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IMMANUEL KANT
Il Criticismo [ audio ]
Il sistema kantiano è detto criticismo.
Kant, infatti, dopo gli esiti dello scetticismo humeano, si propose di costruire
una filosofia che potesse indicare con precisione quali fossero i limiti entro i
quali fosse consentito alla ragione esercitare con profitto il proprio compito di
indagine scientifica; si trattava, dunque, per lui, di sottoporre a “critica” le
facoltà razionali, in modo tale da garantire con certezza l'efficacia dello
strumento scientifico, per poi procedere all'edificazione di una solida dottrina
della scienza (la Wissenschaftlehre), tale da soddisfare le reali
esigenze conoscitive dell'uomo senza aprire orizzonti di inutile discussione
puramente dialettica.
Proprio a partire da tale istanza critica le opere maggiori della
filosofia kantiana si intitolano:
- Critica della ragion pura;
- Critica della ragion pratica;
- Critica del giudizio.
Le tre Critiche costituiscono il lavoro che, per Kant, avrebbe dovuto
precedere la stesura di una mai realizzata Dottrina della Scienza (il
titolo dell'opera del più celebre succedaneo di Kant, J. G. Fichte).
Nella prima di esse Kant esprime il giudizio della ragione intorno ai fondamenti
del sapere, al fine di escludere tutti gli ambiti preclusi alla conoscenza
veramente scientifica (interesse teoretico); nella seconda esprime il giudizio
della ragione sulle condizioni veramente umane degli atti liberi, a prescindere
da qualsiasi condizionamento esterno all'uomo (interesse pratico); nella terza
Kant studia il sentimento dell'uomo come ambito autonomo rispetto alle facoltà
della ragione precedentemente indagate, quella teoretica e quella pratica.
I titoli delle tre opere non devono trarre in inganno per la loro stringatezza;
per meglio comprenderne il significato bisognerebbe estenderli nel modo
seguente:
- Critica della ragion pura teoretica;
- Critica della ragion pura pratica;
- Critica della facoltà del giudizio.
Con ciò è importante sottolineare che l'interesse di Kant si rivolge sempre alla
ragione in quanto facoltà “pura”, cioè puramente soggettiva (strutturale del
soggetto conoscente stesso), non compromessa nell'empiricità del contatto con il
mondo extra-trascendentale.
Nella prima Critica, pertanto, l'obiettivo di Kant è quello di fornire
una analisi completa e sistematica delle facoltà razionali nella loro purezza, a
prescindere dall'interesse per il versante pratico (morale) piuttosto che
teoretico (speculativo) di essa; nella seconda Critica, invece, già
assicurata la conoscenza delle facoltà pure della ragione, l'interesse kantiano
è più propriamente quello di cogliere la specificità pratica della ragione in se
stessa, per ritagliare con precisione le istanze eminentemente morali
dell'agire, nel rispetto dei criteri teoretici stabiliti in precedenza; nella
terza Critica, visti i risultati fortemente limitanti delle due
precedenti opere, l'intento di Kant è quello di cercare di indagare l'ambito del
sentimento all'interno del quale possa essere in qualche modo recuperata la
prospettiva più propriamente filosofica (la teleologia leibniziana) del pensiero
dell'uomo.
L'esito più rilevante dell'intera speculazione kantiana, che può
considerarsi la speculazione di sintesi della filosofia dell'età moderna, è la
solenne e sistematica proclamazione dell'impossibilità di considerare la
metafisica una scienza, cioè la negazione della possibilità di raggiungere
quell'obiettivo che, per la stessa ammissione di Kant, si costituisce come il
più profondo desiderio dell'uomo, vale a dire la conoscenza dell'essere in
quanto tale.
Dopo i risultati delle Critiche, che interdicono la via
della riscoperta dell'antico imboccata dal Leibniz, alla filosofia non resta
che percorrere la via maestra dell'introversione trascendentale, quantomeno
fino alla rivolta nietscheana.
Lo studio del trascendentale [ audio ]
Il sistema kantiano è, per l'appunto, imperniato sul concetto di trascendentale, che
tuttavia assume con Kant un significato nuovo rispetto all'accezione
tradizionale.
Nella filosofia scolastica “trascendentale” è il predicato convertibile con
quello dell'essere: i predicati di uno, di vero, di buono, di cosa,
di qualcosa sono per la tradizione i predicati trascendentali, cioè i
predicati che, come il predicato di “essere”, si possono attribuire a tutto ciò
che è. Per la filosofia scolastica della tradizione, infatti, tutto ciò che
oggettivamente è, nella misura in cui è, è anche uno,
vero, buono, cosa e qualcosa.
Nella filosofia kantiana, invece, il “trascendentale” equivale al versante
soggettivo della conoscenza; trascendentale è il soggetto, l'a priori
(= ciò che è dato di conoscere prima di qualsiasi esperienza esterna al
soggetto), ciò che è struttura del soggetto, ciò che è puro, cioè
scevro da qualsiasi compromesso con il mondo esterno (empirico).
Dire “trascendentale”, quindi, o dire “soggetto” o dire “a priori” o dire “puro”
è la sessa cosa; nella filosofia di Kant tali espressioni sono tutte equivalenti.
Il periodo pre-critico e la nuova “rivoluzione copernicana” [ audio ]
Dopo un primo periodo caratterizzato dall'interesse scientifico (Storia naturale universale e teoria dei cieli, 1755; Monadologia fisica, 1756), a partire dal 1760 Kant si dedica alla filosofia, iniziando quel percorso speculativo che lo avrebbe portato alla fondazione del criticismo.
Nello scritto La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche
(1762) critica il valore della logica aristotelico-scolastica, paragonandola a
un colosso con la testa fra le nuvole e i piedi di argilla, cioè un'enorme
produzione di argomentazioni inutili e fondate su presupposti estremamente
fragili.
Nell'Unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di
Dio (1763) chiama la metafisica “abisso senza fondo” e “oceano tenebroso
senza sponde e senza fari”.
Nella Ricerca sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e della
morale (1764) ancora la metafisica è definita nient'altro che una filosofia
sui primi fondamenti della nostra conoscenza, mentre per quanto riguarda la
filosofia pratica si sofferma a considerare soprattutto il concetto di
obbligazione in relazione al “sentimento” morale.
Intorno al 1765 si consuma definitivamente il distacco di Kant dalla filosofia di Christian Wolff; tale distacco è reso evidente nello scritto Sogni di un visionario chiariti coi sogni della metafisica, scherzosa satira delle visioni mistiche dello svedese Emanuel Swedenborg e delle dottrine filosofiche su cui esse si basavano. Per Kant la metafisica ha il compito di misurare le proprie forze, cioè deve configurarsi come scienza dei limiti della ragione umana, che conosce a fondo i propri possedimenti senza mirare a ulteriori conquiste territoriali.
L'anno 1769 fu per Kant apportatore della “grande luce” (ein grosses Licht),
cioè dell'intuizione che sarebbe divenuta il fondamento del suo sistema
filosofico.
Tale “luce” viene poi espressa nella cosiddetta Dissertazione del '70,
ovvero la tesi che Kant presentò per la nomina a professore ordinario di logica
e metafisica per l'anno 1770 all'università di Königsberg,
la capoluogo della Prussia orientale in cui nacque e da cui non si allontanò
mai.
Il titolo dello scritto (Forma e principi
del mondo sensibile e intelligibile) apre all'istanza fondamentale
del kantismo, cioè l'idea che lo spazio sia un dato originario della coscienza
(cioè una struttura della coscienza stessa) e non un accertamento empirico
pervenuto ad essa tramite sensazione.
Dapprima Kant distingue la conoscenza del sensibile dalla conoscenza
dell'intelligibile, precisando che:
- la prima è dovuta alla ricettività (passività) del soggetto ed ha per oggetto
il “fenomeno”, cioè l'oggetto in quanto appare alla coscienza del
soggetto conoscente,
- la seconda consiste in un facoltà (attività, operatività) del soggetto ed ha
per oggetto il “noumeno”, cioè l'oggetto in quanto è di natura
intelligibile (questo secondo punto verrà rielaborato da Kant nelle opere
successive, a differenza del primo, che rimarrà pressoché immutato).
In secondo luogo, all'interno della conoscenza del sensibile, distingue materia
e forma:
- la prima è il referto sensitivo, cioè la modificazione dell'organo di senso
che attesta la presenza dell'oggetto esterno rispetto alla coscienza, causa
della sensazione stessa,
- la seconda è la legge, la norma, il criterio che mette ordine nella materia
sentita e che risulta pertanto indipendente dalla sensazione.
A partire dal confronto di molteplici apparenze attuato dall'intelletto mediante
la riflessione, il soggetto conoscente elabora l'esperienza; l'esperienza
complessiva di tutti i fenomeni relativi al mondo sensibile, cioè il mondo
esterno al soggetto conoscente, trova il proprio fondamento gnoseologico nello
“spazio-tempo”, cioè nelle due strutture base della conoscenza del mondo,
presupposte rispetto alla sensibilità e non derivanti da essa.
Spazio e tempo, pertanto, si qualificano come intuizioni pure che
precedono qualsiasi conoscenza del sensibile e si manifestano indipendentemente
da essa. Spazio e tempo non sono dati oggettivi appartenenti al mondo fisico e
trasportati nella conoscenza dalla sensazione, ma sono condizioni imposte dal
soggetto conoscente (e di esso strutturali) ad ogni contenuto sensibile della
conoscenza nell'atto stesso del conoscere, da intendersi come atto ordinatore di
un fluire di per se stesso non intelligibile di dati sensitivi.
Tali condizioni soggettive della conoscenza sono necessarie alla mente umana per
coordinare tutti i dati sensibili (si ricordi la concezione leibniziana di
spazio e tempo come “fenomeni ben fondati” nella facoltà rappresentativa della
monade).
Attraverso la Dissertazione del '70 si attua quella che Kant stesso, a proposito della propria filosofia, ha chiamato nuova rivoluzione copernicana; come infatti Copernico, all'alba dell'età moderna aveva rivoluzionato il modo di considerare il mondo fisico spostando il suo centro dalla terra al sole, così Kant avrebbe rivoluzionato il modo di considerare il mondo metafisico spostando il suo centro dall'oggetto al soggetto. La filosofia, dopo Kant, non è più indagine del mondo in quanto tale, me del mondo in quanto conosciuto, cioè, in sostanza, studio delle facoltà conoscitive del soggetto conoscente e delle modificazioni del mondo da esse derivate.
LA CRITICA DELLA RAGION PURA (TEORETICA)
[ audio ]
Nei dieci anni successivi alla pubblicazione della Dissertazione del '70
Kant elaborò lentamente la sua filosofia critica, pubblicando pochissimo.
Nel 1781 apparve la Critica della ragion pura, la cui seconda edizione,
in parte un rimaneggiamento della prima, vide la luce nel 1787. Nel frattempo
Kant pubblicò altri scritti rilevanti: i Prolegomeni a ogni metafisica futura
che voglia presentarsi come scienza (1783), una versione “popolare” della
Critica, la Fondazione della metafisica dei costumi (1785), i
Principi metafisici della scienza della natura (1786), la Critica della
ragion pratica (1788), la Critica del giudizio (1790), La
religione nei limiti della semplice ragione (1793), La metafisica dei
costumi (1797), l'Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798).
Il problema
Agli occhi di Kant scienza e metafisica si presentavano in modo diverso;
mentre la prima, infatti, grazie ai successi conseguiti da Galileo e da Newton,
appariva come un sapere fondato e progressivo, la seconda, fornendo soluzioni
contrastanti ai medesimi problemi presso diversi filosofi, non sembrava affatto
avere imboccato un cammino sicuramente scientifico.
Dopo Hume, d'altronde, urgeva, secondo Kant, un riesame globale della struttura
e della validità della conoscenza in generale, che fosse in grado di rispondere
in grado di rispondere in modo esauriente circa il grado di scientificità dei
due campi del sapere, la scienza e la metafisica.
Kant respinge lo scetticismo humeano rispetto alla scienza empirica, ritenendone
(ingenuamente) assodato il valore, ma condivide lo scetticismo metafisico del
filosofo inglese, benché l'importanza delle questioni poste e dibattute dalla
metafisica stessa lo conduca a indagare più profondamente la natura del perenne
anelito che, da Platone in poi, ha portato l'uomo a voler trascendere
conoscitivamente l'orizzonte dell'empirico per avventurarsi negli ambiti del
metempirico.
Dunque, la ricerca kantiana vuole stabilire:
- come siano possibili la matematica e la fisica in quanto scienze, vale a dire
quali ne siano le condizioni pure ed a priori di possibilità;
- se (ed eventualmente come) sia possibile la metafisica in quanto scienza,
visto il suo manifestarsi come disposizione naturale della conoscenza umana,
vale a dire quali ne siano eventualmente le condizioni pure ed a priori di
possibilità.
Quindi, mentre nel caso della matematica e della fisica si tratta per Kant di
accertare un'evidenza di fatto, chiarendo le condizioni gnoseologiche che ne
rendono possibile la scientificità, nel caso della metafisica si tratta di
indagare se effettivamente esistano condizioni gnoseologiche tali da legittimare
la scientificità della metafisica o se, al contrario, la metafisica sia da
escludere dal novero delle discipline che possono dirsi scientifiche.
La disamina dei giudizi (tipologia del giudizio) [ audio ]
Per Kant pensare significa “giudicare”; non c'è vero pensiero che non sia espresso nel giudizio. Per Kant, dunque una semplice idea non è pensiero, ma il pensiero consiste nella connessione di un predicato e di un soggetto, cioè in un giudizio.
Per Kant esistono:
Nel primo caso, il concetto dell'estensione coincide con quello della
corporeità (quantomeno in un'ottica cartesiana), e dunque il giudizio equivale
a una pura e semplice tautologia, che non offre nessun contributo scientifico.
Al di là dei termini, infatti, sarebbe come dire, per Kant, che «tutti i corpi
sono corpi» o che «ogni estensione è estesa».
I giudizi analitici a priori esprimono la concezione razionalistica della
scienza, secondo la quale a partire da alcuni principi a priori è
possibile derivare ogni conoscenza, per trovarvi poi conferma nella realtà
empirica.
Nel secondo caso, il predicato della pesantezza inerisce al corpo (soggetto)
soltanto in presenza di un campo gravitazionale, laddove in assenza di gravità
il giudizio sarebbe evidentemente falso.
I giudizi sintetici a posteriori esprimono la concezione empiristica della
scienza, secondo la quale qualsiasi contenuto di conoscenza deriva interamente
dalla realtà empirica, essendo la coscienza dell'uomo preliminarmente tabula
rasa.
Nel terzo caso, invece, il predicato “ = 12 ” non è per nulla contenuto
o implicito nel soggetto “ 7 + 5 ” (quantomeno a parere di Kant!), in modo da
garantire novità alla conoscenza acquisita nel giudicare, e il giudizio in
complesso vale sempre e comunque, a prescindere da qualsiasi condizione posta.
Il giudizio sintetico a priori, dunque, pur garantendo una novità
conoscitiva, non deriva da nulla di empirico; il giudizio sintetico a priori,
quindi, si configura per Kant come il giudizio veramente scientifico, la proposizione
tipica di qualsiasi dottrina che pretenda di proporsi come un sapere
scientifico.
La tesi del trascendentale [ audio ]
Siccome la scienza esiste, in quanto esistono e sono validi i giudizi
sintetici a priori, si tratta di scoprire da dove derivino tali giudizi, che non
possono dipendere dall'esperienza.
Per fare ciò Kant distingue le componenti di qualsiasi conoscenza (cioè di
qualsiasi giudizio), materia e forma, delle quali il giudizio è la sintesi.
Per materia, Kant intende la molteplicità caotica e mutevole delle
impressioni (l'a posteriori); per forma, invece, Kant considera
l'insieme delle strutture fisse del soggetto conoscente (l'a priori),
mediante le quali la mente dell'uomo (in modo uguale per tutti gli uomini)
organizza le impressioni stesse.
Le forme kantiane, pertanto, devono essere considerate come uno stampo
strutturalmente umano che interviene a lasciare la propria sagoma sul materiale
delle impressioni empiriche, di per se stesso cieco, ma plasmabile e disponibile
per precise figure.
Per Kant, quindi, non sono le impressioni esterne a modificare l'apparato
conoscitivo dell'uomo, ma, al contrario, sono le strutture fisse dell'apparato
conoscitivo dell'uomo a configurare su di sé i referti senza forma del mondo
esterno. In ciò si consuma, come già accennato, la nuova “rivoluzione
copernicana”, per cui il rapporto tra oggetto e soggetto risulta rovesciato
rispetto alla tradizione.
Il complesso delle strutture del soggetto conoscente che impressionano di sé i
referti empirici nella conoscenza costituiscono il trascendentale, nella cui
spiegazione consiste la tesi fondamentale della filosofia di Kant.
Le parti della Critica e le facoltà della ragione [ audio ]
Il soggetto conoscente risulta dotato, per Kant, di tre facoltà, cioè di tre
operazioni attitudinali:
- la facoltà estetica,
- la facoltà analitica,
- la facoltà dialettica,
corrispondenti ai tre livelli della conoscenza:
- senso,
- intelletto,
- ragione.
In merito a tale ripartizione occorre fare due osservazioni.
La prima riguarda la gerarchia dei livelli della conoscenza, che Kant riordina
rispetto alla tradizione filosofica in particolare medievale e genericamente
scolastica (ma dalla radice platonica) che considerava la ragione intermedia tra
il senso e l'intelletto come sedi rispettivamente del discorso, della sensazione
e dell'intuizione.
La seconda osservazione concerne il termine “estetico/a”, che con Kant entra
definitivamente a far parte del lessico gnoseologico in luogo del tradizionale
termine “sensitivo/a”; Kant lo eredita dal Baumgarten, che poco prima di lui lo
aveva adottato per definire la disciplina dell'apprezzamento del bello.
La distinzione delle tre facoltà del soggetto serve a Kant per organizzare il contenuto della propria Critica, la quale, distinta primariamente in Dottrina degli elementi e in Dottrina del metodo, organizza entrambe queste parti secondo lo schema delle tre facoltà conoscitive come nel seguente schema:
L'Estetica trascendentale distingue due forme a priori della facoltà
del sensibile, spazio e tempo; l'Analitica trascendentale deduce dodici
forme a priori della facoltà dell'intelletto, le categorie; la Dialettica
trascendentale individua tre forme a priori della ragione, le idee di Dio,
dell'anima e del mondo.
Tali forme a priori sono i quadri mentali, distribuiti secondo le tre facoltà
del soggetto pensante, entro i quali l'uomo può ordinare e organizzare le
proprie conoscenze.
L'Estetica trascendentale; lo spazio e il tempo [ audio ]
La facoltà estetica è primariamente ricettiva, cioè non genera i propri contenuti, ma li accoglie per intuizione dalla realtà esterna o dall'esperienza interna. Nella misura in cui essa è attiva essa organizza il materiale proveniente dai sensi (le intuizioni empiriche) tramite lo spazio e il tempo, che si identificano come le sue proprie forme a priori (le intuizioni pure).
Lo spazio è la forma del senso esterno, cioè quella rappresentazione a priori (e quindi necessaria, in quanto propria in generale di tutti i soggetti conoscenti umani) che sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne e del loro disporsi le une accanto alle altre.
Il tempo è la forma del senso interno, cioè quella rappresentazione a
priori che sta a fondamento degli stati (d'animo) interni e del loro disporsi in
successione gli uni dopo gli altri.
Siccome, tuttavia, è soltanto tramite il senso interno che è possibile al
soggetto annoverare e registrare i dati del senso esterno, il tempo si configura
anche, indirettamente, come la forma del senso esterno, cioè come la forma più
comprensiva attraverso la quale percepiamo tutti gli oggetti. Dunque, tutti i
fenomeni in generale, ossia tutti gli oggetti dei sensi, cadono sotto il tempo.
Kant, pertanto, sostiene che spazio e tempo non possono derivare
dall'esperienza, poiché, per fare un'esperienza qualsiasi, dobbiamo già
presupporre le rappresentazioni originarie di spazio e di tempo, nella loro
consistenza di quadri mentali di riferimento e non certo di contenitori fisici
di cose. Spazio e tempo, d'altronde, non si possono considerare concetti, perché
hanno, secondo Kant, una natura intuitiva e non discorsiva.
Attraverso l'Estetica trascendentale Kant ritiene dimostrata la
scientificità di geometria ed aritmetica, per il fatto che la prima risulta
essere la scienza che dimostra sinteticamente a priori le proprietà delle figure
mediante l'intuizione pura di spazio, la seconda, poi, è la scienza che
determina sinteticamente a priori la proprietà delle serie numeriche, basandosi
sull'intuizione pura di tempo e di successione, senza la quale lo stesso
concetto di numero non sarebbe mai sorto.
In quanto a priori, infine, le scienze matematiche sono universali e necessarie,
immutabilmente valide per tutte le menti pensanti.
L'Analitica trascendentale; le categorie e lo schematismo [ audio ]
Le intuizioni senza concetti, come si è visto, sono cieche, non sono ancora
delle conoscenze.
Per consentire un pensiero vero e proprio, un giudizio, servono i concetti della
facoltà analitica, cioè le funzioni ordinatrici e unificatrici che agiscono sul materiale offerto
attraverso i sensi. Le categorie, cioè le strutture a priori della
facoltà analitica, sono i concetti puri, vale a dire le supreme funzioni
unificatrici dell'intelletto. Poiché poi ciascun concetto è predicato in un
giudizio possibile, le categorie coincidono con i predicati primi, cioè con
quelle grandi ripartizioni entro le quali cadono tutti i predicati possibili.
A differenza delle categorie aristoteliche le categorie kantiane hanno una
valenza esclusivamente gnoseologica, non ontologica, in quanto rappresentano
soltanto il funzionamento dell'intelletto, ma non valgono per la realtà in se
stessa, limitandosi a regolamentare il fenomeno.
Quanto al numero delle categorie, Kant, che rimprovera ad Aristotele di
avere utilizzato un metodo “rapsodico” (= da cantautore, cioè casuale e
frammentario) per enumerarle, deduce le categorie dai giudizi, secondo uno
schema a suo giudizio perfettamente simmetrico, raggruppandole a tre a tre
secondo quattro ordini: quantità, qualità, relazione e modalità.
La chiave di volta di tale deduzione, cioè la funzione che offre la garanzia
della validità di diritto della sussunzione categoriale (cioè l'esercizio di
unificazione del sensibile attuato tramite le categorie da parte
dell'intelletto) è l'appercezione trascendentale, cioè l'autocoscienza
che accompagna inevitabilmente ogni giudizio in quanto “mio” da parte di ogni
uomo.
Ogni pensiero, cioè ogni giudizio, presuppone un “io penso”, cioè un atto di
autoconsapevolezza che assurge, per Kant, a categoria delle categorie,
fondamento di oggettività della conoscenza fenomenica. Io penso si
configura come principio supremo della conoscenza umana, vale a dire ciò cui
deve sottostare ogni realtà per poter far parte del campo dell'esperienza e,
quindi, diventare “oggetto” (di conoscenza), e pertanto garanzia di oggettività
(universalità e necessità) della conoscenza stessa.
La figura dell'io penso, tuttavia, non deve essere considerata in chiave
idealistica o comunque ontologica, dal momento che essa non esprime che una
funzione, non una realtà sostanziale.
Per configurare le condizioni del pensiero, però, resta da conciliare
l'eterogeneità delle due facoltà estetica e analitica e Kant, per fare ciò, si
serve del medio del tempo, attraverso il quale tutti gli oggetti sono percepiti.
Le intuizioni e i concetti, infatti, sono fra loro eterogenei. Di qui sorge il problema
della mediazione fra l'intuizione e i concetti primi, cioè come sia possibile la
"sussunzione" delle intuizioni sotto i concetti, e quindi l'applicazione delle
categorie ai fenomeni.
Occorre, qui, un terzo termine, il quale deve essere omogeneo da un lato colla
categoria e dall'altro col fenomeno, e che rende possibile l'applicazione di
quella a questo. Tale rappresentazione intermediaria deve essere pura (senza
niente di empirico) e, tuttavia, da un lato, intellettuale, dall'altro,
sensibile.
Kant chiama "schema trascendentale" questo intermediario, e "schematismo
trascendentale" il modo con cui l'intelletto si comporta con questi schemi.
Siccome il tempo, come condizione di tutte le rappresentazioni sensibili, è omogeneo rispetto ai fenomeni, non potendo darsi nessuna rappresentazione empirica se non attraverso di esso, e in quanto esso è forma, ossia regola della sensibilità, è a priori, puro e generale, è omogeneo alle categorie, il tempo, allora, viene ad essere la condizione generale secondo la quale soltanto la categoria può essere applicata a un oggetto. Lo "schema" trascendentale viene quindi ad essere una determinazione a priori del tempo, fatta in modo che ad essa ciascuna categoria possa agevolmente applicarsi.
Lo "schema", pur avendo una certa affinità con l'immagine, è molto di più e
quindi va distinto da essa. Cinque punti in fila sono immagine del numero
cinque. Ma se io considero i cinque punti (ai quali possono via via
aggiungersene degli altri) come esemplificazione metodica per rappresentare una
molteplicità (un qualsivoglia numero), allora io non ho più una semplice
immagine, ma ho una immagine che assurge a indicazione di un metodo per
rappresentarmi il concetto di numero, e quindi ho uno "schema". Analogamente,
quando io disegno un triangolo ho un'immagine; ma quando considero quella figura
come esemplificazione della regola dell'intelletto per la realizzazione del
concetto di triangolo in generale, allora ho uno "schema". Infine, ancora un
esempio semplicissimo (che lo stesso Kant adduce) completerà il quadro: quando
mi rappresento un cane, ho una semplice immagine; ma quando io considero questa,
spogliandola di certe sue peculiarità, e la considero come raffigurazione di un
quadrupede in generale, ho uno "schema". Veniamo ora agli schemi
"trascendentali". Essi dovranno essere tanti quanti sono le categorie:
- lo "schema" della categoria della sostanza è la "permanenza nel tempo" (senza
questo permanere-nel-tempo il concetto di sostanza non si applicherebbe ai
fenomeni);
- lo schema della categoria della causa ed effetto (per cui posto A segue
necessariamente B) è la successione temporale del molteplice (secondo una
regola);
- lo schema dell'azione reciproca è la simultaneità temporale;
- lo schema della categoria di realtà è la persistenza in un determinato tempo;
- lo schema della categoria della necessità è l'esistenza di un oggetto in ogni
tempo.
L'immagine empirica è prodotta dalla immaginazione empirica; invece lo "schema"
è prodotto dall'immaginazione trascendentale
Il soggetto “legislatore della natura” e il noumeno [ audio ]
Assodata la strutturalità delle categorie e scoperto lo schematismo del
tempo, Kant procede a codificare, sempre secondo la tavola precisa delle
categorie, le regole di fondo tramite cui avviene l'applicazione delle categorie
agli oggetti, ovvero le regole fondamentali dell'esperienza.
Assiomi dell'intuizione (per le categorie della quantità), anticipazioni della
percezione (per le categorie della qualità), analogie dell'esperienza (per le
categorie della relazione) e postulati del pensiero empirico in generale (per le
categorie della modalità) designano il soggetto come il supremo legislatore
della natura, al vertice della “rivoluzione copernicana” operata da Kant.
Qualora infatti noi consideriamo la natura come la conformità dei fenomeni a
certe leggi, risulta evidente che tale ordine di conformità non deriva
dall'esperienza, ma dall'io penso e dalle sue forme a priori. Essendo il
fondamento della natura, poi, lo stesso io è anche il fondamento della scienza
che la studia. La gnoseologia di Kant, pertanto, si configura come il tentativo
di giustificare filosoficamente i principi di base della scienza
galileiano-newtoniana contro lo scetticismo humeano. Nella prospettiva kantiana,
infatti, le leggi della natura risultano pienamente giustificate nella loro
validità, in quanto l'esperienza che le rivela non potrà mai smentirle nella
misura in cui esse rappresentano le condizioni stesse a priori di ogni
esperienza possibile.
Kant ha dunque fondato l'oggettività della scienza nel cuore stesso della soggettività. Con ciò, il conoscere non può estendersi, secondo Kant, al di là dell'esperienza (del sensibile acquisito come fenomeno), in quanto una conoscenza che non si riferisca a un'esperienza possibile non è conoscenza, ma un vuoto involucro che non conosce nulla come un semplice gioco di rappresentazioni senza contenuto.
D'altronde, la delimitazione della conoscenza al fenomenico comporta un
esplicito rimando alla nozione di “cosa in sé” che, pur rimanendo
inconoscibile, trapela costantemente dallo sfondo stesso della gnoseologia
kantiana. Il fenomeno, infatti è ciò che appare a noi, ai soggetti razionali,
ma ciò implica che questo apparire nasconda un essere in sé, un'incognita x
metafenomenica che si annuncia sottraendosi rispetto a noi stessi.
Tale “in sé” è stato chiamato da Kant, con un termine in parte ambiguo,
noumeno (dal greco nooúmenon,
che significa “il pensato”) in correlazione di antitesi con il fenomeno
(dal greco phainómenon, che
significa “l'apparente”). Il noumeno non può per definizione diventare oggetto
di un'esperienza possibile, secondo Kant.
In senso positivo, il noumeno è l'oggetto di un'intuizione non sensibile, cioè
di una conoscenza metafenomenica e quindi riservata a un'eventuale pensiero
non umano; in senso negativo, il noumeno è la rappresentazione di una cosa in
sé, di un'incognita x che mai potrà entrare in rapporto di conoscenza
con il pensiero razionale dell'uomo.
La Dialettica trascendentale; le tre idee [ audio ]
Una volta dimostrata la possibilità del sapere scientifico, cioè una volta fondata la possibilità di un discorso oggettivo in quanto universalmente soggettivo grazie alle strutture a priori dell'io, Kant procede ad interrogarsi circa la possibilità della metafisica in quanto scienza. La risposta a questa questione sarà di segno negativo, come facilmente preannuncia l'appellativo assegnato alla terza facoltà della ragione, dialettica, che secondo una buona parte della tradizione filosofica è l'arte di sillogizzare nella probabilità oppure, peggio, l'arte sofistica di avvalorare opinioni errate e illusorie.
Con “Dialettica trascendentale” Kant intende lo smascheramento dei
ragionamenti fallaci della metafisica, la quale, pur costituendo un'esigenza
insopprimibile della mente umana, un'innata tendenza all'incondizionato, finisce
per diventare un vuoto prodotto dell'intelletto, infondato in quanto privo di
basi empiriche.
Tale tendenza verso una spiegazione globale fa perno, secondo Kant, su tre
idee strutturali della ragione, l'idea di anima, vale a dire l'idea
della totalità unificata dei fenomeni interni, l'idea di mondo, cioè
l'idea della totalità unificata dei fenomeni esterni, e l'idea di Dio,
ossia l'idea della totalità unificata di tutte le totalità, fondamento di tutto
ciò che esiste.
L'errore della metafisica consiste nel trasformare queste tre esigenze di unificazione, tre funzioni strutturali della conoscenza, in tre realtà in sé. Da queste presunte realtà in sé sarebbero derivate nella storia del pensiero altrettante scienze metafisiche: la psicologia razionale, la cosmologia razionale e la teologia razionale.
Il paralogisma della psicologia e le antinomie cosmologiche [ audio ]
Secondo Kant ogni forma di psicologia razionale si fonda su un “paralogisma”, cioè su un ragionamento errato, che consiste nell'applicare la categoria di sostanza all'io penso, trasformandolo da pura unità formale gnoseologica in una realtà (ontologicamente) permanente chiamata anima. L'errore consiste nell'attribuzione di valori positivi a quell'incognita x funzionale e ignota che è soltanto la condizione formale suprema del costituirsi dell'esperienza; secondo Kant, invece, noi non possiamo conoscere l'io in se stesso, cioè l'io noumenico (la sostanza dell'io), ma soltanto l'io fenomenico, ciò che ci appare attraverso l'esame critico delle forme a priori.
Analogamente, per Kant, ogni cosmologia razionale è destinata a fallire il compito di spiegare la natura del mondo nella misura in cui pretende di fare uso della nozione globale di mondo, inteso come la totalità dell'esperienza, l'esperienza nel suo intero. Secondo Kant al soggetto conoscente è dato di conoscere solo fenomeni e non l'intera realtà fenomenica nel suo insieme e nella sua essenza, quindi l'idea di mondo rovina su se stessa e con essa i metafisici, i quali si avviluppano in argomentazioni che concludono in modo antinomico (antinomie), come dallo schema seguente:
Razionalismo |
Empirismo |
Il mondo ha un limite secondo il tempo e secondo lo spazio |
I |
Il mondo è infinito secondo il tempo e secondo lo spazio |
Tutto nel mondo consta (è costituito) dal semplice (da elementi semplici, cioè indivisibili) |
II |
Non vi è nulla di semplice nel mondo, ma tutto è composto e divisibile |
Nel mondo vi sono cause libere |
III |
Nel mondo non vi è libertà per nessuna causa, tutto è necessario per natura |
Tra le cause cosmiche ve n'è una necessaria |
IV |
Tutto è contingente |
Tali antinomie, chiamate da Kant “matematiche”, le prime due, e “dinamiche”, le altre due, risultano insolubili, in quanto a suo giudizio sono tutte razionalmente dimostrabili a partire dall'idea di mondo che, in tal modo, si dichiara illegittima.
Le critiche alla teologia razionale [ audio ]
Dio, secondo Kant, rappresenta l'ideale della ragion pura, cioè il supremo modello personificato della realtà, di ogni realtà o perfezione. In rapporto a tale ideale la tradizione avrebbe elaborato una serie di prove dell'esistenza di Dio che, sempre secondo Kant, si possono raggruppare in prove ontologiche, cosmologiche e fisico teologiche.
L'esempio tipico della prova ontologica sarebbe l'argomento di Anselmo
d'Aosta (che Kant conosce nella sua formulazione cartesiana), il quale avrebbe
preteso di ricavare l'affermazione dell'esistenza di Dio a partire dal
semplice concetto di esso, inteso come l'essere cui non può mancare alcuna
perfezione.
Kant distingue tra il piano della possibilità logica e quello della realtà
ontologica e sostiene l'impossibilità di dedurre un'esistenza (che può essere
per lui solo empiricamente data) per via puramente speculativa (“tra cento
talleri possibili e cento talleri reali c'è differenza, benché le loro qualità
siano identiche”).
Pertanto, secondo Kant la prova di Anselmo è impossibile, perché da un'idea
vuole provare una realtà, e contraddittoria, perché presuppone nel perfettissimo
quell'esistenza che poi vuole dimostrare.
Analogo ragionamento vale per le prove cosmologiche, esemplate nelle “vie” della teologia di Tommaso d'Aquino, e da Kant ridotte all'inferenza dal contingente all'assolutamente necessario. Secondo Kant tali prove si avvalgono illegittimamente del principio di causa applicato non ai singoli fenomeni, come si dovrebbe, ma a qualcosa di transfenomenico, vale a dire la realtà in sé, la quale, grazie al principio già criticato nella prova ontologica, godrebbe di necessità dell'esistenza reale.
Anche la prova fisico-teologica (o fisico-teleologica), relativa alla considerazione della finalità dell'universo, non è esente, per Kant, da errori che ne incrinano inevitabilmente la struttura. Benché meno scorretta delle altre, essa potrebbe concludere, per Kant, soltanto alla dimostrazione di un'intelligenza ordinatrice (un supremo Architetto), ma, per così dire, intramondana, non trascendente come invece la prova classica intende. Anche in questa prova, infatti viene larvatamente applicato secondo Kant l'argomento ontologico, per assicurare all'ordinatore del mondo una perfezione assoluta.
La funzione regolativa delle idee della ragione
Pur essendo irrelate a qualsivoglia esperienza possibile, le idee, secondo
Kant, esercitano una funzione regolativa del pensiero, in quanto lo indirizzano
verso quell'unità di esperienza che, benché impossibile, costituisce tuttavia un
ideale del pensiero. Le idee, pertanto, pur cessando di valere come mezzi di
spiegazione della realtà, varranno come spunti problematici, cioè come stimoli
per la ricerca umana.
Alla luce delle idee il pensiero dell'uomo cercherà di orientarsi verso un
criterio unificante, pur nella consapevolezza critica che il compito di
risolvere la totalità dei fenomeni risulta strutturalmente impossibile: la
metafisica come scienza, infatti, risulta impossibile nel suo statuto teoretico.
Si tratterà allora, per Kant, di ricercare altre vie per eventualmente
raggiungere una consapevolezza metafisica non scientifica. È ciò che Kant
cercherà di fare nella critica del versante pratico della ragion pura.
LA DOTTRINA MORALE
[ audio ]
La ragione umana non è solamente “teoretica”, ossia capace di conoscere, ma è
anche “pratica”, ossia capace di determinare la volontà e l'azione morale.
Nel
caso della ragione teoretica, la critica è stata necessariamente rivolta
all'aspetto di purezza della stessa, perché nel conoscere, essa tende a
esorbitare dai propri limiti; per quanto concerne l'aspetto pratico, invece, la
critica non necessita di mantenersi entro un esame delle strutture pure della
ragione, perché tale aspetto della ragione non corre il medesimo rischio,
in quanto è data senz'altro una realtà oggettiva consistente nella determinazione
della volontà.
La critica della ragion pratica, pertanto, dovrà attuarsi proprio rispetto a una
ragion pratica generale, avrà il compito di
distogliere la ragione empiricamente condizionata dalla pretesa di fornire, essa
sola, il fondamento esclusivo di determinazione della volontà. Si tratterà, cioè,
di mostrare che esiste una ragion pura pratica che è sufficiente, da sola (senza
l'ausilio di impulsi sensibili) a muovere la volontà, perché soltanto in questo
modo può dirsi, secondo Kant, che esistano principi morali valevoli per tutti
gli uomini.
L'etica della maturità; i capisaldi [ audio ]
Kant ha esposto la sua etica generale (che cosa è il bene morale) nella Fondazione della metafisica dei costumi del 1785 e nella Critica della ragion pratica del 1788, e la sua etica speciale (quali sono le azioni buone) nella seconda parte (dottrina della virtù) della Metafisica dei costumi, del 1797.
Possiamo articolare i capisaldi della morale kantiana come segue:
La dottrina morale esposta nella Fondazione della metafisica dei costumi è sostanzialmente la stessa della Critica della ragion pratica (salvo che per la giustificazione della libertà), ma diverso è il metodo: analitico nella Fondazione, sintetico nella Critica.
La Fondazione della metafisica dei costumi [ audio ]
Per
metodo analitico Kant intende quello che parte dal condizionato per risalire
alle condizioni; il che significa, per la filosofia teoretica, la scienza,
per la filosofia morale, la conoscenza comune, ossia quelle che Kant ritiene le comuni persuasioni
morali.
Da tali persuasioni comuni, pertanto, nella Fondazione Kant risale a una morale filosofica (prima parte), da una
“filosofia morale popolare” alla metafisica dei costumi (seconda parte) e dalla
metafisica dei costumi alla critica della ragion pura pratica (terza parte).
Prima parte
La
persuasione comune dalla quale Kant prende l'avvio è la seguente: non c'è nulla di
incondizionatamente buono all'infuori della buona volontà. Altri beni, infatti, come la
forza e l'ingegno, pur essendo beni, possono talora dar luogo al male (per
esempio la forza e l'ingegno di un bandito), mentre la buona volontà mai.
Ora la buona volontà non è buona per i risultati che raggiunge o perché ci
faccia raggiungere la felicità, talora, infatti, ci procura sofferenze (come mezzo
per il raggiungimento della felicità, del benessere, l'istinto sarebbe stato uno
strumento molto migliore); la buona volontà è buona solo per se stessa e in
quanto tale è il
bene supremo.
È buona, dunque, la volontà che segue il dovere per il dovere.
Non
basta, infatti, che la volontà sia semplicemente conforme al dovere; se infatti essa seguisse il
dovere per un impulso egoistico o per vanità, o anche per simpatia, per una
forma benevolenza verso il prossimo (filantropia) espressa da un puro sentimento
o da una inclinazione, essa
non sarebbe moralmente buona; venuto meno quel sentimento, infatti, tale volontà non
seguirebbe più il dovere.
Il principio ispiratore che guida la volontà, pertanto, deve
essere soltanto ed esclusivamente il puro rispetto per la legge; ciò che rende
obbligante la legge, infatti, non può essere ciò a cui la legge ci indirizza (lo scopo, la
“materia”), ma il suo esclusivo carattere di legge: devi perché devi. E
tale carattere della
legge, la forma, è ciò in cui consiste l'universalità.
Perciò io debbo sempre
comportarmi in modo che io possa anche volere che la mia massima divenga una
legge universale. Questa frase annuncia
la prima formula dell'imperativo categorico.
Seconda parte
Alla dottrina degli imperativi è
dedicata la maggior parte della seconda sezione dell'opera.
Kant definisce la
volontà come facoltà di agire secondo la conoscenza delle leggi, e poiché la
conoscenza delle leggi presuppone la ragione, Kant identifica volontà e ragion
pratica.
La nostra volontà non segue
necessariamente la legge morale, può anche non seguirla; ad essa quindi la legge
morale si presenta sotto forma di comando, di imperativo. Ma gli imperativi sono
di due tipi:
Gli imperativi
ipotetici sono possibili in virtù di un giudizio analitico, poiché esprimono
solo la connessione necessaria di un mezzo con un fine: se vuoi il fine, vuoi
anche i mezzi per conseguirlo.
Nel caso dell'imperativo categorico, invece,
non è già data la volontà di uno scopo, dalla quale poter dedurre, analiticamente,
la volontà dei mezzi; dunque la connessione fra la volontà e la legge morale è
sintetica, il che vuol dire che la volontà di obbedire alla legge, perché è legge,
non è già implicita nel concetto di volontà in genere. L'imperativo categorico,
tuttavia, non si presenta come una connessione
sintetica a posteriori, perché esprime un dovere, ma è
una proposizione pratica sintetica a priori, tale da doverne determinare la possibilità,
la condizione a priori della sua possibilità.
[ audio ]
Nella Fondazione Kant formula in tre modi l'imperativo categorico:
- Agisci solo secondo quella
massima (massima è il principio soggettivo dell'azione, ossia è il criterio
ispiratore che guida una determinata condotta) in forza della quale tu possa
volere che essa diventi una legge universale (e ancora: Agisci come se la massima della
tua azione dovesse diventare, per tuo volere, legge universale della natura).
Kant fa alcuni esempi, tra i quali il seguente: «Un uomo, per una serie di mali che hanno
finito col ridurlo alla disperazione, risente un gran disgusto della vita; è
però ancora di tanto in possesso della sua ragione da poter domandarsi se non
sarebbe una violazione del dovere verso se stesso il togliersi la vita. Egli
prova allora a vedere se la massima della sua azione potrebbe diventare una
legge universale della natura. La sua massima sarebbe questa: “per amore di me
stesso io stabilisco il principio di potere abbreviarmi la vita, poiché a
prolungarla ho più da temerne mali che da sperarne soddisfazioni”. Si tratta
ora di sapere se questo principio dell'amor di sé potrebbe diventare una legge
universale della natura. Si vede però subito che una natura la cui legge sarebbe
quella di distruggere la vita stessa, in forza di quello stesso sentimento fatto
per potenziare la vita, sarebbe in contraddizione con se stessa e non potrebbe
sussistere come natura, e perciò è in pieno contrasto col supremo principio del
dovere». Un secondo esempio è quello
dell'uomo che chiede un prestito e promette di restituirlo pur sapendo di non
poterlo restituire; un terzo è il caso di colui che, dotato di ingegno,
preferisce poltrire e non far nulla, il quarto esempio è quello dell'uomo che
non si scomoda per aiutare altri che vede in difficoltà. La massima è, in questi
casi, sempre
l'egoismo (die Selbstliebe, l'amor di sé) e Kant cerca di dimostrare che essa non è
universalizzabile.
- Agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come fine e mai soltanto come mezzo.
- Agire in modo che la volontà possa, in forza della sua massima, considerare se stessa come istituente una legislazione universale. L'autonomia della volontà, sottolineata da questa terza formula, non vuol dire affatto che la volontà decreti arbitrariamente la legge, ma vuol dire che la legge morale esprime la natura stessa della volontà (non conosciuta in sé, certo, ma sicuramente in sé data come intelligibile), e non le è data dal di fuori, né da un impulso sensibile né da un padrone.
Terza parte
Nella
terza parte della Fondazione Kant risponde al problema della possibilità di un
imperativo categorico.
Il problema, tuttavia, non è solo come sia possibile un
imperativo categorico, ma anche se esso sia possibile; tutti i discorsi
precedenti infatti erano ancorati all'ipotesi che, se un imperativo categorico
fosse possibile, esso dovrebbe avere tali e tali caratteri.
Ora, la condizione perché
sia possibile un imperativo categorico è che la volontà sia libera.
Questo è il punto in cui la
Fondazione differisce dalla Critica. Nella
Fondazione, infatti, Kant tenta di dimostrare che l'uomo (o meglio che ogni essere
ragionevole) è libero.
La
dimostrazione – lasciata completamente cadere nella Critica! – è la seguente: «L'uomo trova in sé realmente una facoltà per la quale si distingue da tutte le
altre cose, anzi si distingue anche da sé in quanto affetto da oggetti [ossia
passivo rispetto agli oggetti], e questa è la ragione. Questa, come pura
attività (Selbstthätigkeit) è
superiore anche all'intelletto... ». Ciò significa che, in quanto dotato di
ragione, l'uomo appartiene al mondo intelligibile (noumenico), e perciò è
sottratto al determinismo che è la legge del mondo fenomenico: è libero.
La Critica della ragione pratica [ audio ]
Nella Critica della ragion pratica questa dimostrazione della libertà non si trova più, e se ne capisce il perché: essa suppone una certa intuizione di sé come noumeno, una specie di intuizione intellettuale, che Kant non può ammettere.
Scopo della Critica della ragion
pratica è, come già si è accennato, dimostrare che vi è una ragion pura pratica, che la ragion pura può essere pratica; il che vuol dire: dimostrare che la ragione sola,
senza influsso di impulsi sensibili, può dirigere la volontà, e che solo quando
la volontà è determinata dalla pura ragione, essa è volontà buona.
C'è dunque
una differenza fondamentale fra la ragione teoretica e la ragione pratica: la
prima non può conoscere validamente senza l'ausilio della sensibilità (i
concetti puri devono unificare intuizioni sensibili per dar luogo alla
conoscenza di oggetti), la seconda invece può dirigere la volontà senza
l'ausilio della sensibilità; anzi solo quando si realizza questa condizione si
ha un comportamento morale.
Ecco perché non occorre fare una critica della
ragion pura pratica, ma solo della ragion pratica: per dimostrare appunto che la
ragione può essere pratica in quanto pura ragione.
La ragion pura non è per se
stessa teoretica, e perciò ha bisogno di critica, mentre la ragion pura è per se
stessa pratica, quindi come tale (come ragion pura pratica) non ha bisogno di
critica.
Si dimostra che la ragione può dirigere la volontà in quanto pura
ragione perché c'è una legge morale con valore universale: questo è un “fatto
della ragione” non altrimenti giustificabile.
Ora una legge universalmente
valida può e deve valere solo per la sua forma di legge, ossia perché è legge, non per
quello che (materia) comanda di fare. Tutti i
principi pratici che presuppongono un oggetto (materia) della tendenza come
motivo determinante della volontà, infatti, sono empirici e non possono fornire leggi
pratiche.
Non ci sono, pertanto, che due motivi possibili per volere un oggetto:
- perché si deve volerlo, perché la legge lo comanda;
- perché l'oggetto piace.
Il piacere, però, è soggettivo, può variare da individuo a individuo, quindi non può
fondare una legge universale.
Secondo Kant non si
può definire che cosa sia il bene morale indipendentemente dal concetto di legge,
poiché bene morale è ciò che la legge comanda. In questo consiste il formalismo
della morale kantiana.
La libertà [ audio ]
La libertà è postulata (inevitabilmente richiesta) dal carattere formale della legge:
infatti una volontà che deve (soll) seguire la legge perché è legge non può
essere necessariamente determinata da motivi o impulsi sensibili; non ha infatti
senso un “devi” (sollst) rivolto ad un soggetto già determinato ad agire in un modo
piuttosto che in un altro.
Chi ha il dovere di fare una cosa deve poterla fare (deve essere libero per
farla):
puoi, perché devi.
In merito a ciò Kant si difende dall'accusa di circolo vizioso (la libertà è
dimostrata dall'esistenza della legge morale, ma la possibilità dell'imperativo
categorico è dimostrata in base alla libertà) adducendo la spiegazione secondo
la quale la libertà è condizione perché ci sia la legge morale, ma la legge
morale è la condizione perché la libertà sia conosciuta, cioè che la legge morale è la
ratio cognoscendi della
libertà, ma la libertà è la ratio essendi della legge morale.
La libertà, pertanto, si configura come “la chiave di volta di tutto l'edificio
di un sistema della ragion pura, anche di quella speculativa”, perché è l'unica
via d'accesso, per dir così, al mondo intelligibile.
Solo attraverso la libertà, infatti,
si potrà dimostrare che i concetti di Dio e dell'immortalità non sono
soltanto idee senza sostegno, ma che, una volta ancorati alla libertà, essi ricevono da questa consistenza e realtà oggettiva, cioè
che la loro possibilità (non contraddittorietà) è dimostrata dal fatto che la
libertà è reale.
Tuttavia, mentre la libertà è condizione della legge morale, l'esistenza di Dio e
l'immortalità dell'anima sono soltanto condizioni dell'oggetto della volontà,
ossia del sommo bene
Il bene morale [ audio ]
Per quanto poi riguarda il bene
morale, esso è, si è detto, ciò che la legge comanda; circa la possibilità di
riconoscerlo come da farsi nel mondo fenomenico, cioè circa il che cosa dobbiamo fare per obbedire alle legge, Kant
risponde riprendendo con poche varianti la formula dell'imperativo categorico
espressa nella Fondazione, l'unica rimasta nella Critica della ragion
pratica: «Domanda
a te stesso se l'azione che hai in mente la potresti riguardare come possibile
mediante la tua volontà, quando essa dovesse accadere secondo una legge della
natura della quale tu stesso fossi una parte».
Ciò che merita attenzione è che la possibilità di universalizzare la
massima è vista non come l'essenza della moralità, per dir così, ma come il suo
typos, cioè la sua impronta, il suo riflesso nel mondo fenomenico. Il che
significa che la forma della legge morale è solo il
riflesso, accessibile a noi, di un ideale umano che non
possiamo determinare concettualmente perché appartiene al mondo intelligibile.
Pertanto, mentre l'universalità della legge è il riflesso oggettivo della moralità,
il
riflesso soggettivo della stessa legge morale nella nostra sensibilità è il
sentimento di rispetto che essa ci incute. Il sentimento
del rispetto è l'effetto prodotto sulla nostra sensibilità da una legge conosciuta con
la ragione.
Sommo bene, esistenza di Dio e immortalità dell'anima [ audio ]
Come nella Critica della ragion pura, infine, anche nella Critica della ragion pratica c'è una dialettica che si
manifesta in una antinomia a proposito del concetto di sommo bene.
Sommo bene,
infatti, nel senso di bene supremo è la virtù, ma la virtù non appaga tutti i
desideri dell'uomo, non è il bene completo, poiché l'uomo ha anche bisogno di
felicità e non basta la virtù a renderlo felice.
Kant non è stoico, non crede
che il saggio, l'uomo virtuoso, sia felice anche in mezzo ai tormenti, eppure
ritiene che l'uomo debba perseguire la virtù senza badare alla propria felicità,
anche a rischio della propria felicità. Nessuno è più degno di felicità
dell'uomo virtuoso, eppure l'uomo moralmente buono non è necessariamente felice.
Ecco l'antinomia.
Kant risolve tale antinomia con il postulato dell'esistenza di Dio, cioè di
un sommo bene originario, causa intelligente della natura, capace di
dare la gioia, il bene soggettivo, a chi persegue il bene morale.
La sintesi
di virtù e felicità, tuttavia, potrà realizzarsi solo in una vita ultraterrena,
vita che occorre postulare come esigenza della perfezione morale. L'ideale della
perfezione morale, la santità, non è infatti raggiungibile nella vita presente
(e l'uomo che credesse di averlo raggiunto sarebbe il più lontano
non solo dalla perfezione, ma anche dall'onestà), eppure la perfezione è
richiesta come praticamente necessaria, cioè non vi è autentica vita morale
senza tensione verso un ideale. Ci deve essere dunque un progresso all'infinito,
e quindi un'esistenza che continui all'infinito per realizzarla.
LA CRITICA DEL(LA FACOLTÀ DEL) GIUDIZIO (RIFLETTENTE)
[ audio ]
La Critica della ragione pura ha concluso che quella natura che
dominiamo con la scienza è soltanto fenomenica, è la realtà come appare allo
spirito umano; il mondo noumenico, il mondo delle cose in sé, è quello al quale
apparteniamo come soggetti morali, ha concluso la Critica della ragion
pratica, ma di questo non abbiamo conoscenza; fra i due mondi c'è un abisso
immenso.
Ora la Critica del Giudizio si domanda se non ci siano vie per superare questo
abisso, questa spaccatura. Superare l'abisso vorrebbe dire cogliere un riflesso
di intelligibilità nella natura anche là dove non arriva l'intelligibilità
portata dalle nostre categorie, cogliere un'intelligibilità anche in ciò che
negli oggetti deriva dalla materia della conoscenza.
Il problema della terza Critica
Per la scienza, i dati grezzi delle sensazioni sono un caos inintelligibile,
un caos al quale portano ordine e unità solo le categorie, che sono, però,
concetti generalissimi.
Si tratta ora di vedere se anche i particolari attestati dalle intuizioni
empiriche non portino in sé una traccia di intelligibilità. Se così fosse,
saremmo autorizzati a pensare che le ignote cose in sé, dalle quali ci vengono
le impressioni sensibili, hanno una struttura razionale, quella medesima che sta
a fondamento della legge morale.
Le vie per arrivare a questa persuasione non sono evidenze scientifiche, già
escluse dalla Critica della ragion pura, sono invece la bellezza e
l'ordine della natura, oggetto di studio della Critica del Giudizio.
La “facoltà di giudicare” (Urteilskraft) è la facoltà di sussumere un
particolare sotto un universale, di cogliere un particolare come esempio di un
concetto, ossia di cogliere un'intelligibilità nel dato particolare.
Ci sono due tipi di giudizio:
- determinante, in cui l'universale è già dato, è già posseduto dall'intelletto
che lo applica al molteplice delle intuizioni (è il giudizio scientifico di cui
parla la Critica della ragion pura);
- riflettente, in cui l'universale non è già dato, ma va trovato.
Kant chiama Giudizio la facoltà del giudizio riflettente, e di questa si occupa
nella terza Critica.
I concetti puri sono estremamente generici; il problema della Critica del Giudizio consiste, pertanto, nel vedere se non sia intelligibile anche quella miriade di particolari che sfugge alle maglie troppo larghe dei concetti a priori. Siccome, tuttavia, dire che una realtà è intelligibile equivale a dire che ha un significato, il giudizio riflettente è quello che denuncia una finalità nella natura.
Ci sono due modi per scoprire la finalità della natura, la contemplazione della bellezza e la riflessione sull'ordine della natura; di qui le due parti della Critica del Giudizio: critica del Giudizio estetico (Il termine “estetico” è preso qui nel senso che gli diamo oggi comunemente, significato assegnatogli per la prima volta da A. G. Baumgarten nella sua Aesthetica, non nel senso che ha nella Critica della ragione pura quando Kant espone l'estetica trascendentale) e critica del Giudizio teleologico.
Il Giudizio estetico [ audio ]
Il punto di partenza della Critica del Giudizio estetico è analogo a quello delle altre due Critiche: Kant si chiede come siano possibili giudizi estetici con valore universale.
Kant rifiuta la tesi empiristica, perché essa non spiega come mai il giudizio estetico possa essere condiviso da tutti. Il giudizio estetico, infatti, ha per lui una pretesa di universalità e di oggettività. Non è lo stesso, infatti, dire “la tal cosa è bella” e dire “la tal cosa mi piace”, laddove la tesi empiristica non spiega questa differenza.
Dalla constatata insufficienza della tesi empiristica nasce la prima asserzione
kantiana sul giudizio estetico: il bello è l'oggetto di un piacere disinteressato. Dal carattere disinteressato del piacere estetico segue
il secondo
carattere: bello è ciò che piace universalmente, e Kant aggiunge: “senza
concetto”. Questa aggiunta, giustificata
dall'insistenza sul piacere che muove il giudizio estetico, piacere e non
concetto, apre la via al terzo carattere: la bellezza è la forma della finalità
di un oggetto in quanto vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo. Il
quarto carattere del giudizio
estetico è la necessità, già implicita nell'universalità.
Il secondo e il terzo carattere, “universalità senza concetto” e “finalità senza
scopo” sono espressioni apparentemente contraddittorie, nelle quali sta, invece,
l'aspetto più originale dell'estetica kantiana, o, come egli dice, la chiave
della critica del gusto. Il giudizio estetico è determinato da un sentimento di
piacere, ma il piacere estetico è determinato
da una forma conoscenza (non scientifica), da intendersi come il senso dell'armonia tra
l'immagine sensibile dell'oggetto e il nostro intelletto in generale.
Il piacere estetico è sì l'apprensione dell'intelligibilità
dell'oggetto, ma tale apprensione avviene attraverso la consapevolezza
dell'armonia delle nostre facoltà, cioè dell'immaginazione con l'intelletto. Si
capisce allora l'espressione “finalità senza scopo”, poiché percepire una
finalità senza scopo vuol dire percepire che una cosa ha un senso, una
intelligibilità, senza sapere precisamente a quale idea essa risponda. Il senso
di finalità è dunque percepito attraverso il sentimento dell'armonia fra le nostre
facoltà; di qui, il sentimento di pienezza, di agio (Behaglichkeit) che
caratterizza l'apprensione del bello: poiché tutte le nostre facoltà entrano in
gioco.
Nell'estetica del Settecento, poi, si parlava molto, oltre che del bello,
anche del sublime; anche Kant, che aveva associato i due concetti nelle
Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ne riparla nella Critica
del Giudizio.
Sublime è ciò che è assolutamente grande, ossia ciò che è grande al di là di
ogni comparazione.
Assolutamente grande è ciò rispetto al quale ogni altra cosa è piccola,
e tale può essere solo l'infinito; ora l'infinito non può essere oggetto di
conoscenza, perché non può esser dato nell'esperienza, ma è in certo modo
presentito dal Giudizio di fronte a certi spettacoli naturali che superano ogni
potere della nostra immaginazione (alte montagne, l'Oceano in tempesta) perché
proiettiamo su di essi quella grandezza assoluta che è propria solo del
soprasensibile, e che è in noi in quanto persone morali, appartenenti al mondo
intelligibile.
Il Giudizio teleologico [ audio ]
Kant è sempre stato persuaso della
finalità della natura, anche se nella Critica della ragion pura ha negato la
possibilità di dimostrarla scientificamente. Nella Critica del Giudizio resta
fedele a questa negazione, non accetta infatti il “realismo della finalità”, ma afferma che la finalità è un
principio regolativo.
Secondo Kant è molto diverso dire che la produzione delle cose naturali, o anche
di tutta la natura, è possibile
soltanto in virtù di una causa che si determini ad agire intenzionalmente, e
dire che per la particolare struttura della mia facoltà conoscitiva io non posso
giudicare della possibilità di quelle cose e della loro produzione se non
pensando ad una causa che agisce intenzionalmente. Nel primo caso, infatti, voglio
affermare qualcosa dell'oggetto, e sono tenuto a dimostrare la realtà oggettiva
del concetto che ho assunto; nel secondo caso la ragione determina solo l'uso
delle mie facoltà conoscitive. Perciò, il primo principio è una tesi oggettiva
per il Giudizio determinante, il secondo è una tesi soggettiva per il Giudizio
riflettente.
Ora, Kant accetta il secondo principio e osserva che non sarebbe affatto
impossibile che un'attività noumenica finalistica si manifestasse nel mondo
fenomenico attraverso leggi meccaniche, cioè che un'Intelligenza
creatrice si servisse di leggi meccaniche per realizzare il
suo ordine.
Così, il postulato della Critica della ragion pratica per risolvere l'antinomia del
sommo bene, il postulato cioè che a fondamento della natura stia quella stessa
ragione che è a fondamento della legge morale, è non già dimostrato, ma in
qualche modo presentito attraverso l'intuizione della bellezza e l'osservazione
dell'ordine della natura.
L'intelligenza umana
che foggia la natura con le sue leggi, senza però esaurire tutti i particolari,
sarebbe un riflesso della intelligenza che ha creato la natura.
LA FILOSOFIA DEL ROMANTICISMO
[ audio ]
Con Kant si chiudono, per così dire, la fase illuminista della filosofia e la
parabola della rivoluzione scientifica.
Kant, peraltro, con la Critica del Giudizio ha aperto il varco al
sentimento e quindi, di diritto, può essere considerato il primo filosofo
romantico.
Un antecedente del fenomeno romantico: lo Sturm und Drang
Già prima che scoppiasse la Rivoluzione in Francia, nel decennio fra il 1770
e il 1780, la temperie culturale registrava in Germania alcune clamorose
modificazioni, che dovevano portare, sullo scorcio del secolo, al superamento
totale dell'Illuminismo.
Il movimento che negli anni settanta produsse quelle modificazioni va sotto il
nome di Sturm und Drang, che significa “Tempesta e Assalto”, o, meglio
ancora, “Tempesta e Impeto”. La denominazione deriva dal titolo di un dramma
scritto nel 1776 da uno degli esponenti del movimento, Friedrich Maximilian
Klinger (1752-1831), e pare sia stata usata per la prima volta per designare
l'intero movimento da A. Schlegel agli inizi dell'800.
I due termini (Sturm e Drang) vanno probabilmente intesi
come un'endiadi, ossia come esprimenti un unico concetto con due parole, e
quindi il senso dovrebbe essere “impeto tempestoso”, “tempesta di sentimenti”, “ribollire caotico di sentimenti” (il titolo originale dato da Klinger al suo
dramma era Wirrwarr, che significa “caotica confusione”).
Le posizioni e le idee di fondo di questo movimento sono
a) la natura viene riscoperta ed esaltata come forza onnipotente e creatrice di
vita;
b) alla natura viene strettamente connesso il “genio”, inteso come una forza
originaria; il genio crea analogamente alla natura, e pertanto non desume dal di
fuori le sue regole, ma è esso stesso regola;
c) alla concezione deistica della Divinità come Intelletto o Ragione suprema,
propria dell'Illuminismo, comincia a contrapporsi il panteismo, mentre la
religiosità assume nuove forme che si esprimono, nelle loro punte estreme, nel
titanismo paganeggiante di Prometeo o nel titanismo cristiano del santo e del
martire;
d) il sentimento patrio si esprime nell'odio per il tiranno, nell'esaltazione
della libertà e nel desiderio di infrangere convenzioni e leggi esteriori;
e) si apprezzano i sentimenti forti e le passioni turgide e impetuose, nonché i
caratteri a tutto tondo.
A dare senso e rilevanza storica e sopranazionale allo Sturm furono Goethe, Schiller, e i filosofi Jacobi e Herder con la loro prima produzione poetica e letteraria.
La complessità del fenomeno romantico e le sue caratteristiche essenziali [ audio ]
Definire il Romanticismo è impresa difficile, forse addirittura impossibile.
F. Schlegel, il fondatore del circolo dei Romantici, scriveva al fratello di non
potergli mandare la propria definizione della parola “romantico”, perché era “lunga 125 fogli”.
La parola “romantico” ha una lunga storia a partire dalla metà del
XVII secolo.
Il termine veniva usato per indicare il favoloso, lo stravagante, il fantastico
e l'irreale (quale si incontra, ad esempio, in certi romanzi cavallereschi). Fu
riscattato da questa connotazione negativa durante il secolo successivo, in cui
venne usato per indicare scene e situazioni piacevoli del tipo di quelle che
comparivano nella narrativa e nella poesia “romantiche” (nel senso sopra
indicato). Gradatamente il termine “romanticismo” venne ad indicare il rinascere
dell'istinto e dell'emozione che il prevalente razionalismo del secolo XVIII non
aveva mai interamente soppresso.
Come categoria
storiografica (e geografica) il Romanticismo designa quel movimento spirituale
che coinvolse non solo la poesia e la filosofia, ma anche le arti figurative e
la musica, che si sviluppò in Europa tra la fine del Settecento e la prima metà
dell'Ottocento. Se certi prodromi di questo movimento si possono individuare
in Inghilterra, resta comunque vero che il movimento reca una forte impronta
soprattutto dell'animo e del sentire germanici. Il movimento si espanse in tutta
Europa, in Francia, in Italia, in Spagna, e, naturalmente, in Inghilterra. In
ciascuno di questi paesi il Romanticismo assunse caratteri peculiari e subì
trasformazioni. Il momento paradigmatico del Romanticismo rimane in ogni caso
quello che si pone a cavaliere fra Settecento e Ottocento in Germania nei
circoli costituiti dai fratelli Schlegel a Jena e poi a Berlino.
Una sorta di minimo comune denominatore può essere indicato, in primo luogo, in ciò
che costituisce lo “stato d'animo”, l'atteggiamento psicologico, l'ethos o
cifra spirituale dell'uomo romantico. Tale atteggiamento romantico consiste in
una condizione di interiore dissidio, in una lacerazione del sentimento che non
si sente mai pago, che si trova in contrasto con la realtà e aspira ad un
qualcosa di ulteriore, il quale peraltro gli sfugge di continuo. Inteso come fatto psicologico, il romantico non è il sentimento che si afferma
al di sopra della ragione, o un sentimento di particolare immediatezza,
intensità o violenza, e non è neppure il cosiddetto sentimentale, cioè un
sentimento malinconico-contemplativo; è piuttosto un atto di sensibilità, il
fatto puro e semplice, appunto, della sensibilità, quando essa si traduca in uno
stato di eccessiva o addirittura permanente impressionabilità, irritabilità e
reattività. Domina nella sensibilità romantica l'amore dell'irresolutezza e
delle ambivalenze, l'inquietudine e l'irrequietezza che si compiacciono di sé e
si esauriscono in sé. Il termine che è diventato più tipico e quasi tecnico per
indicare questi stati d'animo è “Sehnsucht”, che, meglio che con
qualunque altro termine, può essere reso in italiano con “struggimento”. “Sehnsucht”
(dai verbi sehnen = desiderare e suchen = cercare) è un desiderio che non può mai raggiungere la propria meta, perché non la
conosce e non vuole o non può conoscerla, è un desiderare tutto e nulla ad un
tempo, un cercare, una ricerca del desiderio, un desiderare il desiderare, un
desiderio che è sentito come inestinguibile e che proprio per ciò trova in sé il
proprio pieno appagamento.
Ogni Romantico ha sete di infinito e quello “struggimento”, che è desiderio,
proprio perché irrealizzabile, lo è proprio perché ciò che in realtà brama è
appunto l'Infinito. E forse mai come in questa età si è parlato tanto di
Infinito, inteso nei modi più vari.
Il Romantico esprime questa tendenza all'Infinito, anche come uno “Streben”,
ossia come un perenne “tendere” che non ha mai posa, perché le esperienze umane
sono tutte finite, in quanto il loro oggetto è sempre finito, e come tali vanno
sempre trascese. L'Infinito è il senso e la radice del finito. La filosofia deve
cogliere e mostrare il nesso dell'Infinito col finito, l'arte lo deve
realizzare: l'opera d'arte è l'infinito che si manifesta nel finito.
La Natura viene ad assumere un'importanza fondamentale e viene sottratta
interamente alla concezione meccanicistico-illuministica.
Essa viene intesa come vita che crea eternamente, e nella quale la morte non è
se non un artificio per avere più vita.
La natura è un grande organismo del tutto affine all'organismo umano, è mobile
gioco di forze, che, operando dall'intrinseco, genera tutti i fenomeni e quindi
anche l'uomo: la forza della natura è, dunque, la forza stessa del divino. La
natura è sacra.
Strettamente connesso a questo senso della natura è il senso “panico”, ossia
il senso dell'appartenenza all'uno-tutto, il sentire di essere un momento
organico della totalità.
Nell'uomo si riflette in qualche modo il tutto, così come, viceversa, l'uomo si
riflette nel tutto.
Il genio e la creazione artistica vengono elevati a suprema espressione del Vero e dell'Assoluto.
I Romantici nutrono, inoltre, un fortissimo anelito verso la libertà, che per molti di essi esprime il fondo stesso della realtà, e per questo l'apprezzano in tutte le sue manifestazioni. Fichte farà della libertà il fulcro del suo sistema e lo stesso Hegel vedrà nella libertà l'essenza dello Spirito.
La Religione viene in genere rivalutata e posta ben al di sopra del piano al
quale l'Illuminismo l'aveva ridotta.
La religione è intesa per lo più come un rapporto dell'uomo con l'Infinito e con
l'Eterno.
Un dato di fatto risulta particolarmente significativo: quasi tutti gli
esponenti di rilievo del Romanticismo ebbero forti crisi religiose e momenti di
intensa religiosità; da Schlegel a Novalis, da Jacobi a Schleiermacher a Fichte,
a Schelling. La Religione nello stesso Hegel è il momento più alto dello
Spirito, superato dalla sola filosofia. E la religione per eccellenza è
considerata quella cristiana, sia pure intesa in vari modi.
La discussione sulla “cosa in sé” [ audio ]
Nel contesto del Romanticismo, una volta morto Kant, si sviluppa tra i suoi discepoli e continuatori il dibattito sul problema aperto e non risolto dal criticismo, la questione del noumeno in senso positivo, "la cosa in sé" da cui proviene la molteplicità delle sensazioni senza che si possa avere alcuna intelligibilità di essa, e pur tuttavia posta a fondamento di tutto il movimento del conoscere. Immediatamente dopo Kant si apre dunque il dibattito, che si conclude con la geniale soluzione fichtiana, l'eliminazione del noumeno e il suo totale assorbimento nel Soggetto, il che dà l'inizio alla filosofia dell'idealismo trascendentale.
Karl Leonhard Reinhold (1758-1823) stima la Critica della ragion pura come una propedeutica, tentando di ricostruirla come sistema. Per fare ciò, tuttavia, deve esistere un principio, che Reinhold ritiene di ritrovare nella rappresentazione (Vorstellung), che nella coscienza è distinta dal rappresentante e dal rappresentato (cioè dal soggetto/forma e dall'oggetto/materia), di cui è sintesi. La coscienza è il momento comprensivo adatto a superare il dualismo kantiano, e la forma viene fatta coincidere con l'attività e spontaneità della coscienza, mentre la materia viene fatta coincidere con la recettività.
Gottlob Ernst Schulze (1761-1833) obietta al criticismo di Kant di essere vittima dello stesso salto indebito dalla dimensione del pensare alla dimensione dell'essere che esso rimprovera come errore di fondo alle tradizionali prove dell'esistenza di Dio, in particolare a quella ontologica. Infatti, il criticismo, dopo avere stabilito che qualcosa, per essere pensato, deve essere pensato in un certo modo, conclude che, dunque, esiste in quel modo, compiendo in tale maniera quel passaggio dal pensare all'essere, che invece resterebbe da dimostrare.
Salomon Maimon (1754-1800) nel Saggio intorno alla filosofia trascendentale sostiene che la “cosa in sé” non può essere considerata come esterna alla coscienza, perché, allora, sarebbe una non-cosa, che Maimon assimila a un numero immaginario, che esprime una grandezza non reale. A suo parere, invece, la cosa in sé va pensata come le grandezze irrazionali che sono grandezze reali, che esprimono un valore limite, cui ci si approssima sempre più all'infinito.
Jakob Sigismund Beck (1761-1840), autore di un Compendio chiarificatore degli scritti critici del sig. prof. Kant, su consiglio del medesimo (1793-96), sostiene che, per capire Kant, bisogna individuare il punto di vista centrale da cui rampollano tutti i singoli problemi. Partito, però, come fedele espositore di Kant, Beck se ne allontana poi eliminando la cosa in sé e interpretando l'oggetto come prodotto della rappresentazione. L'unità sintetica dell'appercezione come attività dinamica è il vero punto di vista per capire Kant. Da tale attività dell'unità sintetica dell'appercezione è derivabile non solo la forma, ma anche la materia del conoscere.
JOHANN GOTTLIEB FICHTE
[ audio ]
Nella Prima introduzione alla dottrina della scienza del 1797 Fichte esorta il lettore a osservare se stesso, a distogliere lo sguardo da tutto quanto lo circonda e a rivolgerlo al proprio intimo: è infatti questo la prima cosa che la filosofia esige da chi prende a coltivarla. Non si tratta di qualcosa di esterno dal soggetto, ma di qualcosa che coincide unicamente con il soggetto stesso.
Dogmatismo e idealismo
Ci sono due tipi fondamentali di filosofia per Fichte: quello che spiega l'esperienza con
la cosa e quella cha la spiega con l'intelligenza; il primo è il dogmatismo, il
secondo l'idealismo. L'idealismo ha un primo vantaggio sul dogmatismo, in quanto
il principio che esso assume per spiegare l'esperienza è una realtà di cui si ha
immediata coscienza: l'io in sé, infatti, si presenta effettivamente nella
coscienza – sostiene Fichte – come qualcosa di reale, la cosa in sé, invece, è
una mera invenzione e non ha realtà alcuna.
Fichte sottolinea poi che l'io in sé, di cui si ha coscienza, è l'io in quanto
agisce liberamente.
Ciò, tuttavia, costituisce soltanto un vantaggio dell'idealismo, ma non è una
dimostrazione, perché il dogmatismo, che pur deve ammettere il fatto della
coscienza, la spiega (ivi compresa la presunzione di essere liberi) come un
prodotto della cosa. Il dogmatico coerente è quindi fatalista (determinista) e
materialista.
Idealismo e dogmatismo non si possono quindi confutare a vicenda perché la
loro opposizione è sul primo principio della filosofia e l'assunzione dell'uno o
dell'altro principio è di carattere pratico, è il frutto di una scelta, che
corrisponde al grado di umanità, di autenticità umana del filosofo.
Vi sono, infatti, per Fichte due gradi di umanità e finché il secondo non viene
universalmente raggiunto, nel progresso del genere umano, vi sono due tipi
principali di uomini. Alcuni, non essendosi ancora elevati al pieno senso della
propria libertà e assoluta autonomia, trovano se stessi solo nel rappresentare
le cose, si concepiscono come un prodotto delle cose stesse; chi, invece,
diventa consapevole della propria autonomia e indipendenza non ha più bisogno
delle cose a sostegno del proprio io. Egli crede per impulso alla propria
autonomia, la afferma con affetto. La sua fede in sé è immediata.
L'uomo che si crede libero, che afferma la libertà, deve conseguentemente
affermare che le cose, la natura, sono poste dall'Io, e non viceversa.
Il fondamento del sapere assoluto [ audio ]
Dalla Prima introduzione alla dottrina della scienza sembra, dunque,
che le origini dell'idealismo di Fichte siano etiche; essa indica le inferenze
che egli ha tratto da quella affermazione della libertà che trovava in Kant e
che lo tanto lo colpiva. Fichte, infatti, ritiene di avere scoperto un nuovo
fondamento dal quale si può agevolmente dedurre tutta la filosofia.
Kant – sostiene Fichte – presenta la vera filosofia, ma solo nei suoi risultati, non nei
fondamenti. Il primo principio della filosofia non può essere un fatto, il “fatto
della coscienza”; può, però, anzi deve, essere un atto (Thathandlung),
una attività. Se si concepisce così il principio della filosofia, afferma Fichte,
è possibile un sapere assoluto; il sapere assoluto infatti non è possibile se
l'assoluto è concepito come una cosa, un in sé, ma è possibile se l'assoluto è
inteso come un io: dell'io sono, sono simpliciter (assolutamente, senza
restrizioni) perché sono, si dà intuizione intellettuale.
Su questo concetto di intuizione intellettuale Fichte ritorna nella
Seconda introduzione alla dottrina della scienza del 1797.
La prima era rivolta a lettori ancora ignari di filosofia; la seconda è rivolta
a quei lettori che hanno già un sistema filosofico.
Il problema è lo stesso di quello posto nella Prima introduzione: donde
ha origine il mondo dell'esperienza? come come è possibile un essere per noi?
Se, dunque, si cerca un fondamento dell'essere che ci si presenta, e questo
fondamento deve essere diverso da ciò che è fondato, lo si ritrova nello stesso
Io, da intendersi come azione.
L'Io non è una cosa che sia soggetto di attività, esso è attività, pura
attività. L'Io si costituisce originariamente per sé (wird das Ich ursprünglich
für sich selbst).
La filosofia, pertanto, comincia dal prender coscienza dell'Io come attività, e
questo prender coscienza è una intuizione intellettuale. L'intuizione
intellettuale è l'immediata coscienza che l'io agisce e di quello che fa, essa è
quella coscienza in cui si sa qualche cosa perché la si fa.
L'intuizione intellettuale è azione come opposta ad essere.
L'Idealismo fichtiano come esplicitazione del “fondamento” del Criticismo kantiano [ audio ]
L'incontro con il pensiero di Kant rivoluzionò il pensiero e la vita di
Fichte al punto che questi non ebbe, nel periodo immediatamente seguente, altra
preoccupazione che quella di contribuire a diffondere il Criticismo e,
successivamente, quella di scrutare a fondo le tre Critiche, allo scopo
di scoprire il principio di base che le unificava e che Kant non aveva rivelato
Subito dopo la scoperta di Kant, Fichte scrive:
«Ho abbracciato una
morale più alta, e, invece di occuparmi delle cose esterne, mi occupo
maggiormente di me stesso, il che mi ha dato una pace che ancora non conoscevo:
pur essendo immerso in una situazione economica precaria ho vissuto i giorni più
belli della mia vita [...]. Sono ora assolutamente convinto che la nostra
volontà è libera [...] e che il fine della nostra vita non è essere felici, ma
meritare la felicità».
«Sto vivendo i giorni più felici che mi ricordi d'aver vissuto [...]. Mi sono
immerso nella filosofia, cioè nella filosofia di Kant. Vi ho trovato la medicina
alla vera radice dei miei disagi, e per di più gioia a non finire [...]. Il
rivolgimento che questa filosofia ha operato in me è enorme. Le debbo, in
special modo, al fatto che ora credo fermamente nella libertà dell'uomo, e vedo
chiaramente che solo presupponendola sono possibili il dovere, la virtù, la
morale in generale».
«Dopo che ho letto la Critica della Ragion pratica mi sembra di vivere in
un nuovo mondo. Essa demolisce affermazioni che credevo inconfutabili, dimostra
tesi che credevo indimostrabili, come il concetto di libertà assoluta, di
dovere, eccetera, il che mi rende più contento [...]. Che fortuna per un'età in
cui la morale era distrutta nei suoi fondamenti e il concetto di dovere era
cancellato da tutti i vocabolari!».
Fichte, tuttavia, era anche convinto che il discorso di Kant non fosse conclusivo. Scrive:
«Ho la piena
convinzione che Kant si è limitato a indicare la verità, ma non l'ha né esposta
né dimostrata. Quest'uomo unico e straordinario o possiede la facoltà di
indovinare la verità senza prender coscienza dei suoi principi o non ha stimato
il suo tempo degno di riceverli [...]. C'è un solo fatto originario dello
spirito umano che possa fondare l'intera filosofia nelle sue parti, la teoretica
e la pratica. Kant lo sa certamente, ma non l'ha detto in nessun luogo: chi lo
scoprirà eleverà l'esposizione della filosofia al grado di scienza».
«Kant possiede la vera filosofia, ma solo nei suoi risultati, non nei suoi
principi. Questo pensatore unico è per me sempre oggetto di meraviglia: ha un
genio che gli svela la verità, ma non gliene mostra il principio».
Kant, in breve, ha fornito tutti i dati per costruire il sistema, ma non lo
ha costruito.
Fichte intende, per contro, costruire questo sistema, trasformando la filosofia
in una rigorosa scienza che scaturisca da un principio primo supremo: è, questa,
la cosiddetta “dottrina della scienza” (Wissenschaftlehre).
La grande novità di Fichte, il colpo di genio che lo portò alla creazione
della nuova filosofia consistette, da una parte, nella trasformazione dell'Io penso
kantiano in Io puro, inteso come intuizione pura, che si autopone (autocrea)
e, autoponendosi, crea tutta la realtà, e, dall'altra, nella connessa individuazione
dell'essenza di questo Io nella libertà.
Fichte, dunque, non presenta più l'io teoretico o il principio della coscienza
(in senso criticistico kantiano), ma l'io puro, l'intuizione intellettuale, l'io
che si coglie da sé e che afferma se stesso; l'io che, fornendo il sostrato
noumenico al mondo fenomenico, garantisce l'unità di sensibile e intelligibile,
e si presenta così come principio unico e supremo, capace di resistere a
qualsiasi scetticismo e di fondare la filosofia come scienza, e che dividendosi
pone l'io pratico a fondamento dell'io teoretico. L'io che nell'infinità del suo
tendere rappresenta l'anelito della libertà e che nell'attività dell'uomo unisce
gli opposti caratteri dell'infinità e della limitazione, prepara la concezione
romantica dello spirito come infinita aspirazione all'infinito.
Fichte ha insistito più volte nel dire che il suo sistema non era se non la
filosofia kantiana con procedimento diverso da quello di Kant; ma Kant non si
riconobbe nella “dottrina della scienza” di Fichte. Fichte, infatti, con questo
suo porre l'Io come principio primo e col dedurre da esso la realtà, creava
l'Idealismo.
L'intuizione intellettuale affermata da Fichte è, dunque, l'intuizione di un
agire, e non di un essere o di una cosa, intuizione ammessa anche da Kant,
benché sotto altro nome, come appercezione trascendentale e come
coscienza dell'imperativo categorico.
La “Dottrina della scienza” e la struttura dell'Idealismo fichtiano [ audio ]
La “dottrina della scienza” è idealismo trascendentale, ed è, secondo
Fichte, la vera interpretazione della filosofia kantiana, purché in Kant si
distingua lo spirito dalla lettera. Le cose in sé, di cui parla Kant, sono per
Fichte le cose che l'Io finito si trova dinanzi, oggetti che l'Io pone quando si
limita e diventa io finito.
Per dare fondamento a tale “dottrina della scienza” (Wissenschaftlehre),
deve esistere una proposizione certa per se stessa che fondi la certezza delle
altre proposizioni ad essa legate con le quali fa “sistema”. Tale proposizione è
il principio fondamentale (Grundsatz).
Il principio fondamentale della dottrina della scienza deve essere non solo
certo in se stesso, e quindi dare la forma della certezza alle altre
proposizioni, ma deve anche contenere in sé ogni possibile contenuto della
dottrina della scienza; e ciò indica la differenza fra dottrina della scienza e
logica formale.
L'Io pone se medesimo (tesi)
Nella filosofia aristotelica il principio incondizionato della scienza
era il principio di non-contraddizione; nella filosofia moderna wolffiana e per
lo stesso Kant tale principio era quello di identità A = A, considerato ancor
più originario (nel senso che quello deriva da questo).
Per Fichte, a sua volta, questo principio deriva da un principio ancora
ulteriore, e di natura del tutto particolare.
In effetti, il principio A = A è puramente formale e ci dice solo che se esiste
A, allora A = A. Di necessario, in esso, c'è solo il legame logico “se...
allora”. Questo legame logico, però, non può essere posto se non dall'Io che lo
pensa, il quale, pensando il legame di A con A, pone oltre al legame logico,
anche A.
Il principio supremo non è dunque quello dell'identità logica A = A, perché esso
risulta posto e, quindi, non originario. Il principio originario non potrà
essere se non l'Io stesso. L'Io, infatti, non è posto da alcunché di altro, ma
si auto-pone.
Io = Io significa, dunque, non l'astratta e formale identità, ma l'identità
dinamica di un principio autoponentesi.
Il principio primo, dunque, è condizione incondizionata.
Se è condizione di se medesimo, allora “costruisce se stesso”, “è così perché
così si fa”, è “posizione di se medesimo”, in una parola è auto-creazione.
Nella metafisica classica valeva che “l'operare segue l'essere”, vale a dire
l'azione consegue all'essere delle cose, una cosa per agire deve prima essere,
l'essere è la condizione dell'agire. La nuova posizione idealistica rovescia
tale assioma e afferma che “l'essere consegue all'azione”, il che significa che
l'azione precede l'essere, l'essere deriva dall'azione e non viceversa.
Fichte sostiene chiaramente che l'essere non è originario, ma “derivato”,
“dedotto”, ossia prodotto dall'agire.
L'Io fichtiano è, pertanto, quella intuizione intellettuale che Kant riteneva
impossibile all'uomo, perché coincidente “con l'intuizione di un intelletto
creatore”. L'attività dell'Io puro è perciò auto-intuizione, proprio nel senso
di auto-posizione. Fichte si spinge perfino a usare l'espressione “Io in sé” ad
indicare, appunto, l'Io come condizione incondizionata, che non è un fatto ma un
atto, un'attività originaria.
Nella prima introduzione alla Dottrina della scienza, Fichte afferma:
«L'Intelligenza... secondo l'Idealismo è di per sé attiva e assoluta, non passiva, e non passiva perché, secondo i postulati idealistici, essa è il principio primo e supremo, al quale nulla precede da cui possa derivarle un carattere di passività. Per la stessa ragione non le appartiene un essere vero e proprio, e cioè una consistenza, perché ciò è il risultato di un'azione reciproca, e nulla esiste e nulla si può ammettere con cui l'Intelligenza entri in rapporto di azione reciproca. Per l'Idealismo l'Intelligenza è un agire e assolutamente nient'altro. Neppure la si può chiamare un che di attivo, perché con queste espressioni si allude a qualcosa di consistente che ha la proprietà d'essere attivo. Ma l'Idealismo non ha ragione alcuna di ammettere una cosa del genere, poiché nel suo principio non c'è nulla di simile, e tutto il resto è da dedursi».
Questo Io e questa Intelligenza, ovviamente, non sono l'io e l'intelligenza
del singolo uomo empirico, ma l'Io assoluto, l'Egoità (Ichheit = Iità).
L'io empirico nasce soltanto in un terzo momento.
L'Io oppone a sé un non-io (antitesi) [
audio
]
Consideriamo la proposizione “non A non è = A”. Essa suppone l'opposizione di
“non A” e la posizione di “A”, cioè due atti dell'Io, che presuppongono
l'identità stessa dell'Io.
Pertanto, nel fatto stesso in cui l'Io pone sé, oppone qualcos'altro a sé, come
quando nel colloquio interiore noi ci poniamo di fronte a noi stessi per
esprimere un giudizio su noi stessi.
Detto in altri termini, l'Io pone se medesimo non come qualcosa di statico, ma
come qualcosa di dinamico, come azione; si pone, cioè, come ponente, e il porsi
come ponente comporta necessariamente lo scaturire di qualcos'altro, ossia la
posizione di qualcos'altro, e, quindi, la posizione di un non-io (l'altro
rispetto all'io non può che essere il non-io).
Tale non-io, evidentemente, non è fuori dell'Io, ma nel suo stesso intimo, visto
che nulla è pensabile al di fuori dell'Io. Dunque, l'Io illimitato oppone a sé
un non-io illimitato.
Così, considerato che il primo momento è quello della libertà (originaria), il
secondo momento, quello dell'opposizione, è il momento della necessità,
indispensabile per spiegare tanto l'attività teoretica (la coscienza e la
conoscenza), quanto l'attività pratica (la vita morale e la libertà della
coscienza).
L'Io oppone nell'Io all'io divisibile un non-io divisibile
(sintesi) [
audio
]
Il terzo principio dell'Idealismo fichtiano rappresenta la reciproca limitazione
e l'opposizione di limite a limite.
L'opposizione di Io e non-io, si è visto, avviene nell'Io. Tale opposizione non
consiste nell'eliminazione, da parte dell'Io, del non-io, ma nella reciproca
delimitazione dell'uno rispetto all'altro e viceversa. La produzione del non-io,
infatti, non può sorgere se non come limite o come de-terminazione dell'Io
stesso. Quindi, il non-io de-terminato comporta, di necessità, un io
de-terminato.
Fichte usa il termine “divísibile” per esprimere questa de-terminazione e
identifica questo terzo momento con la kantiana “sintesi a priori “, facendo dei
due primi momenti, la condizione che la rende possibile.
Fichte è altresì convinto di essere ormai in grado di “dedurre” le categorie,
che Kant ha preteso di ricavare in maniera metodica seguendo un filo conduttore,
ma che, in realtà, avrebbe meccanicamente desunto dalla tavola dei
giudizi.
Spiegazione idealistica dell'attività conoscitiva [ audio ]
Nell'esperienza e nella conoscenza noi riteniamo, comunemente, di trovarci di
fronte ad oggetti che sono esterni rispetto a noi e che agiscono su di noi.
Nell'idealismo fichtiano l'attività conoscitiva si spiega, invece, all'interno
dell'Io, grazie all'antitesi di Io e non-io e alla loro reciproca limitazione.
In Kant 1'immaginazione produttiva determinava a priori la forma pura del tempo,
fornendo gli “schemi” alle categorie. In Fichte l'immaginazione produttiva
diventa creatrice “inconscia” degli oggetti e consiste, dunque, nella stessa
attività infinita dell'Io che, delimitandosi continuamente, produce ciò che
costituisce la materia del nostro conoscere. Proprio perché, poi, si tratta di
produzione inconscia, il prodotto ci appare come “altro” da noi, esterno.
L'immaginazione produttiva, però, fornisce un materiale grezzo, per così dire,
di cui la coscienza, a tappe successive, si riappropria attraverso la
sensazione, l'intuizione sensibile, l'intelletto e il giudizio. A questo punto,
se noi ci poniamo nella prospettiva della riflessione comune, ci formiamo la
salda convinzione che le cose abbiano realtà fuori di noi, e che quindi esse
esistano senza il nostro intervento. Quando, tuttavia, con la ragione filosofica
noi riflettiamo su quelle tappe del processo conoscitivo e sulle loro
condizioni, allora acquistiamo coscienza del fatto che tutto deriva dall'Io, e
così ci avviciniamo, nella nostra autocoscienza, sempre più all'autocoscienza
pura.
In tutto questo percorso il non-io si è rivelato come condizione necessaria per la nascita la coscienza, che è sempre coscienza di qualcosa che è “altro” da sé stessa, qualcosa che suppone sempre una diversità (alterità) rispetto ad essa. L'autocoscienza pura, poi, rimane come un limite cui ci si può avvicinare, ma che non si può mai raggiungere per il fatto che la cancellazione di ogni limite significherebbe la sottrazione della stessa coscienza.
Spiegazione idealistica dell'attività morale [ audio ]
Anche l'attività pratico-morale viene spiegata mediante l'applicazione
dell'opposizione di Io e non-io e della loro reciproca limitazione.
Il non-io, infatti, agisce in questo caso sull'Io come una sorta di “urto” o
“sforzo” (Anstoss), che suscita un “contro-urto” o “contro-sforzo”.
L'oggetto, nell'agire pratico, si presenta quindi all'uomo come un ostacolo da
superare. Il non-io diventa, così, lo strumento mediante cui l'Io si realizza
moralmente. Se così è, il non-io diventa momento necessario per la realizzazione
della libertà dell'Io.
Essere libero significa pertanto rendersi libero, e rendersi libero significa
allontanare incessantemente i limiti opposti dal non-io all'io empirico.
L'Io, dunque, pone il non-io per potersi realizzare come libertà. Tale libertà è
destinata a rimanere strutturalmente a livello di compito illimitato (il dovere
assoluto o imperativo categorico di cui parlava Kant).
L'infinitudine dell'Io si manifesta quindi come un infinito porre un non-io per
superarlo all'infinito.
Il toglimento completo del non-io, come è evidente, può essere solo pensato come
un concetto limite e per questo la libertà resta strutturalmente un compito
infinito.
La morale, il diritto e lo Stato [ audio ]
La vera perfezione morale è un infinito tendere alla perfezione come
progressivo superamento della limitazione; in ciò si rivela l'essenza stessa del
principio assoluto, e Fichte ritiene in tal modo di aver definitivamente
dimostrato quella superiorità della ragione pratica sulla ragion pura che Kant
aveva già intuito.
Dio non è, pertanto, una sostanza o realtà a sé stante, ma è l'ordine morale del
mondo, è il “dover essere”, e quindi è Idea. La vera religione consiste
nell'azione morale. Il finito, cioè l'uomo è momento necessario e strutturale di
Dio (dell'assoluto come Idea-che-si-realizza-all'infinito).
Fichte risolve (almeno dal suo punto di vista) il problema che aveva tanto
tormentato Kant circa il rapporto fra il mondo sensibile o fenomenico e il mondo
noumenico con il quale ha a che fare il nostro agire morale.
Fichte sostiene che la legge morale costituisce il nostro “essere nel mondo
intelligibile”, cioè l'aggancio strutturale all'intelligibile; l'azione reale,
invece, costituisce il nostro “essere nel mondo sensibile”. La libertà è, a suo
parere, l'aggancio dei due mondi in quanto è potere assoluto di determinare il
mondo sensibile secondo l'intelligibile.
L'Io trova se stesso come volontà, e la volontà è assoluto tendere, assoluta
tendenza all'Assoluto, tendenza ad autodeterminarsi, senza spinta alcuna
dall'esterno. Non è, però, una tendenza qualunque, è una tendenza consapevole,
penetrata di intelligenza, e per questo la volontà è libertà. È infatti
caratteristica del soggetto, dell'intelligenza, in contrapposizione all'essere
oggettivo, quella di non essere già tutta data, già fatta, ma di essere un
attuarsi; una tendenza consapevole è dunque una tendenza che si fa, si
autodetermina, e in questo consiste la libertà. L'imperativo categorico – devi
perché devi – esprime quindi l'essenza dell'Io come libertà. La libertà è dunque
immediatamente intuita, per Fichte, non postulata dalla legge morale, come per
Kant.
Il non-io agisce sull'Io solo come “resistenza”, che non solo stimola l'Io ad
agire, ma suppone il suo essere posto da parte dell'Io.
L'Io è il vero principio di tutto.
In questo contesto, in cui tutto resta consegnato all'attività morale, il
peggiore dei mali (il vizio supremo) è l'inattività o l'inerzia, dalla quale
derivano gli altri vizi peggiori, come la viltà e la falsità.
L'inattività (l'accidia), infatti, fa rimanere l'uomo al livello di cosa, di
natura, di non-io, ed è quindi, in un certo senso, la negazione dell'essenza e
del destino dell'uomo medesimo.
L'uomo, poi, realizza il suo compito morale in modo pieno, entrando in
relazione con gli altri uomini. Proprio per diventare pienamente uomo, ciascun
uomo ha bisogno degli altri uomini. La necessità che esistano più uomini (la
“deduzione” della molteplicità di io empirici) è quindi fondata da Fichte sulla
considerazione che l'uomo ha il dovere di essere pienamente uomo, e che questo
si realizza solo se esistono più uomini.
La molteplicità di uomini implica il sorgere di una molteplicità di ideali, e
quindi un di conflitto fra i sostenitori dei differenti ideali. In questo
conflitto, secondo Fichte, è sempre il migliore che vince, anche quando
apparentemente è sconfitto.
Il “dotto” ha una missione particolare fra gli uomini.
Egli deve impegnarsi non solo a far progredire il sapere, ma ad essere
moralmente migliore, e, in questo senso, con la sua attività e con il suo
esempio, deve promuovere il progresso dell'umanità.
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La molteplicità di uomini implica anche il sorgere del diritto e dello Stato.
In quanto l'uomo non è solo, ma fa parte di una comunità è un essere libero
accanto ad altri esseri pure liberi, e quindi deve limitate la propria libertà
con il riconoscimento della libertà altrui. Più precisamente, ogni uomo deve
limitare la propria libertà in modo che ciascuno e tutti possano egualmente
esercitare la loro. Nasce, così, il diritto.
Il diritto fondamentale è quello di ciascuno alla libertà (a quella libertà che
è concretamente compossibile nel contesto di una società fatta di uomini
liberi).
Un secondo diritto è quello della proprietà. A tale proposito, Fichte sostiene
che ciascuno ha diritto di poter vivere del proprio lavoro. Lo Stato, infatti,
nato da un contratto sociale, e quindi da un consenso delle volontà degli
individui, deve garantire a chi è inabile la possibilità di sussistenza, a chi è
abile la possibilità di lavorare, e infine deve anche impedire che qualcuno viva
senza lavorare.
Lo Stato garantisce quindi il lavoro a tutti, ed impedisce che vi siano i poveri
così come i parassiti.
Nell'opera Lo Stato commerciale chiuso Fichte sostiene che lo Stato,
al fine di raggiungere gli obiettivi sopra illustrati, può, se necessario,
chiudere il commercio con l'estero, o, comunque, regolarlo in modo da prenderne
il monopolio. A queste posizioni socialistiche ben si connette l'ideale
cosmopolitico che Fichte sostenne per un certo periodo, ispirandosi agli ideali
accesi dalla Rivoluzione francese.
Gli eventi ai quali assistette nell'ultima fase della sua vita, lo convinsero
tuttavia che non dal popolo francese sotto la guida di Napoleone che agiva da
despota e calpestava la libertà, bensì dal popolo tedesco, militarmente
sconfitto e politicamente oppresso e diviso poteva venire la spinta per il
progresso dell'umanità. Il popolo tedesco riunificato e solo il popolo tedesco,
infatti, avrebbe potuto compiere questa missione.
I Discorsi alla Nazione tedesca, pertanto, così concludono al primato del
popolo tedesco, come il più affidabile e il più determinato per la rinascita
dell'umanità in Europa e nel mondo. Fichte lascia intendere che soltanto a
condizione della sopravvivenza del popolo tedesco, il popolo più genuino e più
originario, l'umanità potrà non perire.
Tali affermazioni furono fatte oggetto di funeste strumentalizzazioni politiche;
nel loro contesto originario, però, esse avevano forse un significato diverso,
quel significato, cioè, che ogni nazione che risorge è portata ad attribuire a
se medesima. Resta, comunque, il fatto che lo scritto di Fichte offrì larghi
spunti all'ideologia del pangermanesimo.
GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL
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È il filosofo del sistema, cioè quel pensatore che espressamente ha dato veste sistematica alla sua interpretazione della realtà. Il sistema hegeliano si propone come onnicomprensivo ed onniesplicativo, nel senso che si propone di giustificare tutta la realtà esistente, nulla escluso.
Gli scritti
Fra i lavori giovanili del periodo di Berna e di Francoforte (1793-1800)
spiccano soprattutto gli scritti teologici, pubblicati postumi, che sono stati
additati da alcuni studiosi come rilevanti ai fini della comprensione della
genesi del sistema hegeliano. Essi sono: Religione razionale e cristianesimo
(frammenti), La vita di Gesù (1795), La positività della religione
cristiana (1795/96, prima redazione), Lo spirito del Cristianesimo e il
suo destino (1798), Frammento di sistema (1800) e la seconda
redazione del terzo scritto (incompiuta).
A Jena Hegel scrisse (ma lasciò inediti) La costituzione della Germania e
il Sistema dell'eticità.
Nel 1801 pubblicò La differenza fra il sistema fichtiano e il sistema
schellinghiano.
A Norimberga La fenomenologia dello Spirito (1807) segna lo stacco di Hegel da
Schelling e presenta un tipo di pensiero ormai del tutto originale.
Le opere successive segnano la maturità del pensiero hegeliano; esse sono: La
scienza della logica (1812-1816), L'enciclopedia delle scienze
filosofiche in compendio (1817), frutto delle lezioni tenute ad Heidelberg, e i Lineamenti di filosofia del diritto
(1821) composti a Berlino.
L'Enciclopedia fu riedita nel 1827 e nel 1830 con ampliamenti. Una
ulteriore edizione, in tre volumi, fu fatta dagli allievi, dopo la morte di
Hegel, fra il 1840 e il 1845 con una serie di inserti contenenti i chiarimenti
che Hegel dava nel corso delle sue lezioni.
Le lezioni, pure pubblicate dai discepoli, recano i seguenti titoli: Lezioni
sulla filosofia della storia, Estetica, Lezioni di filosofia della
religione e Lezioni sulla storia della filosofia.
I CAPISALDI DEL SISTEMA
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La mappa completa delle idee basilari dell'hegelismo è piuttosto ampia, ma i
capisaldi ai quali tutto può essere ricondotto sono i seguenti:
- la realtà in quanto tale è Spirito infinito (ove per “Spirito” si intende
qualcosa che, ad un tempo, sussume e supera tutto quanto in materia avevano
detto i predecessori);
- la struttura, o meglio la vita stessa dello Spirito, e quindi anche il
procedimento secondo cui si svolge il sapere filosofico, è la dialettica;
- la peculiarità di questa dialettica, che perciò si differenzia nettamente da
tutte le forme precedenti di dialettica, è ciò che Hegel ha chiamato elemento
“speculativo”, la vera cifra del pensiero hegeliano.
La chiarificazione di questi tre punti indicherà l'obiettivo o il termine che
Hegel si è proposto di raggiungere nel suo filosofare e la strada da lui seguita
per raggiungerlo.
È peraltro opportuno considerare che la piena comprensione dei medesimi si potrà
avere solo seguendo in concreto lo sviluppo del sistema fino al suo compimento,
cioè percorrendo tutta la strada fino al termine finale.
La realtà come Spirito [ audio ]
Per Hegel la realtà e il vero non sono “sostanza” (ossia, secondo Hegel, un
essere più o meno “irrigidito”), ma “Soggetto”, vale a dire “Pensiero”, “Spirito”.
Si tratta di un'acquisizione recente, che costituisce una peculiarità propria
dei tempi moderni. In effetti, è un'acquisizione resa possibile dalla scoperta
kantiana dell'“Io penso” e dai vari ripensamenti del Criticismo, in particolare
i contributi dell'Idealismo di Fichte (e di Schelling).
Dire che la realtà non è sostanza ma Soggetto e Spirito significa dire che è “attività”, che è
“processo”, che è “movimento”, o, meglio ancora, “automovimento”. Hegel, tuttavia, va oltre Fichte, che si era già spinto fino a questo punto. Per
Fichte, infatti, l'Io pone se stesso, in quanto è appunto pura attività
autoponentesi e oppone (inconsciamente) a sé il non-io, ossia un limite, che poi
cerca di superare dinamicamente. In tale processo, però l'Io fichtiano non
giunge a compimento, in quanto il limite viene sì rimosso e allontanato
all'infinito, ma mai interamente “superato”.
Ora, questo infinito, che si può configurare come una retta che procede senza
limiti, è, per Hegel, un “cattivo infinito”, un “falso infinito”, in quanto
resta un processo irrisolto, nella misura in cui non raggiunge mai pienamente il
proprio scopo, cosicché l'essere e il dover essere rimangono perennemente scissi
in una sorta di rincorsa senza fine.
Quindi, Hegel sostiene che lo Spirito si auto-genera, generando ad un tempo la
propria determinazione, e superandola pienamente.
Lo Spirito, per Hegel, non è infinito in maniera puramente esigenziale, come
voleva Fichte, ma in maniera sempre attuantesi e realizzantesi, come continua
posizione del finito e “insieme” come superamento del finito medesimo.
Lo Spirito, in quanto “movimento”, produce via via contenuti de-terminati e
quindi (in quanto tali) negativi; l'infinito è il positivo che si realizza
mediante la negazione di quella negazione che è propria di ogni finito, esso è
il toglimento e superamento sempre realizzantisi del finito.
Il finito, di per sé preso, ha un'esistenza puramente “ideale” o astratta, nel
senso che non esiste di per sé come opposto all'infinito o al di fuori di esso.
Allora, lo Spirito infinito hegeliano è come un circolo, in cui principio e fine
coincidono in maniera dinamica, è come un movimento a spirale in cui il
particolare è sempre posto e sempre dinamicamente risolto nell'universale, in
cui l'essere è sempre risolto nel dover essere e in cui il reale è sempre
risolto nel razionale.
Lo Spirito, pertanto, non è una ripetizione di un qualcosa di identico, privo di
reale diversificazione; esso è, invece, un'uguaglianza che continuamente si
ricostituisce, ossia una unità-che-si-fa (si costituisce) proprio attraverso il
molteplice delle diversificazioni. La quiete, in questa concezione, è pensabile
soltanto come l'intero complesso del movimento. La quiete senza movimento,
infatti, sarebbe morte, non vita.
Il permanere non è allora la fissità, che è sempre inerzia, ma è la verità del
dileguare.
Tutto ciò vale sia per l'Assoluto sia per ogni singolo momento della realtà (ossia vale per il reale nel suo intero così come per le sue fasi), perché l'Assoluto hegeliano ha una tale “compattezza” da esigere necessariamente la totalità dei momenti, nessuno escluso. Ogni momento del reale è momento indispensabile dell'Assoluto, perché Esso si fa e si realizza in ciascuno e in tutti questi momenti, in modo tale che ciascun momento diviene assolutamente necessario.
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A titolo di esempio (tratto dalla Fenomenologia), possiamo prendere in
considerazione un bocciolo, il relativo fiore e il frutto che ne deriva. Il
bocciolo, nello sviluppo della pianta, è una de-terminazione e quindi una
negazione; ma questa determinazione è tolta (ossia superata) dalla fioritura, la
quale però, mentre nega questa determinazione la “invera”, in
quanto il fiore è la positività del bocciolo. A sua volta, però, il fiore è una
de-terminazione, che pertanto implica una negatività, e che viene a sua volta
tolta e superata dal frutto; e, in questo processo, ogni momento è essenziale
all'altro e la vita della pianta è questo stesso processo che via via pone i
vari contenuti, ossia i vari momenti, e via via li supera.
Il reale è dunque un processo che si autocrea mentre percorre i suoi momenti
successivi, e in cui il positivo è appunto il movimento medesimo, che è un
progressivo autoarricchimento (da pianta a boccio, da boccio a fiore, da fiore a
frutto).
In secondo luogo, Hegel sottolinea che il movimento proprio dello
Spirito è quello per cui esso si riflette in se stesso; si tratta di una “circolarità” entro la quale Hegel distingue tre momenti:
- dell'essere “in sé”;
- dell'essere “altro” o “fuori di sé”;
- del “ritorno a sé” o dell'essere “in-sé e per-sé”.
Il “movimento” o il “processo” autoproduttivo dell'Assoluto ha quindi un ritmo
triadico, che si scandisce in un “in sé”, in un “fuori di sé”, in un “per sé” o
“in-sé e per-sé”.
Anche qui gli esempi portati da Hegel possono contribuire alla comprensione. Se
l'embrione è in sé l'uomo, non lo è tuttavia per sé; per sé lo è soltanto come
ragione dispiegata, e soltanto questa è la sua realtà effettuale. Il seme è in
sé la pianta, ma esso deve morire come seme, e quindi uscire fuori di sé, al
fine di poter diventare, dispiegandosi, la pianta per sé (o in sé e per sé).
Gli esempi si potrebbero moltiplicare a piacere, in quanto questo processo si
verifica in ogni momento del reale, ma ciò si verifica, a livello più alto,
anche per il reale visto come intero. Hegel, pertanto, parla dell'Assoluto anche
come di un circolo di circoli. Visto come intero, il “circolo” dell'Assoluto è
ritmato anch'esso nei tre momenti dell'in-sé, del fuori-di-sé e del ritorno-a-sé,
e questi tre momenti sono rispettivamente denominati “Idea”, “Natura”, “Spirito”.
L'Idea ha in sé il principio del proprio svolgimento e, in funzione di questo,
prima si obiettiva e si fa natura “alienandosi”, e poi, superando questa
alienazione, perviene a se medesima. Perciò Hegel può dire che lo Spirito è
l'Idea che si realizza e si contempla mediante il proprio sviluppo. La
filosofia, di conseguenza presenta la triplice distinzione di “logica”, “filosofia della natura”,
“filosofia dello Spirito”: la prima studia l'Idea in
sé, la seconda il suo “alienarsi” e la terza il momento del “ritorno a sé”.
Nella Filosofia del diritto Hegel ha dichiarato che “tutto ciò che è
reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale”. Ciò significa che l'idea
non è separabile dall'essere reale e dall'effettuale, ma che il reale o
l'effettuale è lo stesso svilupparsi dell'Idea, e viceversa. Qualunque cosa
esista o avvenga non è fuori dell'Assoluto, ma è un momento insopprimibile del
medesimo. Lo stesso significato ha l'affermazione che “essere e dover essere
coincidono”: ciò che è, è ciò che doveva essere, perché tutto ciò che è è
appunto momento dell'Idea e del suo svilupparsi (ciò che accade è sempre ciò che
meritava che accadesse).
È chiaro, pertanto, il senso del cosiddetto
“panlogismo” hegeliano, ossia l'affermazione che “tutto è pensiero”. Ciò non
significa che tutte le cose hanno un pensiero (o una coscienza), ma che tutto è
razionale in quanto è determinazione di pensiero.
Nella concezione hegeliana dello Spirito il “negativo” gioca un ruolo fondamentale, in quanto la vita dello Spirito non è quella che schiva la morte, ma quella che sopporta la morte e in essa si mantiene. Lo Spirito, per Hegel, guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell'assoluta devastazione. Esso è questa potenza e questa forza, appunto perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di esso. Tale affermarsi (per via negativa) è la “magica” forza che volge il negativo nell'essere.
La dialettica come legge suprema del reale e come procedimento del pensiero filosofico [ audio ]
La concezione hegeliana della realtà e dello Spirito nasce dalla visione
romantica e la porta a compimento. Lo “Streben” infinito (ossia il “tendere”)
romantico mediante il concetto hegeliano dello Spirito come
“movimento-del-riflettersi-su-se-stesso” viene risolto in senso positivo e inverato (sollevato a verità), perché viene riscattato della sua
indeterminatezza, venendo a coincidere con l'autorealizzarsi e l'autoconoscersi
dello Spirito medesimo.
Il Romanticismo, tuttavia, viene superato da Hegel soprattutto per quanto
concerne l'aspetto metodologico.
Hegel polemizza vivacemente contro la pretesa romantica di cogliere
immediatamente l'Assoluto. Al contrario, per Hegel, il coglimento della verità è
assolutamente condizionato dalla mediazione. Se, infatti, Hegel concede ai
Romantici che sia vero affermare la necessità di spingersi oltre i limiti propri
dell'attività dell'intelletto, perché esso, con i suoi procedimenti analitici o
con le sue tecniche deduttive, non sa andare oltre il finito e quindi non può
cogliere la realtà e il vero che sono l'infinito, tuttavia ritiene che
l'Infinito non si coglie col sentimento, con l'intuizione o con la fede, che
sono alcunché di non scientifico, ma che esso abbisogni di un “metodo” che renda
possibile la conoscenza dell'Assoluto, appunto in modo “scientifico”.
Il compito che Hegel assegna a se stesso nei confronti dei Romantici o dei precedenti Idealisti è quindi quello di operare l'innalzamento della filosofia a scienza mediante la scoperta e l'applicazione di un “nuovo metodo”. Questo metodo è la dialettica.
Nata nell'ambito della Scuola di Elea (soprattutto con Zenone), la dialettica
aveva raggiunto i suoi vertici con Platone. Dopo essere stata considerata lungo
tutta l'età tardoantica e medievale come l'arte dell'argomentazione probabile,
in età moderna Kant l'aveva ripresa nella sua Critica della Ragion pura,
ma l'aveva considerata esclusivamente come sviluppo sistematico di antinomie
destinate a restare irrisolte, e quindi l'aveva privata di valore conoscitivo.
La riscoperta romantica dei Greci permise il rilancio della dialettica come
suprema forma di conoscenza, come già Platone aveva fatto.
Tuttavia, fra la dialettica classica e quella hegeliana, nonostante le notevoli
convergenze, esiste ad un tempo una differenza essenziale. Gli antichi, per
Hegel, avrebbero compiuto un grande passo sulla via della scientificità,
elevando la loro comprensione dal particolare all'universale. Ciononostante, le
Idee platoniche e i concetti aristotelici erano rimasti, per così dire, bloccati
in una rigida quiete e quasi solidificati. Ora, siccome la realtà è divenire, è
movimento e dinamicità, è evidente che la dialettica, per essere strumento
adeguato ad essa, dovrà essere ad essa conforme e perciò riformata. Bisogna
pertanto imprimere movimento alle essenze e al pensiero universale già scoperto
dagli Antichi, in modo tale che, attraverso questo movimento, i puri pensieri
divengono concetti e soltanto allora siano ciò che essi veramente sono, vale a
dire automovimenti, circoli, essenze spirituali.
Il movimento delle essenze pure costituisce in generale la natura della
scientificità. Il cuore della dialettica diviene, così, il movimento, che è la
natura stessa dello Spirito da intendersi come il “permanere del dileguare”, il
cuore del reale.
Il movimento dialettico, stanti le ragioni illustrate sopra parlando dello
Spirito, non potrà che essere una sorta di movimento circolare o movimento a
spirale con ritmo triadico.
Tali momenti sono generalmente indicati coi termini “tesi”, “antitesi” e “sintesi”, ma in maniera semplificata, laddove Hegel preferisce un linguaggio
molto più complesso e più articolato:
- il primo momento è detto da Hegel lato astratto o intellettivo;
- il secondo momento è detto lato dialettico (in senso stretto) o negativamente
razionale;
- il terzo momento è detto lato speculativo o positivamente razionale.
Il momento astratto [ audio ]
L'intelletto è la facoltà che astrae concetti determinati e che si ferma alla
determinatezza dei medesimi.
Esso distingue, separa e de-finisce, irrigidendosi in queste separazioni e
de-finizioni, che ritiene in qualche modo definitive.
«L'attività dell'intelletto consiste in generale nel conferire al suo contenuto la forma dell'universalità e, precisamente l'universale posto dall'intelletto è un universale astratto che, come tale, viene tenuto saldamente contrapposto al particolare, ma, in tal modo, viene al tempo stesso anche determinato a sua volta come particolare. In quanto l'intelletto opera nei confronti dei suoi oggetti separando e astraendo, è il contrario dell'intuizione immediata e della sensazione, che, come tale, ha interamente a che fare con il concreto e rimane ferma ad esso».
La potenza astrattiva dell'intelletto è mirabile, ed Hegel non risparmia
elogi nei confronti dell'intelletto, in quanto è la potenza che scioglie e
distacca dal particolare ed eleva all'universale.
Quindi la filosofia non può fare a meno dell'intelletto e della sua opera, e
deve, anzi, incominciare proprio dal lavoro dell'intelletto. Tuttavia,
l'intelletto come tale fornisce una conoscenza inadeguata, che resta rinchiusa
nel finito (o, al massimo, si spinge al “falso infinito”), nell'astratto
irrigidito, e di conseguenza rimane vittima delle opposizioni che esso stesso
crea distinguendo e separando.
Il pensiero filosofico deve pertanto andare oltre i limiti dell'intelletto.
Il momento dialettico
L'andare oltre i limiti dell'intelletto è peculiarità della “Ragione”, la
quale ha un momento “negativo” e uno “positivo”. Il momento negativo, che è
quelle che Hegel chiama “dialettico” in senso stretto (dato che dialettica in
senso lato sono tutti e e tre i momenti), consiste nello smuovere la rigidità
dell'intelletto e dei suoi prodotti.
Il fluidificare i concetti dell'intelletto, tuttavia, comporta il venire in luce
di una serie di contraddizioni e di opposizioni di vario genere, che erano
soffocate nell'irrigidimento dell'intelletto. Ogni determinazione
dell'intelletto viene in tal modo a rovesciarsi nella determinazione contraria
(e viceversa). Il concetto di “uno”, ad esempio, non appena venga smosso dalla
sua astratta rigidezza, richiama quello di “molti” e mostra uno stretto rapporto
con esso (non possiamo pensare in maniera rigorosa e adeguata l'uno senza il
nesso che lo connette con i molti; altrettanto vale per i concetti di “simile” e
“dissimile”, di “uguale” e “disuguale”, di “particolare” e “universale”, di “finito” e
“infinito”, e così via).
Ogni concetto, pertanto, considerato dialetticamente, sembra addirittura “rovesciarsi” nel proprio opposto e quasi
“dissolversi” in esso.
«La dialettica è l'immanente oltrepassare, in cui l'unilateralità e la limitatezza delle determinazioni dell'intelletto si esprimono per ciò che sono, cioè come la loro negazione. Ogni finito è il superare se stesso. La dialettica è quindi l'anima motrice del procedere scientifico ed è il principio mediante il quale soltanto il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, così in esso in generale si trova la vera elevazione, non estrinseca, al di là del finito [cioè al di là di ogni singola determinazione del finito]».
Hegel rileva che il momento dialettico non è affatto una prerogativa del
pensiero filosofico, ma è presente in ogni momento della realtà; ogni finito,
infatti, invece di essere un termine fisso e ultimo, è piuttosto mutevole e
transeunte, e questo non è altro che la dialettica del finito, mediante la quale
il finito, in quanto in sé è l'altro da sé, viene spinto anche oltre quello che
è immediatamente e si rovescia nel suo opposto (il seme deve rovesciarsi nel suo
opposto per diventare germoglio, ossia deve morire come seme; il bambino deve
morire come tale e rovesciarsi nel suo opposto per diventare adulto, e così
via).
Il negativo che emerge nel momento dialettico consiste, in generale, nella “manchevolezza” che ciascuno degli opposti rivela quando si “misura” con l'altro.
Proprio tale “manchevolezza” si rivela come la molla che spinge, oltre
l'opposizione, ad una superiore sintesi, che è il momento speculativo, ossia il
momento culminante del processo dialettico.
Il momento speculativo [ audio ]
Il momento “speculativo” o “positivamente razionale” è quello che coglie l'unità delle determinazioni contrapposte, ossia il positivo che emerge dalla risoluzione degli opposti (la sintesi degli opposti); è ciò che contiene in sé, come superate, quelle opposizioni a cui si ferma l'intelletto (e quindi anche l'opposizione tra soggettivo e oggettivo) e che così mostra di essere come concreto e come totalità.
Lo “speculativo” è la riaffermazione del positivo che si realizza mediante la
negazione del negativo proprio delle antitesi dialettiche e quindi è una
elevazione del positivo delle tesi ad un più alto livello.
Se ad esempio consideriamo il puro stato di innocenza, esso rappresenta un
momento (tesi) che l'intelletto irrigidisce in sé e a cui contrappone come
antitesi la conoscenza e consapevolezza del male, che è negazione dello stato di
innocenza (la sua antitesi); ora, la virtù è esattamente la negazione del
negativo della antitesi (il male) e il recupero del positivo dell'innocenza ad
un più alto livello, che è reso possibile solo passando attraverso la negazione
della rigidità che le era propria, e quindi passando attraverso l'antitesi, che
in tal modo acquista valere positivo nella misura in cui spinge a togliere
quella rigidità.
Il momento speculativo è quindi un “superare” nel senso che è ad un tempo un “togliere e conservare”. Hegel
usa i termini diventati molto famosi e addirittura tecnici “aufheben” (superare)
e “Aufhebung” (superamento) per
esprimere il momento “speculativo”.
«Aufheben da un lato vuol dire togliere, negare, e in tal senso diciamo ad esempio che una legge, un'istituzione ecc. sono soppresse, superate (aufgehoben). D'altra parte però aufheben significa anche conservare, e in questo senso diciamo che qualcosa è ben conservato mediante l'espressione: wohl aufgehoben. Quest'ambivalenza dell'uso linguistico del termine, per cui la stessa parola ha un senso negativo ed uno positivo non deve essere considerata casuale, né addirittura se ne deve trarre motivo di accusa contro il linguaggio, come se fosse causa di confusione; al contrario, in quest'ambivalenza va riconosciuto lo spirito speculativo della nostra lingua che va al di là della semplice alternativa “o-o” propria dell'intelletto».
Lo speculativo costituisce il vertice cui perviene la ragione, la dimensione dell'Assoluto. Lo “speculativo” (che è il “razionale” al più alto livello) è paragonabile al “mistico”, vale a dire ciò che coglie l'Assoluto andando oltre i limiti dell'intelletto raziocinante.
«A proposito del significato dello speculativo si deve ancora ricordare che per speculativo va inteso quello che in altri tempi, soprattutto in relazione alla coscienza religiosa ed al suo contenuto, soleva essere definito “mistico”. Quando oggi si parla di mistico, in generale lo si fa nel senso di considerare questo termine come equivalente a misterioso o e incomprensibile, e questo misterioso e incomprensibile viene poi, a seconda della diversità della propria formazione e della propria indole, considerato dall'uno come l'autentico e il vero, e dall'altro come superstizione e illusione. A questo proposito va innanzitutto osservato che ciò che è mistico è certamente misterioso, ma soltanto per l'intelletto e semplicemente perché l'identità astratta è il principio dell'intelletto, mentre ciò che è mistico (come equivalente allo speculativo) è l'unità concreta di quelle determinazioni che per l'intelletto valgono soltanto in quanto separate e contrapposte [ ... ]. Ora, come abbiamo visto, il pensiero intellettivo astratto è cosi poco qualcosa di fisso e di ultimo che piuttosto si mostra come il continuo superare se stesso e rovesciarsi nel suo opposto; il razionale come tale invece consiste nel contenere gli opposti in sé come momenti ideali. Tutto il razionale quindi va definito al tempo stesso come mistico, il che significa soltanto che va oltre l'intelletto, ma per nulla affatto che debba essere considerato come inaccessibile e incomprensibile al pensiero».
Per conseguenza, secondo Hegel le proposizioni filosofiche debbono essere “proposizioni
speculative” e non giudizi formati da un soggetto cui viene attribuito un
predicato nel senso della logica tradizionale. La proposizione che esprime il
giudizio in senso tradizionale, infatti, esprime un tipo di giudizio operato
dall'intelletto, e quindi presuppone un soggetto già bello e fatto cui vengono
attribuiti estrinsecamente dei predicati come sue proprietà o accidenti, predicati
che sono essi pure già belli e fatti nella nostra rappresentazione (in base
agli schemi con cui l'intelletto procede). Questa operazione del congiungere un
predicato ad un soggetto è dunque “esteriore”.
Al contrario, la “proposizione
speculativa” dovrà essere tale da non presupporre la rigida distinzione di
soggetto e di predicato, e quindi dovrà essere, per così dire, plastica. La copula
“è”, allora, esprimerà il movimento dialettico con cui il soggetto trapassa nel
predicato (in un certo senso nella proposizione speculativa si toglie e si
supera la differenza fra soggetto e predicato).
Quando diciamo «il reale è razionale», ad esempio, in
senso speculativo, intendiamo non (come nella vecchia logica) che il
reale è il soggetto stabile consolidato (sostanza) e il razionale è il predicato
(ossia l'accidente di quella sostanza), ma, al contrario, che il razionale
esprime il senso del reale. Pertanto, il soggetto passa nel predicato e,
viceversa, il predicato nel soggetto. La proposizione in senso speculativo verrebbe quindi a dire che il
reale si risolve nel razionale e che il predicato viene ad essere, così, elemento
altrettanto essenziale della proposizione quanto lo è il soggetto.
Nella proposizione speculativa soggetto e predicato si scambiano
reciprocamente le parti in modo da costituire una identità dinamica; Hegel,
infatti, formula in modo completo la proposizione dicendo «ciò che è reale è razionale; ciò che è razionale è reale», dove ciò
che prima era soggetto diviene predicato e viceversa (la proposizione si
reduplica dialetticamente).
La proposizione della vecchia logica
resta rinchiusa nei limiti della rigidità e della finitudine dell'intelletto. La
“proposizione speculativa” è invece propria della ragione che supera
quella rigidità; essa è una proposizione che deve esprimere il movimento dialettico,
e quindi è strutturalmente dinamica, cosi come dinamica è la realtà che essa
esprime e così come dinamico è anche il pensiero che la formula.
la fenomenologia dello spirito
[ audio ]
La Ragione diviene speculazione filosofica perché si innalza a se stessa e
all'assoluto; per costruire l'assoluto nella coscienza bisogna negare e superare
le finitezza della coscienza, ed elevare l'io empirico a Io trascendentale, a
Ragione e Spirito.
Tutto questo, però, non può avvenire di colpo.
Hegel è convinto che il passaggio dalla coscienza comune alla coscienza
filosofica debba avvenire in modo mediato e non in modo romanticamente
immediato. La Fenomenologia dello Spirito è stata concepita e scritta da
Hegel proprio allo scopo di purificare la coscienza empirica ed innalzarla
mediatamente fino allo Spirito e al Sapere assoluto.
La filosofia, per Hegel, è conoscenza dell'Assoluto in due sensi:
a) ha l'Assoluto come oggetto,
b) ha l'Assoluto come soggetto,
in quanto essa è l'Assoluto-che-si-conosce (si autoconosce tramite il filosofo).
L'Assoluto, pertanto, non è solo il fine a cui tende la fenomenologia, ma è
anche il motore che eleva la coscienza. Nella Fenomenologia, perciò,
l'uomo risulta coinvolto non meno dell'Assoluto medesimo. Nell'orizzonte
hegeliano, infatti, non esiste il finito “staccato” dall'infinito, il
particolare “separato” dall'universale, e quindi l'uomo non è staccato e
separato dall'Assoluto, ma ne è parte strutturale e determinante, perché
l'Infinito hegeliano è l'infinito-che-si-fa-mediante-il-finito, e l'Assoluto è
l'essere che è eternamente rientrato in sé dall'essere altro.
Dunque, la “fenomenologia dello Spirito” è la via che conduce la coscienza
finita all'Assoluto infinito, la quale coincide con la via che l'Assoluto ha
percorso e percorre per giungere a Sé medesimo (il rientrare in sé
dall'essere-altro).
Il termine “fenomenologia” deriva dal greco phainómenon, che significa il manifestarsi o l'apparire, e quindi vuol dire scienza dell'apparire e del manifestarsi. Questo apparire è l'apparire dello Spirito a differenti tappe, che, a partire dalla coscienza empirica, via via sale a livelli sempre più alti. La fenomenologia è la scienza dello Spirito che appare nella forma dell'essere determinato e dell'essere molteplice e che in una serie successiva di “figure”, ossia di momenti dialetticamente collegati fra loro, giunge al Sapere assoluto.
Nella Fenomenologia dello Spirito vi sono come due piani che si
intersecano e si giustappongono:
1) c'è il piano costituito dalla via percorsa dallo Spirito per giungere a sé
attraverso tutte le vicende mondo, che per Hegel è la via attraverso cui lo
Spirito si è realizzato e si è conosciuto;
2) c'è anche il piano che è proprio del singolo individuo empirico che deve
ripercorrere quella stessa via e appropriarsela.
La storia della Coscienza dell'individuo non può pertanto essere altro che il
ripercorrere la Storia dello Spirito, come in un romanzo. Il singolo deve
ripercorrere i gradi di formazione dello Spirito universale, che sono le tappe
della storia della civiltà che la coscienza individuale deve riconoscere e
riguadagnare.
La trama e le “figure” della Fenomenologia [ audio ]
Lo Spirito che si determina e appare è la coscienza nel senso lato del
termine (cioè consapevolezza di qualcosa d'altro, interno o esterno che sia e di
qualunque genere sia). Coscienza indica sempre un rapporto determinato di un “io” e di un
“oggetto”, una relazione soggetto-oggetto. L'opposizione
soggetto-oggetto è, dunque distintiva della coscienza.
L'itinerario della Fenomenologia consiste nella progressiva mediazione di
questa opposizione fìno al suo totale superamento. Si può anche dire che lo
scopo che Hegel persegue nella Fenomenologia sia il toglimento della
scissione di coscienza e oggetto, e la dimostrazione che l'oggetto non è altro
che il “sé” della coscienza, cioè autocoscienza.
L'itinerario fenomenologico percorre le seguenti tappe:
1) Coscienza (in senso stretto),
2) Autocoscienza,
3) Ragione,
4) Spirito,
5) Religione,
6) Sapere assoluto.
La tesi di Hegel è che ogni coscienza è auto-coscienza (nel senso che
l'autocoscienza è la verità della coscienza); a sua volta che l'autocoscienza si
scopre come Ragione (nel senso che la Ragione è la verità dell'auto-coscienza);
infine, la Ragione si esprime pienamente come Spirito, che, tramite la
Religione, nel Sapere assoluto raggiunge il suo vertice.
Ognuna di queste tappe è costituita di differenti momenti o “figure”, ognuna
delle quali è presentata in modo tale da far vedere che la sua de-terminatezza è
inadeguata, e che, quindi, costringe al passaggio nel suo opposto; questo, poi,
supera il negativo del precedente, ma, a sua volta, sia pure a più alto livello,
si mostra esso pure de-terminato, e quindi inadeguato, e costringe a passare
oltre, e così via, secondo il ritmo dialettico. Hegel precisa che la molla di
questa dialettica fenomenologica sta nell'ineguaglianza o nel dislivello tra la
Coscienza o l'Io e il suo oggetto (che è il “negativo”) e nel superamento
progressivo di questa ineguaglianza.
Il momento culminante di questo processo coincide con il momento in cui lo
Spirito diventa oggetto a se stesso.
[ audio ]
1) La tappa iniziale è costituita dalla Coscienza, intesa in
senso gnoseologico (e quindi nella sua accezione più ristretta) che è quel tipo
di coscienza che guarda e conosce il mondo come altro da sé e indipendente da
sé.
Essa si dispiega nei tre momenti successivi, che portano ciascuno dialetticamente al
seguente.
a) Nel momento della sensazione il particolare appare come verità, ma nel
contempo esso appare come autocontradditorio, al punto che, per comprendere il
particolare, bisogna passare al generale.
b) Nel momento della percezione l'oggetto parrebbe essere la verità; ma
anch'esso è contraddittorio perché risulta uno e molti, ossia un oggetto con
molte proprietà ad un tempo.
c) Nel momento dell'intelletto l'oggetto appare come un “fenomeno”,
prodotto di forze e di leggi (categorie): e qui il sensibile si risolve nella
forza e nella legge, che sono appunto opera dell'intelletto; così, la coscienza
giunge a comprendere che l'oggetto dipende da qualcos'altro, ossia
dall'intelletto, e dunque (in qualche modo) da sé medesima (l'oggetto si risolve
nel soggetto).
In tal modo la coscienza diventa auto-coscienza (sapere di sé).
2) La seconda tappa dell'itinerario fenomenologico è costituita dalla
Autocoscienza che, attraverso i singoli momenti, impara a sapere che cosa
essa sia propriamente.
L'autocoscienza si manifesta, dapprima, come caratterizzata dall'appetito e dal
desiderio, ossia come tendenza ad appropriarsi delle cose e a far dipendere
tutto da sé, a togliere l'alterità che si presenta come vita indipendente.
Pertanto, l'autocoscienza esclude da sé astrattamente ogni alterità, considerando
l'altro come inessenziale e negativo.
Immediatamente, tuttavia, deve uscire da questa posizione
perché si scontra con altre autocoscienze, e di conseguenza nasce in maniera
necessaria la “lotta per la vita e per la morte”, attraverso la quale soltanto
l'autocoscienza si realizza (esce dall'astratta posizione dell'in sé e diviene
per sé). Per Hegel, l'individuo che non ha messo a repentaglio la vita,
può essere riconosciuto come persona (in astratto), ma non ha raggiunto la
verità di questo riconoscimento come riconoscimento di autocoscienza
indipendente. In effetti ogni autocoscienza ha bisogno
strutturalmente dell'altra e la lotta deve aver come esito non la morte di una
delle due, ma il soggiogamento di una all'altra.
a) Nasce, così, la distinzione tra padrone e servo, con la conseguente
“dialettica”, che Hegel
ha descritto in
pagine divenute famosissime, sulle quali soprattutto i marxisti hanno più volte
richiamato l'attenzione, fra le più profonde e più
belle della Fenomenologia.
Il “padrone” ha rischiato nella lotta il suo essere
fisico e nella vittoria è diventato, di conseguenza, padrone. Il “servo” ha
avuto timore della morte e, nella sconfitta, per aver salva la vita fisica, ha
accettato la condizione di schiavitù ed è diventato come una “cosa” dipendente
dal padrone. Il padrone usa il servo e lo fa lavorare per sé, limitandosi a “godere” delle cose che il servo fa per lui. Ma, in questo tipo di rapporto, si
sviluppa un movimento dialettico, che finirà col portare al rovesciamento delle
parti. Infatti il padrone finisce col diventare “dipendente dalle cose” da
indipendente quale era, perché disimpara a fare tutto ciò che fa il servo,
mentre il servo finisce per diventare indipendente dalle cose, facendole.
Inoltre il padrone non può realizzarsi pienamente come autocoscienza, perché lo
schiavo, ridotto a cosa, non può rappresentare il polo dialettico con cui il
padrone possa adeguatamente confrontarsi, invece lo schiavo ha nel padrone un
polo dialettico tale che gli permette di riconoscere in lui la coscienza, perché
la coscienza del padrone è quella che comanda e il servo fa quello che il
padrone comanda.
La potenza dialettica del lavoro è, così, perfettamente individuata da Hegel. La
coscienza servile, infatti, ritrova se medesima e si avvia a trovare il
significato proprio nel lavoro, dove sembrava che essa fosse un significato
estraneo.
L'autocoscienza giunge però a piena consapevolezza solo attraverso le tappe
successive.
b) Lo Stoicismo rappresenta la libertà della coscienza la
quale, riconoscendosi come pensiero, si pone al di sopra della signoria e della
schiavitù, che sono per gli Stoici situazioni del tutto “indifferenti” (l'essere
un padrone o un servo dal punto di vista morale non fa differenza). La coscienza
stoica, quindi, è negativa verso la relazione signoria-schiavitù: il suo operare
non è né quello del signore che trova la propria verità nel servo, né quello del
servo che trova la propria verità nella volontà del signore e nel servizio
resogli; anzi il suo operare è di essere libera sul trono (come Marco Aurelio) o
in catene (come Epitteto).
Lo Stoicismo, tuttavia, volendo liberare l'uomo da tutti gli impulsi e da tutte
le passioni, lo isola dalla vita e, di conseguenza, la sua libertà resta
astratta, si ritrae entro sé e non supera l'alterità.
c) Lo Scetticismo, la tappa successiva, trasforma il distacco dal
mondo in un atteggiamento di negazione del mondo. Lo Scetticismo, però, negando
tutto ciò che la coscienza prendeva per certo, svuota, per così dire,
l'Autocoscienza e la porta all'autocontraddizione e alla scissione tra sé e se
stessa: l'autocoscienza scettica nega le cose che è costretta a fare e, negando
la validità della percezione, percepisce, negando la validità del pensiero,
pensa, negando i valori dell'agire morale, agisce secondo conformità ad essi.
d) La caratteristica della scissione diventa, quindi, esplicita nella
Coscienza infelice, che è la coscienza di sé come “duplicata” o “sdoppiata”,
ancora del tutto impigliata nella contraddizione. I due lati dello sdoppiamento
sono l'aspetto immutabile e l'aspetto mutevole; il primo è fatto coincidere con
un Dio trascendente il secondo con l'uomo. La Coscienza infelice (che abita due
mondi) è il tratto che, secondo Hegel, caratterizza il Cristianesimo medievale.
Questa coscienza ha soltanto una coscienza infranta di se stessa, perché cerca
il suo oggetto in ciò che è in un al di là irraggiungibile; essa è sì collocata
in questo mondo, ma è tutta rivolta all'altro mondo, con la conseguenza che ogni
accostamento alla Divinità trascendente significa (per la Coscienza infelice)
una propria mortificazione e un sentire la propria nullità (per questo motivo le
pagine sulla Coscienza infelice sono state rese celebri dagli esistenzialisti,
che ne hanno fatto oggetto di profonde meditazioni; qualcuno ha addirittura
visto in questa “figura” la chiave per leggere l'intera Fenomenologia, in
quanto la scissione ne è la caratteristica essenziale).
[ audio ]
3) Il superamento del negativo che è proprio di questa scissione,
cioè, secondo Hegel, il riconoscimento che la trascendenza in cui la Coscienza
infelice vedeva la sola e vera realtà è non fuori bensì dentro di lei, porta ad
una superiore sintesi, la quale si realizza sul piano della Ragione, la
terza grande tappa dell'itinerario fenomenologico.
La Ragione nasce nel momento in cui la Coscienza acquisisce la certezza di
essere ogni realtà: questa la posizione propria dell'idealismo.
Le tappe fenomenologiche della Ragione (o dello Spirito che si manifesta come
Ragione) sono le progressive tappe dialettiche dell'acquisizione di questa
certezza di essere ogni cosa, ossia dell'acquisizione dell'unità di pensare ed
essere. Queste tappe ripetono, ad un livello più alto, come una spirale che sale
in un movimento che ritorna sempre su di sé secondo cerchi sempre più ampi, i
tre momenti precedentemente esaminati.
a) La Ragione che osserva la natura è costituita dalla scienza
della natura, la quale si muove fin da principio sul piano della consapevolezza
che il mondo è penetrabile dalla ragione, ossia è razionale (questa parte della
Fenomenologia è oggi assai obsoleta, dato che i parametri che Hegel usa
sono quelli della scienza del suo tempo, o addirittura di alcune pseudoscienze
come la fisiognomica di Lavater e la frenologia di Gall, che egli confuta, ma
senza che per noi tali confutazioni rivestano più alcun interesse). La tesi di
fondo di questo momento consiste nel fatto che la ragione assume un interesse
universale per il mondo, in quanto è certa di avere nel mondo la propria
presenzialità, o è certa che la presenzialità sia razionale. La ragione cerca il
suo Altro, sapendo che in ciò essa non possiederà nient'altro che se stessa;
essa cerca soltanto la sua propria infinità. Le conclusioni di Hegel sono che la
Ragione-che-osserva, dopo aver frugato in tutte le viscere delle cose, dopo
averne aperte tutte le vene aspettandosi quasi di veder sgorgare se stessa, non
otterrà alcun risultato, vedendosi costretta, eventualmente a ritrovarsi in una
realtà fisica.
b) La Ragione, per trovare se stessa nel suo altro deve pertanto superare
il momento “osservativo” e agire moralmente, ossia diventare Ragione che
agisce, ripetendo ad un più alto livello (cioè al livello della certezza di
essere ogni cosa) il momento dell'autocoscienza. L'itinerario della Ragione
attiva consiste nell'iniziare a realizzarsi, dapprima, come individuo per
elevarsi, alfine, all'universale, superando i limiti dell'individualità e
raggiungendo la superiore unione spirituale degli individui. Dapprima, infatti,
questa ragione attiva è consapevole di se stessa soltanto come di un individuo,
e, come individuo, deve promuovere e produrre la propria effettualità
nell'altro; ma poi, elevandosi alla coscienza all'universalità, l'individuo
diviene ragione universale. La Ragione deve giungere ad attuarsi come singola
autocoscienza, attraverso il riconoscimento dell'indipendenza delle altre
autocoscienze e dell'unità con esse.
Le tappe di questo processo sono indicate da Hegel nelle seguenti figure:
- dell'uomo che ricerca la felicità nel piacere e nel godimento, cioè l'uomo
tutto proteso al piacere mondano e all'affermazione di sé, il quale fa
esperienza dell'assoluta rigidità della singolarità che si polverizza
nell'altrettanto dura ma continua realtà effettuale. L'individuo che vive in
questa dimensione è destinato all'inesorabile fallimento, e fa l'amara
esperienza, nel voler godersi e prendersi la vita tutta intera fino in fondo,
che egli prendeva la vita, ma con ciò afferrava piuttosto la morte, perché in
fondo al piacere c'è il nulla;
- dell'uomo che segue la legge del cuore individuale, che al proprio piacere
sostituisce il benessere dell'umanità; tale legge del cuore è singolarità che
vuole essere immediatamente universale, ossia che manca del momento della
mediazione, e dunque è negativa. Perciò chi si appella alla legge del cuore è
destinato a scontrarsi sia con gli altri, che contrappongono leggi altrettanto
singole del loro cuore, sia con il corso del mondo, che lo smentisce e gli
mostra la negatività della sua posizione;
- della virtù e dell'uomo di virtù, una virtù che, però, è ancora priva di
realtà effettuale e quindi è ancora astratta. Essa pure si oppone al corso del
mondo, nel senso che lo vorrebbe riformare, e di conseguenza esperimenta il
proprio fallimento e la propria vanità.
c) La Ragione, sintesi dei due momenti precedenti, è data
dall'autocoscienza che supera la sua opposizione rispetto agli altri e al corso
del mondo, trovando in questi il proprio contenuto. Anche questa fase si
realizza in tre momenti successivi:
- quello rappresentato dall'uomo votato interamente all'opera che compie, che
finisce con lo scambiare il fare stesso con la cosa da fare e col perdersi
nell'operare puro che niente opera, mancando ancora una finalità;
- quello della ragione legislatrice sotto forma di imperativi universali
assoluti, che, tuttavia, in quanto genericamente universali e assoluti,
risultano pure astrazioni;
- quello della ragione esaminatrice o critica delle leggi, che trova la
sua massima espressione nel formalismo etico kantiano, risultato comunque
astratto.
Come momento conclusivo l'Autocoscienza scopre che la sostanza etica non è altro
se non ciò in cui essa è già immersa, è l'ethos, il costume della società
e del popolo in cui vive. Secondo Hegel, in un popolo libero, la ragione è
attuata in verità, è spirito presente e vivente, nel quale l'individuo non solo
trova espressa e data la sua destinazione (cioè la sua essenza universale e
singola), ma è esso stesso questa essenza ed ha anche raggiunto la sua
destinazione. Così, infatti, gli uomini più sapienti dell'antichità avevano
scoperto che sapienza e virtù consistono nel vivere conformemente ai costumi del
proprio popolo.
LA LOGICA
La nuova concezione della logica [ audio ]
Sul piano del sapere assoluto è tolta ogni differenza fra “certezza” (che implica sempre un elemento di soggettività) e “verità” (che è sempre oggettività), fra “sapere” come forma e “sapere” come contenuto. Il sapere assoluto è esattamente questa coincidenza assoluta di forma e di contenuto e la Logica inizia e si svolge interamente su questo piano definitivamente guadagnato dalla Fenomenologia.
La logica hegeliana, pertanto, diventa qualcosa di totalmente nuovo rispetto
alla logica della tradizione aristotelica; essa non è più un puro organon
(strumento) nel senso in cui lo era la logica formale. La logica di Hegel è,
invece, lo studio della struttura dell'intero, dell'impalcatura dell'intero.
Tali espressioni vanno però intese in un senso dinamico, vale a dire nel senso
che la logica è lo strutturarsi, o, meglio ancora, l'autostrutturarsi
dell'impalcatura dell'intero.
La tesi di fondo della logica hegeliana, è infatti che “pensare” e “essere”
coincidono e che, pertanto, la logica coincide con l'ontologia (ossia con la
metafisica). È il pensiero stesso che, nel suo procedere, realizza se medesimo e
il proprio contenuto (realizzando sé, realizza il proprio contenuto).
La logica hegeliana è, per così dire, una “filosofia prima” (in senso
aristotelico) e quindi una “teologia” o una grandiosa “metafisica”. Le diverse
categorie attraverso le quali essa via via si sviluppa, possono essere
riguardate come successive definizioni dell'Assoluto.
Dalla prima triade, che esprime l'identità in senso speculativo di identità e
non-identità, su su fino alle triadi più elevate, noi non abbiamo altro che
definizioni più determinate e più ricche dell'Assoluto medesimo. Ogni categoria
che si svolge triadicamente costituisce un anello via via più ampio della
spirale.
La logica hegeliana può essere rappresentata come un dire la medesima cosa in
maniera progressivamente più ricca (un dire, però, che coincide con un farsi
sempre più ricco della cosa stessa che viene detta).
Il termine “teologia” non viene usato a caso o per arbitrio. È Hegel stesso a
sostenere chiaramente che la logica è da intendersi come il sistema della
ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, come
essa è in sé e per sé senza velo. La logica è l'esposizione di Dio, come egli è
nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito
finito. Il Dio prima della creazione è in qualche modo un Dio minore rispetto
allo Spirito dopo la creazione; in quanto rappresenta il momento della “tesi”,
mentre il Dio dopo la creazione rappresenta il momento della “sintesi”. Il Dio
della Logica è l'elemento puro del pensiero (il Lógos)
che deve prima alienarsi nella natura per poi superare questa alienazione
(negandola) e diventare Spirito.
Il Lógos, ossia il Dio quale era nella sua
“eterna essenza” di cui parla la
logica hegeliana non corrisponde quindi ancora al Motore immobile di Aristotele,
che è Pensiero di pensiero, o al Nous (Cosmo noetico) plotiniano o agostiniano,
perché non è ancora il massimo di realtà: questo sarà solamente lo Spirito. La
logica, infatti, studia l'Idea “in sé”, mentre la filosofia dello Spirito studia
l'Idea “in sé e per sé”, ossia nel suo “ritornare a sé”, dopo essersi “alienata”
nella Natura.
Da ultimo resta da osservare che il Lógos della Logica, ossia l'Idea-in-sé,
non è da concepirsi come una sorta di realtà unica e compatta, ma è, a sua
volta, Sviluppo e Processo dialettico.
L'Idea “logica” è la totalità delle sue determinazioni concettuali nel loro
dispiegamento dialettico, ossia la totalità dei concetti determinati e dei nessi
che li legano e il loro passare dall'uno all'altro in cerchi sempre più alti
fino al disvelamento totale della verità che è appunto l'Idea nel suo complesso.
Le tre principali tappe dell'imponente dispiegamento concettuale della Logica
sono quelle che Hegel chiama “essere”, “essenza” e “concetto”.
[ audio ]
Nella logica dell'essere la dialettica procede in senso orizzontale, mediante
passaggi che portano da un termine ad un altro termine che assorbe in sé il
precedente; nella logica dell'essenza si ha invece come uno svilupparsi dei vari
termini, e come un “riflettersi” reciproco di un termine nell'altro; nella
logica del concetto, infine, ciascun termine prosegue nell'altro e in esso
continua fino ad identificarsi (dialetticamente) con esso.
Nella logica dell'essere, per così dire, il pensiero procede come su un piano o
su una superficie, nella logica dell'essenza il pensiero si approfondisce, ossia
cresce secondo la dimensione della profondità, nella logica del concetto il
pensiero raggiunge la compiutezza, ossia si attua secondo la dimensione della
circolarità.
La logica dell'essere [ audio ]
La logica dell'essere si
distingue in logica della qualità, della quantità e della misura.
a) La qualità è la determinazione concettuale più immediata che coincide con la
cosa; infatti, pensando una cosa, la cogliamo immediatamente come “un quale”;
b) nella quantità la qualità viene “negata” e considerata come indifferente (il
quanto prescinde dal quale);
c) la misura è la sintesi che toglie e mantiene i
due momenti precedenti, in quanto si pone come l'unità del qualitativo e del
quantitativo, ossia come “quanto qualitativo”, vale a dire come “regola” di ogni
operazione di misura (e la regola della misura è appunto sintesi quali-quantitativa).
Il cominciamento assoluto della Logica è costituito dalla
prima triade con cui inizia il movimento logico della prima categoria (ossia la
categoria della qualità) e costituisce il punto più discusso di tutta la logica
hegeliana.
Questa triade
è costituita da essere, non essere e divenire.
Per la sua interpretazione bisogna costantemente tenere conto del
fatto che in Hegel pensiero e realtà coincidono e che il movimento
essere/non-essere/divenire è lo stesso movimento e del reale e del pensiero.
Ecco come avviene questo passaggio triadico.
a) Se penso il puro essere (essere privo di qualunque
determinazione),
b) penso, al limite, qualcosa che non è nulla (di determinato). Il
vuoto pensare non è ancora un vero pensare.
c) Il pensiero è movimento, e come tale si effettua come divenire,
e il divenire suppone appunto continuo passaggio dall'essere al non-essere (e
viceversa). Il divenire, pertanto, è la verità del
pensare (se immobilizzassimo il pensiero, cesseremmo di pensare), così come è la
verità del reale.
Essere e nulla sono, così, “superati” nella loro sintesi, e solo in questa hanno
realtà (come già Eraclito, sia pure su un piano puramente oggettivistico, aveva
sostenuto: pánta réi).
Il divenire (ossia la
prima triade dialettica) sfocia nell'esserci, ossia nel a) qualcosa (di
determinato), che, come tale (nella misura cioè in cui ogni determinazione è
negazione), non è tutte le altre cose (tesi). b) In questo modo il “qualcosa”
richiama un qualcos'altro (antitesi). c) Si ha quindi (sintesi) un
divenire
a un livello più alto rispetto a quello della precedente triade, ossia un
divenire determinato e differenziato.
Il “qualcosa” rimanda, per sua stessa natura, consistente nell'essere
determinato, a “qualcos'altro”, ossia ad un altro “qualcosa”, e questo ad un
altro ancora, e così via, all'infinito.
L'infinito che in tal modo viene a
configurarsi non è se non una “fuga del finito”, che progredisce in linea retta
senza termine. Questo, secondo Hegel, non è affatto “il vero infinito”, ma
solamente “il falso infinito” proprio dell'intelletto, ed è quel tipo di
infinito al quale Fichte è rimasto ancorato.
Il “vero infinito”, invece, è l'infinito della ragione, il quale non è come una
retta che prosegue senza termine, ma come un circolo, o meglio come un processo
circolare che consiste nel giungere a sé nel proprio altro.
Il vero infinito è il processo dialettico, la negazione della negazione,
l'affermativo, l'essere che si è di nuovo ristabilito dalla limitatezza.
Un altro falso modo di intendere l'infinito è poi quello della vecchia
metafisica che lo concepisce come “al di là” e “al di sopra” del finito, ossia
come infinita sostanza trascendente.
Dunque, l'infinito non andrà inteso né come indefinito andare al di là del
finito (da finito a finito), né come trascendenza (l'infinito come totalmente
altro dal finito), ma come continuo superamento dialettico della finitudine. Per
Hegel il finito non ha in se stesso una vera realtà, pertanto il suo destino è
quello di farsi (dialetticamente) infinito. Il finito è negativo, è “mesto”, è
qualcosa di non-reale; l'Idealismo si fonda per intero su questa consapevolezza:
«La proposizione, che il finito è ideale [non ha realtà di sé], costituisce l'idealismo. L'idealismo della filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere il finito come un vero essere. Ogni filosofia è essenzialmente idealismo, o per lo meno ha l'idealismo per suo principio, e la questione non è allora se non di sapere fino a che punto cotesto principio vi si trovi effettivamente realizzato. La filosofia è idealismo com'è idealismo la religione. Perocché nemmeno la religione riconosce la finità come un vero essere, come un che di ultimo ed assoluto, o come un che di non posto, d'increato, di eterno. L'opposizione di filosofia idealistica e realistica è quindi priva di significato. Una filosofia che attribuisce all'esistere finito, come tale, un vero essere, un essere definitivo, assoluto, non meriterebbe il nome di filosofia ».
La logica dell'essenza [ audio ]
La logica dell'essenza procede a scavare in profondità, per trovare le radici
dell'essere. Anzi, è l'essere stesso (che coincide con il pensiero che lo pensa)
che si ripiega e si approfondisce riflettendo su se medesimo.
In tedesco essenza si dice Wesen, che deriva dal participio passato del
verbo essere gewesen e significa in un certo senso l'essersi riflesso e
ripiegato su di sé dell'essere medesimo, quasi condensandosi in sé.
La logica dell'essenza studia il pensiero che vuol vedere che cosa c'è sotto la
superficie dell'essere, e arrivare al fondo di esso.
Attraverso le tre
categorie principali:
- “riflessione”, il ritrovamento della ragione di esistenza nell'essenza (come
ragione formale e sufficiente),
- “fenomeno”, il relativizzarsi dell'esistenza rispetto al divenire,
- “realtà in atto”, come ciò che man mano diviene,
Hegel studia le tappe nelle quali il fondo dell'essere
(l'essenza), progressivamente, prima
- pare,
- appare
- si
manifesta pienamente.
In questa parte della logica
trovano posto le discussioni sul principio di identità e su quello di non-contraddizione, di
cui Aristotele aveva fornito la prima trattazione (e conseguentemente anche sul
leibniziano principio di ragion sufficiente).
Come sono stati formulati da
Aristotele e codificati dalla logica posteriore, secondo Hegel, questi principi
rappresentano il punto di vista dell'intelletto, astratto e unilaterale, ma non
il punto di vista della ragione, il solo punto di vista della verità.
Scrive Hegel:
«Il principio di identità suona [ ... ]: tutto è identico a sé: A = A; e, negativamente, A non può essere al tempo stesso A e non A. Questo principio non è una vera legge del pensiero, ma semplicemente la legge dell'intelletto astratto».
La vera identità, per Hegel, non deve essere intesa
nel modo sopra indicato, ma come identità che include le differenze. La
vera identità è quella che dialetticamente si realizza togliendo e mantenendo le
differenze, e che pertanto implica l'identità nella distinzione e la
distinzione nell'identità.
Per quanto poi riguarda la rilevanza della “contraddizione”, essa è per Hegel la
molla della dialettica, ed è, di conseguenza, assolutamente necessaria.
«Si dovrebbe dunque dire: tutte le cose sono in se stesse contraddittorie, e ciò propriamente, nel senso che questa proposizione esprima anzi, in confronto delle altre, la verità e l'essenza delle cose. [...] è uno dei pregiudizi fondamentali della vecchia logica e dell'ordinaria rappresentazione, che la contraddizione non sia una determinazione altrettanto essenziale ed immanente quanto l'identità. Invece, quando si dovesse parlare di un ordine di precedenza e si dovessero tener ferme le due determinazioni come separate, bisognerebbe prendere la contraddizione come la più profonda e la più essenziale. Poiché di fronte ad essa l'identità non è che la determinazione del semplice immediato, del morto essere; la contraddizione invece è la radice di ogni movimento e vitalità; qualcosa si muove, ha un istinto e un'attività, solo in quanto ha in se stesso una contraddizione».
Tutto questo può essere anche espresso dicendo che solo l'Infinito è l'incontraddittorio, e lo è in quanto perenne superamento della contraddittorietà del finito (l'incontraddittorio è solamente il dialettico “superamento” della contraddizione).
In questa parte della logica
si trova anche la difesa della prova ontologica (a priori) dell'esistenza di
Dio, presentata per la prima volta da S. Anselmo, più volte ripresa da diversi filosofi, e
poi criticata da Kant. Secondo Hegel,
le critiche di Kant non reggono, visto che, data la coincidenza di pensiero e
realtà, pensare Dio senza pensarlo esistente è strutturalmente impossibile.
Altre figure teoretiche trattate da Hegel in questa parte della Logica sono
quelle di sostanza-accidente, la cui “verità” Hegel vede rispecchiata nella
superiore coppia di concetti di causa-effetto, da cui egli muove per giungere
alle conclusioni ultime della logica dell'essenza. Ogni effetto, infatti, è a
sua volta causa, all'infinito. Questo infinito, però, cessa di essere semplice
progressione rettilinea, ripiegandosi su di sé circolarmente. Si ha, così,
l'azione reciproca in cui causa ed effetto, ossia attivo e passivo, si
identificano: l'azione reciproca implica l'autocausazione, e quindi la
“libertà”, in cui il soggetto coglie se stesso. Si passa, così, dall'essenza al
“concetto”.
La logica del concetto [ audio ]
Con la sezione dedicata alla logica del concetto si passa a quella che Hegel
ha chiamato “logica soggettiva”, rispetto alle prime due sezioni di “logica
oggettiva”.
”Soggettívo” significa qui in modo altamente positivo, nel senso, cioè, di
logica che introduce nella superiore sfera del Soggetto. Come la verità
dell'essere è l'essenza, così la verità dell'essenza è la ragione. Il Soggetto,
qui, scopre che la realtà è il Soggetto stesso (cosa, questa, già acquisita
nella Fenomenologia) e scopre anche il perché di ciò.
La logica hegeliana del concetto è la logica condotta dal punto di vista di
quello che Kant aveva intravisto con il suo “Io penso”, già sviluppata da Fichte,
e qui non solo ulteriormente approfondita, ma portata alle sue conseguenze
estreme.
Tutto viene visto, ora, come un autodíspiegarsí dialettico del Soggetto, che è
tutta la realtà.
“Concetto” significa qui, per Hegel, l'intero risultato del movimento logico fin
qui raggiunto. Il “concetto” sarebbe l'Io penso che si autocrea, e autocreandosi
crea tutte le determinazioni logiche. Non intende, cioè, quello che con
“concetto” si intende dal punto di vista dell'intelletto, bensì quello che si
intende dal superiore punto di vista della ragione. Siamo, dunque, su un piano
nuovo:
«Nella logica dell'intelletto si suole considerare il concetto come una semplice forma del pensiero, e, più precisamente, come una rappresentazione universale; a questa concezione subordinata del concetto si riferisce l'affermazione, tanto spesso ripetuta da parte di coloro che si richiamano alla sensazione e al cuore, che i concetti come tali sarebbero qualcosa di morto, di vuoto e di astratto. In effetti è vero proprio il contrario, ed il concetto è piuttosto il principio di ogni vita e quindi, al tempo stesso, l'assolutamente concreto. [...]. Per quanto riguarda poi l'opposizione tra forma e contenuto fatta valere nei confronti del concetto, come qualcosa che si pretende sia soltanto formale, tale opposizione, insieme a tutte le altre opposizioni fissate dalla riflessione, possiamo dire di averle già lasciate indietro in modo dialettico, cioè come superate da se stesse, ed è proprio il concetto che contiene in sé come superate tutte le determinazioni precedenti del pensiero. Certamente il concetto va considerato come forma, ma soltanto come forma infinita, creatrice, che racchiude in sé la ricchezza di ogni contenuto e, al tempo stesso, la licenzia da se stessa. Così pure il concetto può certamente essere chiamato astratto, se per concreto si intende soltanto ciò che è sensibilmente concreto, in generale, ciò che può essere percepito immediatamente; ma il concetto come tale non si lascia prendere con le mani, quando si tratta del concetto, il vedere e il sentire devono ormai esser rimasti indietro. Ugualmente il concetto [...] è, al tempo stesso, l'assolutamente concreto, e, precisamente, lo è in quanto contiene in sé in unità ideale l'essere e l'essenza, e quindi l'intera ricchezza di queste due sfere. [...] l'assoluto è il concetto. Certo in questo caso bisogna intendere il concetto in un senso diverso e più alto di quello proprio della logica dell'intelletto, secondo la quale il concetto viene considerato soltanto come una forma del nostro pensiero soggettivo, in sé priva di contenuto».
Il concetto è ciò che forma e crea, è assoluta negatività, nel senso che è negazione di ogni determinazione
e di ogni finitudine e superamento delle medesime (è quindi assoluta
negatività, che si risolve in assoluta positività), è il nome più ricco e più adeguato (fino a questo momento
del processo logico) per esprimere l'Assoluto.
È evidente che, mutando in maniera così radicale il significato del
concetto sul piano della Ragione, anche il “giudizio” e il “sillogismo”
(strettamente legati al concetto) dovranno acquistare essi pure un senso
completamente nuovo.
Nel contesto della logica hegeliana della Ragione, infatti, il “giudizio” coincide con il significato
della “proposizione speculativa”, in cui l'è della copula rappresenta l'identità dinamica di soggetto e
predicato, mentre il termine più importante diventa il predicato (e non più il
soggetto) della proposizione, perché esprime l'universale, mentre
il soggetto esprime l'individuale. Il giudizio esprime, dunque, l'individuale nel suo farsi universale.
Il sillogismo, poi, rappresenta l'unità dei tre momenti:
l'universalità, la particolarità (o specificità) e l'individualità con il
preciso nesso che li lega. Il sillogismo (nel nuovo uovo senso hegeliano) è
l'universale che, tramite il particolare (la specie), si individualizza, ma
anche,
viceversa, l'individuo che, tramite il particolare (la specie), si
universalizza. Per esempio l'animale (= universale) tramite la specie uomo (=
particolare) si individualizza (per esempio in Carlo, in Luigi, ecc.); e,
viceversa, ogni singolo uomo (= individuo) attraverso la specie uomo (=
particolare) tende all'universale espresso dall'animale.
Hegel, quindi, sostiene la tesi (assolutamente paradossale per la vecchia
logica, ma ovvia nel contesto della nuova) secondo cui ogni cosa è un
sillogismo. Il suo stesso sistema, d'altronde, è concepito come un gigantesco
sillogismo in cui i tre momenti, l'Idea logica, la Natura e lo Spirito, sono i
tre termini del sillogismo medesimo, che dinamicamente si mediano.
Grandiosi sillogismi, poi, sono per Hegel i dogmi centrali del Cristianesimo, in
cui è espressa l'idea dell'universale che mediatamente si lega all'individuale.
A conclusione della logica, dunque, possiamo affermare che l'Idea è il Concetto che si è autorealizzato pienamente e quindi la totalità dei momenti di questa realizzazione, vista come processo e risultato dialettico. L'Idea è la totalità delle categorie della logica e dei loro nessi dispiegati.
la filosofia della natura
[ audio ]
La logica è la
rappresentazione di Dio, com'egli è nella sua eterna essenza prima della
creazione della natura e di uno spirito finito.
Quello che ora manca
è, appunto, la "creazione della natura" e poi di uno "spirito finito".
Il passaggio dell'Idea alla Natura può essere considerato il punto più
problematico della filosofia di Hegel, visto che nel sistema di Hegel tutto è Idea e nell'Idea, e quindi
la creazione della natura non può voler dire il sopravvenire di qualcosa che sia
altro dall'Idea stessa e separato dall'Idea.
La ragione di questa difficoltà
dipende soprattutto dal fatto che in questa fase del sistema confluiscono una serie di
suggestioni teoretiche di diversa provenienza che Hegel fatica a dominare e che mettono capo a
numerose aporie, che lo schema dialettico in parte riesce a unificare, ma non
riesce a dominare e risolvere.
Gioca in primo luogo la suggestione della processione dialettica del Neoplatonismo,
come manenza (moné), uscita (próodos) e ritorno (epistrophé).
A ciò si aggiungono i dogmi della teologia cristiana della creazione,
dell'incarnazione, passione, morte e risurrezione di Cristo, che Hegel intende
come verità razionali cosmiche.
Lo Spirito deve affrontare la "morte" per conservare attraverso la morte il suo
essere, per cui la Natura sarebbe il momento della "morte" (dell'Idea), che
viene poi superato in una vita più alta (1'Idea che "risorge" è lo Spirito).
Infine, incide la concezione tipicamente romantica del farsi estraneo dello
Spirito a sé medesimo come una sorta di auto-illusione, allo scopo di prendere
consapevolezza di sé e di realizzarsi pienamente.
La Natura sarebbe, dunque, il momento della auto-illusione dell'Idea.
Lo schema dialettico cerca di ridurre ad unità queste suggestioni, intendendo
l'Idea come tesi, la Natura come antitesi (secondo momento negativo-dialettico,
autonegazione dell'Idea), da cui dovrà poi scaturire il terzo momento della
sintesi (momento positivo-dialettico o speculativo), ossia lo Spirito, in cui,
attraverso la negazione della negazione, si realizza il momento della massima
positività.
Il superamento della visione rinascimentale e romantica della Natura e i suoi gradi dialettici [ audio ]
La natura per Hegel non è da divinizzare; non bisogna considerare sole, luna,
animali e piante ecc., quali opere di Dio, a preferenza dei fatti e delle cose
umane.
La natura, considerata in sé, nell'idea, è divina, ma nel modo in cui essa è, il
suo essere non risponde al suo concetto: essa è, anzi, la contraddizione
insoluta.
Il suo carattere proprio è di esser posta come negazione, inadeguata a sé
stessa; nella natura, infatti, ogni forma manca per sé del concetto di sé stessa.
Distinguiamo:
- la "meccanica", che studia la corporeità universale, l'esteriorità spaziale;
- la "fisica", in cui, soprattutto con la luce, si ha un superamento dei
caratteri propri della massa, puramente meccanica, la cui rigidità si scioglie
via via nei processi magnetici, elettrici e chimici;
- la "organica", in cui la
natura si interiorizza e nasce la vita.
Hegel dimostra di avere precisa conoscenza delle
dottrine scientifiche dei suoi tempi, ma stupisce la dose di arbitrarietà con cui
tratta questo materiale, ritornando addirittura a metodi e motivi di indagine pregalileiani e
prenewtoniani.
Comunque sia,
la Natura è concepita da lui come un sistema ascensivo di gradi, che sono fissi
e stabili, mentre si evolve lo Spirito che sottosta a queste forme.
Hegel nutriva una profonda avversione per le dottrine newtoniane; già nel
periodo giovanile,
nella dissertazione De orbitis planetarum (Le orbite dei pianeti) con cui aveva conseguito la docenza,
ironizzava sulle calamità che la mela aveva procurato all'uomo: il peccato di Adamo ed Eva, la guerra
di Troia (col famoso pomo della discordia) e la legge di gravitazione (che, come
è noto, si dice che Newton avesse scoperto in conseguenza della caduta di una
mela sulla sua testa, mentre sedeva sotto un albero).
La filosofia dello Spirito
[ audio ]
Lo Spirito è l'Idea che "ritorna a sé" dalla sua alterítà, è l'idea in
sé e per sé.
Nello Spirito soprattutto si rende manifesta la "circolarità" dialettica del
sistema. Come momento dialetticamente conclusivo, ossia come risultato del
processo (dell'auto-processo) lo Spirito è la più alta manifestazione
dell'Assoluto.
L'assoluto è lo Spirito, esso è il corrispettivo filosofico di ciò che nella
religione corrisponde a "Dio": è l'autorealizzarsi e l'autoconoscersi di Dio.
Mentre l'Idea è il mero concetto di sapere e quindi la "possibilità logica"
dello Spirito, lo Spirito è l'attualizzazione o la realizzazione di questa
possibilità. Lo Spirito è la vivente attualizzazione e autoconoscenza dell'Idea.
In tal senso lo Spirito è ultimo solamente per il nostro modo di esprimerci, ma
in effetti è il primo, e, in questa ottica, Idea logica e Natura vanno visti
come ideali momenti dello Spirito, non separati e non scissi, ma come poli
dialettici di cui lo Spirito è la sintesi vivente.
Anche la filosofia dello Spirito è strutturata in maniera triadica; distingue
infatti tre momenti:
- un primo in cui lo Spirito è sulla via della propria autorealizzazione e
autoconoscenza (Spirito soggettivo),
- un secondo in cui lo Spirito si attua da sé pienamente come libertà (Spirito
oggettivo),
- un terzo in cui lo Spirito si autoconosce pienamente e si sa come principio e
come verità di tutto, ed è come Dio nella sua pienezza di vita e di conoscenza
(Spirito Assoluto).
Lo Spirito soggettivo [ audio ]
L'Idea che ritorna in sé è dunque l'emergere dello Spirito, che dapprima si
manifesta ancora legato alla finitudine.
Non è, tuttavia, lo Spirito che si manifesta nel finito, ma, viceversa, è la
finitudine che appare dentro lo Spirito. Riprendendo in qualche modo Fichte,
Hegel sostiene che si tratti di un'apparenza che lo spirito pone davanti a sé
come una barriera, per potere, mediante il suo superamento, possedere e sapere
per sé la libertà come sua essenza.
Le tappe dello Spirito soggettivo sono:
- l'antropologia, che è studio dell'anima, considerata nella sua fase aurorale
come il sonno dello spirito o come l'aristotelico "intelletto potenziale",
- la
fenomenologia, che riprende alcune tematiche dell'opera omonima e che
porta dalla coscienza attraverso l'autocoscienza alla ragione (la quale, come
consapevolezza di essere tutte le cose, è Spirito, sia pure non ancora dispiegato
interamente),
- la psicologia, che studia lo spirito teoretico (che conosce gli oggetti come
altro da sé), lo spirito pratico (come attività che modifica gli
oggetti), lo spirito libero come sintesi dei primi due momenti.
Lo Spirito soggettivo è la parte che ad Hegel interessa di meno rispetto alle due che seguono. Tuttavia, vale la pena di rilevare che Hegel rivaluta il trattato Sull'anima di Aristotele, affermando che, circa le tematiche concernenti l'anima, esso costituisce ancora l'opera migliore e forse l'unica d'interesse speculativo. Perciò Hegel riprende molti temi di Aristotele inserendoli nella sua trama "speculativa".
A proposito della sensazione, che Hegel intende come una interiorizzazione della corporeità, ritiene che l'adagio aristotelico-scolastico tradizionale secondo cui nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu (nulla alberga nell'intelletto senza essere stato primariamente nel senso) è vero solo a metà, in quanto la filosofia speculativa (l'idealismo) afferma che, viceversa nihil est in sensu quod prius non fuerit in intellectu (nulla alberga nel senso senza essere stato primariamente nell'intelletto), visto che è lo Spirito la causa del sensibile e della sensazione.
Lo Spirito soggettivo, comunque, al di là dell'interesse hegeliano per i suoi
momenti, termina con l'emergere della libertà.
Ora, nota lo Hegel, l'idea dell'uomo come realmente libero non c'è stata né in
Oriente né in Grecia né a Roma, ma si è venuta manifestando nel mondo per opera
del Cristianesimo, per il quale l'individuo come tale ha valore infinito, ed
essendo oggetto e scopo dell'amore di Dio, è destinato ad avere relazione
assoluta con Dio come Spirito, e far sì che questo spirito dimori in lui,
destinato com'è alla somma libertà.
Il Cristiano, però, sa che lo Spirito divino entra nella sfera dell'esistenza
mondana. Qui, dunque, si colloca il passaggio dallo Spirito soggettivo a quello
oggettivo, che è appunto lo Spirito che entra nel mondo come sostanza del
medesimo, e che Hegel interpreta non più in chiave religiosa semplicemente, ma
in chiave filosofico-concettuale.
Lo Spirito oggettivo [ audio ]
Lo Spirito oggettivo si realizza nelle istituzioni della famiglia, nelle
consuetudini e nei precetti della società, nelle leggi dello Stato; è l'ethos
che alimenta la vita etico-politica, è la storia "che si fa".
Lo Spirito oggettivo è un elemento della vita in cui noi tutti ci troviamo e al
di fuori del quale non abbiamo alcuna esistenza, è, per così dire, l'aria
spirituale in cui respiriamo.
Si tratta dell'atmosfera in cui nascita, educazione e circostanza storica ci
pongono e ci lasciano crescere; è quel qualcosa di universale che nella cultura,
nei costumi, nella lingua, nelle forme del pensiero, nei pregiudizi e nelle
valutazioni predominanti conosciamo come potenza superindividuale e tuttavia
reale, nei cui confronti il singolo si presenta quasi senza potere e senza
difesa, poiché penetra, porta e caratterizza la sua essenza come quella di tutti
gli altri. Questo qualcosa è un medium attraverso cui vediamo,
comprendiamo, giudichiamo, utilizziamo, trattiamo ogni cosa. Tuttavia, ben più
che un medium, è qualcosa che dà struttura, forma e guida, esistendo in
noi stessi.
Si parla, per esempio, di un "sapere del nostro tempo". A questo sapere il
singolo partecipa, imparando vi si orienta, ma tale sapere non si risolve mai
nel sapere del singolo. Innumerevoli intelligenze vi collaborano, ma nessuna lo
dice certamente suo. Tuttavia è qualcosa di totale, di comprensivo, che si
sviluppa unitariamente, una realtà con ordinamento e leggi proprie. Non ha
spazio in nessuna coscienza singola; tuttavia si tratta di un elemento
specificamente spirituale, essenzialmente differente da ogni dimensione cosale,
materiale. E con ciò è assolutamente reale, dotato di tutto quel che appartiene
alla realtà: nascita nel tempo, crescita, sviluppo, culmine e decadenza. Gli
individui sono i suoi portatori. Ma la sua realtà non è quella degli individui,
come la sua vita e la sua durata sono diverse dalla loro vita e durata. Continua
a sussistere nell'avvicendarsi degli individui, è una realtà spirituale, un
essere sui generis.
Lo Spirito oggettivo è il momento della realizzazione della libertà in un
ordine intersoggettivo, che via via si allarga in gradi e in momenti dialettici
successivi che Hegel indica:
- nel "Diritto",
- nella "Moralità",
- nell"'Eticità".
[ audio ]
La volontà libera (culmine dello Spirito soggettivo), dice Hegel, per non
rimanere puramente astratta, deve darsi un'esistenza, ossia concretizzarsi, e la
materia più immediata in cui ciò avviene è costituita dalle cose e dagli oggetti
esterni.
Nasce in questo modo il diritto e ciò che ad esso è connesso.
Questa prima maniera della libertà è quella che conosciamo come proprietà, la
sfera del diritto formale e astratto in cui rientrano non meno la proprietà nel
suo aspetto mediato, in quanto contratto, e il diritto nella sua
violazione, in quanto delitto e pena.
La libertà, considerata a questo livello, è ciò che chiamiamo persona (in senso
giuridico), cioè il soggetto che è libero per sé stesso e che si dà un'esistenza
nelle cose.
Questa forma di esistenza immediata, tuttavia, è inadeguata alla libertà,
appunto in quanto immediata ed esteriore. Questa immediatezza ed esteriorità va
pertanto negata e superata, ossia mediata e interiorizzata
A questo punto nasce la moralità, il secondo momento dello Spirito
oggettivo.
Nella moralità, spiega Hegel, il soggetto non è più semplicemente libero in una
cosa (immediata), ma è tale anche eliminata l'immediatezza (cioè la cosa), cioè
è tale in se stesso, nella sfera soggettiva.
In questa sfera le cose esteriori sono poste come indifferenti e ciò che conta è
il giudizio morale, la volontà, la forma di universalità cui è ispirata la
regola dell'agire. È, questa, la sfera della volontà soggettiva, di cui è
esempio paradigmatico l'etica kantiana, alla quale però Hegel rimprovera di
essere unilaterale, perché rinchiude l'uomo nel suo "interno". Questa
unilateralità va dunque tolta e superata mediante la realizzazione esterna e
concreta della volontà.
Entriamo, così, nel momento della eticità, che è la sintesi dei due
precedenti momenti.
È il momento in cui il volere del soggetto si realizza volendo fini concreti,
operando in tal modo la mediazione di soggettivo e di oggettivo.
Occorre notare che, mentre fino ad Hegel i termini morale ed etica sono
sinonimi, distinguibili soltanto filologicamente a partire dalle loro radici
latina e greca (mos ed éthos che significano "costume"), con Hegel
acquisiscono significati differenti, relativi, appunto, alla sfera
dell'interiorità virtuosa e alla realizzazione concreta nella realtà.
L'eticità si realizza a sua volta dialetticamente nei tre momenti
- della "famiglia",
- della "società"
- dello "Stato".
L'eticità è l'unità del volere nel suo concetto e del volere del singolo, cioè
del soggetto.
La sua prima esistenza è qualcosa di naturale, nella forma
dell'amore e del sentimento, vale a dire la famiglia; in essa l'individuo
annulla la propria ritrosa personalità, e si trova, con la sua coscienza, in una
totalità.
Al grado seguente, però, avviene la perdita dell'eticità particolare, e
dell'unità sostanziale: la famiglia si disgrega, e i componenti si comportano
l'un verso l'altro come indipendenti, poiché in essa li lega soltanto il bisogno
reciproco. È questo il grado della società civile, frequentemente
scambiato con lo Stato.
Lo Stato è il livello di eticità nel quale
ha luogo la prodigiosa unione dell'autonomia dell'individualità e della
sostanzialità universale. Quindi il diritto dello Stato è più alto degli altri
gradi, è la libertà nella sua concreta formazione, la quale cede, ancora,
soltanto alla suprema assoluta verità dello spirito universale.
I fini che la
volontà libera vuole nella fase dell'eticità sono, dunque, i fini concreti che
la vivente realtà della famiglia pone, che la società con le sue molteplici
esigenze indica, che lo Stato con le sue leggi vuole.
[ audio ]
Mediante lo Stato e attraverso la
dialettica che si istituisce fra gli Stati si realizza la storia, che per Hegel
è una vera e propria teofania, ossia la manifestazione-realizzazione dello
Spirito oggettivo.
Lo Stato, come sintesi di diritto e di moralità e come inveramento
della famiglia e della società è l'Idea stessa che si manifesta nel mondo; è,
dice addirittura Hegel, «l'ingresso di Dio nel mondo», un «Dio reale»:
Lo Stato, in sé e per sé, è la totalità etica, la realizzazione della libertà; ed è finalità assoluta della ragione che la libertà sia reale. Lo Stato è lo Spirito che sta nel mondo, e si realizza nel medesimo con coscienza, mentre, nella natura, esso si realizza soltanto in quanto altro da sé, in quanto spirito sopito. Solamente in quanto esistente nella coscienza, in quanto consapevole di se stesso, come oggetto che esiste, esso è lo Stato. Nella libertà non deve procedersi dall'individualità, dall'autocoscienza singola, ma soltanto dall'essenza dell'autocoscienza; poiché, ne possa essere consapevole o meno l'uomo, quest'essenza si realizza come potere autonomo, nel quale i singoli individui sono soltanto momenti. L'ingresso di Dio nel mondo è lo Stato; il suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza come Volontà. Nell'idea dello Stato, non devono tenersi presenti Stati particolari, istituzioni particolari; anzi, si deve considerare per sé l'idea, questo Dio reale. Ogni Stato, lo si dichiari anche cattivo secondo i principi che si professano, si riconosca in esso questo o quel difetto, – ha sempre in sé, specialmente se appartiene alla nostra epoca civile, i momenti essenziali della sua esistenza. Ma, poiché è molto più facile scoprire un difetto, che intendere l'affermativo, si cade facilmente nell'errore di dimenticare, al disopra dei suoi aspetti singoli, l'organismo interiore dello Stato stesso. Lo Stato non è un'opera d'arte; esso sta nel mondo, e quindi, nella cerchia dell'arbitrio, dell'accidentalità e dell'errore; un comportamento cattivo lo può svisare da molti lati. Ma l'uomo più odioso, il reo, un ammalato e uno storpio, sono sempre ancora uomini viventi; l'affermativo, la vita, esiste, malgrado il difetto; e questo affermativo importa, qui.
In questa concezione lo Stato non esiste per il cittadino, ma, al contrario,
è il cittadino che esiste per lo Stato: il cittadino esiste solo in quanto
membro dello Stato.
Se lo Stato è la Ragione che fa il suo ingresso nel mondo, la Storia, che nasce
dalla dialettica degli Stati, è nient'altro che il dispiegarsi di questa stessa
Ragione. La storia è il dispiegarsi dello Spirito nel tempo, nello stesso modo
in cui la Natura è il dispiegarsi dell'Idea nello spazio.
La Storia è il "giudizio" del mondo e la filosofia della storia è la conoscenza
e la rivelazione concettuale di questa razionalità e di questo giudizio.
La filosofia della storia è la visione della storia dal punto di vista della
Ragione di contro a quella tradizionale che era la visione propria
dell'intelletto. La storia del mondo si svolge secondo un "piano razionale" (che
già la religione riconosce col nome di Provvidenza), e la filosofia della storia
è la conoscenza scientifica di questo piano.
La filosofia della storia diventa, di conseguenza, una "teodicea", ossia una
conoscenza della giustizia divina e una giustificazione di ciò che appare come
male di fronte all'assoluto potere della Ragione.
Ciò che appare male, secondo Hegel, è non altro che quel momento negativo che è
la molla della dialettica. La morte, come tramonto delle cose particolari, non è
che il continuo farsi dell'universale. La stessa guerra è il "momento
dell'antitesi" che muove la storia, la quale, senza guerre, registra solo pagine
bianche. Anzi:
Dalle guerre, risultano non soltanto rafforzati i popoli; ma nazioni, che sono in discordia in sé, acquistano, mediante guerre all'esterno, pace all'interno. Certamente, dalla guerra proviene la malsicurezza nella proprietà, ma questa malsicurezza delle cose è null'altro che il movimento, il quale è necessario.
Hegel non si arresta di fronte a nulla.
D'altronde, una volta affermato che la storia è lo spiegarsi della natura di Dio
in un determinato elemento particolare, tutto segue di conseguenza. Non a caso,
proprio nella Filosofia del diritto si legge l'affermazione «tutto ciò che è
reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale».
Come nella Natura, per chi afferma l'identità di Dio e Natura (Deus sive natura), ogni cosa è necessaria e ha un senso assoluto, così per Hegel, per chi pensa Deus sive historia (l'identità di Dio e storia) tutto è necessario e ogni evento ha un senso assoluto.
Lo Spirito oggettivo si particolarizza nella storia come "Spirito del popolo" (Volksgeist), quale via via si manifesta nei vari popoli. Lo spirito del popolo, tuttavia, è una manifestazione dello "Spirito del mondo" (Weltgeist):
Lo spirito del popolo è essenzialmente uno spirito particolare, ma nello stesso tempo è nient'altro che l'assoluto spirito universale – giacché questo è Uno. Il Weltgeist è lo spirito del mondo, come si esplica nella coscienza umana; gli uomini stanno ad esso come le realtà singole stanno alla totalità che li sostanzia. E questo spirito del mondo è conforme allo spirito divino, che è lo spirito assoluto. In quanto Dio è onnipresente, è presso ogni uomo, appare nella coscienza di ognuno; e ciò è lo spirito del mondo. Il particolare spirito di un particolare popolo può perire: ma esso è un anello nella catena costituita dal corso dello spirito del mondo, e questo spirito universale non può perire. Lo spirito di un popolo è così lo spirito universale in una forma particolare.
Momenti particolari dello Spirito del mondo sono anche gli "individui cosmico-storici", che sono i grandi eroi, capaci di cogliere ciò di cui è giunta l'ora e di portarlo a compimento. Ciò che essi fanno non lo traggono dal proprio intimo, ma dallo Spirito che attraverso di loro tesse i suoi disegni:
Questo è il vero rapporto dell'individuo con la sua sostanza universale. Essa è ciò da cui tutto procede, l'unico fine, l'unica forza: quel che è voluto unicamente da tali individui, quel che in essi cerca la sua soddisfazione e si realizza. Appunto per ciò essi hanno potere nel mondo; e solo in quanto essi son coloro che hanno per fine ciò che è adeguato al fine dello spirito in sé e per sé, sta dalla loro parte il diritto assoluto, che è peraltro un diritto di natura affatto speciale.
Tuttavia,
figurazioni come queste sembrano grandiose, ma sono meschine. Uomini di tal
genere (che un malsano gusto romantico ha idoleggiato) sono piuttosto fantocci
dell'Assoluto, che non uomini vivi e veri. Dopo che lo Spirito se ne è servito
per i suoi scopi, li abbandona, e allora diventano nulla, come Napoleone che,
dopo la sconfitta, sopravvisse solo per languire nella piccola isola d'Elba e
per morire nella lontana Sant'Elena.
Le meschine passioni che muovono gli uomini e i loro fini particolari, poi, le
accidentalità si giustificano nel fatto che il particolare "si spossa" e si
esaurisce già nella sua lotta con l'altro particolare, dato che il particolare è
sempre conflittuale. Esso va in rovina, e dalla sua rovina emerge imperturbato
l'universale.
L'universale che fa agire a proprio vantaggio le passioni irrazionali e il
particolare è "l'astuzia della Ragione":
Si può chiamare astuzia della ragione il fatto che quest'ultima faccia agire per sé le passioni, e che quanto le serve di strumento per tradursi in esistenza abbia da ciò scapito e danno. Esso è infatti il fenomeno, di cui una parte è nulla e una parte affermativa. Il particolare è per lo più troppo poco importante a paragone dell'universale: gli individui vengono sacrificati e abbandonati al loro destino. L'idea paga il tributo dell'esistenza e della caducità non di tasca sua, ma con le passioni individui. Cesare doveva compiere quel che era necessario per rovesciare la decrepita libertà; la sua persona perì nella lotta, ma quel che era necessario restò: la libertà secondo l'idea giaceva più profonda dell'accadere esteriore.
La storia del mondo passa attraverso tappe dialettiche che segnano un
progressivo incremento di razionalità e di libertà dal mondo orientale al mondo
greco-romano a quello cristiano-germanico. In quest'ultima fase lo Spirito
sembra essersi pienamente realizzato, conservando nelle sue profondità il
passato come memoria, e attuando nel presente il concetto di sé. Ma, se così è,
la Storia, è destinata a fermarsi nella fase cristiano-germanica? La dialettica
storica, ad un certo momento, si arresta? Così parrebbe doversi concludere,
contrariamente a quanto i principi della stessa dialettica avrebbero
necessariamente richiesto.
Si tratta di un'aporia significativa, che si ripercuoterà anche sulla concezione
della storia di Marx.
Lo Spirito assoluto: Arte, Religione e Filosofia [ audio ]
Dopo essersi realizzata nella storia come libertà, l'Idea conclude il suo
"ritorno a sé" nell'auto-conoscersi assoluto.
Lo Spirito assoluto è dunque l'Idea che si autoconosce in maniera assoluta, e
questa autoconoscenza è l'autoconoscenza di Dio, in cui l'uomo gioca però un
ruolo essenziale.
Hegel ha, ad un tempo, abbassato Dio all'uomo e alzato l'uomo a Dio:
Dio è Dio, solo in quanto sa se stesso; il suo sapere sé è, inoltre, la sua autocoscienza nell'uomo e il sapere che l'uomo ha di Dio, che progredisce al sapersi dell'uomo in Dio.
Hegel ritiene, in tal modo, di avere conciliato finito e infinito
definitivamente. L'auto-sapersi dello Spirito non è un'intuizione mistica, ma è
un processo dialettico, perciò un processo triadico, che si realizza
- nell'Arte,
- nella Religione,
- nella Filosofia.
Queste sono, dunque, tre forme attraverso le quali noi conosciamo Dio e Dio si
conosce. Esse si realizzano, rispettivamente, attraverso l'intuizione
sensibile (estetica), attraverso la rappresentazione della fede e attraverso il concetto puro.
L'arte, in quanto si occupa del vero come oggetto assoluto della coscienza,
appartiene anch'essa alla sfera assoluta dello spirito, trovandosi perciò per il
suo contenuto sul medesimo terreno della religione nel senso specifico del
termine, e della filosofia. Infatti, anche la filosofia non ha altro oggetto che
Dio ed è così essenzialmente teologia razionale e, in quanto al servizio della
verità, culto perenne.
Data questa eguaglianza di contenuto, i tre regni dello
spirito assoluto si differenziano solo per le forme in cui essi portano a
coscienza il loro oggetto, l'assoluto.
La prima forma di questa apprensione, è un sapere immediato e proprio perciò sensibile, un sapere nella forma e figura del sensibile ed oggettivo, in cui l'assoluto viene ad intuizione e sentimento. La seconda forma è la coscienza rappresentante, la terza, infine, il libero pensiero dello spirito assoluto.
La forma dell'intuizione sensibile appartiene all'arte, che presenta alla
coscienza la verità sotto una forma sensibile che ha in questa sua apparenza un
senso ed un significato più alti, più profondi, pur non consentendone
l'apprensione nell'universalità del concetto, proprio in quanto mediata nel
sensibile. Proprio l'unità del concetto stesso con l'apparenza individuale
sensibile, infatti, costituisce l'essenza del bello e della sua produzione ad
opera dell'arte. Anche nella poesia, infatti, che è la meno "sensibile" e la più
spirituale delle arti, è presente l'unione del significato e della sua
configurazione individuale.
Come l'arte ha il suo prima nella natura e nella sfera finita della vita, però,
ha pure un dopo, cioè un ambito che a sua volta oltrepassa il suo modo di
concepire e manifestare l'assoluto. Infatti l'arte ha ancora in se stessa un
limite e passa quindi a forme più alte della coscienza. Il dopo dell'arte
consiste nel fatto che è innato allo spirito il bisogno di essere soddisfatto
solo del proprio interno, come della vera forma della verità. L'arte ai suoi
inizi lascia ancora sussistere un che di misterioso, un presentimento pieno di
mistero, uno struggimento, perché le sue produzioni non hanno ancora
completamente tratto per l'intuizione immaginativa tutto il loro contenuto. Ma
se il contenuto compiuto è compiutamente venuto a rilievo in forme artistiche,
lo spirito lungimirante ritorna da questa oggettività, allontanandola da sé, nel
suo interno.
L'ambito successivo che sorpassa il regno dell'arte è quello della
religione. La religione ha come forma della propria coscienza la
rappresentazione, in quanto l'assoluto è trasferito dall'oggettività dell'arte
nell'interiorità del soggetto, ed ora è dato in modo soggettivo per la
rappresentazione, così che cuore ed animo, in generale la soggettività interna,
divengono un momento fondamentale.
Per la coscienza religiosa l'arte è solo uno dei lati; mentre, infatti, l'opera
d'arte presenta in modo sensibile la verità, lo spirito come oggetto, e
concepisce questa forma dell'assoluto come quella conforme, la religione vi
aggiunge la devozione dell'interno che si rapporta all'oggetto assoluto. Infatti
la devozione non appartiene all'arte come tale. Essa nasce solo dal fatto che
ora il soggetto fa penetrare nell'animo proprio ciò che l'arte rende oggettivo
come sensibilità esterna, e in ciò si identifica il soggetto, in modo che questa
presenza interna nella rappresentazione e intimità del sentimento, diviene
l'elemento essenziale per l'esistenza dell'assoluto. La devozione è il culto
della comunità nella sua forma più pura, più interiore, più soggettiva; un
culto, in cui l'oggettività è per così dire divorata e digerita, e il suo
contenuto, privo ora di questa oggettività, è divenuto proprietà del cuore e
dell'animo.
La terza forma, infine, dello spirito assoluto è la filosofia. Infatti
la religione in cui Dio è dapprima per la coscienza un oggetto esterno, poiché
si deve prima apprendere che cosa è Dio e come si è rivelato e si rivela, si
riversa poi nell'elemento dell'interno, spinge e riempie la comunità; ma
l'interiorità della devozione dell'animo e della rappresentazione non è la forma
più alta dell'interiorità. È il libero pensiero che va riconosciuto come questa
forma purissima del sapere; in esso la scienza porta a coscienza l'identico
contenuto, divenendo quindi il culto al massimo spirituale, appropriarsi e
sapere concettualmente mediante il pensiero ciò che altrimenti è soltanto
contenuto di sentimento o rappresentazione soggettivi.
In tal modo nella filosofia sono unificati i due lati dell'arte e della
religione: l'oggettività dell'arte, che qui ha certamente perduto la sensibilità
esterna, ma ha trovato il compenso nella forma suprema dell'oggettivo, nella
forma del pensiero, e la soggettività della religione, che è purificata a
soggettività del pensiero. Infatti il pensiero è da un lato la soggettività più
intima, più propria; e il vero pensiero, l'idea, è contemporaneamente la più
oggettiva ed effettuale universalità che può cogliersi nella sua propria forma
solo nel pensiero.
L'Arte è intesa e ricostruita secondo tappe dialettiche: a) arte simbolica,
b) arte classica, c) arte romantica.
Nella Religione vengono distinti tre momenti: a) religione orientale, b)
religione greca, c) religione cristiana.
La Filosofia (che viene a coincidere con la storia della filosofia) è vista nel
suo dispiegarsi nei tre momenti: a) dell'antichità greca, b) della cristianità
medievale e c) della modernità germanica.
La storia della filosofia da Talete a Hegel è presentata come un grandioso
teorema che si dispiega nel tempo e in cui ogni sistema costituisce un
"passaggio" necessario.
Il teorema sembra poi trovare la propria conclusione in Hegel, nella cui
filosofia Dio, autoconoscendosi, conosce e attua tutte le cose mentre l'Idea si
attua, si produce e gode eternamente.
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