[ Storia ]     [ Strumenti di Storia ]

 

 

 

la prima rivoluzione industriale

 

 

FONTI

 

La divisione del lavoro

Nella sua Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni, l'economista scozzese Adam Smith (1723-90) si sofferma ad analizzare la trasformazione in atto nei processi produttivi dell'Inghilterra settecentesca. Egli in particolare sottolinea l'importanza rivoluzionaria della divisione del lavoro, che si sarebbe definitivamente affermata con l'avvento della Rivoluzione industriale e che già attorno alla metà del XVIII secolo veniva applicata, in una fase ancora iniziale, al settore manifatturiero.
Smith osserva che mentre in agricoltura tale differenziazione risultava di difficile applicazione, poiché questa attività non si prestava a essere articolata al suo interno in varie fasi di lavoro distinte tra loro, venne invece facilmente impiegata nella lavorazione manifatturiera. Essa infatti presentava fasi ben distinte, che potevano essere affidate a operai diversi. Il processo della specializzazione del mercato del lavoro avrebbe conosciuto lo sviluppo più maturo con l'introduzione della meccanizzazione, non a caso scaturita proprio dal settore delle manifatture.

La divisione del lavoro, comunque, nella misura in cui può essere introdotta, determina in ogni mestiere un aumento proporzionale delle capacità produttive del lavoro. Sembra che la separazione di diversi mestieri e occupazioni sia nata proprio in conseguenza di questo vantaggio e in genere essa è più spinta nei paesi più industriosi che godono di un più alto livello di civiltà: ciò che è opera di un solo uomo in uno stadio primitivo della società diviene infatti opera di parecchi in una società progredita. In ogni società progredita, generalmente, l'agricoltore non è che un agricoltore, il manifatturiere non è che un manufatturiere. Inoltre, il lavoro necessario a un completo ciclo di fabbricazione è quasi sempre diviso fra un gran numero di mani. Quanti diversi mestieri sono chiamati in causa in ogni ramo della manifattura della lana e del lino, dagli allevatori di pecore e dai coltivatori di lino fino ai candeggiatoci e agli stiratori di tele e ai tintori e agli apprettatoci di panni! L'agricoltura, in verità, per sua natura non consente tante suddivisioni del lavoro come la manifattura, né una così completa separazione di un'attività dall'altra. È impossibile separare del tutto l'attività dell'allevatore da quella del coltivatore di grano, come avviene invece in genere del mestiere del falegname rispetto a quello del fabbro. Il filatore è quasi sempre una persona distinta dal tessitore; ma l'aratore, l'erpicatore, il seminatore e il mietitore del grano sono spesso la stessa persona. Dato che questi diversi tipi di lavoro sono legati a scadenze periodiche connesse con le diverse stagioni dell'anno, nessuno di essi può tenere occupato costantemente lo stesso uomo. Questa impossibilità di attuare una così completa e integrale separazione di tutte le diverse forme del lavoro impiegato nell'agricoltura è forse la ragione per cui il progresso delle capacità produttive del lavoro in questo campo di attività non sempre ha tenuto il passo con quello che si è verificato nelle manifatture.
Certo, le nazioni più prospere superano di norma tutte le loro vicine tanto nell'agricoltura quanto nelle manifatture; ma accade in genere ch'esse si distinguano più per la loro superiorità in queste ultime che nella prima. Le loro terre sono in genere meglio coltivate e, potendo disporre in più larga misura di lavoro e di denaro da spendere, producono di più in rapporto all'estensione e alla fertilità naturale del terreno.

A. Smith, Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni, A. Mondadori, Milano 1977, vol. I, pp. 9-10.

 

L'introduzione delle macchine

Nell'ambito dell'analisi di Smith non poteva mancare una riflessione sull'importanza dell'impiego delle macchine. La sua opera veniva pubblicata nel 1776, in concomitanza quindi con la realizzazione dei primi macchinari nel contesto del settore tessile. Smith ben comprese che l'utilizzo delle macchine avrebbe rivoluzionato l'intero settore delle manifatture. Sottolinea in particolare l'economicità e la rapidità quali caratteristiche fondamentali del lavoro svolto dai macchinari.

Ognuno può rendersi conto di quanto il lavoro sia facilitato [...] dall'uso di apposite macchine. Non c'è bisogno di fare esempi. Mi limiterò a osservare che l'invenzione di tutte le macchine che tanto facilitano e abbreviano il lavoro sembra si debba in origine alla divisione del lavoro. Quando tutta l'attenzione delle menti è indirizzata verso un unico scopo, è molto più probabile che si scoprano metodi più semplici e rapidi per raggiungerlo, che non quando l'attenzione è dispersa fra una grande varietà di cose. Ora, in conseguenza della divisione del lavoro, l'intera attenzione di ogni uomo viene indirizzata verso un unico oggetto molto semplice. È dunque naturale aspettarsi che, tra coloro che sono impiegati in un singolo ramo di attività, qualcuno possa escogitare metodi più semplici e rapidi per svolgere il suo lavoro, sempre che la natura del compito consenta tali miglioramenti. Gran parte delle macchine di cui si fa uso nelle manifatture in cui il lavoro è suddiviso furono in origine invenzioni di comuni operai, i quali, venendo tutti impiegati ciascuno in qualche operazione molto semplice, finirono per indirizzare i loro pensieri a escogitare metodi più facili e rapidi per compierla. Chiunque abbia avuto occasione di visitare frequentemente tali manifatture, deve avere spesso osservato delle bellissime macchine, nate dalle invenzioni degli ope- rai al fine di facilitare e sbrigare più rapidamente la loro singola parte di lavoro. Nelle prime macchine a vapore un ragazzo era espressamente occupato ad aprire e chiudere alternativamente la comunicazione fra la caldaia e il cilindro, a seconda che il pistone salisse o scendesse. Uno di questi ragazzi, a cui piaceva giocare con i compagni, osservò che, legando con un laccio a un'altra parte della macchina la maniglia della valvola che apriva questa comunicazione, la valvola si sarebbe aperta e chiusa senza bisogno della sua assistenza, lasciandolo libero di divertirsi con i suoi compagni di gioco [...].
Non tutti i perfezionamenti delle macchine, però, sono derivati dalle invenzioni di coloro che le usavano abitualmente. Molti perfezionamenti sono stati realizzati grazie all'ingegnosità dei costruttori di macchine, quando costruirle divenne il contenuto di una professione specifica, e altri dall'ingegnosità dei cosiddetti filosofi, o speculativi, la cui professione non consiste nel fare qualche cosa, ma nell'osservare ogni cosa, sicché proprio per questo sono in grado di combinare e unificare le possibilità insite negli oggetti più dissimili e lontani fra loro.

A. Smith, Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni, cit., vol. I, pp. 13-14.

 

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

Il dibattito storiografico

Il primo studioso della Rivoluzione industriale in Inghilterra che abbia tratto profitto dalle categorie interpretative della nuova scienza dell'economia politica è stato Karl Marx, il quale tuttavia ha analizzato il meccanismo di un sistema di produzione piuttosto che ricercarne storicamente la genesi. Per questo gli storici di orientamento marxista hanno ripreso il problema cercando di rispondere agli interrogativi lasciati aperti dall'analisi marxiana sull'origine del capitalismo industriale, talvolta interpretando più estesamente gli spunti e le indicazioni contenute nell'opera di Marx.
Tra questi, lo storico ed economista inglese M. Dobb, in Problemi di storia del capitalismo, sostiene che le origini del capitalismo vadano cercate nelle stesse contraddizioni del sistema feudale all'interno del quale si sviluppa una classe di piccoli produttori, artigiani e piccola borghesia rurale: saranno costoro la forza sociale che metterà in crisi il feudalesimo, dando vita a un nuovo modo di produzione.
Questa tesi suscitò un ampio dibattito apparso tra il 1950 ed il 1953 sulla rivista "Science and Society".
L'economista americano P. Sweezy contrappose a Dobb una tesi fondata invece sul ruolo del grande commercio, ipotizzando una fase di transizione economica chiamata «sistema di produzione mercantile pre-capitalistico». Hilton, rispondendo a Sweezy, ridimensiona il ruolo del commercio, ponendo invece in primo piano la rendita fondiaria, primo motore dell'economia feudale.
Un interessante contributo al dibattito è venuto dallo storico giapponese Takanashi, che sostiene l'inopportunità di parlare di un unico passaggio dal feudalesimo al capitalismo industriale. Infatti sia in Prussia sia in Giappone ebbe un ruolo determinante la borghesia mercantile e monopolistica, a differenza di quanto accadde in Inghilterra e in Francia. Si deve quindi tener presente l'esistenza di modi alternativi di passaggio, storicamente diversi a seconda dei Paesi e delle condizioni. In questo modo lo storico giapponese introduce nell'analisi storica un approccio di tipo comparativo che comporta una maggiore attenzione alle differenze storiche dei vari Paesi.
Ma il dibattito storiografico non è certo rimasto all'interno del marxismo.
Se lo consideriamo allargato a storici di varia tendenza, possiamo distinguere al suo interno due grandi orientamenti: quello che assegna un ruolo fondamentale alle tecniche e quello che invece ne ridimensiona l'importanza, ponendo al centro fattori come l'accumulazione di capitali, la formazione di un mercato omogeneo, la rivoluzione agricola del XVIII secolo. Tra i primi ricordiamo lo storico P. Mantoux, tra i secondi T.S. Ashton.
Negli anni cinquanta del XX secolo, quando sembrava che tutti i Paesi in via di decolonizzazione si sarebbero potuti avviare verso un autonomo processo di industrializzazione, si incominciò ad affrontare il problema della Rivoluzione industriale in termini di decollo (take off). Tale impostazione venne data dall'americano W. Rostow, che nella sua celebre opera Le tappe dello sviluppo economico ipotizzò cinque fasi della crescita economica: società tradizionale, condizioni preliminari al decollo, decollo, cammino verso la maturità, era del consumo di massa.
Questo schema dello sviluppo, criticato da molti storici marxisti, ebbe una grande risonanza, fornendo una nuova lettura interpretativa dell'industrializzazione.
Oggi l'interesse per la Rivoluzione industriale come tale è venuto diminuendo, anche perché è venuta meno la fiducia in un suo graduale e positivo sviluppo in tutti i Paesi, di fronte al dramma del sottosviluppo e della fame nel mondo, dove si allarga la forbice del dislivello tra Paesi industrializzati e Paesi sottosviluppati.
L'indagine storiografica si rivolge piuttosto ad aspetti specifici indotti dall'industrializzazione, come la vita urbana, le trasformazioni nel campo della cultura, dell'istruzione, delle professioni, dei servizi.
Anche la ricerca comparativa si è andata potenziando, ponendo ormai decisamente il tema dell'industrializzazione come un modello variabile a seconda delle situazioni storiche particolari.

 

La tesi marxista

Mentre i contemporanei, come l'economista del Settecento Adam Smith, non si erano resi conto dell'importanza delle innovazioni nel processo produttivo da cui era nata la grande industria, a metà Ottocento il fenomeno era ben altrimenti vistoso e Karl Marx poteva rilevarne i caratteri salienti e darne quell'interpretazione che serviva da potente molla alla Rivoluzione comunista.

L'invenzione della macchina-utensile inaugura nel secolo XVIII la rivoluzione industriale. Con la macchina a vapore a doppio effetto di Watt fu scoperto il primo motore capace di generare da se stesso la propria forza motrice, consumando acqua e carbone, ed il cui grado di potenza può venir completamente regolato dall'uomo. Mobile e mezzo di locomozione, cittadino e non campagnolo come la ruota idraulica, esso permette di concentrare la produzione nelle città invece di disseminarla nelle campagne, come avveniva nei processi di manifattura isolati nella divisione del lavoro [...]
Lo svolgimento del metodo di produzione in una sfera industriale porta con sé uno sconvolgimento analogo in un'altra sfera. Dapprima il fatto si rende manifesto nei rami di industria che si collegano come fasi di un complesso unico, poi la rivoluzione nell'industria e nell'agricoltura ha reso necessaria una rivoluzione dei mezzi di trasporto, di comunicazione, di distribuzione. Le macchine produssero altre macchine. A misura che nel primo terzo del secolo XIX la grande industria si sviluppò, il macchinismo si impadronì a poco a poco della fabbricazione delle macchine-utensili, e solo nel secondo terzo del secolo l'immensa costruzione delle strade ferrate e la navigazione a vapore fecero sorgere le ciclopiche macchine destinate alla costruzione dei primi motori.

K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1962, cap. XV, pp. .

L'epoca nostra, l'epoca della borghesia, ha semplificato i contrasti fra le classi. Le condizioni di produzione, i rapporti di proprietà, evocando potenti mezzi di produzione e di scambio, hanno evocato forze sotterranee non più dominabili. Così negli ultimi decenni la storia dell'industria e del commercio non è che la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i moderni rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che sono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio [...].
Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale, si sviluppa anche il proletariato, la classe degli operai moderni, costretti a vendersi al minuto, merce esposta come ogni altra alle oscillazioni del mercato. Il lavoro dei proletari, con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del lavoro, ha perduto ogni carattere d'indipendenza e quindi ogni attrattiva per l'operaio, che diventa un semplice accessorio della macchina. Ma con lo sviluppo dell'industria il proletariato non cresce soltanto di numero; esso si addensa in grandi masse, la sua forza va crescendo, e con la forza la coscienza di essa. Gli operai incominciano a formare coalizioni contro i borghesi, riunendosi per difendere il loro salario. Essi fondano associazioni permanenti per prepararsi alle eventuali sollevazioni. Qua e là la lotta diventa sommossa. Col progresso dell'industria altri borghesi si riducono a proletari e recano al proletariato una massa di elementi della loro educazione; le altre classi decadono e periscono, cosicché anche i conservatori lottano contro la borghesia. Così lo sviluppo della grande industria toglie sotto ai piedi della borghesia il terreno su cui essa produce e si appropria dei prodotti: essa produce i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili.

K. Marx - F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1973, cap. I.

Le cause della Rivoluzione industriale sono indicate da Marx nel «macchinismo», il suo sviluppo in un dramma e in un complesso contrasto che ha creato una frattura con il passato e un'insanabile lotta di classi contrapposte, l'esito inevitabile è additato nella Rivoluzione socialista, nella liberazione e nel «paradiso» della società senza più classi.
Altri studiosi della stessa scuola preferiscono non insistere troppo sul «macchinismo» come origine del processo industriale. Sono mutate non tanto le forme tecniche quanto il modo della proprietà dei mezzi di produzione. Lo squilibrio insito nel sistema capitalistico deriva dall'uso che i proprietari fanno del loro capitale per costringere il lavoro a creare un plusvalore nel processo di produzione. La natura della Rivoluzione industriale consiste nei nuovi rapporti sociali caratteristici della società capitalistica, cioè nell'antitesi fra gli sfruttatori e la massa crescente degli sfruttati, costretti a vendere il loro lavoro come una merce qualsiasi (M. Dosa, Alcune considerazioni sulla rivoluzione industriale, in "Studi storici", 1961, pp. ).
Non a un unico fattore estrinseco risale l'origine della Rivoluzione, secondo Franco Catalano, bensì a molti motivi (moneta a buon mercato, miglioramento delle comunicazioni, ridistribuzione della proprietà terriera) e soprattutto all'incremento della popolazione, che fece a sua volta aumentare i prezzi dei generi agricoli e dovette a sua volta influire sull'aumento di produzione industriale in seguito all'accresciuta domanda. Soppressi i pascoli comuni e cresciuta la grande affittanza, si ebbe la fuga verso le città dei contadini che non volevano rassegnarsi alla nuova condizione di salariati o di braccianti. Il ceto capitalistico e borghese dell'Inghilterra poté approfittare per primo delle nuove condizioni e delle insolite possibilità offertegli e rivoluzionare i mezzi di produzione (F. Catalano, Stato e società nei secoli, Mondadori, Milano 1965, vol. II, pp. 879-880).
Per quanto contenuto in embrione nel periodo storico precedente, il nuovo modo di produzione crebbe d'intensità fino a raggiungere il suo punto critico e a imporsi all'intera società. Nacque l'età industriale, caratterizzata da un aumento straordinario della produzione e da un aumento del benessere generale, pagato però dai sacrifici pesanti dei proletari nella prima fase di sfruttamento indiscriminato e dai sovraprofitti degli industriali. La lotta di classe divenne perciò più serrata: il suo perfezionamento si otterrebbe infine nella realizzazione del comunismo mondiale. In questa prospettiva anche la storia e lo storico assumono un nuovo ruolo, quello di dar coscienza del fenomeno e di divenire strumento del riscatto sociale.

 

La tesi idealistica

Più ottimistica è la considerazione degli economisti d'ispirazione idealistica, i quali non vedono nella Rivoluzione industriale né lacrime né sangue né dramma, anzi neppure una rivoluzione, ma semplicemente una graduale evoluzione delle forme di produzione e di lavoro che non costarono quindi grandi disagi e particolari sofferenze ai lavoratori. I progressi tecnici che portarono all'industria capitalistica risalgono, secondo Sombart, alla fine del Medioevo, quando nel XV secolo vennero compiuti decisivi progressi nella tecnica dell'industria mineraria e metallurgica; quando il rapido incremento della domanda da parte delle persone più agiate e degli eserciti impose la fabbricazione di nuovi prodotti e portò all'introduzione di nuovi strumenti di lavoro nell'industria tessile; quando i mutamenti nelle condizioni del mercato cominciarono a escludere gli artigiani dall'acquisto diretto delle materie prime e li portarono a dipendere dai mercanti all'ingrosso (W. Sombart, Il capitalismo moderno, Sansoni, Firenze 1925, pp. 15-16). Pure per Mantoux, che fu tra i primi a usare il termine di "Rivoluzione industriale" in senso prevalentemente economico, l'evoluzione della macchina va anticipata al XVI secolo, ma essa non basta a spiegare la Rivoluzione, che va collegata ad altri fattori: sviluppo della popolazione, trasformazione dei campi aperti medievali nelle moderne fattorie.
La genesi del capitalismo moderno risiederebbe in una concomitanza fra la brama del guadagno e lo spirito razionalistico. Fuori dagli schemi strettamente economici, il processo è «figlio dell'individualismo moderno, dello spirito d'autonomia, d'iniziativa, di organizzazione caratteristico dei Paesi che più hanno subito gli influssi della Riforma» (G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Laterza, Bari 1925, p. 43 e ss.). La nuova mentalità scaturita dal Rinascimento, dalla Riforma e dall'Illuminismo esplica un ruolo insostituibile nel rendere possibili le nuove strutture economiche meglio rispondenti ai diversi atteggiamenti della società. Si passa così dal capitalismo mercantile, caratteristico d'una economia di isolamento, al capitalismo industriale, grazie specialmente all'accresciuta domanda di beni quali i mezzi bellici e gli articoli di lusso. Dall'artigianato, inteso come produzione di oggetti utili, si arriva al capitalismo finanziario, che mira razionalmente alla produzione di quegli oggetti – utili, inutili o dannosi – che consentano il massimo guadagno. Ancora, progressivamente trasformandosi-attraverso l'estendersi dei mercati e dell'industria il capitalismo diventa di Stato, diretto a interpretare il Volksgeist ("spirito del popolo"). La conclusione della Rivoluzione si avrebbe nel capitalismo di Stato (e Sombart guarda allo Stato tedesco e nazista), laddove l'imprenditore lascia il posto al dirigente e i dipendenti si sentono spontaneamente portati alla disciplina e all'obbedienza, in nome dei superiori interessi del Paese. Intesa in questi termini la Rivoluzione economica investe tutti gli aspetti della vita sociale e va valutata in termini etici: essa realizza o realizzerà infine una società più perfetta in cui il popolo saprà creare rapporti interindividuali nuovi e un'elevata concezione della comunità.
Nel senso di una graduale e necessaria evoluzione, piuttosto che di una drastica trasformazione, scrivono altri storici d'impostazione idealistica, i quali insistono nel dire che nell'Inghilterra della fine del Settecento, nella Francia del primo Ottocento, nella Germania e in Italia alla fine dell'Ottocento si ebbe solo un'evoluzione accelerata, ma nessun mutamento repentino e di fondo. I. Clapham parla di ben tre Rivoluzioni avvenute in Inghilterra fra il 1540 e il 1640: l'introduzione dell'industria capitalistica prima della Riforma, l'applicazione alle vecchie industrie di innovazioni tecniche già in uso nel continente, la scoperta e l'applicazione di nuove tecniche. In tale prospettiva idealistica scompare del tutto il concetto di rivoluzione, che lascia il posto a un processo lungo e senza scosse risalente agli inizi dell'età moderna e trionfante nel XIX secolo.

 

La tesi liberista

Anche gli studiosi neoliberisti dell'economia negano valore alla "leggendaria" interpretazione marxista, considerano assurdo il sorgere improvviso, per salto qualitativo, del sistema capitalistico di produzione, ma – in luogo di determinanti forze spirituali – attribuiscono al progressivo estendersi degli investimenti e ad altri fattori puramente economici l'affermazione delle nuove forme di produzione e di profitto. Essi negano o minimizzano i sacrifici imposti ai lavoratori dell'agricoltura e dell'industria dalla nuova organizzazione del lavoro, anzi si mostrano convinti della bontà e dell'armonia d'uno sviluppo risultante dalla libera esplicazione delle forze economiche.

Il lungo processo — scrive T. S. Ashton — si è svolto senza contrasti e nel pacifico accordo delle varie classi sociali, e non poteva essere diversamente, in quanto i risultati delle innovazioni gradualmente introdotte rappresentano effettivi progressi e reali vantaggi per i ceti inferiori. In luogo dell'incerto e precario salario in natura ebbero un regolare salario in denaro; in luogo del lavoro saltuario o stagionale ebbero un lavoro continuativo e stabile; in luogo di fatiche fisiche poterono usufruire per i lavori più pesanti dell'uso di macchine e di motori [...]. Solo interessi politici hanno permesso ai marxisti di diffondere una fra le più curiose leggende che abbiano oscurato la storia della rivoluzione industriale, l'idea cioè che, in una maniera o nell'altra, gli uomini fossero divenuti improvvisamente egocentrici, avari e antisociali [...]. Parecchi documenti sulle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti, e proprio dei periodi più difficili, dimostrano il contrario.

T. S. Ashton, La rivoluzione industriale, Laterza, Bari 1953, pp. 71-72.

Più cauto nelle sue affermazioni è William Rostow, il quale riconosce che per Rivoluzione industriale si debba intendere un take-off ("decollo") per cui in qualche decennio le strutture economiche, sociali e politiche d'una società vengono trasformate in modo tale che, dopo, è possibile alimentare regolarmente un ritmo continuo di sviluppo: il che avvenne in parecchi Paesi d'Europa in momenti diversi ma entro limiti di tempo ristretti. Tuttavia Rostow non nega uno sviluppo gradualistico dell'economia e afferma che in ogni processo di industrializzazione si possono distinguere fasi diverse. I liberisti imputano il lento e irregolare sviluppo delle classi lavoratrici, che in effetti si produsse, a crisi successive di assestamento, ma il sistema capitalistico avrebbe in definitiva favorito e reso più umano tale sviluppo, anziché ostacolarlo. Con l'aumento della popolazione, soltanto l'avvento delle macchine industriali garantì i mezzi di sussistenza alla grande massa della popolazione. Quindi non la Rivoluzione industriale trasformò artigiani e piccoli proprietari in proletari: il vero proletariato sarebbe invece costituito dal sovrappiù di popolazione che il nuovo sistema ha consentito sopravvivesse grazie alle nuove possibilità di impiego. Gli arrischiati imprenditori che impegnarono i loro capitali nell'acquisto di nuovi mezzi di produzione permisero di vivere a un'aumentata popolazione. Si parlò di miseria, di malsani quartieri di periferia, di condizioni di lavoro inumane, solo perché con la diffusione del benessere e di nuove esigenze quella che prima appariva una situazione naturale, apparve nella sua crudezza e venne denunciata. In questa luce il capitalismo è visto come un fenomeno largamente positivo, solo nella sua fase iniziale accompagnato da aspetti negativi, i quali per di più sarebbero stati superati ancor più facilmente se ostacoli di natura extraeconomica non ne avessero intralciato il regolare sviluppo (interventi governativi, politici, bellici). Tanto meno valore hanno poi nei suoi confronti le critiche dei marxisti, in quanto non sussistono più quelle difficili situazioni iniziali e il, capitalismo ha provveduto da sé a eliminare i suoi difetti, correggendo il suo estremismo con le leggi sociali, infortunistiche, previdenziali, sindacali e i vari controlli messi in atto in tutti gli Stati di tipo liberale.

 

La tesi cattolica

Dopo che per anni marxisti e storici dell'economia hanno tenuto il campo con le loro interpretazioni del fenomeno, anche storici di formazione cattolica hanno intrapreso l'esame della Rivoluzione industriale. Ben riassume le loro conclusioni padre Sorge, in un articolo dell'autorevole periodico dei Gesuiti "Civiltà cattolica". Egli rileva anzitutto le contraddizioni esistenti fra le tesi dei marxisti e degli idealisti, ma anche alcuni elementi comuni alle loro interpretazioni come pure a quella dei liberisti. Questi storici, di diverso orientamento, condizionano tutti la realtà storica e la forzano entro schemi ideologici, vuoi materialistici, vuoi idealistici, vuoi puramente economici. Essi fan uso di uno stesso criterio filosofico fondamentale, che si potrebbe denominare "fatalismo storico". Non è difficile ritrovare a fondamento delle prime due interpretazioni una concezione rigidamente dialettica della realtà. Ora, sia che la necessità dialettica si accetti come imposta al vertice dal progressivo svilupparsi dell'idea, sia che tale necessità provenga dalla base d'una economia in perenne evoluzione, «in entrambi i casi rimane soffocata l'iniziativa personale dell'uomo nella storia». In nome del determinismo economico o della necessità razionale, marxisti e idealisti sacrificano la concezione della persona umana. D'altra parte, né la professione di umanesimo, né l'atteggiarsi a difensori dei diritti dell'individuo basterebbero a salvare gli autori di ispirazione liberale dal cadere in un analogo errore. Anch'essi infatti finiscono per giudicare la storia secondo le leggi d'un meccanismo economico, ignaro dei valori e dei rapporti spirituali che l'uomo, in quanto persona, ha sempre avuto con la società, con il mondo e con le realtà trascendenti, nell'operare le sue scelte. Tale fiducia illimitata nelle ferree leggi d'una economia incontrollata, unico modello della società alla cui luce giudicano ogni comportamento umano, corrisponde al fatalismo e nega all'azione dell'uomo quel carattere di libera scelta personale che inizialmente i liberisti avevano rivendicato.

Anche l'attività economica – scrive padre Sorge – prima che da teoriche leggi, dipende dal libero comportamento umano nell'impiego delle limitate risorse naturali disponibili. Non si potrà mai fare una storia, neppure quella economica, se si priva l'uomo del dominio sulle cose, della capacità d'autodeterminazione, della sua stessa responsabilità. Non fa quindi meraviglia se, ricorrendo a criteri e a metodi estranei alla storia, si sia giunti a conclusioni storiche erronee e contraddittorie, in aperto contrasto con gli stessi dati di fatto che si pretendeva interpretare.

B. Sorge, Interpretazioni storiografiche della rivoluzione industriale, in "Civiltà cattolica", agosto 1964, pp. 323-324.

Rifiutando gli schemi ideologici precostituiti, Sorge afferma la necessità di ricostruire genuinamente la Rivoluzione industriale armonizzando il rispetto del dato di fatto con una valutazione personale che colga la concatenazione temporale e logica tra i fatti, e soprattutto il loro significato umano e trascendente.

Due ci sembrano i punti da tenere specialmente presenti nel giudizio sulla rivoluzione industriale [...]. Si deve saper valutare equamente l'influsso effettivo esercitato sull'aspetto sociale della rivoluzione dal rapporto fra processo economico ed ideologia politica. Nessuno potrebbe negare che questi elementi s'integrino a vicenda [...] la ricerca d'una equa sintesi ci salva dal considerare economia e politica come due rette parallele che non si incontrano mai, e ci preserva dalle conclusioni estreme di chi si propone di ricondurre pensiero politico e divenire storico a semplice teoria dello sviluppo economico. Il secondo punto da tener presente appartiene al momento «personale» dell'analisi storica. Se nelle scienze naturali l'accertamento d'un fatto materiale e delle sue leggi fisiche può bastare, ciò non è sufficiente nel campo della critica storica, dove i fatti, in quanto sono umani, vanno soprattutto interpretati e capiti. Ecco perché è da escludersi che lo storico debba solo freddamente darci la misura estrema degli eventi; ai quali, invece, è necessario che egli si accosti, non solo mosso da interesse personale, ma soprattutto consapevole della realtà dei valori umani, che nella storia sempre s'incarnano e operano.

B. Sorge, Ibidem.

Alla luce di questa impostazione, peraltro insufficientemente seguita da lavori di ricerca documentati, dovrà venire una più ricca problematica della Rivoluzione industriale, come frutto d'una evoluzione delle tecniche, d'un aumento di popolazione, d'uno sfruttamento diverso delle materie prime e del lavoro, di sacrifici e di miseria, ma anche di nuovo benessere: ciò che importa è però l'aspetto umano della Rivoluzione, gli effetti che ne sono derivati per i singoli e per le famiglie, non solo sotto l'aspetto d'una nuova sistemazione economica, ma come possibilità di vita morale e religiosa, politica e culturale. La tesi cattolica insiste in definitiva sulla necessità di considerare sempre al centro della storia gli uomini con tutto il peso dei loro problemi di vita materiale, con tutta l'ansia di elevazione spirituale.

 

Perché l'Inghilterra fu la patria della Rivoluzione industriale

In Inghilterra, dove il fenomeno è stato studiato con particolare interesse, si può anzitutto rilevare il grado di sviluppo assunto dalla sua marineria, dai suoi commerci, dai suoi istituti bancari fin dal Seicento, nonché le possibilità aperte al suo sfruttamento coloniale, che consentì naturalmente l'accumulazione di notevoli capitali disponibili per nuove imprese. Mentre Marx polemicamente insiste su questo motivo dello sfruttamento cruento dei popoli coloniali e successivamente sulla violenta espropriazione che privò i contadini inglesi dei campi pubblici e introdusse il sistema delle enclosures, lo storico radicale Trevelyan vede nelle due Rivoluzioni, agricola e industriale, l'unica possibilità per l'Inghilterra di superare le sue difficoltà e di migliorare il livello di vita.

Alla vigilia della rivoluzione industriale — scrive Trevelyan — la società presentava molti aspetti assai attraenti per noi che la osserviamo retrospettivamente: una popolazione rurale legata alla terra, con le sue fatiche e i suoi svaghi, affezionata al villaggio e alla sua vita tradizionale; grande varietà di tipi e di caratteri fra gli uomini; addestramento individuale, abilità e gusto personale nelle arti e nei mestieri, come elemento normale della vita economica del popolo. Ma per dare un giudizio di ciò che la rivoluzione industriale abbia significato, è necessario ricordare che una penuria di combustibile, dovuta all'esaurimento delle riserve di legname, era già nettamente avvertibile in molte parti dell'Inghilterra nel secolo XVIII; finché giunse il rimedio con la distribuzione del carbone per mezzo dei canali prima, poi delle strade ferrate. La penuria di combustibile era già sul punto di arrestare tutta la nostra vecchia industria metallurgica, abbassando così il livello di vita e delle comodità domestiche [...I. Per fortuna nella patria di Newton la scienza era onorata e sfruttata dai commercianti più intraprendenti e dai loro protettori aristocratici, con la prospettiva di cogliere l'occasione per sviluppare le proprie operazioni nel campo minerario o manifatturiero: si erano accumulati capitali come non era mai avvenuto prima d'allora, e i capitalisti inglesi, abituati a investirli nel commercio su vasta scala, li avrebbero con altrettanta tempestività collocati in imprese industriali di pari portata, non appena invenzioni nuove avessero offerto al capitale nuove prospettive d'impiego; i mercati di sbocco delle merci inglesi, già esistenti in America, in Europa e in Oriente, poterono essere sviluppati all'infinito dai nostri commercianti, così da assorbire ogni ulteriore aumento della produzione di beni creati dall'attività industriale all'interno del paese. Per tutte queste ragioni, l'Inghilterra di quell'epoca era la culla predestinata della rivoluzione industriale.

G. M. Trevelyan, Storia d'Inghilterra, Mondadori, Milano 1965, pp. 448-450.

Se Trevelyan vede la Rivoluzione industriale soprattutto come uno sforzo rivolto al fine d'un necessario superamento della crisi di sovrappopolazione e d'esuberanza di capitali, un altro storico inglese, Fisher, si sofferma sulle fasi del progresso.

Il rovinoso sistema agricolo medievale, con le sue colture sparse nei campi aperti, scomparve dinanzi ai recinti chiusi dei proprietari bonificatori i quali, fondandosi sulle particolarità di radici e di erbe, praticavano una rotazione scientifica delle messi, che accrescendo la produzione degli alimenti, aumentava anche la popolazione. I lineamenti della vita economica vennero trasformati prima dalla forza idraulica e poi dalla forza a vapore. L'industria del ferro, che durante il regno della regina Anna, minacciò di fallire per scarsezza di combustibile, trovò nelle ricche miniere di carbone delle regioni centrali e settentrionali un inatteso impulso a più ampi sviluppi. Al legno si sostituì il ferro, ai carbonai i minatori [...]. Una trasformazione simile non avrebbe potuto attuarsi senza le invenzioni. Un piccolo gruppo di scozzesi ed inglesi intelligenti riuscirono col loro ingegno a trasformare la vita economica del paese. Certo l'atmosfera dell'epoca diede loro ispirazione ché, da quando Bacone aveva proclamato il valore del metodo induttivo, la scienza s'era venuta sempre più diffondendo; e scienziati furono alcuni inventori, tra cui James Watt, che per primo seppe dare un vero valore industriale alla macchina a vapore [...]. Altri grandi inventori furono poveri operai privi di istruzione o di cultura scientifica, ma guidati da un intuito meccanico che rasentava il genio; come Kay, che nel 1733, con la sua spoletta automatica, raddoppiò abbondantemente le possibilità di lavoro dei tessitori oltre a migliorarne la qualità, ed Hargreaves, che con la sua filatrice meccanica (1754) rese otto volte maggiore la potenza produttiva del tessitore; e così pure Arkwright, creatore del dispositivo per ottenere con la filatrice fili di ogni grossezza e resistenza, fondatore dell'industria inglese del cotone e padre della fabbrica.

H. A. L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari 1954, vol. II, pp. 278-279.

La recente storiografia ha poi individuato altri aspetti che aiutano a comprendere per quale motivo la Gran Bretagna sia stata la patria d'elezione della Rivoluzione industriale. Molteplici fattori inducono gli storici a individuare nella società inglese il terreno più adatto ad accogliere lo sviluppo prodigioso della meccanizzazione e della successiva industrializzazione.
L'americano David S. Landes sottolinea l'importanza della mentalità imprenditoriale, aperta, dinamica e favorevole alle innovazioni che contraddistingueva il ceto borghese e nobiliare dell'Inghilterra settecentesca. Tale atteggiamento nei confronti della novità e della tecnologia applicata ai processi produttivi era l'esito naturale delle Rivoluzioni del XVII secolo, che avevano visto il ceto imprenditoriale inglese in prima linea nella lotta contro l'assolutismo regio e contro la cristallizzazione di assetti sociali superati.

Non fu il capitale da solo a rendere possibile il rapido progresso inglese. Il denaro di per sé non avrebbe potuto far nulla; anzi a questo riguardo gli imprenditori del continente, che spesso potevano contare su sussidi diretti o privilegi monopolistici da parte dello stato, si trovavano in situazione avvantaggiata rispetto ai loro colleghi inglesi. Ciò che distingueva l'economia inglese, come già abbiamo più volte rilevato, era una straordinaria sensibilità e reattività alle opportunità pecuniarie. Era, quello inglese, un popolo affascinato collettivamente e individualmente dalla ricchezza e dal commercio. Perché così fosse, è una questione che merita di essere indagata. Certo il fenomeno era strettamente connesso, come causa e come effetto, alla già notata apertura di quella società; e questa a sua volta era legata alla posizione e al carattere peculiari della sua aristocrazia. L'Inghilterra non aveva una nobiltà nel senso degli altri paesi europei. Aveva un peerage, dei Pari, una classe composta di un piccolo numero di persone titolate, la cui prerogativa essenziale e pressoché unica era di sedere nella Camera dei Lord. I figli di questi Pari erano dei commoners, ossia dei cittadini qualsiasi che ricevevano bensì spesso dei titoli di cortesia in omaggio ai loro alti natali, ma che quanto a rango civile non differivano dagli altri britanni. Gli stessi Pari avevano privilegi molto modesti: per esempio di essere giudicati da nobili loro eguali nei processi penali, o di avere accesso diretto al sovrano. Non godevano di immunità fiscali. Sotto la nobiltà c'erano i possidenti di campagna: la gentry o la cosiddetta squirearchy, un gruppo amorfo, senza definizione o status giuridico, che non aveva equivalente nell'Europa continentale. I confini di questa classe erano incerti, i suoi ranghi vagamente e variamente composti. Alcuni membri della gentry erano di ascendenza nobile; altri avevano fatto fortuna nel commercio, o nelle professioni o al servizio dello stato, e avevano acquistato terreni a fini sia di prestigio sociale sia di reddito; altri erano rampolli di vecchie famiglie di campagna; altri ancora erano agricoltori o yeomen arricchiti. [...] Nobili o semplici possidenti della gentry, essi vivevano nelle loro tenute (e non a corte), dirigevano le loro terre e ne notavano i rendimenti, cercavano di introdurre migliorie per accrescere le rendite avite, escogitavano nuovi modi di produrre reddito. [...] Inoltre recintavano la terra, concentravano i loro possedimenti, introducevano, o trovavano fittavoli che introducessero rotazioni di colture e tecniche di coltivazione migliori, contribuivano a diffondere le nuove idee nel paese. Non è questo il luogo di parlare della cosiddetta «rivoluzione agricola» del XVIII secolo, o di valutare i benefici o le ingiustizie che la accompagnarono. Il mio intento qui è di sottolineare i caratteri generali di questo spirito di innovazione e i suoi effetti; e altresì di ricordare il fatto ben noto che quella inglese era una società che interponeva relativamente poche barriere istituzionali a una trasformazione fondamentale di questo genere.

D. S. Landes, Prometeo liberato, Einaudi, Torino 1993, pp. 88-94.

Joel Mokyr mette in evidenza il ruolo determinante delle istituzioni politiche inglesi: esse infatti non solo non cercarono di ostacolare il processo di innovazione, ma ne individuarono l'importanza fondamentale per lo sviluppo del Paese. Parlamento e monarchia si impegnarono di concerto per scongiurare l'arresto del processo di innovazione tecnologica e di meccanizzazione, opponendosi ai tentativi, quale quello operato dai seguaci del luddismo tra il 1811 e il 1816, di vanificare l'evoluzione in atto. I luddisti (termine con il quale definiamo i seguaci di Ned Ludd, operaio che avrebbe infranto un telaio meccanico nel 1779 per protestare contro i rischi dell'incipiente meccanizzazione) individuavano nelle macchine le principali responsabili della contrazione dell'occupazione, dell'abbassamento dei salari e dell'introduzione di ritmi e metodi di lavoro completamente diversi e per molti aspetti massacranti: per questo ne volevano la distruzione. Il governo inglese, però, si schierò risolutamente con il ceto imprenditoriale, contribuendo in maniera determinante al trionfo della Rivoluzione industriale.

La storia della Rivoluzione industriale in Gran Bretagna non fece eccezione a questo riguardo. La resistenza contro le nuove macchine fu ben organizzata, energica, e in alcuni casi e aree rallentò il progresso tecnologico. Il Parlamento venne inondato di petizioni che tentavano di imporre restrizioni e standard di qualità antiquati, in modo da ritardare l'adozione di tecniche nuove. Gruppi e lobbies si rivolgevano con frequenza al Parlamento richiedendo di applicare i vecchi regolamenti o di introdurre leggi nuove che ostacolassero l'avanzata delle macchine. Il Parlamento non si piegò a queste richieste. Le vecchie leggi che regolavano le pratiche di assunzione nell'industria della lana vennero abrogate nel 1809, e lo Statuto degli artigiani, vecchio di 250 anni, fu abrogato nel 1814. Quando i mezzi legali si rivelarono inutili, si passò alla rivolta, che culminò nelle famose sommosse «luddiste» verificatesi nel Nord dell'Inghilterra centrale tra il 1811 e il 1816. Individuare nella tecnofobia la causa di un'agitazione non è sempre facile perché in realtà non tutti i disordini etichettati come «luddisti» erano indirizzati contro la nuova tecnologia in quanto tale. In alcuni casi, le macchine fornirono un facile bersaglio per lavoratori che avevano altri motivi di rancore. La resistenza al progresso fallì in larga parte perché il governo britannico scelse la linea dura, reprimendo con la forza i disordini luddisti e altri tumulti simili, deportandone i leader e garantendo alle nuove macchine la necessaria protezione. L' establishment al potere (composto per lo più da proprietari terrieri) adottò questo atteggiamento perché comprese pienamente che la resistenza alle macchine, provocando una fuga tecnologica verso l'estero, avrebbe finito col favorire i concorrenti e i nemici della Gran Bretagna.

J. Mokyr, Il cambiamento tecnologico, 1750-1945, in Storia d'Europa, Einaudi, Torino 1996, vol. V, pp. 306-310.

Centri di sviluppo e concentrazione delle industrie

 

 

 

 

[ Storia ]     [ Strumenti di Storia ]