribellioni e rivolte; per Furet essa era il prodotto del deismo illuministico, che respingeva ogni tipo di dogmatismo, e del timore che la Chiesa cattolica si facesse promotrice di iniziative controrivoluzionarie.

Per il suo contenuto, se non per le sue modalità, la scristianizzazione fu un movimento continuo. Le sue giustificazioni politiche sono evidentissime: dopo il clero refrattario, compromesso nella controrivoluzione nobiliare, anche il clero costituzionale ha disertato in massa il campo rivoluzionario, sia dopo il 10 agosto che dopo l'esecuzione di Luigi XVI. Durante l'estate del '93 vi si sovrappongono le motivazioni economiche: la caccia all'oro provoca la rimozione delle campane e degli oggetti preziosi dalle chiese. Ma il movimento ha radici più profonde: a differenza dei Foglianti, antiche élites legate alla religione tradizionale, le équipes della borghesia democratica, girondina o montagnarda che sia, considerano la «superstizione» col massimo disprezzo. Prima di sciogliersi, la Legislativa ha laicizzato lo stato civile e istituito il divorzio. Il 10 agosto 1793 è la prima festa laica della Rivoluzione, senza Te Deum né benedizione. Il 6 ottobre, su proposta di Romme, la Convenzione sostituisce l'era cristiana con l'era rivoluzionaria: l'anno I della libertà comincia con la Repubblica, il 22 settembre 1792. Il 24 Fabre d'Eglantine ottiene l'adozione di una radicale riorganizzazione del calendario: l'anno sarà diviso in dodici mesi eguali di tre decadi ciascuno, e completato alla fine da cinque o sei giorni detti "sanculottidi". La terminologia bucolica scelta dal poeta rivela una precisa intenzione anticristiana: i preti avevano assegnato a ciascun giorno dell'anno la commemorazione di un preteso santo; questo catalogo, privo di qualsiasi utilità o metodo, era il repertorio della menzogna, dell'inganno e della ciarlataneria.
Il quadro secolare della vita quotidiana viene così ad essere radicalmente modificato.
Questa scristianizzazione moderata, sottesa da una visione deista, per certuni non basta. I rappresentanti in missione sollecitano localmente una politica più violenta. Nella Somme, André Dumont sale sul pulpito proclamando che le commedie dei preti servono a ingannare il popolo, e i servizi religiosi vengono pertanto vietati. Nel Cher, Laplanche esorta i preti a sposarsi, e, più di ogni altro, si distingue nella Nièvre l'ex oratoriano Fouché: appena giunto a Nevers, incita i preti al matrimonio; il 10 ottobre emana un decreto che vieta di celebrare il culto fuori delle chiese, ordinando di distruggerne tutti i segni esteriori (croci e calvari); all'ingresso dei cimiteri gli emblemi religiosi saranno sostituiti dall'iscrizione «la morte è un sonno eterno».

F. Furet - D. Richet, La rivoluzione francese, Laterza, Bari 1998, vol. I, pp. 286-287.

In ambito cattolico non è mancata recentemente un'attenta riflessione su questo argomento. Lo storico Torresani, per esempio, individua un collegamento tra la Costituzione civile del clero del 1790 e la tradizione gallicana, particolarmente viva nella Chiesa francese, che tendeva a configurare il clero di Francia come legato più alla corte di Versailles (e al suo controllo politico) che non alla Santa Sede. Tale tradizione è la lontana premessa a un provvedimento che veniva a creare una sorta di Chiesa nazionale, libera da qualsiasi controllo papale.
Inevitabile dunque la condanna da parte di papa Pio VI, che non poteva avallare una decisione che non teneva conto né della natura spirituale della nomina dei vescovi né della necessità di consultare il pontefice, anche in base al Concordato del 1516. La durissima censura del papa contribuì ad aprire un solco profondo tra Chiesa e sviluppi rivoluzionari.

Il 12 luglio 1790 la Costituzione civile del clero venne approvata: scomparvero 52 diocesi giudicate inutili e moltissime parrocchie; venne deciso l'ammontare dello stipendio di vescovi, parroci e vicari togliendo ai fedeli il dovere di contribuire al mantenimento del clero e l'elezione di vescovi e parroci da parte di apposite assemblee elettorali; i vescovi avrebbero ricevuto l'istituzione canonica dai metropoliti, senza bisogno di conferma da parte del papa, e governato la loro diocesi ricorrendo a un consiglio presbiterale.
Sarebbe un errore ritenere queste decisioni frutto solo dell'anticlericalismo o di spirito settario. Esse erano il frutto del gallicanesimo professato fin dall'inizio del XVII secolo, ma avevano l'inconveniente di introdurre cambiamenti nel corpo ecclesiastico senza l'intervento della Chiesa. Trattandosi della denuncia del concordato del 1516, si sarebbe dovuto consultare l'autorità ecclesiastica secondo le forme canoniche, in primo luogo il concilio nazionale dei vescovi. Costoro, tuttavia, erano considerati potenziali nemici e perciò, a rappresentare la Chiesa, rimaneva solo il papa. [...].
Tali ecclesiologie in conflitto non potevano fondarsi sulla base di una teologia della politica ammessa da tutti. L'abbé Grégoire, elette vescovo di Blois nel 1791, riteneva che i diritti dell'uomo discendessero da un principio cristiano. Poiché la rivoluzione proclamava la libertà e la fraternità, occorreva riconoscerle una sorta di funzione provvidenziale che avrebbe comportato il rinnovamento cristiano, I refrattari obiettavano che il principio dell'uguaglianza avrebbe comportato la riduzione della verità a semplice questione di maggioranza elettorale, scalzando i fondamenti gerarchici della Chiesa, e che il principio di libertà avrebbe lasciato indifesi i semplici di fronte all'errore religioso: costoro supponevano che le basi sociali e politiche dell'ancien régime fossero necessarie per la difesa del cattolicesimo e non riuscivano a conciliare fede cattolica E aspirazioni democratiche. Il clero costituzionale intuiva, forse più lucidamente dei refrattari, la natura definitiva della frattura politica e sociale accaduta in Francia e cercava di dare un'anima cristiana ai nuovi istituti, per salvare il salvabile. I refrattari avevano dalla loro parte il peso della tradizione e indubbiamente raccoglievano la componente più propriamente religiosa della Francia, ma ebbero il torto di aggrapparsi a una concezione politica conservatrice, identificando la monarchia col cristianesimo. Come era avvenuto al tempo del grande scisma d'Occidente, persone di buona volontà si trovavano nei due campi. [...]
Fin dal 20 settembre 1792 era stata intrapresa la separazione tra Chiesa e Stato con l'introduzione del matrimonio civile ammesso anche per i divorziati, con l'avvio dell'opera di scristianizzazione, acuta tra l'estate del 1793 e quella del 1794, quando si tentò l'introduzione del culto civico della dea ragione o quello dell'Ente supremo. Anche il Robespierre si rese conto dell'assurdità di quei tentativi e della pretesa di cancellare la tradizione cristiana della Francia, quando passava attraverso la demolizione di edifici come l'abbazia di Cluny o la decapitazione delle statue poste sulla facciata di Notre-Dame a Parigi.

A. Torresani, Storia della Chiesa, Edizioni Ares, Milano 1999, pp. 569-573.

Il teologo Luigi Negri si spinge ancora più in là. Nella politica ecclesiastica promossa dalla Rivoluzione francese egli infatti individua un tentativo di assorbire la sfera religiosa nella vita dello Stato. Il desiderio di cancellare la tradizione di popolo che la Chiesa aveva alimentato e creato per secoli si univa al fine di creare un nuovo assetto statale con fondamento ateo. La Chiesa garantiva una concezione della vita, dell'uomo e della libertà che poteva infrangere il monopolio statale delle coscienze: lottare contro la Chiesa e la religione significava per i Giacobini, secondo Negri, alimentare un disegno di egemonia sulle coscienze e sulle libertà individuali che divenne esplicito durante la fase del "Terrore", ma che era ben presente fin dall'inizio della temperie rivoluzionaria.

Con la Costituzione civile del clero comincia dunque quel tentativo di assorbire la Chiesa nella vita dello Stato, che continuerà lungo tutta l'età contemporanea fin quasi ai nostri giorni, basti pensare ai preti dell'Europa dell'Est che, fino a quindici anni fa, avevano bisogno del permesso dello Stato per dire la Messa. La Chiesa, quando non può essere distrutta immediatamente, deve essere integrata nella struttura dello Stato in modo tale che rappresenti qualche cosa su cui lo Stato, che è realmente la fonte di tutti i diritti, può legiferare. Infatti, una delle prime deliberazioni della Repubblica francese del 1792, fu di vietare l'emissione dei voti solenni, di povertà, castità ed obbedienza, in tutti i monasteri francesi. La cosa più personale e drammatica che un uomo possa vivere nel rapporto con Dio — l'oblazione della sua vita — diventa una questione statale. Ciò poi comportò la soppressione di tutti i conventi. Si entra nella vita religiosa e si tenta di stabilire ciò che deve esistere e ciò che non deve esistere, proprio perché bisogna ridurre, fino al negare, la capacità della Chiesa di essere formatrice del popolo. Perciò le si toglie ogni possibilità educativa, vengono chiuse tutte le scuole, vengono chiusi tutti i seminari, si disgrega la famiglia, stabilendo la pratica del divorzio.
Così i diritti fondamentali dell'uomo, come abbiamo detto, privati ormai di qualsiasi riferimento alla tradizione religiosa, vengono semplicemente usati secondo le convenienze del potere civile: nel 1793-1794 a Parigi 60.000 francesi vengono giustiziati, semplicemente sulla base di sospetti, senza nessun processo. La Rivoluzione francese voleva porre fine a ogni tradizione, per costruire una società scientificamente pensata, il che poteva essere fatto unicamente distruggendo il presente della tradizione, ovvero la Chiesa.

L. Negri, Controstoria. Una rilettura di mille anni di vita della Chiesa, San Paolo, Alba 2000, pp. 95-96.

 

 

 

 

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