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l'inghilterra nell'età delle rivoluzioni

 

 

FONTI

 

La Petition of Rights del 1628

La Petition of Rights del 1628 fu l'atto iniziale dello scontro che avrebbe opposto la monarchia inglese degli Stuart al Parlamento.
Di fronte alla ferma volontà del re che, a corto di fondi per proseguire la guerra contro la Francia, aveva chiesto ai parlamentari di utilizzare la leva fiscale, le Camere elevarono una ferma protesta, emanando appunto tale Petizione. Essa sarebbe divenuta il manifesto dell'opposizione a un regime che si andava configurando come estraneo alle tradizioni di libertà inglesi. Era il primo passo verso la formazione, avvenuta nel 1689, di una monarchia costituzionale.

Alla Eccellentissima Maestà del Re.
I. I Lords spirituali e temporali e i Comuni, riuniti in Parlamento, fanno osservare molto umilmente al nostro Sovrano Signore il Re che è dichiarato e fissato da uno statuto fatto sotto il regno di Edoardo I, conosciuto sotto il nome di statuto de tallagio non concedendo, che il Re o i suoi eredi non impongano né levino imposte o aiuti in questo regno, senza il buon volere e assenso degli arcivescovi, vescovi, conti, baroni, cavalieri, borghesi e altri uomini liberi dei comuni di questo regno. [...]
II. Considerando tuttavia che sono state stabilite, recentemente, diverse commissioni in parecchie contee, con istruzioni per le quali il vostro popolo è stato riunito in diversi luoghi e richiesto di prestare certe somme di denaro a V. M.; e che, rifiutandosi qualcuno, è stato a questi fatto prestare giuramento, e sono stati obbligati a comparire e a presentarsi, contro tutte le leggi e gli statuti di questo reame, davanti al vostro Consiglio privato o in altri luoghi; che altri sono stati arrestati e imprigionati, turbati e molestati in diverse altre maniere. [...]
III. Considerando che è anche fissato e stabilito, dallo statuto chiamato la "Grande Carta delle libertà d'Inghilterra", che nessun uomo libero potrà essere arrestato o messo in prigione, né spossessato della sua libera proprietà, né delle sue libertà o franchigie, né messo fuori della legge o esiliato, né molestato in nessun'altra maniera, se non in virtù di una sentenza legale dei suoi pari o delle leggi del paese. [...]
VI. Considerando che considerevoli distaccamenti di soldati e marinai sono stati recentemente dispersi in parecchie contee del reame, e che gli abitanti sono stati costretti a riceverli e albergarli loro malgrado, contro le leggi e costumi di questo reame, con grande gravame e oppressione del popolo.
VII. Considerando che è stato anche dichiarato e fissato dall'autorità del Parlamento nel 25° anno del regno del re Edoardo III (1352), che nessuno potrà essere condannato a morte o alla mutilazione, se non nelle forme indicate dalla Grande Carta e dalle leggi del paese; e che, per la detta Grande Carta e le altre leggi e statuti del vostro reame, nessun uomo deve essere condannato a morte, se non per mezzo delle leggi stabilite nel reame e delle consuetudini che vi sono in vigore, o di un atto del Parlamento. [...]
VIII. Che, sotto il pretesto di questo potere, i commissari hanno mandato a morte parecchi dei sudditi di V.M., allorquando, se avessero meritato l'ultimo supplizio secondo le leggi e statuti del paese, essi non avrebbero potuto né dovuto essere condannati e giustiziati che per mezzo di queste stesse leggi e statuti, e non altrimenti. [...]
X. Per queste ragioni, supplicano umilmente la Vostra Eccellentissima Maestà che nessuno, in avvenire, sia costretto a fare alcun dono gratuito, alcun prestito di danaro, alcun particolare presente, né a pagare alcuna tassa o imposta senza il consenso comune dato per atto del Parlamento; che nessuno sia chiamato in giustizia, né obbligato a prestare giuramento, né obbligato a un servizio, né arrestato, inquietato o molestato in occasione di queste tasse, o del rifiuto di pagarle; che nessun uomo libero sia arrestato o detenuto nella maniera indicata sopra; che piaccia a V. M. di far ritirare i soldati e i marinai dei quali si è sopra parlato, e impedire che in avvenire il popolo sia oppresso in tal modo; che le commissioni incaricate di applicare la legge marziale siano revocate e annullate e che non ne siano più deliberate di simili a nessuno per paura che, sotto questo pretesto, qualcuno dei vostri soggetti sia molestato o mandato a morte contro le leggi e libertà del paese.

Petition of Rights, in Le carte dei diritti, a cura di F. Battaglia, Sansoni, Firenze 1959.

Il Bill of Rights di Guglielmo III d'Orange

Il documento rappresenta la logica conclusione del processo istituzionale iniziato nel 1628 con l'opposizione ai tentativi assolutistici di Carlo I Stuart.
Il Bill of Rights, infatti, venne emanato all'indomani della Glorious Revolution, la Rivoluzione del 1688, con la quale fu allontanato dal trono d'Inghilterra Giacomo II Stuart. Al pari del nonno Carlo I, anche Giacomo aveva cercato d'imprimere una svolta assolutistica alla Corona inglese, alterando in questo modo gli equilibri costituzionali del regno. Nell'offrire la Corona al nuovo sovrano Guglielmo III d'Orange e alla moglie Maria II Stuart, il Parlamento vincolava i nuovi regnanti al rispetto rigoroso e assoluto delle prerogative e delle consuetudini del regno; queste ultime attribuivano alle Camere un ruolo di primo piano nella vita del Paese.
Il Bill of Rights rappresenta un tipico esempio di concezione contrattualistica del potere, che veniva concesso ai sovrani attraverso una deliberazione del Parlamento rappresentante della volontà del popolo e un consapevole rifiuto di un modello di monarchia di diritto divino.

I Lords Spirituali e Temporali e i Comuni [...] dichiarano:
Che il preteso potere di sospendere le leggi, o l'esecuzione delle leggi, per autorità regia, senza il consenso del Parlamento, è illegale.
Che il preteso potere di dispensare dalle leggi, o dall'esecuzione delle leggi, per autorità regia, come è stato affermato ed esercitato recentemente, è illegale [...].
Che imporre tributi in favore o ad uso della corona, per pretese prerogative, senza l'approvazione del Parlamento, per un periodo più lungo o in altra maniera che lo stesso Parlamento non ha e non avrà concesso, è illegale.
Che i sudditi hanno il diritto di petizione al Re ed ogni incriminazione o persecuzione per tali petizioni sono illegali.
Che riunire e mantenere nel Regno in tempo di pace un esercito stabile, se non vi è il consenso del Parlamento, è contro la legge.
Che i sudditi Protestanti possono tenere armi per la loro difesa adeguate alla loro condizione e permesse dalla legge.
Che l'elezione dei membri del Parlamento deve essere libera.
Che la libertà di parola e di discussione o di stampa in Parlamento non deve essere impedita o contestata in nessuna corte o luogo fuori del Parlamento.
Che non devono essere richieste eccessive cauzioni, né ammende eccessive, né inflitte pene crudeli e inusitate.
Che i giurati devono essere debitamente iscritti nelle liste e debitamente nominati, e che i giurati dei processi di alto tradimento devono essere liberi proprietari. Che ogni consenso o promessa di pagamento di pene pecuniarie prima che il reo sia convinto è illegale e nulla. E che, per far giustizia di ogni gravezza e per emendare, rafforzare e preservare le leggi, le riunioni del Parlamento devono esser tenute frequentemente [...].
Ed essi chiedono e domandano con insistenza l'osservanza di tutti e ciascuno dei predetti punti come loro indubbi diritti e libertà [...]. Pienamente fiduciosi che Sua Altezza il Principe d'Orange vorrà perfezionare l'opera di liberazione da lui iniziata e li vorrà preservare dalla violazione dei diritti che essi hanno qui affermato e da ogni altro attentato alla loro religione, ai loro diritti e libertà, i detti Lords Spirituali e Temporali e i Comuni riuniti a Westminster stabiliscono che Guglielmo e Maria, Principe e Principessa di Orange, sono dichiarati Re e Regina di Inghilterra, Scozia e Irlanda e dei domini ad esse appartenenti.

Bill of Rights, in F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze, Principato, Milano 1971.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

L'Inghilterra al bivio fra assolutismo e parlamentarismo

Le prime avvisaglie della stagione di aspra tensione fra Corona inglese e Parlamento si manifestarono nel 1628, con la Grande Rimostranza, base della successiva Petition of Rights.
Lo storico inglese J. P. Cooper interpreta lo scontro fra due concezioni sempre più antitetiche della sovranità: Carlo I si concepiva come un monarca per diritto divino e dotato di poteri pressoché illimitati; il Parlamento, fatto salvo il rispetto doveroso verso il suo re, non lo riteneva il depositario della volontà della nazione e desiderava l'immediato ripristino delle consuetudini inaugurate da Enrico VIII ed Elisabetta I.

La decisione dei Comuni di servirsi della facoltà, di recente conquistata, di interrogare e accusare i dipendenti della Corona, contro un uomo che il re era risoluto a difendere a tutti i costi, determinò una situazione di stallo. Il richiamo all'antica massima che il re non poteva comandare azioni illegittime, e l'appello di Pym alle leggi fondamentali del regno sollevarono problemi tali da sconvolgere il quadro costituzionale, ma la crisi politica che li aveva fatti nascere non era necessariamente insolubile. Con un po' più di fortuna a La Rochelle e qualche concessione a magnati come Pembroke e Warwick, oppure a deputati come Digges, Wentworth e Phelips (con cui la corte si manteneva in contatto) sarebbe forse stato possibile raggiungere un compromesso soddisfacente. Fu Buckingham, più di Carlo, a dimostrare in questo momento cruciale un certo istinto di autoconservazione. Ma nell'immediato la crisi spinse la Corona ad assumere poteri straordinari che a molti sembrarono mettere in pericolo il tradizionale equilibrio tra re e parlamento. Una tra le maggiori cause di allarme fu la decisione di imporre un prestito forzoso. Solo di nome si trattava di un prestito: in realtà era una richiesta di cinque sussidi fatta senza il consenso del par- lamento, e da riscuotersi nel brevissimo tempo di tre mesi. I giudici rifiutarono di riconoscere la legalità del provvedimento, e Crew, il lord chief justice, fu destituito. Abbot a sua volta fu sospeso dalle sue funzioni per essersi rifiutato di licenziare un sermone di Sibthorpe a difesa del prestito. Nonostante l'opposizione, la somma di 300.000 sterline fu raccolta quasi per intero, benché più lentamente del previsto. I pochi, tra cui Wentworth, che si rifiutarono di pagare sollevarono importanti problemi relativi al consenso parlamentare e ai diritti individuali, che dovevano portare alla petizione dei diritti e all'atto di emendamento dell'habeas corpus. I più si piegarono, consolandosi con la promessa di Carlo che il prestito non sarebbe stato considerato come un precedente. Ma veniva fatto di chiedersi se questo non avrebbe significato l'estensione della prerogativa regia a espedienti finanziari di questo tipo. In fondo né l'una né l'altra parte erano preparate a un conflitto che avrebbe dovuto combattersi fuori dal contesto tradizionale. La Corona prese in attento esame progetti come lo svilimento della moneta, l'estensione della ship money alle contee dell'interno, l'arruolamento di mercenari stranieri e l'imposizione di un'accisa [imposta indiretta sulla fabbricazione o sulla vendita di qualcosa], ma li scartò l'uno dopo l'altro, e si risolse infine per una politica conciliante e per la convocazione di un nuovo parlamento. Coloro che si erano opposti al prestito furono rimessi in libertà (ma anche durante il confino Wentworth e alcuni altri si erano tenuti in contatto con la corte).

J. P. Cooper, La caduta della monarchia Stuart, in Storia del mondo moderno,
vol. IV: La decadenza della Spagna e la Guerra dei Trent'anni, 1610-1648, Garzanti, Milano 1982, pp. 648-649.

Significato e conseguenze delle Rivoluzioni del 1642 e del 1688

Le due Rivoluzioni inglesi del XVII secolo rappresentano l'inizio di quel processo storico che, attraverso diverse lotte, a tappe intermedie, condurrà l'Europa alla civiltà democratica dei giorni nostri.
Il documento ufficiale che sintetizza le conquiste delle due Rivoluzioni, il Bill of Rights del 1689, sostituisce all'assolutismo il costituzionalismo; attribuisce il diritto di fare le leggi, di stabilire imposte e tasse, di mantenere in armi l'esercito al Parlamento, rappresentanza legittima della nazione; sottomette il re alle leggi dello Stato, libera la magistratura da qualsiasi dipendenza, garantisce ai cittadini il diritto della vita, della proprietà privata, della libertà di pensiero, di coscienza, di parola e di voto. Esso segna la cessazione ufficiale dell'Antico Regime. Scrive K. Kaser:

Col bill dei diritti del 1689 lo Stato costituzionale inglese inizia la sua vita; da allora in poi un ritorno ai sistemi assolutistici degli Stuardi apparve impossibile. Il centro di gravità della vita pubblica diventò la Camera dei Comuni ed essa esercitò in un continuo crescendo la propria influenza sull'amministrazione finanziaria e sulla politica estera. Da allora in poi la costituzione inglese incominciò a svilupparsi nel senso del moderno sistema parlamentare. Il re affidò, allora, i vari rami dell'amministrazione a deputati, indicati dalla maggioranza della Camera dei Comuni, e convocati in consiglio per trattare questioni importanti, che devono poi da tutti assieme essere presentate alla discussione nel parlamento. Ciò è quanto dire che il re formava il ministero, al quale era affidato il potere esecutivo, quale comitato parlamentare. Il colore politico del ministero, da allora in poi, fu dunque determinato dalla corrente che prevaleva nella Camera dei Comuni, e dipese dal giuoco delle forze dei partiti.

K. Kaser, L'età dell'assolutismo, Sansoni, Firenze 1925, pp. 127-128.

Fu un vero e proprio capovolgimento dei rapporti politici precedenti, una rivoluzione copernicana politica.
L'Inghilterra nel 1689 pose i fondamenti del sistema liberale, diede all'Europa lo stimolo, l'incitamento a liberarsi dall'assolutismo e a mettersi sul piano dei diritti.
Di capitale importanza fu la negazione della teoria dell'origine divina dell'autorità. Con essa cadde ogni teorico fondamento e giustificazione dell'assolutismo e dell'intolleranza.
«Fondare la politica sulla teologia è oltremodo pericoloso: un re teocratico non può cedere mai. Concessioni e accomodamenti che renderebbero più facile il corso della politica sono negati ad un re che si crede il portavoce dell'inalterabile volontà di Dio» (Kaser). La teocrazia portò gli Stuart alla religione di Stato, all'anglicanesimo, cioè allo Stato confessionale, all'intolleranza religiosa, alla persecuzione di tutte le altre confessioni: nel 1604 Giacomo I minacciò i capi puritani di espellerli con la forza se non si fossero piegati alla religione dello Stato; Laud, arcivescovo di Canterbury, ministro di Carlo I, volendo imporre il «Libro di preghiera» anglicano determinò l'insurrezione armata della Scozia presbiteriana e fece precipitare la grande Rivoluzione. L'intolleranza anglicana, sostiene  H. A. L. Fisher per gli Stuart fu disastrosa.

Il tentativo del Laud di costringere a furia il popolo inglese ad accettare cerimonie che a quel tempo sembravano papiste, condusse ad uno straordinario ed inevitabile disastro. A paragone delle feroci persecuzioni della Spagna, dei Paesi Bassi e della Boemia, le pene inflitte da questo abile e attivo reverendo di Oxford agli spiriti recalcitranti che rifiutavano di accettare il modello uniforme ch'egli intendeva imporre alla Chiesa inglese, sono veramente insignificanti. I martiri laudiani erano privati della loro fortuna e, in casi estremi, condannati alla frusta o alla perdita di un orecchio: non erano né bruciati sul rogo, né decapitati, né torturati, né condannati a lavorare come schiavi nelle galere. E tuttavia la politica dell'arcivescovo era così odiata da gran parte dei suoi concittadini che provocò una corrente di emigrazione verso le coste dell'America del Nord. Ogni anno, dal 1629 al 1640, centinaia di gentiluomini e piccoli proprietari inglesi, agricoltori e ministri religiosi, dissenzienti dalla Chiesa d'Inghilterra, desiderosi di adorare Dio a modo loro, lasciavano il paese nativo per stabilirsi sulle spiagge del Massachusetts.

H. A. L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari 1938, vol. II, p. 239.

L'epilogo dello scontro fra Parlamento e dinastia Stuart si ebbe con la Glorious Revolution del 1688.
Il cambiamento verificatosi nel 1688, tuttavia, nel quadro della riorganizzazione istituzionale, può essere interpretato come un netto ritorno al passato e alla tradizione.
Come mette in luce lo storico tedesco Peter Wende, la cacciata di Giacomo II Stuart e l'ascesa al trono di Guglielmo III e di Maria II rappresentano il naturale coronamento della Rivoluzione del 1642 e il definitivo consolidarsi degli assetti monarchico-costituzionali dell'Inghilterra. Era stato infatti il sovrano Stuart ad accentuare il carattere assolutistico e filocattolico della monarchia, accreditandosi come l'emulo di Luigi XIV e come il nemico naturale del parlamentarismo. Guglielmo III d'Orange e Maria II, accettando di buon grado e sottoscrivendo il Bill of Rights, non fecero altro che sancire la ricomposizione del quadro costituzionale del Paese, ripristinando la dialettica fra sovrano e Camere e l'alleanza fra monarchia e borghesia mercantile.

Nel 1688, fra l'altro, in una situazione simile a quella della vigilia della guerra civile di quarant'anni prima, l'establishment agi per autodifesa. Carlo II, dopo il 1681, non aveva più convocato il Parlamento, evidentemente cercando di riesumare la tirannica politica degli anni Trenta. È vero, poi, che Giacomo II non sciolse il Parlamento, ma fece comunque di tutto per dar vita a una Camera dei Comuni remissiva. Il re si proponeva di sbarazzarsi dei principali esponenti dell'establishment politico, la gentry anglicana e tory, per sostituirli con cattolici dissidenti e whig: così persino la gentry conservatrice decise di ribellarsi e, di nuovo, la resistenza divenne rivoluzione. Questa volta si trattò di una rivoluzione piuttosto limitata, perché c'era un'alternativa concreta nella persona di Guglielmo d'Orange, e questo permise di mantenere l'istituzione monarchica entro un nuovo quadro di stabilità costituzionale. Il nuovo assetto istituzionale del 1689 ristabilì l'essenziale cooperazione fra corona – o governo – ed establishment politico, cooperazione che poteva di nuovo aver luogo nel Parlamento, garantendo in tal modo una base sicura alla conduzione politica nazionale. Al tempo di Enrico VIII il Parlamento appoggiò il re contro il papa e l'imperatore, come in seguito avvenne con Elisabetta nel conflitto con la Spagna. E ancora, alla fine del XVII secolo, questo sostegno non mancò a Guglielmo III, che ne aveva bisogno per il lungo impegno bellico contro la Francia. È qui, perciò, che possiamo scorgere la linea di continuità che va dalla metà del Cinquecento alla fine del secolo seguente. Nel mezzo, tuttavia, sono evidenti fratture e crisi: Carlo I non ebbe alcun successo nelle guerre contro Francia e Spagna perché gli mancò l'adeguato appoggio del Parlamento. Nell'ottica dei revisionisti tutto questo costituirebbe «il fallimento dei parlamenti», ma la ragione vera che costrinse il Parlamento, negli anni Venti, a prendere posizioni alquanto diverse che in precedenza, fu lo stato di precarietà in cui versava. È per questo che Robert Phelips affermava nel 1628 di temere maggiormente la violazione dei diritti civili in patria che un nemico straniero. Fu questa debolezza del Parlamento, provocata dalla politica del re nei confronti dell'istituzione, che determinò la crisi costituzionale e la rivoluzione. Nel 1688, invece, l'antico equilibrio venne ristabilito. In una cornice costituzionale di nuova definizione, si ricreò quell'essenziale armonia, cui Phelips, ancora, aveva dato espressione nel 1628: «I re d'Inghilterra mai ebbero tanta gloria di quando riposero fiducia nei propri sudditi». Solo un Parlamento di sicura posizione costituzionale poteva garantire quella fondamentale cooperazione. Ad esempio, soltanto questa condizione di forza, in cui il diritto di legiferare in materia fiscale non ammetteva discussione fu in grado di garantire l'enorme debito pubblico che permise l'ascesa dell'Inghilterra nel XVIII secolo. Per riassumere, io credo ancora che la «gloriosa rivoluzione» abbia segnato la fine di un'epoca, la fine di un'età di crisi costituzionali e di rivoluzioni. Queste rivoluzioni, però, non diedero un corso nuovo allo sviluppo della Costituzione. Le rivoluzioni non ostacolarono l'evolvere delle situazioni. Nonostante i risultati delle ricerche dei revisionisti, io credo che, pur concedendo le piccole modifiche che ho qui cercato di evidenziare, ci si possa ancora attenere a quell'interpretazione – e sarà fuori moda – secondo cui il XVII secolo, che preparò la via alla «gloriosa rivoluzione», fu un'epoca di continuità assicurata dalla rivoluzione.

P. Wende, Continuità o rivoluzione?,
in Aa.Vv., Il potere e la gloria. La Gloriosa Rivoluzione del 1688, trad. di G. Vola, Nistri-Lischi, Pisa 1993.

Il problema delle origini e delle finalità

Nel saggio su La rivoluzione inglese del 1688-89, lo storico inglese G. M. Trevelyan ha insistito sul suo carattere conservatore.
Anche l'italiano G. De Ruggiero è convinto ch'essa fu opera dell'aristocrazia e che, sostanzialmente, i suoi risultati si risolvettero a favore della classe oligarchica. Protagonista dello scontro fra Stuart e Parlamento sarebbe stata l'aristocrazia, la classe che si era arricchita con l'incameramento delle terre incolte e indivise o di quei terreni che l'eccessivo frazionamento dei diritti e degli usi delle comunità rendeva infecondi, ma soprattutto con l'introduzione del sistema della recinzione dei campi, che determinò la graduale distruzione della classe dei coltivatori indipendenti e la sostituzione della piccola cerealicoltura con i grandi pascoli. Gli aristocratici poterono disporre di grandi proprietà fondiarie che adibivano in gran parte a pastorizia ricavando immensa ricchezza dalla lana che fornivano ai numerosi filatoi del Paese. La Rivoluzione fu la conseguenza dell'urto tra aristocrazia e monarchici che la volevano spogliare di questa potenza.

Contro questa aristocrazia, così forte economicamente, così zelante nelle sue funzioni pubbliche e schiava delle astrazioni cortigianesche della capitale, si spuntano ben presto le armi dell'assolutismo monarchico. Per mezzo del Parlamento, ch'è sua genuina espressione, essa difende dall'invadenza della corona i privilegi proprii insieme con quelli di tutto il popolo; riesce a prendere il sopravvento al tempo degli Stuart e, dopo una breve parentesi rappresentata dal cesarismo di Cromwell, ripiglia il suo ascendente sulla monarchia restaurata, e lo accresce ancora e lo consacra con un esplicito riconoscimento dei suoi diritti, in seguito alla seconda rivoluzione, che portava al potere, in grazia della nazione, una dinastia straniera. La monarchia del 1689 è per l'appunto quel potere moderato, più apparente che reale, che era nei voti dei nobili lords, perché, sotto la veste decorosa di un governo misto, dove tutte le forze della nazione fossero proporzionalmente rappresentate, dissimulava la sostanza di un potere oligarchico.

G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Mondadori, Milano 1964, p. 12.

H. A. L. Fisher sottolinea altresì l'importanza dell'antica, tenace tradizione parlamentare inglese, risalente all'epoca della Magna Charta libertatum (1215); essa era pur stata interrotta dai Tudor, ma ciò era avvenuto per necessità superiori, superate le quali, con gli Stuart essa volle riprendere il grande ruolo che aveva avuto nella vita della nazione.

La vecchia tradizione dell'Inghilterra era parlamentare. Il dispotismo dei Tudor era cosa nuova, accettabile come alternativa alla guerra civile e all'invasione straniera, e sostenuto dal prestigio, dalla capacità e dall'abilità parlamentare dei sovrani Tudor. Finché non fu superato il pericolo rappresentato dall'Armada spagnola, nessuno mai sognò di opporsi, nel Parlamento, agli atti della corona. Ma alla fine del regno di Elisabetta si levarono mormorii, forieri dell'uragano imminente.

H. A. L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari 1938, vol. II, p. 233.

Altri storici hanno preso in considerazione la nuova situazione sociale e religiosa che si era venuta a creare in Inghilterra in seguito alla penetrazione del calvinismo e al grande sviluppo economico. Questi due fattori, nell'indole pratica inglese, si compenetrarono intimamente e diedero luogo a quel puritanesimo capitalistico che soddisfaceva le istanze cristiane, individualistiche e utilitaristiche della nuova classe borghese.
Il lavoro come dovere precipuo del cristiano, il guadagno come segno dell'approvazione di Dio dell'attività scelta, la funzione del privato nella società, l'abolizione di ogni gerarchia ecclesiastica, l'indipendenza della religione dallo Stato mettevano in condizione gli Inglesi — secondo R. Mousnier — di accordare la ricchezza con la vita eterna, il denaro con Dio, il guadagno con la virtù, il progresso morale con l'economia, la produttività con la religione. Nel nuovo cristianesimo, commercianti, industriali e agricoltori trovarono lo stimolo ad arricchirsi individualmente e a fondare un grande impero economico. La borghesia, conquistata alla nuova fede, non fu più disposta a seguire la Chiesa anglicana, i cui postulati (concezione sociale della proprietà, sottomissione della religione allo Stato, gerarchia episcopale, ingerenza dei vescovi nelle questioni economiche) compromettevano gravemente i suoi interessi. L'urto con gli Stuart, sostenitori dell'anglicanesimo, era inevitabile. Gli atti principali della Camera dei Comuni dimostrano che la Rivoluzione era fatta in funzione degli interessi di questa borghesia puritana.

Nel 1641, la soppressione della Camera Stellata e della Corte di Alta Commissione liberò il proprietario e l'impresario capitalista. Le confische fecero passare numerose terre nelle mani dei mercanti della città. La guerra civile migliorò le posizioni degli estremisti. I livellatori contemporaneamente al suffragio universale, chiedevano la demolizione dei recinti e il ritorno alla coltivazione in comune. I proletari reclamavano la divisione delle terre e la loro liberazione «dal potere regio che è nelle mani dei signori». Ma i proprietari e i mercanti consideravano la proprietà un diritto naturale anteriore allo Stato, che esisteva appunto per proteggerlo. Secondo Ireton e Cromwell, solo i proprietari costituivano realmente il corpo politico e potevano sfruttare a piacere i loro beni, senza sottoporsi al controllo di un superiore, né alle rivendicazioni dei poveri, la cui triste condizione è una punizione dei peccati. Il Parlamento respinse le petizioni contro le recinzioni di terre. Ma la Repubblica (1649-1653) non si mostrava capace di proteggere la proprietà e fu questa una delle ragioni della dittatura del Cromwell, il Protettore (1653-1658); trionfò l'opinione che «ognuno, attraverso la luce della natura e della ragione, farà ciò che gli giova di più [ ... ]. Il vantaggio di ciascuno in particolare sarà il vantaggio di tutti». Dopo la restaurazione, sotto Carlo II, vennero stabilite alcune clausole: il Consiglio privato non interviene più tra proprietari e imprenditori da una parte e livellari e salariati dall'altra; i nobili possidenti di campagna recintano liberamente le terre, per aumentare la produzione di lana e di grano da vendere; la «legge dei poveri» non viene applicata. Il capitalismo agricolo poté così espandersi, la gentry poté trasformare gli affitti a lunga durata in affitti a scadenza indeterminata e aumentare facilmente la rendita, elevare il numero degli affittuari e recintare le terre comunali. L'Inghilterra diventò una grande fornitrice di grano, di lana e di carne per il Continente; le richieste di noli fatte alla marina incitarono gli armatori ad armare nuove navi; il commercio coloniale divenne uno dei principali del mondo, favorito dall'apertura delle colonie portoghesi in seguito al matrimonio di Carlo II con Caterina di Braganza, del consolidamento dell'atto di navigazione e dalla creazione del Consiglio del Commercio e delle colonie (1661). Ma questo sviluppo determinò un lungo conflitto commerciale con l'Olanda e con la Francia. I capitalisti inglesi, pur essendo soddisfatti della politica di Carlo II contro l'Olanda, furono scontenti del suo atteggiamento e ancor più di quello tenuto da Giacomo II nei riguardi della Francia, divenuta la concorrente più temibile nel commercio e nelle colonie. D'altronde, se Giacomo II, con l'appoggio di Luigi XIV, avesse ristabilito il cattolicesimo in Inghilterra si sarebbero necessariamente ristabiliti anche la dottrina della proprietà come funzione pubblica e il controllo dello Stato. La lotta economica contro la Francia e la lotta per quella religione che si adattasse nel miglior modo possibile allo spirito capitalistico, provocarono la rivoluzione del 1688. La rivoluzione del 1688 rappresenta il trionfo della borghesia capitalistica, dei mercanti della City di Londra e dei nobili di campagna imborghesiti dal capitalismo agricolo.

R. Mousnier, Il XVI e XVII secolo, La Nuova Italia, Firenze 1959, p. 262.

Questi motivi trovano la conferma, secondo J. Touchard, nel pensiero politico di John Locke, considerato il teorico della Rivoluzione del 1688.

Diversamente da Hobbes, il Locke crede che allo stato di natura esista la proprietà privata prima ancora della stessa società civile. Questa teoria della proprietà assume nella sua opera grande importanza; essa attesta le origini borghesi del suo pensiero e contribuisce a spiegare il suo successo. Secondo Locke, all'origine di quasi tutto ciò che ha qualche valore, vi è l'uomo «industrioso e ragionevole» e non la natura. La proprietà è dunque naturale e benefica e non soltanto per il proprietario, ma per l'intera umanità: «chi con il suo lavoro si appropria di una terra non diminuisce, aumenta anzi le risorse comuni del genere umano». La proprietà conferisce la felicità, e la più grande felicità coincide con il maggiore potere: «la maggiore felicità non consiste nel godere dei più grandi piaceri, ma nel possedere le cose che li producono», ed è per garantire la proprietà che gli uomini escono dallo Stato di natura e costituiscono una società civile «il cui scopo principale è la conservazione della proprietà» [ ... ]. Il governo per Locke non ha tanto la funzione di governare quanto di amministrare e legiferare. «Delle leggi, dei giudici e una polizia: ecco ciò che manca agli uomini, ecco quanto offre loro il governo civile. Il potere politico è dunque una specie di mandato affidato dai proprietari ad altri proprietari. I governanti sono amministratori al servizio della comunità, la loro missione consiste nell'assicurare la prosperità, la proprietà e il benessere». Il potere supremo è quello legislativo. L'essenziale è fare delle leggi; e le leggi non possono attentare alla proprietà. Le prerogative dell'esecutivo si muovono entro limiti rigorosamente determinati: esso è un «potere affidato al principe perché provveda al pubblico bene nella ipotesi di circostanze impreviste e indeterminate, e che perciò non possono disciplinarsi in modo certo mediante leggi fisse e immutabili».

J. Touchard, Storia del pensiero politico, Mondadori, Milano 1963, p. 301.

I poteri per Locke, continua Touchard, sono limitati sempre dalla proprietà e dalla libertà, e solo ove queste siano violate, il cittadino ha il diritto di insorgere e di resistere. Ma è una resistenza che non ha per mira aspirazioni popolari ma solo la difesa dell'ordine, basato sulla proprietà e sulla libertà, cioè sugli interessi della borghesia.
Secondo interpretazioni più sensibili ai valori della fede, invece, la Rivoluzione ebbe un contenuto spiccatamente religioso: essa fu il risultato della decisa volontà degli Stuart di soffocare il puritanesimo e d'imporre con la forza l'anglicanesimo. La nuova dinastia regnante, secondo Spini, aveva dei gravi problemi di fondo che solo la Chiesa episcopale o il cattolicesimo potevano risolvere a suo favore. La dottrina dell'origine divina del potere offriva agli Stuart la possibilità di risolvere facilmente la questione della successione, di conservare l'assolutismo, di dettare leggi nella vita ecclesiastica e di controllare, attraverso l'ingerenza dei vescovi, anche la vita economica del Paese. I puritani, invece, erano i loro nemici: volevano la separazione della Chiesa dallo Stato, negavano la gerarchia ecclesiastica, la funzione sociale della proprietà, l'origine divina dello Stato, propugnavano la libertà di coscienza e aspiravano alla Repubblica liberale tollerante.
Coscienti di questi gravi pericoli, gli Stuart ricorsero a ogni mezzo, anche economico, pur di stroncare il puritanesimo, concessero tutti i monopoli ai cortigiani, condannarono il prestito di denaro come usura, costituirono commissari regi per il controllo della produzione e dei prezzi, incolparono i padroni di terre dello spopolamento delle campagne ecc.: tutti espedienti per ricondurre la borghesia puritana all'obbidienza anglicana.
Aumentarono queste preoccupazioni, nota il Fisher, le ondeggianti e incerte fortune dei protestanti del continente, impegnati nella guerra dei Trent'anni e considerati correligionari dai puritani inglesi.

Le guerre degli ugonotti, la lunga e disperata lotta dei danesi, la catastrofe della causa protestante in Boemia e nel Palatinato suscitarono in Inghilterra la più viva simpatia. Nello stato d'animo battagliero così creato, piccoli elementi di rito o di cerimoniale che, in epoca più calma ed indulgente, sarebbero parsi inezie, acquistarono un significato solenne e tremendo; e molti preferirono abbandonare la patria e il focolare ed affrontare le tempeste dell'Atlantico piuttosto che sopportare la vista, nella chiesa del loro villaggio, della tavola della comunione spostata alla estremità est, con evidente richiamo all'abbominevole messa dei cattolici.

H. A. L. Fisher, Laterza, Bari 1938, vol. II, p. 232.

Ciò che turbava e preoccupava profondamente gli Inglesi, secondo Spini, era il fondato sospetto che Carlo I, nemico acerrimo del repubblicanesimo calvinista e marito innamorato di una fervente cattolica, inclinasse al tentativo di conciliazione autoritaria fra cattolicesimo e protestantesimo; difatti chiamò come suo ministro il vescovo Laud, l'esponente più qualificato e più deciso della tendenza anglocattolica. L'attuazione di questo programma per i puritani sarebbe stata la rovina.

Secondo queste idee, la Chiesa d'Inghilterra, pure rifiutando l'autorità del papa, doveva avvicinarsi al possibile, nella dottrina, nelle istituzioni e nella liturgia a quella di Roma e distaccarsi di altrettanto dal radicalismo calvinista. Perciò, al biblicismo della riforma si opponeva una rivalutazione della tradizione ecclesiastica, esprimentesi in particolare nell'ininterrotta continuità dell'ordinamento episcopale dagli Apostoli in poi. Di fronte alla dottrina del sacerdozio universale dei credenti, si tornava a dare dignità al clero rispetto al laicato. In luogo dell'austera nudità del culto calvinista e del posto centrale in esso occupato dalla predicazione, si voleva tornare al fasto delle cerimonie cattoliche ed al posto centrale tenuto in esse dalla vita liturgica. Alla fiera inimicizia del calvinismo per l'«idolatria» dei «papisti», si cercava di sostituire un atteggiamento conciliare, nel presupposto della possibilità dell'unificazione delle Chiese d'Inghilterra e di Roma, dopo un processo di reciproca chiarificazione Questa tendenza alla corte di Carlo I assumeva un colorito politico quanto mai preoccupante per la grande massa degli Inglesi. Esso cioè non appariva tanto come un moto d'idee, quanto come una perfida manovra della corona, sobillata da una regina straniera, per trascinare daccapo l'Inghilterra al cattolicesimo e quindi alla soggezione verso le potenze continentali, da cui l'aveva tratta la risoluta politica elisabettiana.

G. Spini, Storia dell'età moderna, Cremonese, Roma 1960, p. 517.

La politica di Laud, che si sforzava di reintrodurre nelle tradizioni ecclesiastiche inglesi alcuni elementi legati alla tradizione cattolica, si risolveva in una gravissima minaccia per tutta la vita inglese. I suoi sistemi religiosi inquisitoriali si ripercuotevano su tutte le attività dei cittadini: la scomunica implicava la perdita dei diritti civili; i risorti tribunali ecclesiastici imponevano il controllo dei sacerdoti sulla vita privata dei cittadini; gli stessi tribunali, processando come rei di usura coloro che prestavano denaro a interesse, arrestavano la vita economica.

Il contrasto tra la crudeltà verso i puritani e la liberalità usata verso i cattolici era troppo profonda perché la gente, anche se in realtà il Laud e Carlo I non erano guadagnati nel loro animo dalla dottrina cattolica, non mormorasse che il re voleva ricondurre l'Inghilterra alla soggezione verso il papato. Ed è inutile ricordare quale spavento potesse incutere una voce del genere fra gli Inglesi, ed in modo particolare fra gli Inglesi delle campagne, che in un modo e nell'altro avessero profittato delle confische di Enrico VIII.

G. Spini, Storia dell'età moderna, Cremonese, Roma 1960, p. 518.

La Rivoluzione inglese e la storia delle idee

Uno degli aspetti più discussi della Rivoluzione inglese è stato senz'altro il ruolo che in essa ha avuto il puritanesimo, in particolare per la sua radicale contestazione dell'evoluzione in senso assolutistico della monarchia Stuart.
Alcuni storici hanno visto nella religione puritana uno degli aspetti più importanti, sul piano ideale, dell'ascesa della borghesia, altri vi hanno individuato l'inizio del pensiero politico radicale. Altri ancora, e tra questi L. Stone, preferiscono mettere in luce l'ambiguità e la complessità del movimento puritano, non riducibile per intero né agli aspetti economici, né a quelli politici; c'è in esso, infatti, un modo così assoluto e intransigente di vivere l'esperienza religiosa che difficilmente si può attribuire a ragioni economiche o a cause politiche.
Così scrive a questo proposito L. Stone, commentando la tesi di Ch. Hill.

Negli ultimi cinquant'anni il problema del puritanesimo nell'Inghilterra secentesca è stato affrontato da alcune delle migliori teste pensanti nel campo della storia come in quello delle scienze sociali. Considerato come un'ideologia, un modo di vita, o una condizione psicologica, il puritanesimo è stato associato alla borghesia in ascesa, allo spirito del capitalismo, alla rivoluzione scientifica e alla tecnologia applicata, alla democrazia politica, all'egualitarismo sociale, alla tolleranza religiosa, all'alfabetizzazione di massa e alla diffusione dell'istruzione superiore, alla famiglia coniugale incentrata sui figli, e alla filantropia istituzionalizzata ai fini del benessere sociale: in altre parole, a tutti gli elementi che hanno contribuito insieme a trasformare la società umana negli ultimi duecento anni. Secondo Hill il nucleo del movimento puritano era costituito dalla «gente industriosa», cioè dai piccoli mercanti, dai bottegai e dagli artigiani indipendenti. Ispirati dall'ostilità per le pretese del clero, i puritani attribuivano importanza suprema alla predicazione «come unico mezzo e strumento per la salvezza dell'umanità»; e, grazie al controllo esercitato su una grossa porzione dei benefici ecclesiastici, su buona parte del sistema educativo e su abbondanti risorse finanziarie, riuscirono a non mollare la presa sui pulpiti nonostante la crescente persecuzione episcopale e regia. Le dottrine predicate dal clero puritano erano quelle che meglio si adattavano agli interessi economici della classe in questione: la riduzione dei giorni festivi e la concentrazione del riposo nel Sabbat contribuivano ad accelerare e regolarizzare la produzione in vista di un'economia moderna, ma proteggevano anche il piccolo operatore dalla concorrenza sleale; gli sport e i giochi tradizionali non venivano guardati di buon occhio, in quanto portatori di un divertimento dannoso sul piano economico. Che lo zelo sabbatico degli inglesi fosse tanto evidente, superando di gran lunga anche quello degli olandesi, è fenomeno attribuibile alla maggiore industrializzazione dell'Inghilterra. L'ozio era un reato nel nuovo mondo capitalista, e dunque si punivano i mendicanti, si condannavano i poveri in quanto degenerati morali.

L. Stone, Il Puritanesimo, in Viaggio nella storia, Laterza, Bari 1987, pp. 151-152.

Tuttavia, prosegue Stone, questa tesi, per quanto sostenuta da buone argomentazioni e da ricca documentazione, ha un carattere troppo assoluto e non tiene conto della varietà di adesioni al movimento puritano provenienti da ambienti sociali diversi.

Si può tuttavia dubitare seriamente che la sua [di Hill] rappresentazione così del puritanesimo come del mondo secentesco non sia di fatto che uno dei tanti aspetti di una realtà più complessa e ambigua. In primo luogo, si presuppone sempre che i puritani fossero tutti piccoli mercanti, imprenditori e artigiani. Un elemento di cruciale importanza nel movimento puritano venne invece dalla nobiltà terriera e dalla gentry che gli offrirono patronati, protezione e peso politico. In secondo luogo, si presume che nel corso del secolo XVII l'Inghilterra cessasse di essere rurale, agricola e feudale, per diventare urbana, industriale e capitalista. Ora, un'ottima verifica del grado di modernizzazione è data dal livello dell'urbanizzazione. Ma anche tenendo conto dell'esplosione demografica di Londra, è probabile che l'entità proporzionale della popolazione urbana nel 1650 non fosse aumentata di molto rispetto al 1550; il grande cambiamento si sarebbe fatto attendere fino al tardo Settecento.

L. Stone, Il Puritanesimo, in Viaggio nella storia, Laterza, Bari 1987, p. 153

Nel campo della storia delle idee la Rivoluzione inglese fu importante anche per la rivendicazione della libertà di coscienza.
Furono gli indipendenti, uno dei gruppi interni al movimento puritano, coloro che fecero della tolleranza uno dei cardini del loro pensiero, come scrive Massimo Firpo.

Il lungo e appassionato dibattito sulla libertà di coscienza che aveva percorso e animato i convulsi anni rivoluzionari si concludeva così, sotto il regime cromwelliano, con un compromesso. La restaurazione di Carlo II, che avrebbe determinato anche la reintegrazione della Chiesa ufficiale anglicana, comporterà in futuro ulteriori e gravi arretramenti. Ma le nuove idee e le avanzatissime proposte che nel clima di grande libertà e fervore intellettuale allora instauratosi vennero a mettere in discussione dottrine consolidate e comportamenti scontati, non furono inutili e fornirono un patrimonio di analisi e un punto di riferimento di fondamentale rilevanza per il futuro affermarsi della tolleranza religiosa tanto nelle colonie americane quanto nella stessa Inghilterra. Dopo la nuova esperienza stuardiana, anzi, la società inglese non tarderà ad avviarsi verso quel liberalismo politico e religioso che affonda le sue radici nel ventennio rivoluzionario e, nonostante tutti i suoi evidenti limiti oggettivi, costituirà pur sempre un caso unico nell'Europa del tempo e un modello di convivenza civile destinato a conservare a lungo un indiscusso prestigio.

M. Firpo, Il problema della tolleranza religiosa nell'età moderna, Einaudi, Torino 1978, pp. 184-185.

 

 

 

 

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