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GUERRA E RIVOLUZIONE

 

 

La guerra come evento periodizzante: il secolo breve

Scoppiata al termine di una lunga fase di sviluppo e di progresso, nata dalle vecchie e nuove rivalità le grandi potenze europee, la "Grande Guerra", come subito fu definita, si trasformò presto in un conflitto mondiale e in una guerra totale.
Durò infatti più di quattro anni (dal 1914 al 1918) e coinvolse, sia pur in forme e in tempi diversi, la maggior parte degli Stati indipendenti e delle loro colonie, estendendosi a tutti i continenti. Inoltre, nei principali paesi belligeranti (e soprattutto in quelli che la combatterono sul proprio territorio), produsse una serie di profonde trasformazioni politiche, sociali e culturali, mobilitando non solo gli eserciti e gli apparati statali, ma anche la popolazione civile. Funzionò, insomma, come un laboratorio e un acceleratore di tutti i fenomeni legati alla nascente società di massa.
Non stupisce dunque che, in sede di periodizzazione della storia contemporanea, si tenda oggi a indicarla come l'evento fondante di un secolo che di fatto coincide con la contemporaneità: quel '900 che lo storico inglese Eric Hobsbawm ha definito «il breve XX secolo», caratterizzato dall'intensità dei conflitti ideologici e chiuso precocemente dal crollo dei regimi comunisti europei fra il 1989 e il 1991.
Come tutte le periodizzazioni, anche quella impostata sul "secolo breve" (che seguirebbe un "lungo '800" apertosi con la Rivoluzione francese) è opinabile e provvisoria.
Altre interpretazioni preferiscono collocare il punto di svolta nella seconda metà dell'800, in coincidenza col compimento dei processi di unificazione nazionale – in primo luogo di Germania e Italia –, con gli esordi della cosiddetta "seconda rivoluzione industriale" e col dispiegarsi delle politiche di conquista e di espansione coloniale da parte di tutte le grandi potenze europee.
Ciò che difficilmente può essere negato è la portata epocale della Grande Guerra, la sua incidenza sulle ideologie politiche e sui comportamenti sociali, sull'economia e sulla cultura dell'Europa e del mondo, e soprattutto sugli equilibri internazionali.

Perché la guerra: cause e responsabilità

Perché scoppiò la prima guerra mondiale? E quali ne furono i principali responsabili?
La stessa importanza dell'evento e le sue dimensioni catastrofiche obbligarono fin da subito a porsi queste domande e aprirono un lungo dibattito storiografico oltre che politico.
Per quanto riguarda le cause, le interpretazioni più diffuse fanno riferimento alle rivalità imperiali fra le potenze maggiori (Austria contro Russia, Francia contro Germania, Gran Bretagna contro Germania) e alla formazione di due blocchi contrapposti e reciprocamente ostili. Letture di questo genere non ci danno conto però del perché la guerra scoppiò in quel momento e con quegli schieramenti, visto che condizioni analoghe sussistevano nel precedente lungo periodo di pace.
Come vedremo, lo scoppio della guerra – di quella guerra – non può spiegarsi senza far ricorso a quelle scelte individuali e a quei fattori di casualità che spesso condizionano la grande storia.

Il richiamo al fattore umano ci porta alla questione della responsabilità. Le potenze vincitrici la risolsero a modo loro, attribuendo, nel testo stesso del trattato di pace (firmato a Versailles il 28 giugno del 1919), l'intera colpa della guerra agli sconfitti, in particolare agli imperatori di Germania e di Austria-Ungheria.
Oggi, pur senza sottovalutare l'atteggiamento aggressivo della Germania di Guglielmo II, si tende piuttosto a vedere nella strategia tedesca, più che un piano consapevolmente preparato al fine di conquistare una solida egemonia europea e mondiale, un rischio calcolato, una ostentazione di forza che si sperava sufficiente al raggiungimento degli obiettivi prefissati, ma che comunque comportava l'eventualità, anzi la probabilità, di una guerra.
Una logica che non era estranea nemmeno agli altri Stati belligeranti, compresi quelli che si consideravano (e in parte erano) aggrediti: la logica delle grandi potenze tradizionali, che la guerra stessa avrebbe contribuito a mettere in crisi.

Una guerra diversa

Quali fattori resero la prima guerra mondiale tanto diversa dalle guerre ottocentesche sul cui modello era stata iniziata e preparata dai belligeranti?
Sinteticamente si potrebbe rispondere che si trattò del primo grande conflitto maturato e combattuto nell'epoca della seconda rivoluzione industriale e della nascente società di massa: eserciti numerosi come non mai, armamenti sempre più potenti e prodotti in grande serie, vasto coinvolgimento delle popolazioni nello sforzo bellico.
Un confronto sanguinoso e logorante per tutti i contendenti, che metteva a dura prova le capacità di tenuta (militare, economica, politica e psicologica) delle popolazioni coinvolte nel conflitto.
Se agì in profondità sul vissuto di coloro che la combattevano al fronte (su questi aspetti, anche grazie alla disponibilità di un'enorme massa di memorie e testimonianze scritte, si è soprattutto soffermata la storiografia degli ultimi decenni), la guerra ebbe effetti importanti e duraturi anche sulla gran massa di coloro che non indossarono l'uniforme.
L'intera società civile fu coinvolta nello sforzo bellico, e in qualche misura militarizzata, per far fronte alle esigenze produttive: non solo le strutture economiche, non solo le modalità della politica, ma anche i comportamenti privati, le mentalità, le strutture familiari furono profondamente condizionati da questa esperienza.

Il ritorno della rivoluzione

Strettamente intrecciate con quelle del primo conflitto mondiale sono le vicende delle due rivoluzioni scoppiate in Russia nel 1917, anzi ne sono parte integrante.
Non solo perché il movimento insurrezionale che prima rovesciò la monarchia zarista e poi portò al potere la componente estrema del fronte rivoluzionario trasse origine dall'andamento del conflitto, che aveva logorato l'Impero russo più di ogni altra potenza belligerante. Ma anche perché gli sviluppi di quel -movimento incisero profondamente sul corso della guerra, oltre che dell'intera storia mondiale.
Fu la guerra (o meglio il rifiuto della guerra) a favorire trasformazione di quella che si era in un primo tempo presentata come l'ultima delle rivoluzioni ottocentesche nel più radicale e sanguinoso esperimento di trasformazione economica e sociale mai tentato in un grande paese europeo.
Gli artefici di questo esperimento (la frazione "bolscevica" del movimento operaio russo, guidata da Lenin) riprendevano la denominazione di «comunisti» dal Manifesto di Marx ed Engels del 1848 e si dichiaravano interpreti di una rigorosa applicazione dei principi marxisti. In realtà ne contraddicevano un punto fondamentale: quello che legava l'avvento del socialismo al pieno sviluppo del sistema capitalistico e all'esplodere delle sue contraddizioni.
Inoltre, la decisione di portare avanti a ogni costo il progetto collettivista (basato sulla lotta senza quartiere alla borghesia e sull'abolizione della proprietà privata), pur nelle difficili condizioni in cui versava la Russia, portò il gruppo dirigente bolscevico a rompere ogni vero contatto con la società civile e con la sua stessa base sociale e a esasperare i suoi caratteri di avanguardia rivoluzionaria.
Un'esperienza politica che si era annunciata portatrice di un messaggio di libertà, oltre che di eguaglianza sociale, si trasformava così in un regime spietatamente autoritario e oppressivo. Un regime che pure non smise di rappresentare — proprio per la radicalità della sua proposta e per l'isolamento a cui era condannato dall'ostilità delle potenze europee — un riferimento e un modello agli occhi delle componenti rivoluzionarie della classe operaia e anche di molti intellettuali che in quell'esperienza vedevano un tentativo eroico di rinnovamento totale della società.

Le contraddizioni di Versailles

Gli statisti che si riunirono a Versailles dopo la fine del primo conflitto mondiale per stipulare i trattati di pace avevano di fronte un compito quanto mai impegnativo.
Il crollo contemporaneo quattro imperi (russo, tedesco, austro-ungarico ottomano) e l'impostazione ideologica data alla guerra soprattutto dopo l'intervento degli Stati Uniti (l'idea di una "guerra democratica" il cui esito sarebbe stato un più giusto ordine internazionale) imponevano alle potenze occidentali di disegnare nuovo stabile ordine europeo e mondiale, che contemperasse i principi di democrazia e di autodeterminazione nazionale con le legittime ambizioni dei vincitori.
Il tentativo fallì, sia per il rifiuto degli Stati Uniti di rendersi garanti dei nuovi squilibri, sia per l'oggettiva difficoltà di applicare principi non sempre compatibili fra loro.
Ne risultò non soltanto un acuirsi dei conflitti etnici e dei contrasti territoriali fra vecchie e nuove nazioni, ma anche un complessivo indebolimento delle ideologie e delle stesse istituzioni democratiche che l'esito della guerra avrebbe dovuto rafforzare. Questo fallimento diede spazio, fin dall'immediato dopoguerra, a una forte corrente critica nei confronti delle decisioni prese a Versailles, alimentata da un lato dalle recriminazioni dei paesi che più si ritenevano sacrificati (con in testa la Germania), dall'altro dalle analisi di studiosi e statisti che giudicavano ingiusto e controproducente il trattamento imposto dai vincitori agli sconfitti.
Queste critiche divennero poi giudizio corrente, fino a suggerire l'idea di un forte nesso causale fra l'assetto costruito a Versailles e gli eventi catastrofici che culminarono nel secondo conflitto mondiale.
Oggi si tende a sfumare questo giudizio e a riconsiderare i tentativi di stabilizzazione che furono avviati negli anni '20, e poi vanificati dallo scoppio della crisi economica nel 1929.

Il problema tedesco e le difficoltà della democrazia

Negli anni agitati che seguirono la fine del conflitto mondiale, la Germania sconfitta rappresentò il centro delle tensioni politiche e sociali in Europa e anche il terreno decisivo su cui si giocarono le sorti della democrazia nel ventennio fra le due guerre. Il sistema repubblicano, faticosamente costruito in Germania nel 1919 – la cosiddetta Repubblica di Weimar – dopo che era stato respinto il tentativo insurrezionale dei comunisti "spartachisti", fu subito costretto ad addossarsi il peso economico e psicologico delle dure condizioni imposte a Versailles dai vincitori. Riuscì ugualmente a sopravvivere, anche se continuamente minacciato da destra e da sinistra, e rappresentò nell'Europa degli anni '20 un modello di democrazia avanzata fondata sui partiti.
Non è dunque corretto rappresentare la stagione repubblicana, durata quasi un quindicennio, come un breve intermezzo o una sorta di preludio all'avvento della dittatura nazista. La Repubblica cadde non tanto a causa delle sue fragilità interne, che pure esistevano, quanto per le conseguenze politiche e sociali della grande crisi economica mondiale di inizio anni '30.
La crisi della democrazia tedesca rappresentò anche il momento culminante e l'episodio decisivo di una crisi più generale. Indebolite dalle convulsioni sociali del dopoguerra, screditate dalle troppe promesse non mantenute, anche sul piano della convivenza tra le nazioni, le istituzioni liberaldemocratiche furono investite da una vasta ondata di sfiducia, soprattutto nei paesi in cui avevano radici più recenti.

Il fenomeno fascista

Fu un paese vincitore della Grande Guerra, l'Italia, a inventare e a sperimentare per primo un nuovo regime politico, il fascismo, radicalmente alternativo alla democrazia liberale e al tempo stesso violentemente ostile al socialismo e al comunismo.
Nato per difendere i valori della vittoria, coniugandoli con un programma di audaci riforme, e poi diventato protagonista di una sanguinosa battaglia contro le organizzazioni socialiste del Nord-Italia, il movimento guidato da Benito Mussolini riuscì nel 1922 a conquistare il governo alternando la violenza alla manovra politica; e, una volta salito al potere, agi all'interno delle istituzioni liberali per trasformarle gradualmente in un regime autoritario.
La vittoria del fascismo maturò nel quadro di una profonda crisi del sistema liberale italiano, incapace di adattarsi alle nuove dimensioni della lotta politica tipiche della società di massa. Ma non ne fu il risultato fatale e scontato. I suoi successi dipesero in larga parte dagli errori dei suoi avversari e dei suoi competitori, che faticarono a capirne i metodi e la natura e ne sottovalutarono la novità.

 

Venti di guerra

Un equilibrio instabile

L'Europa del 1914 offriva di sé un'immagine per molti aspetti contraddittoria.
Il suo predominio — politico, economico e militare — su buona parte del mondo era ancora apparentemente indiscusso, nonostante l'emergere di nuove potenze a Oriente e a Occidente. Un ventennio, o quasi, di sviluppo della produzione industriale e degli scambi commerciali e di crescente integrazione fra le economie più sviluppate aveva alimentato l'aspettativa di un benessere diffuso, anche se inegualmente distribuito.
L'onda lunga della seconda rivoluzione industriale e delle nuove tecnologie aveva dato corpo all'idea, di matrice positivista, di un progresso indefinito di cui tutti, prima o poi, avrebbero finito col fruire.
Il consolidamento delle istituzioni rappresentative e l'estensione del diritto di voto stavano di fatto realizzando una sorta di democratizzazione silenziosa, senza bisogno di scossoni rivoluzionari.

Conflitti latenti

Evoluzioni politiche e progressi materiali non bastavano però né a spegnere i conflitti sociali, che tendevano piuttosto ad acutizzarsi, né a dissolvere le tensioni internazionali che fatalmente evocavano lo spettro della guerra.
Fra le grandi potenze europee, che non si combattevano fra loro da quasi mezzo secolo, erano vive le rivalità vecchie e nuove (l'Austria contro la Russia per i Balcani, la Francia contro la Germania per l'Alsazia-Lorena, la Germania contro la Gran Bretagna per la corsa agli armamenti navali).
Inoltre, la nuova configurazione degli equilibri continentali, basata su due blocchi contrapposti di potenze (Austria e Germania contro Francia, Russia e Gran Bretagna), rendeva gli schieramenti più rigidi e più facile la propagazione di un eventuale incendio.
Infine, la corsa agli armamenti intrapresa dalle potenze maggiori e la forza distruttiva dei nuovi mezzi bellici rendevano più inquietante che mai lo scenario di un conflitto.

La guerra come occasione

La guerra era dunque nell'aria. Ma non tutti la temevano come il peggiore dei flagelli.
Se le minoranze pacifiste si mobilitavano per impedirne lo scoppio, se i socialisti di tutti i paesi la condannavano in nome degli ideali internazionalisti (ma la vedevano anche come l'esito fatale delle contraddizioni del capitalismo), settori non trascurabili delle classi dirigenti e delle opinioni pubbliche nazionali la valutavano come un'opzione praticabile nella logica del confronto fra le potenze, o la concepivano come un dovere patriottico, o addirittura la invocavano come un evento liberatorio.
Per molti giovani, che condividevano con i più autorevoli intellettuali dell'epoca l'insofferenza nei confronti dell'ottimismo positivista e progressista, o che erano semplicemente alla ricerca di nuove esperienze e di nuove emozioni, la guerra si presentava come la grande occasione per uscire dagli orizzonti angusti di una mediocre realtà quotidiana.
Solo la guerra – si pensava – avrebbe potuto risvegliare una società intorpidita da troppi anni di pace e di ricerca del benessere materiale, restituire alla vita una dimensione eroica, rilanciare l'ideale patriottico e l'etica del sacrificio.
Ma le motivazioni di chi auspicava il conflitto potevano essere anche meno disinteressate: c'erano, infatti, militari, uomini politici, industriali e finanzieri pronti a sfruttare le opportunità di carriera, di successo e di guadagno offerte da una guerra che i più immaginavano breve, sul modello dei conflitti ottocenteschi, e naturalmente vittoriosa per il proprio paese.

Questa somma di aspirazioni ideali e di calcoli sbagliati non basta certo a spiegare lo scoppio della «Grande Guerra». Aiuta però a capire il clima fra il rassegnato e l'esaltato in cui l'Europa affrontò un evento che le sarebbe costato milioni di morti e avrebbe segnato il declino irreversibile della sua egemonia.

 

Una reazione a catena

Nell'Europa del 1914 esistevano dunque tutte le premesse che rendevano possibile, anzi probabile, una guerra.
Questo non significa però che i tempi e le modalità, le dimensioni e la durata del conflitto fossero predeterminati in partenza. Al contrario, la catena di cause ed effetti che portò allo scoppio della guerra, e poi ai suoi esiti catastrofici per l'Europa e il mondo intero, si articolò in una serie di decisioni individuali e di circostanze accidentali.

L'attentato di Sarajevo

Imprevedibile, e per molti aspetti casuale, fu la dinamica degli eventi da cui scaturì il casus belli, ovvero l'occasione, o il pretesto, per lo scatenamento del conflitto.
Il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco di nome Gavrilo Princip uccise con due colpi di pistola il nipote dell'imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe (e suo erede al trono), l'arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie, mentre attraversavano in auto scoperta le vie di Sarajevo, capitale della Bosnia.
Nessuno può dire che cosa sarebbe accaduto se l'attentatore avesse mancato il bersaglio. Ma Princip non sbagliò la mira. E la morte dell'arciduca divenne subito un caso internazionale.
L'attentatore e i suoi complici facevano parte, infatti, di un'organizzazione che si batteva per l'indipendenza della Bosnia dall'Impero asburgico e aveva la sua base operativa in Serbia, godendo di una certa tolleranza da parte del governo di quel paese. Tanto bastò per suscitare la reazione del governo austriaco, orientato a una definitiva resa dei conti con lo scomodo vicino, che però contava sull'appoggio della Russia.

Ultimatum e dichiarazioni di guerra

Il 23 luglio, tre settimane dopo l'attentato, l'Austria-Ungheria inviò un durissimo ultimatum alla Serbia.
Il governo serbo lo accettò quasi integralmente, salvo che per la clausola che prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti dell'attentato.
Il governo austriaco giudicò la risposta insufficiente e, il 28 luglio, dichiarò guerra alla Serbia.

Questo passo suscitò una reazione a catena che, in poco più di una settimana, portò alla deflagrazione del conflitto.
 - Il 29 luglio la Russia ordinò la mobilitazione delle forze armate (vale a dire tutte le operazioni necessarie alla disposizione delle truppe in assetto di guerra) per schierarle lungo tutto il confine occidentale, compreso quello con la Germania.
 - Il 31 luglio la Germania, dopo un ultimatum senza risposta, dichiarò guerra alla Russia, e, subito dopo, alla Francia, anch'essa in mobilitazione.
 - Il 4 agosto le truppe tedesche invadevano il neutrale Regno del Belgio per colpire l'area più debole dello schieramento francese e puntare direttamente su Parigi.
 - Lo stesso 4 agosto, in risposta, la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania.

Le responsabilità

Fu dunque l'iniziativa del governo tedesco, che già nella prima della Germania fase della crisi aveva assicurato il proprio appoggio incondizionato all'Austria, a far precipitare definitivamente la situazione.
Ma come spiegare un impegno così deciso della Germania in una crisi che in fondo non toccava direttamente nessuno dei suoi interessi vitali?
Innanzitutto la classe dirigente tedesca lamentava da tempo una condizione di isolamento del paese e non poteva tollerare un indebolimento del suo principale alleato, l'Impero asburgico.
C'erano poi le motivazioni di ordine militare. La strategia dei generali tedeschi si basava infatti sulla rapidità e sulla sorpresa e costituiva dunque di per sé un fattore di accelerazione della crisi e un ostacolo al negoziato. Il piano elaborato già ai primi del '900, dando per scontata l'eventualità di una guerra su due fronti (l'alleanza franco-russa risaliva al 1894), prevedeva in primo luogo un massiccio attacco contro la Francia. che doveva esser messa fuori combattimento in poche settimane. Raggiunto questo obiettivo, il grosso delle forze sarebbe stato impiegato contro la Russia.

L'entusiasmo patriottico

In questa fase iniziale tutti i governi sottovalutarono la gravità dello scontro che si andava preparando. Fra i politici, del resto, era diffusa la convinzione che una guerra avrebbe contribuito a spegnere i contrasti sociali e a rafforzare la posizione di governi e classi dirigenti.
In un primo tempo, i fatti parvero dar loro ragione. Nei primi giorni di agosto le piazze delle principali capitali europee si riempirono di manifestazioni in favore della guerra. Intellettuali di prestigio e maestri di scuola si impegnarono per spiegarne al popolo le buone ragioni.
Nemmeno i partiti socialisti, che avevano fatto del pacifismo e dell'internazionalismo la loro bandiera, seppero o vollero sottrarsi a questo clima generale di «unione sacra». In Germania, Austria, Francia, Gran Bretagna di fatto si schierarono a favore della guerra. La Seconda Internazionale – nata, nel 1889, come espressione della solidarietà fra i lavoratori di tutti i paesi e impegnata da sempre nella difesa della pace – cessò praticamente di esistere: fu, in fondo, la prima vittima della Grande Guerra.

 

1914-15. Dalla guerra di movimento alla guerra di posizione

Nuovi eserciti e vecchie strategie

Guerra di posizione, guerra di logoramento, guerra di usura, guerra di trincea: queste alcune definizioni usate per descrivere le caratteristiche di un conflitto che non aveva precedenti nelle guerre del passato, sia per le dimensioni delle forze in campo sia per le potenzialità distruttive degli strumenti bellici.
La pratica ormai generalizzata della coscrizione obbligatoria e le accresciute possibilità dei mezzi di trasporto consentirono ai belligeranti di schierare rapidamente milioni di uomini in uniforme e di dotarli di armi moderne.
Nonostante ciò, nessuna fra le potenze in guerra aveva elaborato concezioni strategiche diverse da quelle della tradizionale guerra di movimento, che si fondava sullo spostamento di ingenti masse di uomini in vista di pochi e risolutivi scontri campali. Tutti i piani di guerra erano basati sulla previsione di un conflitto di pochi mesi o addirittura di poche settimane.

Il fallimento dei piano tedesco

Furono soprattutto i tedeschi a puntare su una strategia offensiva, già sperimentata con successo nella campagna del 1870 contro la Francia. Anche questa volta, ottennero una serie di successi attestandosi, ai primi di settembre, lungo il corso della Marna, a poche decine di chilometri da Parigi.
Nel frattempo, sul fronte orientale, i russi erano sconfitti nelle grandi battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri.
La minaccia russa si rivelò tuttavia più seria del previsto e indusse i comandi tedeschi a distogliere una parte delle loro forze dal fronte occidentale.
Il 6 settembre, i francesi riuscirono a lanciare un improvviso contrattacco e, dopo una settimana di furiosi combattimenti, i tedeschi furono costretti a ripiegare su una linea più arretrata, in corrispondenza dei fiumi Aisne e Somme.

La guerra di logoramento

Con l'arresto dell'offensiva sulla Marna, il piano tedesco poteva dirsi sostanzialmente fallito.
Alla fine di novembre gli eserciti si erano ormai attestati in trincee improvvisate su un fronte lungo 750 chilometri, che andava dal Mare del Nord al confine svizzero. Cominciava così, sul fronte occidentale, una guerra di tipo nuovo, che vedeva due schieramenti praticamente immobili affrontarsi in una serie di sterili quanto sanguinosi attacchi, inframmezzati da lunghi periodi di stasi.
In una guerra di questo genere, l'iniziale superiorità militare degli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) passava in secondo piano. Diventava invece essenziale il ruolo della Gran Bretagna, che poteva contare sulle risorse del suo impero coloniale e sulla sua superiorità navale. Altrettanto importante si dimostrava l'apporto della Russia col suo enorme potenziale umano.

Un conflitto mondiale

Un problema vitale per entrambi gli schieramenti era poi l'atteggiamento dei paesi che in un primo momento erano rimasti estranei al conflitto e che temevano di veder sacrificate le loro ambizioni.
Nell'agosto 1914 il Giappone dichiarava guerra alla Germania per impadronirsi dei possedimenti tedeschi nel Pacifico.
Nel novembre dello stesso anno la Turchia interveniva a favore degli Imperi centrali.
Nel maggio 1915 l'Italia entrava in guerra contro l'Austria-Ungheria.
A fianco della Germania e dell'Austria sarebbe poi intervenuta la Bulgaria, mentre nel campo opposto si sarebbero schierati il Portogallo, la Romania e la Grecia.

Il sistema delle alleanze tra 1914 e 1917

Decisivo sarebbe risultato, infine, l'intervento degli Stati Uniti (aprile 1917), che si schierarono con Gran Bretagna, Francia e Russia – la cosiddetta Triplice Intesa; gli Usa si trascinarono dietro, infatti, numerosi paesi extraeuropei (Cina, Brasile e altre repubbliche latino-americane), il cui contributo alla guerra fu però poco rilevante.
Se a tutto questo si aggiunge l'estensione del conflitto agli imperi coloniali, si capirà come la guerra, pur avendo sempre in Europa il suo teatro principale, assumesse sempre più un carattere mondiale, coinvolgendo per la prima volta tutti e cinque i continenti.

 

L'Italia dalla neutralità all'intervento

L'Italia entrò nel primo conflitto mondiale nel maggio del 1915, quando la guerra era già iniziata da dieci mesi, schierandosi a fianco dell'Intesa contro l'Impero austro-ungarico fin allora suo alleato.
Fu una scelta contrastata, sulla quale classe politica e opinione pubblica si spaccarono in due fronti contrapposti, solo in parte coincidenti con gli schieramenti tradizionali.

La neutralità

Nell'agosto 1914, a guerra appena scoppiata, il governo presieduto da Antonio Salandra aveva dichiarato la neutralità dell'Italia.
Questa decisione, giustificata col carattere difensivo della Triplice Alleanza (stipulata nel 1882 da Germania, Austria e Italia), aveva trovato concordi tutte le principali forze politiche. Ma, una volta scartata l'ipotesi di un intervento a fianco degli Imperi centrali – ipotesi che cozzava fra l'altro contro i sentimenti antiaustriaci di buona parte dell'opinione pubblica –, cominciò ad affacciarsi l'eventualità opposta: quella di una guerra contro l'Austria, che avrebbe consentito all'Italia di portare a compimento il processo risorgimentale, riunendo alla patria le terre «irredente», ossia i territori abitati da italiani ancora soggetti all'Impero asburgico.

Interventisti e neutralisti

Sostenitori della scelta "interventista" furono innanzitutto gruppi e partiti della sinistra democratica (i repubblicani, i radicali, i socialriformisti di Leonida Bissolati), convinti che una partecipazione italiana alla guerra contro gli Imperi centrali avrebbe aiutato la causa di una nuova Europa fondata sulla democrazia e sul principio di nazionalità.
Con motivazioni molto diverse – l'affermazione dell'Italia come grande potenza, il rafforzamento del prestigio della monarchia – sostennero l'intervento i gruppi liberalconservatori che avevano come punti di riferimento politico gli uomini chiave del governo: il presidente del Consiglio Salandra e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino.

Schierata su una linea "neutralista" era invece l'ala più consistente dei liberali, che faceva capo a Giovanni Giolitti, protagonista assoluto della vita politica italiana nel primo quindicennio del '900. Giolitti, infatti, non riteneva il paese preparato alla guerra ed era inoltre convinto che l'Italia avrebbe potuto ottenere dagli Imperi centrali, come compenso per la sua neutralità, buona parte dei territori rivendicati.
In maggioranza ostile all'intervento era anche il mondo cattolico, a cominciare dal nuovo papa Benedetto XV (eletto nel 1914), mentre il Partito socialista (Psi), in contrasto con la scelta patriottica dei maggiori partiti socialisti europei, mantenne una posizione di netta condanna della guerra.

Tra i leader socialisti, solo Benito Mussolini, direttore del quotidiano del partito «Avanti!», si schierò, con un'improvvisa e clamorosa conversione, a favore dell'intervento. Espulso dal partito, Mussolini fondò, nel novembre 1914, un nuovo quotidiano. «Il Popolo d'Italia», che divenne la voce principale dell'interventismo di sinistra.

I rapporti di forza

Minoritarie in termini di forza parlamentare e di peso nella società, nei momenti decisivi, le forze interventiste seppero impadronirsi delle piazze, presentandosi come espressione del «paese reale» in contrapposizione a un Parlamento giudicato imbelle e corrotto.
Il partito della guerra poteva, inoltre, contare sui settori più giovani e dinamici della società, quelli che più contribuivano a formare l'opinione pubblica: studenti, insegnanti, impiegati e professionisti, ovvero la piccola e media borghesia colta.
Erano interventisti, con poche eccezioni, anche gli intellettuali di maggior prestigio: da Giovanni Gentile a Giuseppe Prezzolini, da Luigi Einaudi a Gaetano Salvemini.
Un caso a parte fu quello di Gabriele D'Annunzio che, noto fin allora come scrittore raffinato e come personaggio eccentrico, si improvvisò per l'occasione capopopolo ed ebbe un ruolo di rilievo nelle manifestazioni a favore dell'intervento.

Il patto di Londra

Comunque ciò che decise l'esito dello scontro fu l'atteggiamento del capo del governo, del ministro degli Esteri e del re: cioè degli uomini cui spettava, secondo lo Statuto del 1848, il potere di decidere i destini del paese in materia di guerra e di alleanze internazionali.
Fin dall'autunno '14, Salandra e Sonnino allacciarono contatti segretissimi con Francia, Gran Bretagna e Russia per definire le condizioni di un intervento italiano, pur continuando nel contempo a trattare con gli Imperi centrali per strappare qualche compenso territoriale in cambio della neutralità.
Infine decisero di accettare le proposte dell'Intesa, firmando, il 26 aprile 1915, il cosiddetto patto di Londra.
Le clausole principali prevedevano che l'Italia avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, il Sud Tirolo fino al confine "naturale" del Brennero, la Venezia Giulia, l'intera penisola istriana – con l'esclusione della città di Fiume – e una parte della Dalmazia con numerose isole adriatiche.

La dichiarazione di guerra all'Austria

La decisione, presa col solo consenso del re, all'insaputa del Parlamento e degli altri membri del governo, doveva però essere ratificata da una Camera in maggioranza ancora "giolittiana".
Quando capì di rischiare una bocciatura, Salandra rassegnò le dimissioni, ma il re le respinse, mostrando così di approvare l'operato del presidente del Consiglio, mentre le manifestazioni di piazza – in quelle che la retorica interventista avrebbe celebrato come le «radiose giornate» – si fecero sempre più imponenti e minacciose.
Il 20 maggio 1915, costretta a scegliere fra l'accettazione del fatto compiuto e un voto contrario che avrebbe sconfessato lo stesso sovrano, la maggioranza della Camera, con l'opposizione dei soli socialisti, approvò la concessione dei pieni poteri al governo.
La sera del 23 maggio l'Italia dichiarava guerra all'Austria; il giorno dopo ebbero inizio le operazioni militari.
Lo scontro sull'intervento lasciò però un segno profondo nella vita politica italiana, evidenziando l'estraneità di larghe masse popolari ai valori patriottici, l'indebolimento delle istituzioni parlamentari e l'emergere di nuovi metodi di lotta politica estranei alle tradizioni dello Stato liberale.

 

1915-16. Lo stallo

Il fronte italiano

L'intervento italiano non servì, come molti avevano sperato, a decidere le sorti del conflitto.
Le forze austroungariche si schierarono sulle posizioni difensive più favorevoli, lungo il corso dell'Isonzo e sulle alture del Carso. Contro queste linee le truppe comandate dal generale Luigi Cadorna sferrarono, nel corso del 1915, quattro sanguinose offensive (le prime quattro «battaglie dell'Isonzo») senza cogliere alcun successo.

Il fronte italiano

Nel giugno 1916 furono gli austriaci a lanciare un improvviso attacco (che fu chiamato significativamente Strafexpedition, ossia "spedizione punitiva" contro l'antico alleato ritenuto colpevole di tradimento), tentando di penetrare dal Trentino nella pianura veneta e di spezzare in due lo schieramento nemico.
L'offensiva fu faticosamente arrestata, ma il governo Salandra, per il contraccolpo psicologico suscitato nel paese, fu costretto alle dimissioni e sostituito da un governo di coalizione nazionale – comprendente cioè tutte le forze politiche (esclusi, in questo caso, i socialisti) – presieduto da un anziano politico di orientamento conservatore, Paolo Boselli.
Il cambio di ministero, però, non comportò alcun mutamento nella conduzione militare della guerra. Nel corso dell'anno furono combattute altre battaglie sull'Isonzo, senza risultati decisivi.

Il fronte francese

Una situazione analoga, su scala ancora più ampia, si era creata sul fronte francese.
Anche qui gli schieramenti rimasero pressoché immobili per tutto il 1915. All'inizio del 1916 i tedeschi sferrarono un attacco in forze contro la piazzaforte francese di Verdun con lo scopo principale di logorare le forze nemiche. La battaglia, durata quattro mesi, risultò troppo costosa anche per gli attaccanti: complessivamente i due schieramenti registrarono oltre 600 mila perdite.

Il fronte occidentale

La carneficina, forse la più tremenda cui l'umanità avesse mai assistito in uno spazio geografico così limitato, proseguì nei mesi successivi, quando gli inglesi tentarono una controffensiva sul fiume Somme: qui, in sei mesi, il numero delle perdite arrivò a quasi un milione.

Il fronte orientale

In realtà, fra il 1915 e il 1916, i soli successi militari di qualche importanza furono conseguiti dagli Imperi centrali e i pochi spostamenti rilevanti del fronte si verificarono in Europa orientale.
Nell'estate del '15 una grande offensiva tedesca costrinse i russi ad abbandonare buona parte della Polonia. In autunno gli austriaci attaccarono la Serbia, che fu invasa e di fatto eliminata dal conflitto.

Il fronte orientale

Falliva intanto il tentativo degli anglo-francesi di alleggerire la pressione nemica sull'alleato russo portando la guerra sul territorio della Turchia, il più potente alleato degli Imperi centrali. Fra la primavera e l'estate del '15 una spedizione navale britannica attaccò lo stretto dei Dardanelli e riuscì a far sbarcare un contingente sulle coste turche. Ma l'impresa, contrastata con efficacia, si risolse in un sanguinoso fallimento.

Il blocco navale

Questi risultati non bastarono a riequilibrare la situazione a favore degli Imperi centrali, che subivano le conseguenze del blocco navale attuato dagli inglesi nel Mare del Nord.
Invano, nel maggio 1916, la flotta tedesca aveva tentato un attacco contro quella inglese in prossimità della penisola dello Jutland.
Le perdite subite nella battaglia, per quanto inferiori a quelle degli avversari, furono tali da indurre i comandi a ritirare le navi nei porti, rinunciando definitivamente allo scontro in campo aperto.

 

La vita in guerra

Due anni e mezzo di guerra non avevano dunque risolto la situazione di stallo creatasi nell'estate del '14, né avevano mutato i caratteri di un conflitto sempre più dominato dalla tremenda usura dei reparti combattenti. Un'usura dovuta soprattutto alla combinazione micidiale tra la vecchia dottrina militare, che imponeva ai soldati di cercare a ogni costo la rottura del fronte avversario (o la conquista di una determinata posizione) e le nuove armi automatiche, le mitragliatrici in primo luogo, capaci di trasformare ogni assalto in una carneficina.

La vita nelle trincee

Dal punto di vista tecnico, la vera protagonista della guerra fu la trincea, ossia la più semplice e primitiva tra le fortificazioni difensive.
Concepite all'inizio come rifugi provvisori per le truppe in attesa del balzo decisivo, divennero, una volta stabilizzatesi le posizioni, la sede permanente dei reparti di prima linea.
Col passare del tempo, vennero allargate, dotate di ripari, protette da reticolati di filo spinato e da "nidi" di mitragliatrici.
La vita nelle trincee, monotona e rischiosa al tempo stesso, logorava i combattenti nel morale oltre che nel fisico e li gettava in uno stato di apatia e di torpore mentale. Soldati e ufficiali restavano in prima linea senza ricevere il cambio anche per intere settimane. Vivevano in condizioni igieniche deplorevoli, esposti al caldo, al freddo e alle intemperie, oltre che ai periodici bombardamenti dell'artiglieria avversaria. Non uscivano dai loro ricoveri se non per compiere qualche pericolosa azione notturna di sabotaggio nelle linee nemiche o per lanciarsi all'attacco, quando scattava un'offensiva.

L'assalto

Gli assalti, che iniziavano di regola nelle prime ore del mattino, erano preceduti da un intenso tiro di artiglieria («fuoco di preparazione») che in teoria avrebbe dovuto scompaginare le difese avversarie ma in pratica aveva come risultato principale quello di eliminare ogni effetto-sorpresa.
I soldati che scattavano simultaneamente fuori delle trincee e riuscivano a superare il fuoco di sbarramento delle mitragliatrici finivano con l'accalcarsi nei pochi varchi aperti dall'artiglieria nei reticolati, facilitando così il compito dei tiratori nemici.
Se, nonostante tutto ciò, riuscivano a raggiungere le trincee di prima linea, dovevano subire il contrattacco dei reparti di seconda linea e delle riserve, che in genere li ricacciava sulle posizioni di partenza.

Entusiasmo e rassegnazione

Bastarono i primi mesi di guerra nelle trincee a far svanire l'entusiasmo patriottico con cui molti combattenti – soprattutto i giovani di estrazione borghese – avevano affrontato il conflitto.
Gran parte dei soldati semplici – il discorso vale soprattutto per quelli di origine contadina – non aveva idee precise sui motivi per cui si combatteva la guerra e la considerava come una specie di flagello naturale da accettare con fatalistica sopportazione.
La visione eroica e avventurosa della guerra restò prerogativa di esigue minoranze di combattenti. Per tutti gli altri la guerra era una dura necessità. I soldati la combattevano perché animati da un senso di elementare solidarietà con i propri compagni di reparto o con i propri superiori diretti, ma anche perché vi erano costretti dalla presenza di un apparato repressivo spietato nel punire ogni forma di insubordinazione.

Le forme del rifiuto

Né il senso del dovere né la minaccia del plotone di esecuzione poterono impedire, tuttavia, che la paura o l'avversione alla guerra si traducessero talora in forme di rifiuto.
Le più diffuse erano quelle individuali, che andavano dalla renitenza alla leva alla diserzione o alla pratica dell'autolesionismo, consistente nell'infliggersi volontariamente ferite e mutilazioni per essere dispensati dal servizio al fronte.
Meno frequenti erano i casi di ribellione collettiva – «scioperi militari» o veri e propri ammutinamenti – che crebbero in numero e intensità col prolungarsi del conflitto. E crebbero in parallelo, nei governi e nei comandi militari, i timori di un cedimento delle truppe.

Le nuove tecnologie

Nella ricerca spasmodica di un risultato decisivo sul campo, gli eserciti belligeranti fecero ricorso senza risparmio a tutte le risorse messe a disposizione dai progressi della scienza e della tecnologia.
Nel corso del primo conflitto mondiale furono sperimentati per la prima volta nuovi mezzi bellici, alcuni dei quali avrebbero svolto un ruolo importantissimo nelle guerre dei decenni successivi.
Già nel 1915 fecero la loro comparsa le armi chimiche, proiettili che sprigionavano gas venefici e venivano sparati sulle trincee nemiche provocando la morte per soffocamento di chi li respirava.
Nel corso del conflitto conobbe un fortissimo incremento la produzione di aerei da guerra, usati sia per la ricognizione, sia per il bombardamento di obiettivi nemici. Dai primi mezzi corazzati (le autoblindo, ossia autocarri ricoperti da piastre d'acciaio e muniti di mitragliatrici) si passò, nel 1916, ai carri armati, veicoli dotati di cingoli e dunque capaci di muoversi anche su terreni accidentati.
Ma l'applicazione dei nuovi ritrovati, non inquadrata in nuove concezioni strategiche, non ottenne effetti risolutivi e si risolse in un ulteriore dispendio di vite umane, e anche in devastazioni e danni permanenti all'ambiente e al territorio dei teatri di guerra.

Il sottomarino

Fra le nuove macchine belliche sperimentate in questi anni, una sola influì in modo significativo sul corso della guerra: il sottomarino.
Furono soprattutto i tedeschi a intuire le possibilità del nuovo mezzo e a servirsene sia per attaccare le navi da guerra nemiche, sia per affondare senza preavviso le navi mercantili, anche di paesi neutrali, che portavano rifornimenti verso i porti dell'Intesa.
Nonostante il numero limitato dei mezzi disponibili, la guerra sottomarina si rivelò subito un'arma molto efficace.

 

Il "fronte interno"

Per tutti i paesi che vi parteciparono, e in particolare per quelli che la combatterono sul proprio territorio, la Grande Guerra costituì un laboratorio, un campo di sperimentazione e anche un acceleratore di tutti i fenomeni legati alla società di massa.
Circa 65 milioni di uomini furono strappati alle loro occupazioni abituali, alle famiglie e ai mondi chiusi in cui la maggior parte di loro viveva, per essere coinvolti in una gigantesca esperienza collettiva. Indossavano le stesse uniformi, combattevano negli stessi luoghi, mangiavano lo stesso rancio. Si abituavano forzatamente alla vita in comune e alla disciplina, ma anche alla violenza e alla quotidiana familiarità con la morte.

Le vittime civili

Anche le popolazioni civili vennero in varia misura investite dagli eventi bellici.
I più colpiti furono naturalmente gli abitanti delle zone in cui si combatteva, costretti a lasciare le loro case e le loro terre.
C'era poi il problema di chi risiedeva in un paese diverso dalla propria patria d'origine e che poteva trovarsi improvvisamente nella condizione di nemico: soggetto quindi alla confisca dei beni e a una serie di restrizioni personali che potevano arrivare all'internamento.
Infine le minoranze etniche che avevano nel passato recente manifestato aspirazioni indipendentiste erano ovunque tenute sotto controllo perché sospettate di scarsa lealtà nei confronti della nazione in guerra.

Lo sterminio degli armeni

Un caso limite, a questo proposito, fu quello degli armeni.
Questa antica popolazione di religione cristiana abitava prevalentemente in una regione del Caucaso divisa fra l'Impero ottomano e quello russo.
Già alla fine dell'800, e ancor più dopo la rivoluzione dei «Giovani turchi» del 1908, gli armeni di Turchia avevano pagato con persecuzioni e massacri i loro tentativi di ribellione.
Nella primavera-estate del 1915, mentre Russia e Turchia si combattevano nel Caucaso (e gli anglo-francesi cercavano di sbarcare sulle coste dei Dardanelli), gli armeni che vivevano nella parte turca di quella regione, sospettati di intesa col nemico russo, furono sottoposti a una brutale deportazione nelle zone interne dell'Anatolia che, per la maggior parte di loro (oltre un milione), si trasformò in sterminio.

Le trasformazioni nell'economia

Al di là dei lutti e delle sofferenze legate, direttamente o indirettamente, alle operazioni militari, la guerra produsse una serie di profonde e durature trasformazioni in tutti i paesi che vi furono coinvolti.
I mutamenti più vistosi furono quelli che interessarono il mondo dell'economia e in particolare il settore industriale, chiamato ad alimentare la macchina gigantesca degli eserciti al fronte. Le industrie interessate alle forniture belliche (siderurgiche, meccaniche e chimiche in primo luogo) conobbero uno sviluppo imponente, al di fuori di qualsiasi legge di mercato.
Tutto ciò impose una riorganizzazione dell'apparato produttivo e una continua dilatazione dell'intervento statale, che assunse dimensioni incompatibili col modello liberale ottocentesco.
Interi settori dell'industria furono posti sotto il controllo dei militari; la produzione agricola fu assoggettata a un regime di requisizioni e di prezzi controllati; in molti paesi si giunse al razionamento dei beni di consumo di prima necessità.

La propaganda

Strumento essenziale per la mobilitazione dei cittadini era la propaganda: una propaganda che non si rivolgeva soltanto alle truppe, ma cercava anche di raggiungere in tutti i modi possibili la popolazione civile.
I governi di tutti i paesi profusero un impegno senza precedenti per stampare manfesti murari, organizzare manifestazioni di solidarietà ai combattenti, incoraggiare la nascita di comitati e associazioni «per la resistenza interna». Si trattava di mezzi ancora rudimentali, che rivelavano tuttavia la preoccupazione dei governi nel "curare" l'opinione pubblica e nel cercarne l'appoggio: preoccupazione che diventava tanto più forte quanto più si rafforzavano le correnti di opposizione alla guerra.

 

La svolta del 1917

La rivoluzione in Russia e l'intervento americano

Nei primi mesi del 1917 due novità intervennero a mutare il corso della guerra e dell'intera storia europea e mondiale.
All'inizio di marzo (fine febbraio secondo il calendario russo) uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado (questo il nuovo nome assunto dalla capitale russa dopo l'estate del '14) si trasformò in un'imponente manifestazione politica contro il regime zarista. Quando i soldati chiamati a ristabilire l'ordine rifiutarono di sparare sulla folla e fraternizzarono coi dimostranti, la sorte della monarchia fu segnata: lo zar abdicò il 15 marzo e pochi giorni dopo venne arrestato con l'intera famiglia reale.
Si metteva in moto, così, un processo che avrebbe portato in breve tempo al collasso militare della Russia e alla firma dell'armistizio.
Il 6 aprile gli Stati Uniti dichiaravano guerra alla Germania che aveva ripreso la guerra sottomarina indiscriminata, in precedenza sospesa proprio per le proteste americane. L'intervento americano, pur facendo sentire il suo peso solo dopo parecchi mesi, sarebbe risultato decisivo sia sul piano militare sia su quello economico, tanto da compensare il gravissimo colpo subito dall'Intesa con l'uscita di scena della Russia.

La stanchezza degli eserciti

Nell'immediato, infatti, gli avvenimenti russi incisero negativamente sul morale delle truppe.
In Francia come in Italia si fecero più frequenti gli episodi di insubordinazione dei reparti combattenti e le proteste popolari contro la guerra. Anche negli Imperi centrali si andavano frattanto moltiplicando i segni di stanchezza.
Particolarmente delicata era, all'inizio del '17, la posizione dell'Impero austro-ungarico, dove prendevano forza le aspirazioni indipendentiste delle «nazionalità oppresse» (polacchi, cechi, slavi del Sud). Consapevole del pericolo di disgregazione cui era esposto l'Impero, il nuovo imperatore Carlo I (Francesco Giuseppe era morto nel novembre del '16 dopo quasi settant'anni di regno) avviò tra il febbraio e l'aprile del '17 negoziati segreti in vista di una pace separata. Ma le sue proposte furono respinte dall'Intesa.

Benedetto XV e l'«inutile strage»

Non ebbe miglior fortuna una iniziativa promossa in agosto dal papa Benedetto XV che invitò i governi a por fine all'inutile strage» e a prendere in considerazione l'ipotesi di una pace senza annessioni.
Tanto più cresceva il carico di sofferenze imposto dalla guerra, tanto meno i responsabili degli Stati belligeranti erano disposti ad ammettere che tutto ciò potesse essere considerato «inutile» e ad accontentarsi di altro che della vittoria finale.

Le difficoltà dell'Italia: Caporetto

Anche per l'Italia il 1917 fu l'anno più difficile della guerra. Fra maggio e settembre il generale Cadorna ordinò una nuova serie di offensive sull'Isonzo, con risultati modesti e costi umani ancora più pesanti che in passato.
In questa situazione, i comandi austro-tedeschi decisero di profittare della disponibilità di truppe provenienti dal fronte russo per infliggere un colpo decisivo all'Italia. Il 24 ottobre 1917, un'armata austriaca rinforzata da sette divisioni tedesche attaccò le linee italiane sull'alto Isonzo e le sfondò nei pressi del villaggio di Caporetto.

"Caporetto"

La manovra fu così efficace e inattesa che le truppe italiane, per evitare di essere accerchiate, dovettero abbandonare precipitosamente le posizioni che tenevano dall'inizio della guerra. Solo dopo due settimane un esercito praticamente dimezzato riusciva ad attestarsi sulla nuova linea difensiva del Piave.

Il fronte sul Piave

La reazione alla sconfitta

Prima di essere rimosso dal comando supremo, dove fu sostituito da Armando Diaz, il generale Cadorna gettò le colpe della disfatta sui suoi stessi soldati, accusando i reparti investiti dall'offensiva di essersi arresi senza combattere.
In realtà la rottura del fronte era stata determinata dagli errori dei comandi, che si erano lasciati cogliere impreparati dall'attacco sull'alto Isonzo, ed era diventata irreparabile per l'efficacia della manovra ideata dagli strateghi tedeschi.
Paradossalmente questa disfatta ebbe ripercussioni positive sul corso della guerra italiana. La ritirata sul Piave consentì un notevole accorciamento del fronte e quindi un minor logorio dei reparti combattenti. I soldati si trovarono inoltre a combattere una guerra difensiva, contro un nemico che occupava una parte del territorio nazionale: ciò contribuì a rendere più comprensibili gli scopi del conflitto e ad aumentare il senso di coesione patriottica.
Fu costituito un nuovo governo di coalizione nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando e le forze politiche parvero trovare una maggiore concordia.
Anche il nuovo comandante supremo, Diaz, si mostrò più attento di Cadorna alle condizioni materiali e morali dei soldati, garantendo loro vitto più abbondante e licenze più frequenti.
Infine, dall'inizio del 1918, fu svolta un'opera sistematica di propaganda fra le truppe, che si avvaleva anche della collaborazione di numerosi intellettuali di prestigio. Si cercò di prospettare la possibilità di vantaggi materiali per i combattenti e l'intero paese in caso di vittoria, ma ci si sforzò anche di presentare la guerra come una lotta per un più giusto ordine interno e internazionale.

 

La rivoluzione d'ottobre

Fra tutti gli sconvolgimenti politici e sociali provocati dalla prima guerra mondiale, la rivoluzione russa fu non soltanto il più violento e traumatico, ma anche il più imprevisto, almeno nei suoi sviluppi.
Quando, all'inizio del '17, il regime zarista fu abbattuto dalla rivolta degli operai e dei soldati di Pietrogrado, pochi immaginavano che ne sarebbe seguito il più grande evento rivoluzionario mai verificatosi nel mondo dopo la Rivoluzione francese.

Il governo provvisorio e i partiti

Dopo la caduta dello zar (in marzo), si formò nella capitale un governo provvisorio che aveva l'obiettivo dichiarato di continuare la guerra a fianco dell'Intesa e di promuovere nel contempo la modernizzazione, politica ed economica, del paese.
Condividevano questa prospettiva non solo i gruppi liberal-moderati che facevano capo al partito dei cadetti (= KD, ossia costituzionali-democratici), ma anche i socialisti menscevichi (ossia 'minoritari') che si ispiravano ai modelli della socialdemocrazia europea, e i social-rivoluzionari, che avevano solide radici nella società rurale russa e interpretavano le aspirazioni delle masse contadine a una radicale riforma agraria.
Rappresentanti di tutti e tre i partiti entrarono, nel maggio '17, nel governo provvisorio.
Gli unici a rifiutare ogni partecipazione al potere furono i bolscevichi ('maggioritari'), la frazione intransigente della socialdemocrazia russa, guidata da Lenin.

I soviet

Come già era accaduto nella rivoluzione del 1905, al potere "legale" del governo si affiancò subito il potere di fatto dei consigli (soviet, in russo), degli operai e dei soldati.
I membri dei soviet erano espressi direttamente dai lavoratori, ed erano continuamente revocabili, secondo un principio di democrazia diretta ispirato all'esperienza della Comune di Parigi del 1871.
Il più importante di questi soviet, quello della capitale Pietrogrado, agiva come una specie di parlamento proletario, spesso in contrasto con le disposizioni del governo. Quello che la rivoluzione aveva ormai messo in moto era un movimento di massa che respingeva l'idea di un'autorità centrale, era favorevole a un diffuso potere dal basso e, soprattutto, voleva porre fine alla guerra.

Lenin e le Tesi d'aprile

Questa era la situazione nell'aprile del '17, quando Vladimir Il'ič Ul'janov (nome di battaglia: Lenin), leader dei bolscevichi, rientrò in Russia dalla Svizzera dopo un avventuroso viaggio attraverso l'Europa in guerra. Il viaggio era stato reso possibile dalla copertura delle autorità tedesche che, conoscendo le idee di Lenin sulla guerra, speravano di accelerare l'uscita della Russia dal conflitto.
Non appena giunto a Pietrogrado, Lenin diffuse un documento in dieci punti – le cosiddette Tesi d'aprile – in cui poneva il problema della presa del potere, rovesciando la teoria marxista ortodossa, secondo cui la rivoluzione proletaria sarebbe scoppiata prima nei paesi più sviluppati.
Il primo obiettivo era quello di conquistare la maggioranza nei soviet – riconosciuti come unica legittima fonte del potere – e di lanciare le parole d'ordine della pace, della terra ai contadini poveri, del controllo della produzione da parte dei consigli operai.

I bolscevichi al potere

Il primo scontro fra i bolscevichi e il governo provvisorio si ebbe a Pietrogrado a metà luglio, quando soldati e operai armati scesero in piazza per impedire la partenza per il fronte di alcuni reparti. Ma l'insurrezione fallì. A settembre un tentativo di colpo di Stato promosso dal capo dell'esercito, il generale Kornilov, fu sventato dal governo, guidato dal social-rivoluzionario Aleksandr Kerenskij.
A uscire rafforzati da questa vicenda furono però soprattutto i bolscevichi, principali protagonisti della mobilitazione popolare contro il colpo di Stato, che conquistarono la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e di Mosca.
La decisione di rovesciare il governo fu presa dai bolscevichi in ottobre.
Organizzatore dell'insurrezione fu Lev Davidovič Bronstein, noto con lo pseudonimo di Trotzkij, eletto presidente del soviet di Pietrogrado.
La mattina del 7 novembre (25 ottobre per il calendario russo) soldati rivoluzionari e guardie rosse (ossia milizie operaie) circondarono il Palazzo d'Inverno, già residenza dello zar e ora sede del governo provvisorio, e se ne impadronirono la sera stessa.

I primi decreti rivoluzionari

In quegli stessi giorni, si riuniva a Pietrogrado il Congresso rivoluzionario panrusso dei soviet, cioè l'assemblea dei delegati dei soviet di tutte le province dell'ex Impero russo.
Come suo primo atto il Congresso varò due decreti, proposti personalmente da Lenin:
 - l'appello a tutti i popoli dei paesi belligeranti «per una pace giusta e democratica [...] senza annessioni e senza indennità»;
 - l'abolizione della grande proprietà terriera «immediatamente e senza alcun indennizzo».

Lo scioglimento dell'Assemblea costituente

La fulminea presa del potere da parte dei bolscevichi colse di sorpresa tutte le altre forze politiche.
Menscevichi, cadetti e socialrivoluzionari non organizzarono una reazione efficace e preferirono puntare le loro carte sulle elezioni dell'Assemblea costituente, fissate per la fine di novembre, in cui, effettivamente, i risultati delle urne costituirono una delusione per i bolscevichi, che ottennero meno di un quarto dei seggi.
Quasi scomparsi dalla scena i menscevichi e i cadetti, i veri trionfatori delle elezioni furono i socialrivoluzionari, che si assicurarono la maggioranza assoluta, grazie al massiccio sostegno dell'elettorato rurale.
Ma i bolscevichi non avevano alcuna intenzione di rinunciare al potere appena conquistato.
Riunitasi la prima volta all'inizio di gennaio, l'Assemblea costituente fu immediatamente sciolta dall'intervento dei militari bolscevichi, che ubbidivano a un ordine del Congresso dei soviet.
Questo nuovo atto di forza, coerente con le idee espresse più volte da Lenin che non credeva alle regole della «democrazia borghese», segnava una rottura irreversibile con le altre componenti del movimento socialista e con tutta la tradizione democratica occidentale.

 

Guerra civile e dittatura

Il trattato di Brest-Litovsk

Se era stato relativamente facile per i bolscevichi impadronirsi del potere centrale, molto più difficile – per un partito che contava nel novembre '17 circa 70 mila iscritti su una popolazione di oltre 150 milioni di abitanti – si presentava il compito di gestire questo potere, di amministrare un paese immenso, di governare una società tanto complessa quanto arretrata, di affrontare i tremendi problemi ereditati dal vecchio regime, primo fra tutti quello della guerra.
Il governo rivoluzionario decise immediatamente l'uscita dal conflitto, firmando il 5 dicembre l'armistizio con gli Imperi centrali. Ma dovette trattare in condizioni di palese inferiorità, e alla fine fu costretto ad accettare tutte le durissime condizioni imposte dai tedeschi.
La pace separata con la Germania, che fu conclusa il 3 marzo 1918 con la firma del trattato di Brest-Litovsk, comportava infatti la perdita di tutti i territori non russi dell'ex Impero (circa un quarto della sua parte europea), dove sarebbero sorti nuovi Stati indipendenti.

L'inizio della guerra civile

Gravissime furono poi le conseguenze del trattato a livello dei rapporti internazionali. Le potenze dell'Intesa, ancora impegnate contro gli Imperi centrali e preoccupate di un possibile contagio rivoluzionario, considerarono la pace di Brest-Litovsk un tradimento e cominciarono ad appoggiare le forze antibolsceviche che, già dalla fine del '17, si erano andate organizzando in varie zone del paese, per lo più sotto la guida di ex ufficiali zaristi.
Fra la primavera e l'estate del 1918 si ebbero sbarchi di truppe anglo-francesi prima nel nord della Russia e poi sulle coste del Mar Nero, mentre reparti statunitensi e giapponesi penetravano nella Siberia orientale.

Guerra civile in Russia

L'arrivo dei contingenti stranieri servì a rafforzare l'opposizione al governo bolscevico – soprattutto quella dei monarchico-conservatori, i cosiddetti bianchi – e ad alimentare la guerra civile in diverse zone del paese.
La prima minaccia venne dall'Est, dove i bianchi assunsero il controllo di vasti territori della Siberia penetrando, nell'estate del '18, nella zona fra gli Urali e il Volga: fu in questa circostanza che lo zar e tutta la sua famiglia, prigionieri nella città di Ekaterinburg, furono giustiziati per ordine del soviet locale nel timore che fossero liberati dai controrivoluzionari.
Nell'estate del '19, le potenze straniere avrebbero cominciato a ritirare le loro truppe, per le proteste che l'intervento suscitava nei loro paesi e per il pericolo di un "contagio rivoluzionario" fra i soldati.
Nella primavera del '20 la fase più acuta della guerra civile si sarebbe chiusa, dopo oltre due anni di combattimenti che avevano provocato perdite gravissime da ambo le parti e sofferenze inaudite per l'intera popolazione.

La stretta autoritaria

Frattanto il regime rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari. Si era cominciato, già nel dicembre '17, con la creazione di una polizia politica, la Ceka. Nello stesso periodo era stato istituito un Tribunale rivoluzionario centrale, col compito di processare chiunque disubbidisse al «governo operaio e contadino».
Nel giugno '18 vennero messi fuori legge i partiti d'opposizione e fu reintrodotta la pena di morte che era stata abolita subito dopo la rivoluzione d'ottobre. Arresti arbitrari ed esecuzioni sommarie di «nemici di classe» entrarono sin da allora nella realtà quotidiana del nuovo regime.

L'Armata rossa

Si procedeva nel contempo alla riorganizzazione dell'esercito, ricostituito ufficialmente nel febbraio '18 col nuovo nome di Armata rossa degli operai e dei contadini. Artefice principale dell'operazione fu Trotzkij che, servendosi anche di ufficiali del vecchio esercito zarista, costruì una potente macchina da guerra, fondata su una ferrea disciplina.
Ad assicurare la lealtà al governo rivoluzionario provvedevano figure di nuova istituzione, i commissari politici, distaccati dal partito presso le unità combattenti.

La sfida rivoluzionaria

La creazione di un esercito efficiente, decisiva per la vittoria nella guerra civile, avrebbe consentito anche in seguito alla Russia sovietica di sopravvivere allo scontro con i suoi numerosi nemici, interni ed esterni. Nasceva così un nuovo modello di Stato a partito unico dai tratti spietatamente autoritari, prototipo, come vedremo, di molti regimi antidemocratici che si sarebbero affermati negli anni successivi, eppure capace di proporsi, col suo radicale messaggio di eguaglianza sociale, come agente di liberazione per i popoli di tutto il mondo e come permanente minaccia per l'ordine economico e per gli equilibri internazionali dell'intero Occidente.

 

1918. La sconfitta degli Imperi centrali

I «quattordici punti» di Wilson

Per scongiurare la minaccia di una diffusione del modello rivoluzionario bolscevico, gli Stati dell'Intesa accentuarono, nella fase finale della guerra, il carattere ideologico dello scontro, presentandolo sempre più come una crociata della democrazia contro l'autoritarismo, come una difesa della libertà dei popoli contro i disegni egemonici dell'imperialismo tedesco.
Questa concezione della guerra trovò il suo interprete più autorevole nel presidente americano Woodrow Wilson.
Nel gennaio 1918 Wilson precisò le linee ispiratrici della sua politica in un programma di pace in quattordici punti. Oltre a formulare una serie di proposte concrete circa il nuovo assetto europeo nel rispetto dei principi di nazionalità e di autodeterminazione, il presidente americano proponeva l'abolizione della diplomazia segreta, il ripristino della libertà di navigazione, la soppressione delle barriere doganali, la riduzione degli armamenti.
Nell'ultimo punto si proponeva infine l'istituzione di un nuovo organismo internazionale, la Società delle nazioni, per assicurare il mutuo rispetto delle norme di convivenza fra i popoli.

 

La controffensiva dell'Intesa

Sul fronte bellico l'inizio del 1918 vedeva ancora i due schieramenti in una situazione di sostanziale equilibrio.
La partita decisiva continuava a giocarsi sul fronte francese. Fu qui che la Germania tentò la sua ultima e disperata scommessa impegnando tutte le forze rese disponibili dalla firma della pace con la Russia. In giugno l'esercito tedesco era di nuovo sulla Marna e Parigi era sotto il tiro dei cannoni a lunga gittata. Sempre in giugno gli austriaci tentarono di sferrare il colpo decisivo sul fronte italiano attaccando in forze sul Piave e nella zona del Monte Grappa, ma furono respinti dopo una settimana di furiosi combattimenti.
Alla fine di luglio le forze dell'Intesa, ormai superiori in uomini e mezzi grazie al massiccio apporto degli Stati Uniti, passarono al contrattacco. Fra l'8 e l'11 agosto, nella grande battaglia di Amiens, i tedeschi subirono la prima grave sconfitta sul fronte occidentale. Da quel momento cominciarono ad arretrare lentamente, mentre fra le loro truppe si facevano più evidenti i segni di stanchezza.

La fine dell'Austria-Ungheria

Alla fine di ottobre si consumò la crisi finale dell'Austria-Ungheria.
Cecoslovacchi e slavi del Sud proclamarono l'indipendenza, mentre i soldati abbandonavano il fronte in numero sempre maggiore.
Quando, il 24 ottobre, gli italiani lanciarono un'offensiva sul Piave, l'Impero era ormai in piena crisi. Sconfitti sul campo nella battaglia di Vittorio Veneto, gli austriaci il 3 novembre firmarono a Villa Giusti, presso Padova, l'armistizio con l'Italia che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo.

La resa della Germania

Intanto la situazione precipitava anche in Germania.
Ai primi di ottobre si era formato un nuovo governo di coalizione democratica, con la partecipazione dei socialdemocratici e del Centro cattolico. Si sperava che un governo realmente rappresentativo potesse costituire un interlocutore più credibile per l'Intesa al tavolo delle trattative.
Ai primi di novembre i marinai di Kiel, dov'era concentrato il grosso della flotta tedesca, si ammutinarono e diedero vita, assieme agli operai della città, a consigli rivoluzionari ispirati all'esempio russo. Il moto si propagò a Berlino e in Baviera e ad esso parteciparono anche i socialdemocratici, pure presenti nel governo "legale" del Reich.
Il 9 novembre a Berlino un socialdemocratico, Friedrich Ebert, fu proclamato capo del governo, mentre Guglielmo II era costretto a fuggire in Olanda e veniva proclamata la Repubblica.
L'11 novembre i delegati del governo provvisorio tedesco firmavano l'armistizio nel villaggio francese di Rethondes.

Il bilancio della guerra

La Germania perdeva così una guerra che più degli altri aveva contribuito a far scoppiare. La perdeva per fame e per stanchezza, ma senza essere stata schiacciata sul piano militare e senza che il suo territorio fosse stato invaso da eserciti stranieri.
Gli Stati dell'Intesa, vincitori grazie all'apporto, tardivo ma decisivo, di una potenza extraeuropea, uscivano dal conflitto scossi e provati per l'immane sforzo sostenuto.
La guerra si chiudeva non solo con un tragico bilancio di perdite umane (8 milioni e mezzo di morti, oltre 20 milioni di feriti gravi e mutilati), ma anche con un drastico ridimensionamento del peso politico del vecchio continente sulla scena internazionale.

 

Vincitori e vinti

La conferenza della pace

Il 18 gennaio 1919, nella reggia di Versailles, presso Parigi, si aprirono i lavori della conferenza della pace. Vi parteciparono i rappresentanti di trentadue paesi dei cinque continenti (compresi alcuni Stati appena costituiti), molti dei quali avevano svolto nella guerra un ruolo marginale, mentre rimasero esclusi i paesi sconfitti, chiamati solo a ratificare le decisioni che li riguardavano.
Tutte le materie più importanti vennero in realtà riservate ai cosiddetti "quattro grandi", ossia ai capi di governo delle principali potenze vincitrici: l'americano Wilson, il francese Clemenceau, l'inglese Lloyd George e l'italiano Orlando, quest'ultimo però spesso tagliato fuori nei momenti decisivi.
I leader delle potenze vincitrici avevano il compito di ridisegnare la carta politica del vecchio continente, sconvolta dal crollo contemporaneo di quattro imperi (russo, austroungarico, tedesco e turco).
Il nuovo equilibrio non poteva non tener conto dei principi di democrazia e di giustizia internazionale enunciati nei «quattordici punti» di Wilson; in realt, però, la realizzazione di quel programma si rivelò assai problematica: i principi wilsoniani, infatti, non sempre erano compatibili con l'esigenza di punire in qualche modo gli sconfitti – considerati i soli responsabili della guerra – e di premiare i vincitori, o quanto meno di garantirli, anche sul piano territoriale, contro la possibilità di rivincite da parte degli ex nemici.

II trattato di Versailles

Il contrasto risultò evidente soprattutto quando furono discusse le condizioni da imporre alla Germania.
Il trattato, che venne firmato a Versailles il 28 giugno 1919, fu in realtà un'imposizione – un Diktat, ovvero un "dettato", come allora fu definito – subita sotto la minaccia dell'occupazione militare e del blocco economico.
Dal punto di vista territoriale era previsto, oltre alla restituzione alla Francia dell'Alsazia-Lorena, annessa nel 1871, il passaggio alla ricostituita Polonia di alcune regioni orientali abitate solo in parte da tedeschi: l'Alta Slesia, la Posnania, più una striscia della Pomerania – il cosiddetto corridoio polacco – che interrompeva la continuità territoriale fra Prussia occidentale e Prussia orientale, per consentire alla Polonia di affacciarsi sul Baltico e accedere al porto di Danzica. Questa città, abitata in prevalenza da tedeschi, veniva anch'essa tolta alla Germania e trasformata in «città libera».
La Germania venne privata anche delle sue colonie in Africa e in Oceania, spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone.

Smilitarizzazione e riparazioni

Ma la parte più pesante del Diktat era costituita dalle clausole economiche e militari.
Indicata nel testo stesso del trattato come responsabile della guerra, la Germania dovette impegnarsi a rifondere ai vincitori, a titolo di riparazione, i danni subiti in conseguenza del conflitto. Fu inoltre costretta ad abolire il servizio di leva, a rinunciare alla marina da guerra, a ridurre la consistenza del proprio esercito entro il limite di 100 mila uomini e a lasciare «smilitarizzata» (priva cioè di reparti armati e di fortificazioni) l'intera valle del Reno, che sarebbe stata presidiata per quindici anni da truppe inglesi, francesi e belghe.
Erano condizioni umilianti, tali da ferire profondamente l'orgoglio nazionale tedesco. Ma erano anche, agli occhi dei francesi, l'unico mezzo per impedire alla Germania di riprendere la sua posizione di grande potenza.

La dissoluzione dell'impero asburgico

Un problema completamente diverso era costituito dal riconoscimento delle nuove realtà nazionali emerse dalla dissoluzione dell'Impero asburgico.
La nuova Repubblica di Austria si trovò ridotta entro un territorio di appena 85 mila km2 (più o meno quello che occupa attualmente), abitato da sei milioni e mezzo di cittadini di lingua tedesca: più di un quarto risiedevano a Vienna, una capitale ormai sproporzionata alle dimensioni e alle risorse del piccolo Stato.
Un trattamento severo toccò anche all'Ungheria che, costituitasi in repubblica nel novembre '18, perse non solo le regioni slave (Slovacchia, Croazia) fin allora dipendenti da Budapest, ma anche alcuni territori abitati in prevalenza da popolazioni magiare.

Le nuove nazioni

A trarre vantaggio dal crollo dell'Impero asburgico, oltre all'Italia, furono soprattutto i popoli slavi.
I polacchi della Galizia si unirono alla nuova Polonia, formata da territori già appartenenti agli imperi russo e tedesco. I cechi e gli slovacchi confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia, uno Stato federale che comprendeva anche una minoranza di tre milioni di tedeschi (residenti nella regione dei Sudeti). Gli slavi del Sud – cioè gli abitanti della Croazia, della Slovenia e della Bosnia-Erzegovina – si unirono alla Serbia e al Montenegro per dar vita alla Jugoslavia.

Il crollo dell'Impero ottomano

Il nuovo assetto balcanico era completato dall'ingrandimento della Romania, dal ridimensionamento della Bulgaria e dalla quasi completa estromissione dall'Europa dell'Impero ottomano che, privato contemporaneamente di tutti i suoi territori arabi, si trasformava di fatto in uno Stato nazionale turco, conservando la sola penisola dell'Anatolia, tranne la regione di Smirne assegnata alla Grecia. Dell'antico impero restava ormai solo un involucro formale, che mascherava il tentativo delle potenze vincitrici di spartire il paese in zone di influenza a loro riservate.

La Russia e le repubbliche baltiche

Restava aperto il problema dei rapporti con la Russia rivoluzionaria.
Gli Stati vincitori non riconobbero la Repubblica socialista, mentre furono riconosciute e protette, proprio in funzione antisovietica, le nuove repubbliche indipendenti che si erano formate nei territori baltici persi dalla Russia con il trattato di Brest-Litovsk: la Finlandia, l'Estonia, la Lettonia e la Lituania.

L'indipendenza dell'Irlanda

L'Europa uscita dalla conferenza di Parigi contava dunque ben otto nuovi Stati. A essi si sarebbe aggiunto nel 1921 lo Stato libero d'Irlanda, cui la Gran Bretagna si risolse a concedere l'indipendenza, anche se nell'ambito del Commonwealth e con l'esclusione del Nord protestante (Ulster). Tale accordo fu però contestato dall'ala radicale degli indipendentisti.

L'Europa dopo il Trattato di Versailles

La Società delle nazioni

Ad assicurare il rispetto dei trattati e la salvaguardia della pace avrebbe dovuto provvedere la Società delle nazioni.
Il nuovo organismo prevedeva nel suo statuto la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti e l'adozione di sanzioni economiche nei confronti degli Stati aggressori. Ma nasceva minato in partenza da profonde contraddizioni, tra cui la più grave era l'esclusione iniziale dei paesi sconfitti e della Russia.
Il colpo più duro alla Società delle nazioni, però, arrivò proprio dagli Stati Uniti, cioè dal paese che più di ogni altro ne aveva voluto la nascita: nel marzo 1920, infatti, il Senato statunitense rifiutò di ratificare i trattati di Versailles, che includevano l'adesione al nuovo organismo.
Mentre per gli Stati Uniti cominciava una stagione di isolazionismo, ossia di rifiuto delle responsabilità mondiali e di ritorno a una sfera di interessi continentali, la Società delle nazioni finì con l'essere egemonizzata da Gran Bretagna e Francia e non fu in grado di prevenire i conflitti che costellarono gli anni fra le due guerre mondiali.

 

Il mito e la memoria

 

La comunità dei combattenti

La prima guerra mondiale fu, come pochi altri eventi della storia contemporanea, una grande produttrice di miti.
Lo fu innanzitutto per coloro che la combattevano. La condizione di disagio psicologico oltre che materiale, di sradicamento e di spaesamento vissuta dalla maggior parte dei soldati portò molti di loro a sviluppare forme diverse di fuga dalla realtà: dunque a coltivare credenze irrazionali, ad accettare come vere notizie fantastiche, a immaginare apparizioni miracolose o eventi sovrannaturali.
Anche la tendenza, naturale e in parte giustificata, a sentirsi parte di una comunità omogenea e compatta – quella delle trincee – contrapposta a una società egoista e ingrata, insensibile ai sacrifici di chi stava al fronte, si trasformò un po' in tutti i paesi in una visione distorta e semplificata della realtà, in cui alla frattura fisica che opponeva il proprio fronte a quello nemico si sommava la frattura morale tra combattenti e "imboscati".

Il culto dei caduti

Anche negli anni successivi alla fine del conflitto, la guerra continuò a lungo a essere oggetto di rappresentazione e di trasfigurazione mitica.
L'entità senza precedenti delle perdite umane, che ovviamente avevano colpito soprattutto le generazioni più giovani, lasciò una traccia profonda e aprì una ferita non rimarginabile nella memoria privata delle famiglie e degli stessi commilitoni, ma anche nella memoria pubblica dei paesi coinvolti nel conflitto.
Comune alla dimensione privata e a quella pubblica era il tentativo di elaborare, per quanto possibile, il lutto, di trovare a posteriori giustificazioni ideali a tanta sofferenza, in nome del patriottismo e della difesa della nazione.
Ne risultò spesso una visione idealizzata della guerra, che nel ricordo veniva depurata dei suoi orrori e delle sue crudeltà e rivissuta nella chiave dell'eroismo, del volontario martirio: una sorta di santificazione laica di coloro che erano caduti nell'adempimento del dovere.

Luoghi della memoria

Non si trattava certo di una novità: la celebrazione dei morti in guerra, ben presente fin dall'antichità classica e alimentata da una cospicua tradizione letteraria, era stata rinverdita dalla cultura romantica che vedeva negli eserciti basati sulla leva in massa l'espressione della nazione in armi, e ancor più con la diffusione del volontariato nel corso delle lotte per l'indipendenza e delle rivoluzioni ottocentesche.
Nuove erano però le dimensioni del fenomeno, proporzionate alla vastità del conflitto e al numero delle vittime.
Nuova la partecipazione emotiva di massa e più esteso l'impegno delle autorità pubbliche nelle iniziative in ricordo dei caduti.
Non solo furono eretti grandi mausolei nei luoghi dei combattimenti più sanguinosi (Tannenberg in Prussia orientale, Verdun in Francia, Redipuglia in Italia), ma in moltissimi centri, compresi i piccoli comuni, sorsero monumenti ai caduti che celebravano il sacrificio dei soldati del luogo, i cui nomi erano elencati sul marmo.
Ai monumenti si aggiunsero parchi e viali "della rimembranza" (questo il nome che assunsero in Italia), luoghi di raccoglimento che dovevano ricordare i caduti e al tempo stesso suggerire l'idea di una continuità della vita, simboleggiata dagli alberi piantati nell'occasione.

Il milite ignoto

Una forma nuova di celebrazione collettiva, anch'essa commisurata alla vastità del lutto, fu quella del "milite ignoto": la sepoltura solenne in uno spazio pubblico delle spoglie di un soldato anonimo, scelto in rappresentanza di tutti i combattenti morti e in particolare dei tanti di cui non era stato possibile nemmeno il riconoscimento.
In tutti i paesi che la adottarono (cominciarono la Francia e la Gran Bretagna nel 1920, seguite un anno dopo anche dall'Italia, che scelse per la sepoltura l'Altare della patria, sul grande monumento a Vittorio Emanuele II), la celebrazione del milite ignoto fu seguita con grande emozione e partecipazione popolare. Ma rappresentò anche il tentativo delle classi dirigenti di riunificare e pacificare una memoria che restava comunque divisa, di riavvicinare l'immagine ufficiale ed eroica del conflitto al sentimento diffuso in larghi strati della popolazione (anche dei paesi vincitori), che nella guerra vedevano soprattutto una spaventosa sciagura, o addirittura un grande misfatto collettivo di cui i responsabili avrebbero prima o poi dovuto rispondere.
La contrapposizione mai del tutto sanata fra le diverse memorie costituì un fattore non secondario della radicalizzazione politica e sociale che avrebbe segnato gli anni agitati del dopoguerra europeo.

 

 

UN DIFFICILE DOPOGUERRA

 

 

Le conseguenze economiche della guerra

Le difficoltà finanziarie

Quella che usciva dalla traumatica esperienza della Grande Guerra era un'Europa sconvolta e trasformata nel profondo, e non solo per la tremenda distruzione di vite umane e per il drastico mutamento dei confini fra gli Stati.
Macroscopiche, e per molti aspetti dirompenti, furono le conseguenze sul piano economico. Con la sola eccezione degli Stati Uniti, tutti i paesi belligeranti uscirono dalla prima guerra mondiale in condizioni di gravissimo dissesto. La guerra aveva inghiottito una quantità incredibile di risorse: in Italia, in Francia e in Germania le spese sostenute per il conflitto furono pari al doppio del prodotto nazionale lordo dell'ultimo anno di pace, in Gran Bretagna addirittura al triplo.
Per far fronte a queste enormi spese, i governi erano ricorsi dapprima all'aumento delle tasse. Quindi avevano fatto appello al patriottismo dei risparmiatori lanciando sottoscrizioni e prestiti nazionali e allargando a dismisura il debito pubblico. Infine avevano contratto massicci debiti con i paesi amici, in primo luogo con gli Stati Uniti.

Inflazione e prezzi

Né le tasse né i debiti erano stati comunque sufficienti a coprire le spese di guerra.
Così i governi avevano stampato carta moneta in eccedenza, mettendo in moto un rapido processo inflazionistico.
Fra il 1915 e il 1918 i prezzi crebbero di tre volte e mezzo in Francia, di due volte e mezzo in Italia, di due volte in Gran Bretagna e in Germania. E nei primi due anni del dopoguerra la tendenza risultò ulteriormente accelerata, determinando uno sconvolgimento nella distribuzione della ricchezza e nelle stesse gerarchie sociali: se la guerra aveva creato fortune improvvise soprattutto fra gli industriali e gli speculatori (i cosiddetti «pescecani» o profittatori di guerra), l'inflazione distruggeva posizioni economiche consolidate ed erodeva i risparmi dei ceti medi, in particolare di coloro che avevano investito in titoli del debito pubblico.

L'intervento statale

Per non aggravare le tensioni, i governi dovettero mantenere per tempi più o meno lunghi il blocco sui prezzi dei generi di prima necessità e sui canoni d'affitto.
D'altro canto il sostegno dei poteri pubblici era richiesto dagli industriali che dovevano affrontare la difficile riconversione alle attività di pace.
Rimasero quindi in vita molti apparati burocratici (ministeri, sottosegretariati, commissariati) destinati ai compiti più diversi: dal controllo dei prezzi agli approvvigionamenti alimentari, dalle pensioni di guerra alla composizione delle vertenze di lavoro.
Non si interruppe, anzi si rafforzò, la tendenza dei pubblici poteri a intervenire su materie un tempo riservate alla libera iniziativa delle parti sociali.
Grazie al sostegno dello Stato, accordato sotto forma di dazi protettivi, di facilitazioni creditizie, di nuove commesse per la ricostruzione civile e per le forze armate, l'industria europea riuscì in un primo tempo a mantenere i livelli produttivi degli anni di guerra. Ma questa espansione artificiale, che si accompagnò a una stagione di intense lotte sociali, durò meno di due anni e fu seguita, nel 1920-21, da una fase depressiva.

Il calo degli scambi

Una pronta ripresa delle economie europee era peraltro frenata dal calo degli scambi internazionali. Quattro anni di interruzione delle usuali correnti di traffico avevano inferto un colpo durissimo alla tradizionale supremazia commerciale dell'Europa.
Gli Stati Uniti e il Giappone avevano fortemente aumentato le esportazioni, sostituendosi agli europei sui mercati dell'Asia e del Sud America.
Altri paesi, come l'Argentina e il Brasile, il Canada, il Sudafrica e l'Australia, avevano sviluppato una propria produzione industriale allentando la dipendenza dal vecchio continente.
Ancora più grave, nell'immediato, era per Gran Bretagna e Francia la perdita di molti partner commerciali europei, economicamente stremati come la Germania, isolati come la Russia, o smembrati, come l'Impero austro-ungarico, in tanti nuovi Stati, ciascuno con la sua moneta, il suo sistema di comunicazioni, i suoi dazi doganali.
Invece della piena libertà degli scambi auspicata nel programma di Wilson, si ebbe nel dopoguerra una ripresa di nazionalismo economico e di protezionismo doganale, soprattutto da parte dei nuovi Stati che volevano sviluppare una propria industria.

 

I mutamenti nella vita sociale

L'evoluzione dei costumi

I mutamenti economici del dopoguerra europeo si accompagnarono e si intrecciarono, com'era naturale, con un più ampio processo di trasformazione della società. La guerra aveva agito come un potentissimo acceleratore dei fenomeni sociali, provocando trasformazioni in tutti i campi della vita associata.
L'espansione dell'industria bellica aveva spostato dalle campagne alle città nuovi strati di lavoratori non qualificati, per lo più donne e ragazzi non ancora in età di leva.
Il brusco distacco dal nucleo familiare di molti giovani e l'assenza prolungata dei capifamiglia chiamati al fronte avevano messo in crisi le strutture tradizionali della famiglia e provocato mutamenti profondi nella mentalità e nelle abitudini delle generazioni più giovani.
C'era minor rispetto per le tradizioni e per le gerarchie consolidate. I giovani cercavano nuove occasioni di divertimento e le trovavano nel cinema o nella musica importata in Europa dai soldati statunitensi. I lavoratori chiedevano maggior disponibilità di tempo libero. Tutti cercavano compensi per le sofferenze subite o per gli anni perduti a causa della guerra.

Le donne

A risentire di questi mutamenti furono, in primo luogo, coloro che alla guerra non avevano direttamente partecipato: le donne.
I cambiamenti più evidenti si ebbero nel mondo del lavoro: nei campi, nelle fabbriche, negli uffici le donne presero spesso il posto degli uomini al fronte, assumendo responsabilità e compiti fin allora sostanzialmente preclusi.
Divennero operaie nelle fabbriche di armi, guidatrici di tram, impiegate di banca.
Anche tra le mura domestiche il loro ruolo cambiò radicalmente: da esecutrici delle mansioni domestiche a capifamiglia di fatto.
La maggiore disponibilità economica e la crescente consapevolezza delle proprie capacità trasformarono l'immagine stessa della donna: le giovani, soprattutto, tendevano ad assumere comportamenti più liberi, anche nella vita quotidiana – diminuì, in genere, il tempo passato in casa – e nell'abbigliamento: furono abbandonati corpetti e gonne lunghe fino ai piedi in favore di abiti più corti e leggeri.
Questo processo di emancipazione ebbe nel dopoguerra anche un parziale riconoscimento sul piano del diritto di voto: dopo la Gran Bretagna, che lo riconobbe nel 1918, furono la Germania (1919) e gli Stati Uniti (1920) i principali paesi occidentali a codificarlo nel primo dopoguerra.

Gli ex-combattenti

La trasformazione del ruolo della donna suscitò però anche forti resistenze in ampi settori dell'opinione pubblica. A manifestare preoccupazione furono soprattutto i reduci di guerra, che temevano di veder occupati quei posti di lavoro cui credevano di aver diritto.
Il problema del trattamento degli ex combattenti e del loro reinserimento nel mondo del lavoro fu tra i più urgenti per le classi dirigenti di tutti i paesi. Chi aveva rischiato la vita sui campi di battaglia tornava a casa con la convinzione di aver maturato un credito nei confronti della società. Quelli che al fronte avevano avuto ruoli di comando mal si rassegnavano al ritorno a un lavoro subordinato.
Sorsero dappertutto associazioni di ex combattenti che si mobilitavano in difesa dei propri valori e dei propri interessi.
Nei confronti dei reduci i governanti di tutti i paesi furono larghi di promesse; ma in realtà, a causa dei gravissimi problemi finanziari che assillavano gli Stati europei, le provvidenze in favore dei combattenti – polizze di assicurazione, premi di smobilitazione, pensioni per gli invalidi, gli orfani e le vedove – furono limitate, suscitando un diffuso senso di risentimento.

La "massificazione" della politica

Le inquietudini dei reduci erano però solo un segno di un più vasto fenomeno di mobilitazione sociale.
La guerra aveva dimostrato l'importanza del principio di organizzazione applicato alle masse. Per far valere i propri diritti e per affermare le proprie rivendicazioni sembrava dunque necessario associarsi e organizzarsi in gruppi il più possibile numerosi.
Risultò così accentuata la tendenza, già in atto, alla "massificazione" della politica: partiti e sindacati videro aumentare ovunque il numero dei loro iscritti, i loro apparati organizzativi divennero più complessi e centralizzati.
Persero importanza le forme tradizionali dell'attività politica nei regimi liberali: quelle che si svolgevano nei circoli ristretti dei notabili e che culminavano nell'azione parlamentare. Acquistavano invece maggior peso e maggiore frequenza le manifestazioni pubbliche – comizi, dimostrazioni, adunate, cortei – basate sulla partecipazione diretta dei cittadini.

 

Stati nazionali e minoranze

Nuove compagini statali

La vittoria delle potenze democratiche e il crollo degli imperi multietnici significarono per molti popoli europei il coronamento di lunghe lotte per l'indipendenza e parvero dar corpo agli ideali di nazionalità proclamati dai protagonisti delle rivoluzioni ottocentesche e rilanciati, nell'ultima fase della guerra, dai «quattordici punti» di Wilson.
Tuttavia, già nel corso della conferenza della pace l'applicazione dei principi wilsoniani si rivelò a dir poco problematica. Una difficoltà che, se in parte poteva essere ricondotta ai calcoli e agli egoismi delle potenze vincitrici, in realtà nasceva soprattutto dall'oggettiva impossibilità di tradurre in atto l'utopia mazziniana di una pacifica convivenza fra i diversi popoli, ciascuno sovrano nel suo proprio territorio.

Etnie e territori

Questa utopia si basava infatti sul presupposto di una coincidenza pressoché perfetta fra poche nazioni etnicamente omogenee e i territori da esse occupati. Una condizione che poteva realizzarsi, con larga approssimazione, nei principali Stati dell'Europa occidentale (Francia, Spagna, la stessa Italia), ma era molto lontana dalla realtà etnico-linguistica della parte orientale del continente, dove popoli diversi erano abituati a convivere sullo stesso territorio e dove l'appartenenza a un gruppo nazionale non costituiva l'unico né sempre il principale riferimento politico.
Negli antichi imperi la divisione etnica coincideva spesso con i confini di classe più che con quelli geografici: in ampie zone della Polonia, ad esempio, i signori erano per lo più polacchi o tedeschi, i contadini erano ucraini e polacchi, mentre gli ebrei, concentrati in insediamenti separati (shtetl), si dedicavano prevalentemente al commercio o alle professioni.
Nell'Impero ottomano situazioni del genere erano la regola più che l'eccezione e i diversi gruppi etnico-religiosi potevano essere sottoposti a giurisdizioni diverse pur vivendo sulla stessa terra.

Il problema delle minoranze

Date queste premesse, l'applicazione del principio di nazionalità non poteva che risultare imperfetta, oltre che difficile: si è calcolato che le decisioni di Versailles diedero una patria indipendente a circa sessanta milioni di persone, ma ne trasformarono altri venticinque milioni in minoranze.
Una volta elevato il principio nazionale a base di legittimazione degli Stati, quella che era una condizione generalmente accettata nei contesti multietnici (dove pure non mancavano i conflitti e le sopraffazioni), divenne un problema da risolvere, se non addirittura un'anomalia da estirpare. La presenza di gruppi che parlavano lingue diverse, seguivano proprie tradizioni o professavano altre religioni rispetto alla maggioranza fu sentita come una minaccia dai membri di comunità nazionali che si volevano omogenee e coese.
Paradossalmente, la liberazione dei popoli dalle dominazioni straniere poteva così dar luogo a nuove oppressioni o persecuzioni e scatenare nuovi conflitti a sfondo nazionale.

Contese e conflitti

Già durante la conferenza di Versailles e poi nella neonata Società delle nazioni, gli statisti europei si sforzarono di trovare soluzioni pacifiche a un problema che tutti avevano sottovalutato.
In alcuni casi controversi (come quello dell'Alta Slesia, contesa fra Germania e Polonia), furono indetti plebisciti per decidere l'assegnazione di un territorio.
Più spesso si cercò di vincolare gli Stati al rispetto dei diritti delle minoranze, primo fra tutti quello di studiare e di comunicare nella propria lingua.
Ma queste norme furono per lo più ignorate, anche per l'incapacità della Società delle nazioni di imporre sanzioni efficaci. Si apri dunque la strada alle soluzioni più drastiche.
In alcuni casi – fra questi, ancora una volta, alcuni territori contesi fra Germania e Polonia – si organizzarono scambi di popolazioni. Altre volte questi scambi si verificarono in forma cruenta come risultato di un conflitto: per esempio, la guerra fra Grecia e Turchia del 1922-23 portò al trasferimento forzato, in direzioni opposte, di circa due milioni di persone in base all'appartenenza etnica e religiosa.
Più tardi, procedendo su questa strada, si sarebbe giunti a quelle che oggi chiamiamo "pulizie etniche", ovvero alle espulsioni in massa non mitigate da alcun accordo fra le parti, e infine al caso estremo, già annunciato dal massacro degli armeni durante la Grande Guerra, dello sterminio pianificato di un intero popolo.

 

Il "biennio rosso": rivoluzione e controrivoluzione in Europa

Le lotte operaie

Tra la fine del 1918 e l'estate del 1920 il movimento operaio europeo fu protagonista di un'impetuosa avanzata politica che assunse in alcuni casi connotati rivoluzionari.
I partiti socialisti registrarono quasi ovunque notevoli incrementi elettorali. I lavoratori organizzati dai sindacati diedero vita a un'ondata di agitazioni che consentì agli operai dell'industria di difendere o migliorare i livelli reali delle loro retribuzioni e di ottenere fra l'altro la riduzione dell'orario di lavoro a otto ore giornaliere a parità di salario: un obiettivo che da trent'anni figurava al primo posto nei programmi del movimento socialista e che fu raggiunto quasi simultaneamente, subito dopo la fine della guerra, in tutti i principali Stati europei.
L'ondata di lotte operaie non si esaurì nelle rivendicazioni sindacali. Alimentate dalle vicende russe, si manifestavano aspirazioni più radicali, che investivano direttamente il problema del potere nella fabbrica e nello Stato. Ovunque si formarono spontaneamente consigli operai che scavalcavano le organizzazioni tradizionali dei lavoratori e che, sull'esempio dei soviet russi, si proponevano come organi di governo della futura società socialista.

Il fallimento dei tentativi rivoluzionari

L'ondata rossa del '19-20 si manifestò nei singoli paesi in forme e con intensità diverse.
Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna (diverso fu il caso dell'Italia), conservatori e moderati mantennero il controllo dei rispettivi parlamenti e la pressione del movimento operaio fu contenuta senza eccessive difficoltà.
Germania, Austria e Ungheria, dove le tensioni sociali si sommavano ai traumi della sconfitta e del cambiamento di regime, furono invece teatro di tentativi rivoluzionari, che furono però rapidamente stroncati.
Ciò che era stato possibile in Russia non fu dunque possibile negli altri paesi europei, dove borghesia e capitalismo non erano stati prostrati ma piuttosto trasformati dalla guerra e dove lo stesso movimento operaio era legato a una ormai lunga esperienza di azione pacifica all'interno delle istituzioni.

La divisione del movimento operaio

La rivoluzione d'ottobre aveva però accentuato, all'interno del movimento operaio, la frattura, già manifestatasi durante la guerra, fra le avanguardie rivoluzionarie e il resto del movimento legato ai partiti socialdemocratici e alle grandi centrali sindacali.
Già nel 1918, i bolscevichi avevano abbandonato l'antica denominazione di Partito socialdemocratico, a lungo contesa con i menscevichi, per quella di Partito comunista (bolscevico) di Russia. La scissione fu sancita ufficialmente, nel marzo 1919, con la costituzione a Mosca di una Internazionale comunista (Comintern, con dizione abbreviata), o Terza Internazionale.

I partiti comunisti

La struttura e i compiti del Comintern furono fissati nel II congresso, che si tenne, sempre a Mosca, nel luglio del 1920.
Fu lo stesso Lenin a fissare in un documento in ventuno punti le condizioni da rispettare per poter essere ammessi al nuovo organismo: i partiti aderenti al Comintern avrebbero dovuto ispirarsi al modello bolscevico, cambiare il proprio nome in quello di Partito comunista, difendere in tutte le sedi possibili la causa della Russia sovietica, rompere con le correnti riformiste espellendone i principali esponenti.
Condizioni così pesanti e ultimative suscitarono in seno al movimento operaio europeo accesi dibattiti e gravi lacerazioni con conseguenti scissioni.
Fra la fine del '20 e l'inizio del '21 fu comunque raggiunto l'obiettivo di creare in tutto il mondo una rete di partiti ricalcati sul modello bolscevico e fedeli alle direttive del partito-guida. Nessuna di queste formazioni riuscì però a conquistare il consenso maggioritario della classe operaia dei paesi più sviluppati.
La scissione del movimento operaio, preparata e consumata nella prospettiva di un'imminente rivoluzione europea, avrebbe invece contribuito ad aprire il varco alla controffensiva conservatrice.

Rivoluzione in Germania

Prima di essere sancita dalle scissioni, la rottura fra socialdemocrazia e comunismo era stata segnata nei fatti dalle vicende drammatiche che in Germania avevano seguito la proclamazione della Repubblica.
Già al momento della firma dell'armistizio lo Stato tedesco si trovava in una situazione tipicamente rivoluzionaria. Il governo legale, presieduto da Ebert e con sede a Berlino, era formato da esponenti del Partito socialdemocratico (Spd), ma nelle città i padroni della situazione erano i consigli degli operai e dei soldati.
La situazione poteva sembrare molto simile a quella della Russia del '17. Ma le differenze erano notevoli. I socialdemocratici tedeschi, l'unica grande forza organizzata presente nel paese, erano decisamente contrari a una rivoluzione di tipo sovietico e non intendevano smantellare le strutture militari e civili del vecchio Stato fino alla convocazione di un'assemblea costituente. Si creò cosi un'obiettiva convergenza fra i capi della Spd e gli esponenti della vecchia classe dirigente, con in testa i militari.

L'insurrezione spartachista

La linea moderata scelta dalla Spd portava fatalmente allo scontro con le correnti più radicali del movimento operaio, soprattutto con i rivoluzionari della Lega di Spartaco (nucleo originario del Partito comunista tedesco), che si opponevano alla convocazione della Costituente.
Il 5-6 gennaio 1919, gli spartachisti tentarono di rovesciare il governo di Berlino. Durissima fu la reazione delle autorità che, non potendo contare su un esercito efficiente, si servirono per la repressione di squadre volontarie (i cosiddetti Freikorps, ossia "corpi franchi") formate da soldati smobilitati e inquadrate da ufficiali di orientamento nazionalista e conservatore.
Nel giro di pochi giorni i Freikorps schiacciarono nel sangue l'insurrezione berlinese. I leader del movimento spartachista, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, furono arrestati e trucidati da ufficiali dei corpi franchi.

La nascita della Repubblica di Weimar

Il 19 gennaio si tennero le elezioni per l'Assemblea costituente.
La convergenza fra socialisti, cattolici e democratici rese possibile la formazione di un governo di coalizione a guida socialdemocratica e, soprattutto, il varo, nell'agosto 1919, della nuova Costituzione.
La Costituzione di Weimar – chiamata cosi dal nome della città in cui si svolsero i lavori dell'assemblea – aveva un'ispirazione fortemente democratica: prevedeva larghe autonomie regionali, il suffragio universale maschile e femminile, un governo responsabile di fronte al Parlamento e un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo.
Né la convocazione della Costituente né il varo della Costituzione valsero però a riportare la tranquillità nel paese.
In aprile l'epicentro del moto rivoluzionario si era spostato in Baviera, dove era stata proclamata una Repubblica dei consigli, stroncata dall'intervento dell'esercito e dei corpi franchi.
Non meno grave era la minaccia che veniva da destra: dai corpi franchi e dagli stessi capi dell'esercito, pronti a dimenticare, man mano che si allontanava il pericolo rivoluzionario, i loro impegni di lealtà alle istituzioni repubblicane. Furono proprio quei generali che portavano la maggiore responsabilità politica della sconfitta, e che avevano sollecitato, nell'autunno del '18, una rapida conclusione dell'armistizio, a diffondere la leggenda della «pugnalata alla schiena», secondo cui l'esercito tedesco sarebbe stato ancora in grado di vincere se non fosse stato tradito da una parte del paese. Una leggenda priva di fondamento, utile però a gettare discredito sulla Repubblica e sulla classe dirigente che si era assunta l'ingrato compito di firmare la pace.

Rivoluzione e reazione in Austria e in Ungheria

Anche nella nuova Repubblica austriaca furono i socialdemocratici a governare il paese nella difficile fase del trapasso di regime, mentre i comunisti tentarono ripetutamente, senza fortuna, la carta dell'insurrezione.
Nel 1920, però, le elezioni videro prevalere il voto clericale e conservatore.

Breve e drammatica fu la vita della Repubblica democratica in Ungheria, dove i socialisti si unirono ai comunisti per instaurare, nel marzo del 1919, una Repubblica sovietica, che attuò una politica di dura repressione nei confronti della borghesia e dell'aristocrazia agraria.
L'esperimento durò poco più di quattro mesi. Ai primi di agosto, la situazione fu rovesciata dalla reazione delle forze conservatrici che scatenarono un'ondata di «terrore bianco». L'Ungheria cadeva così sotto un regime autoritario sorretto dalla Chiesa e dai grandi proprietari terrieri: prima applicazione di un modello destinato a incontrare notevole fortuna nei paesi dell'Europa orientale negli anni fra le due guerre mondiali.

 

La Germania di Weimar

Un esperimento democratico

Nonostante i drammatici travagli che ne avevano segnato la nascita, la Repubblica nata dalla Costituente di Weimar rappresentò nell'Europa degli anni '20 un modello di democrazia parlamentare aperta e avanzata.
Lo stesso rigoglio di attività intellettuali, che fece della Germania weimariana il centro più vivace della cultura europea del tempo, era strettamente collegato al clima di grande libertà che allora si respirava. Molti erano tuttavia i fattori che contribuivano a indebolire il sistema repubblicano.

Debolezza politica

Un evidente motivo di debolezza stava nella accentuata frammentazione dei gruppi politici, che rendeva instabili maggioranze e governi. Per un decennio la Spd rimase il partito più forte, ma dovette misurarsi con le formazioni del centro (cattolici e liberali) e della destra conservatrice e moderata. Queste ultime non nascondevano la loro diffidenza nei confronti delle istituzioni repubblicane, indissolubilmente associate alla sconfitta, all'umiliazione di Versailles e a quella autentica tragedia nazionale che fu costituita dal problema delle «riparazioni», i risarcimenti che il paese sconfitto era tenuto a pagare ai vincitori.

Le riparazioni

Nella primavera del 1921, una commissione interalleata stabilì infatti l'ammontare dei risarcimenti dovuti dalla Germania nella cifra, spaventosa per quei tempi, di 132 miliardi di marchi-oro da pagare in 42 rate annuali.
L'annuncio dell'entità delle riparazioni suscitò in tutto il paese un'ondata di proteste. I gruppi dell'estrema destra nazionalista – fra i quali si stava mettendo in luce il piccolo Partito nazionalsocialista guidato da Adolf Hitler – scatenarono un'offensiva terroristica contro la classe dirigente repubblicana, accusata di tradimento per essersi piegata alle imposizioni dei vincitori.
I governi di coalizione che si succedettero fra il '21 e il '23 si impegnarono comunque a pagare le prime rate delle riparazioni ma, per non rendersi ulteriormente impopolari, evitarono interventi troppo drastici sulle tasse e sulla spesa pubblica: furono quindi costretti ad aumentare la stampa di carta-moneta.
Il risultato fu che il valore del marco precipitò, accelerando il processo inflazionistico già in atto.

La crisi della Ruhr e la grande inflazione

Nel gennaio 1923 la Francia e il Belgio, traendo pretesto dalla mancata corresponsione di alcune riparazioni in natura, inviarono truppe nel bacino della Ruhr, centro della produzione carbonifera e dell'industria siderurgica tedesca.
Impossibilitato a reagire militarmente, il governo incoraggiò la resistenza passiva della popolazione: imprenditori e operai della Ruhr abbandonarono le fabbriche, rifiutando ogni collaborazione con gli occupanti.
Per le già dissestate finanze tedesche l'occupazione della Ruhr rappresentò il definitivo tracollo, poiché privava il paese di una parte delle sue risorse produttive e costringeva il governo a ingenti spese per finanziare la resistenza passiva.
Il marco, abbandonato al suo destino, precipitò a livelli impensabili e il suo potere d'acquisto fu praticamente annullato: un chilo di pane giunse a costare 400 miliardi, un chilo di burro 5000.
Le conseguenze di questa polverizzazione della moneta furono sconvolgenti. Lo Stato stampava banconote in quantità sempre maggiore e con valore nominale sempre più alto: un milione, un miliardo, cento miliardi e così via. Ma chi riceveva in pagamento denaro svalutato si affrettava a liberarsene in cambio di qualsiasi cosa, aumentando così la velocità di circolazione della moneta e alimentando ulteriormente l'inflazione.

La «grande coalizione» e il complotto di Monaco

Nel momento più drammatico della crisi la classe dirigente trovò però la forza di reagire.
Nell'agosto 1923 si formò un governo di «grande coalizione» presieduto da Gustav Stresemann, leader del Partito tedesco-popolare (considerato il portavoce della grande industria). In settembre, fra le proteste dell'estrema destra, il governo ordinò la fine della resistenza passiva nella Ruhr e riallacciò i contatti con la Francia. Subito dopo decretò lo stato di emergenza e se ne servì per reprimere i focolai insurrezionali diffusi nel paese e per fronteggiare la ribellione della destra nazionalista che aveva il suo centro in Baviera.
A Monaco, nella notte fra l'8 e il 9 novembre 1923, alcune migliaia di aderenti al Partito nazionalsocialista, guidato da Adolf Hitler, cercarono di organizzare un'insurrezione contro il governo centrale. Ma il complotto fallì e fu rapidamente represso. Hitler fu condannato a cinque anni di carcere (poi in buona parte condonati) e la sua carriera politica parve precocemente conclusa.

La stabilizzazione economica

Ristabilita l'autorità dello Stato, il governo cercò di porre rimedio al caos economico.
Nell'ottobre '23 era stata emessa una nuova moneta, il cosiddetto Rentenmark ('marco di rendita'), il cui valore era garantito dal patrimonio agricolo e industriale della Germania: lo Stato tedesco si comportava cioè come un privato che impegni tutti i suoi averi per gantirsi un credito.
Nel contempo veniva avviata una politica rigorosamente deflazionistica (basata cioè sulla limitazione del credito e della spesa pubblica e sull'aumento delle imposte) che costò ai tedeschi ulteriori sacrifici, ma consentì un graaduale ritorno alla normalità monetaria.
Una vera stabilizzazione sarebbe stata tuttavia impossibile senza un accordo con i vincitori sulle riparazioni.
L'accordo fu trovato, all'inizio del 1924, sulla base di un piano elaborato da un finanziere e uomo politico statunitense, Charles G. Dawes. Il piano Dawes si basava sull'idea che la Germania avrebbe potuto far fronte ai suoi impegni solo se fosse stata messa in grado di rilanciare la sua economia: prevedeva quindi che l'entità delle rate da pagare fosse graduata nel tempo e che la finanza internazionale, in particolare quella statunitense, sovvenzionasse lo Stato tedesco con una serie di prestiti a lunga scadenza.
Negli anni successivi grazie anche alla ripresa produttiva la situazione politica in Germania si andò stabilizzando.
I partiti di centro e di centro-destra mantennero il potere fino al 1928, quando i socialdemocratici riassunsero la guida del governo. Stresemann conservò ininterrottamente fino alla sua morte, nel 1929, la carica di ministro degli Esteri, assicurando così la continuità di quella linea di collaborazione con le potenze vincitrici che costituì il cardine principale dell'equilibrio europeo nella seconda metà degli anni '20.

 

Il dopoguerra dei vincitori

Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna, il dopoguerra fu sicuramente meno agitato che in Europa centrale.
Ma non mancarono i conflitti e le tensioni sociali. La ripresa economica fu lenta e problematico si rivelò il recupero di quel ruolo egemonico su cui in teoria si sarebbero dovuti fondare gli equilibri internazionali del dopo-Versailles.

Moderati e radicali in Francia

In Francia la maggioranza di centro-destra che controllò il governo dal '19 in poi attuò una politica fortemente conservatrice, che faceva ricadere sulle classi popolari il peso di una difficile ricostruzione.
Solo nella primavera del '24 i radicali di sinistra, uniti ai socialisti in una coalizione elettorale (il cartello delle sinistre), riuscirono a strappare la maggioranza ai moderati. Ma l'esperimento ebbe breve durata, anche perché il governo non seppe affrontare una gravissima crisi finanziaria, accentuata dalla fuga di capitali verso l'estero.
Nel luglio del '26 la guida del governo fu assunta dal leader storico dei moderati, l'ex presidente della Repubblica Raymond Poincaré.
Rimasto in carica per tre anni, Poincaré riuscì a stabilizzare il corso della moneta e a risanare il bilancio statale aumentando ulteriormente la pressione fiscale.

Le difficoltà della Gran Bretagna

Anche in Gran Bretagna furono le forze moderate a guidare il paese negli anni critici del dopoguerra. Fra il 1918 e il 1929 i conservatori furono quasi sempre al potere (prima coi liberali, poi da soli). La grande novità di questi anni fu il ridimensionamento dei liberali, che consenti al Partito laburista (Labour Party) di assumere il ruolo di principale antagonista dei conservatori.
I governi conservatori portarono avanti una politica di austerità finanziaria e di contenimento dei salari che li fece scontrare duramente con i sindacati.
L'episodio più drammatico si verificò nel 1926 con un imponente sciopero dei minatori, che uscirono sconfitti da un'agitazione durata ben sette mesi.
Il governo cercò di profittare di questo successo: furono vietati gli scioperi di solidarietà e fu dichiarata illegale la pratica per cui gli aderenti alle Trade Unions venivano iscritti "d'ufficio" al Labour Party.
I laburisti riuscirono però a risalire la corrente e ad affermarsi nelle elezioni del 1929. Si formò così un ministero di coalizione liberal-laburista, destinato a vita breve per il sopraggiungere della grande crisi economica mondiale del 1929-30.

La Francia e le alleanze

Sul terreno dell'equilibrio europeo, Gran Bretagna e Francia seguirono linee spesso divergenti.
Mentre la Gran Bretagna evitò di assumere impegni vincolanti sul continente, la Francia, profondamente segnata dalle esperienze della guerra franco-prussiana del 1870 e dell'attacco del 1914, cercò di costruire in funzione antitedesca una rete di alleanze con tutti i paesi dell'Europa centro-orientale che erano stati avvantaggiati dai trattati di Versailles – o dovevano ad essi la loro stessa esistenza – ed erano quindi contrari a ogni ipotesi di revisione del nuovo assetto europeo: in primo luogo la Polonia; poi la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e la Romania che, nel 1921, si erano unite in un'alleanza detta Piccola Intesa.
L'accordo con gli Stati dell'Est-Europa non sembrava tuttavia sufficiente ad allontanare lo spettro di una rivincita tedesca. Da qui l'impegno quasi fanatico dei governanti nel pretendere il rispetto integrale delle clausole di Versailles e nell'esigere il pagamento delle riparazioni.

Gli anni della distensione

Questa linea di politica estera, culminata nell'occupazione della Ruhr, subì un deciso mutamento nel 1924 con l'accettazione del piano Dawes.
Si inaugurò allora una fase di distensione e di collaborazione fra le due potenze ex nemiche. Alla base dell'intesa c'era la volontà comune di normalizzare i rapporti fra vincitori e vinti, nel quadro di un più vasto progetto di sicurezza collettiva. Il risultato più importante dell'intesa franco-tedesca fu rappresentato dagli accordi di Locarno dell'ottobre 1925, che consistevano nel riconoscimento da parte di Germania, Francia e Belgio delle frontiere comuni tracciate a Versailles e nell'impegno di Gran Bretagna e Italia a farsi garanti contro eventuali violazioni.
La Francia otteneva cosi una garanzia internazionale ai suoi confini.
Un anno dopo la firma del patto, la Germania fu ammessa alla Società delle nazioni. Nel giugno 1929 fu varato il piano Young che ridusse e graduò ulteriormente le riparazioni tedesche.
Nel giugno 1930 gli ultimi reparti francesi si ritirarono dalla Renania, mentre il governo tedesco rinnovava l'impegno a mantenere la regione smilitarizzata.
Questa stagione di distensione internazionale, tuttavia, si interruppe bruscamente alla fine del decennio, in coincidenza con l'inizio della grande risi economica mondiale.
Già nel settembre del '30 la Francia decise di dare il via alla costruzione di un imiponente complesso di fortificazioni difensive (la cosiddetta linea Maginot) lungo il confine con la Germania. Era il segno più evidente dell'esaurirsi dello "spirito di Locarno" e della caduta delle speranze nella "sicurezza collettiva".

 

La Russia comunista

La guerra con la Polonia

Negli anni dell'immediato dopoguerra, la Russia comunista rappresentò un mito positivo, oltre che un punto di riferimento, per i rivoluzionari di tutta Europa, cosi come la Francia lo era stata alla fine del '700.
La capacità espansiva dell'esperienza bolscevica non fu però altrettanto grande; e ancor meno lo era la forza militare del paese in cui quell'esperienza si incarnava. La stessa sopravvivenza del regime comunista rimase a lungo in forse.
Appena conclusa, nella primavera del '20, la guerra civile, i bolscevichi dovettero affrontare l'attacco improvviso da parte della Polonia, che cercava di profittare delle difficoltà del vicino per ritagliarsi confini più favorevoli. Dopo fasi alterne (l'Armata rossa contrattaccò efficacemente e nell'agosto 1920 giunse alle porte di Varsavia per essere poi ricacciata entro i confini russi), si giunse a un armistizio che accontentava in parte le aspirazioni polacche, ma segnava soprattutto la fine della speranza di esportare la rivoluzione grazie ai successi militari.

Il collasso economico

Una minaccia non meno grave alla sopravvivenza dell'esperimento comunista veniva dal rischio di un collasso economico.
Quando i bolscevichi presero il potere, l'economia russa si trovava già in uno stato di dissesto, che la rivoluzione e le devastazioni della guerra civile finirono con l'aggravare ulteriormente.
L'abolizione della proprietà terriera e la redistribuzione delle terre ai contadini poveri si risolsero nella creazione di una miriade di piccole aziende che producevano soprattutto per l'autoconsumo e non contribuivano all'approvvigionamento delle città.
Molte industrie furono lasciate in mano ai vecchi imprenditori ma sotto la sorveglianza dei consigli operai, altre furono gestite direttamente dai lavoratori, altre infine furono poste sotto il controllo statale.
Le banche furono nazionalizzate e i debiti con l'estero cancellati.
Ma tutto questo servì a poco, visto lo stato di caos in cui versava il paese sconvolto dalla guerra civile, e il governo fu costretto, per le esigenze più urgenti, a stampare carta moneta priva di qualsiasi valore. Si fini così col tornare al sistema del baratto e le stesse retribuzioni vennero pagate in natura.

Il «comunismo di guerra»

A partire dall'estate del '18, il governo bolscevico cercò di attuare una politica più energica e autoritaria, che fu poi definita con l'espressione «comunismo di guerra».
Per risolvere il problema degli approvvigionamenti alle città, furono istituiti in tutti i centri rurali comitati col compito di provvedere all'ammasso e alla distribuzione delle derrate. Venne incoraggiata, senza molto successo, la formazione di comuni agricole volontarie, le cosiddette "fattorie collettive" (kolchoz) e furono anche istituite delle "fattorie sovietiche" (sovchoz) gestite direttamente dallo Stato o dai soviet locali.
In campo industriale furono nazionalizzati tutti i settori più importanti: una misura che aveva lo scopo di normalizzare la produzione e di centralizzare le decisioni, ponendo fine allo spontaneismo che aveva caratterizzato le prime fasi della rivoluzione.

Carestia e rivolta

Grazie al «comunismo di guerra» il regime bolscevico riuscì ad assicurare lo svolgimento di alcune funzioni essenziali e soprattutto ad armare e nutrire il suo esercito. Ma sul piano economico l'esperienza si risolse in un totale fallimento.
Alla fine del 1920 il volume della produzione industriale era di ben sette volte inferiore a quello del 1913. Le grandi città si erano spopolate per la disoccupazione e per la fame. Il commercio privato, formalmente vietato, fioriva nell'illegalità.
La crisi raggiunse il culmine nella primavera-estate del '21 quando, per l'effetto congiunto della guerra civile e di un anno di siccità, una terribile carestia colpì le campagne della Russia e dell'Ucraina, provocando la morte di almeno 3 milioni di persone.
Imbarazzante per il potere comunista era poi il dissenso che cominciava a serpeggiare fra gli operai, stanchi delle privazioni materiali, ma anche delusi dalla gestione autoritaria dell'economia.
Il punto di maggior tensione fu toccato ai primi di marzo del 1921, quando a ribellarsi al governo furono i marinai della base di Kronštadt, presso Pietrogrado, che a stata una roccaforte dei bolscevichi. Alle richieste dei ribelli, che invocavano maggiori libertà politiche e sindacali, il governo rispose con una dura repressione militare, con centinaia di fucilazioni immediate e poi migliaia di condanne a morte, al carcere o ai lavori forzati.

La Nep

Nello stesso 1921, mentre si chiudeva ogni spazio di discussione all'interno del partito, prendeva avvio una parziale liberalizzazione nella produzione e negli scambi. La nuova politica economica (in sigla Nep) aveva l'obiettivo principale di stimolare la produzione agricola e di favorire afflusso dei generi alimentari verso le città.
Ai contadini si consentiva ora di vendere sul mercato le eventuali eccedenze, una volta che avessero consegnato agli organi statali una quota fissa dei raccolti. La liberalizzazione si estese anche al commercio e alla piccola industria produttrice di beni di consumo. Lo Stato mantenne comunque il controllo delle banche e dei maggiori gruppi industriali.
La Nep ebbe conseguenze indubbiamente benefiche su un'economia stremata, ma produsse effetti sociali non previsti né desiderati dai suoi promotori. Nelle campagne i nuovi spazi concessi all'iniziativa privata favorirono il riemergere del ceto dei contadini benestanti, i kulaki. La liberalizzazione del commercio accrebbe disponibilità di beni di consumo, ma provocò la comparsa una nuova classe di trafficanti la cui ricchezza contrastava col basso tenore di vita della maggioranza della popolazione urbana.

 

L'URSS da Lenin a Stalin

Le Costituzioni del 1918 e del 1924

La prima Costituzione della Russia rivoluzionaria fu varata nel luglio del '18, in piena guerra civile, e si apriva con una Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato dove si proclamava che il potere doveva «appartenere unicamente e interamente alle masse lavooratrici e ai loro autentici organismi rappresentativi: i soviet».
La Costituzione si spirava dunque alla idea consiliare e collocava al vertice del potere il Congresso dei soviet. Inoltre prevedeva che il nuovo Stato avesse carattere federale, rispettasse l'autonomia delle minoranze etniche e si aprisse all'unione con altre future repubbliche "sovietiche", nella prospettiva di un'unica repubblica socialista mondiale.
In realtà, quella che si attuò fra il '20 e il '22 fu semplicemente l'unione alla Repubblica russa – che comprendeva anche l'intera Siberia – delle altre province dell'ex impero zarista (l'Ucraina, la Bielorussia, l'Azerbaigian, l'Armenia e la Georgia), nelle quali i comunisti erano riusciti a prendere il potere dopo aver eliminato le altre forze politiche col decisivo aiuto dell'Armata rossa.
Quella che dal 1922 prese il nome Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss) era una compagine priva di reali meccanismi federativi e in cui i russi erano la nazionalità dominante. La nuova Costituzione dell'Urss, approvata nel 1924, prevedeva una complessa struttura istituzionale, al cui vertice stava ancora il Congresso dei soviet dell'Unione.
Il potere reale, tuttavia, era nelle mani del Partito comunista (che dal 1925 assume il nome di Partito comunista dell'Unione Sovietica, Pcus), l'unico la cui esistenza fosse prevista dalla Costituzione.

Il partito-Stato

Era, infatti, il partito a fornire le direttive ideologiche e politiche cui si ispirava l'azione del governo.
Era il partito a controllare la potentissima polizia politica (la Ceka, ora denominata Gpu), che colpiva i «nemici del popolo» con arresti, processi, fucilazioni, deportazioni in campi da lavoro.
Era ancora il partito a proporre i candidati alle elezioni dei soviet che avvenivano su lista unica e con voto palese. Un partito il cui apparato centrale e periferico si sovrapponeva di fatto a quello dello Stato.
La Repubblica che si proclamava fondata sulla democrazia "sovietica" era invece governata, attraverso un apparato fortemente centralizzato che faceva capo al segretario generale e all'Uffino politico (Politburo) del Comitato centrale, dal ristretto gruppo dirigente del Partito comunista.

Cultura, religione e costumi

Lo sforzo di trasformazione intrapreso dopo la rivoluzione d'ottobre non riguardò soltanto le strutture economiche e gli ordinamenti politici.
Come tutti i rivoluzionari dei tempi moderni, anche i comunisti russi mirarono a cambiare la società nel profondo, a cancellare valori e comportamenti tradizionali, a creare una nuova cultura adatta alla realtà che si voleva costruire.
Lo sforzo si indirizzò soprattutto in due direzioni: la lotta contro l'analfabetismo, premessa indispensabile per lo sviluppo economico ma anche presupposto essenziale per l'indottrinamento delle nuove generazioni da condurre attraverso la scuola e le organizzazioni giovanili; e la lotta contro la Chiesa ortodossa, in quanto espressione di una visione del mondo che si voleva estirpare perché incompatibile con i fondamenti materialisti della dottrina marxista.
La scristianizzazione fu portata avanti con molta durezza – confisca dei beni ecclesiastici, chiusura di chiese, arresti di capi religiosi – e, nel complesso, poté dirsi riuscita nei suoi obiettivi. L'influenza della Chiesa non fu del tutto eliminata (culti e credenze continuarono a sopravvivere, soprattutto nelle campagne), ma certo drasticamente ridimensionata.
La battaglia contro la religione e la morale tradizionale si estese naturalmente anche ai problemi della famiglia e dei rapporti fra i sessi.
Il governo rivoluzionario stabilì fra i suoi primi atti il riconoscimento del solo matrimonio civile e semplificò al massimo le procedure per il divorzio. Nel 1920 fu legalizzato l'aborto. Venne proclamata l'assoluta parità fra i sessi e la condizione dei figli illegittimi fu equiparata a quella dei legittimi.
In generale il regime comunista favori una notevole liberalizzazione dei costumi, anche se furono ben presto emarginate le posizioni estreme di chi riteneva che la rivoluzione dovesse portare all'assoluta libertà sessuale e alla scomparsa della famiglia.

Lo scontro tra Stalin eTrotzkij

Nell'aprile del 1922 il georgiano Josip Djugasvili, detto Stalin, ex commissario alle Nazionalità, fu nominato segretario generale del Partito comunista dell'Urss.
Poche settimane dopo, Lenin fu colpito dal primo attacco di quella malattia che lo avrebbe condotto alla morte nel gennaio 1924. Da allora si apri una sempre più scoperta lotta per la successione.
Il primo grave scontro all'interno del gruppo dirigente ebbe per oggetto il problema della centralizzazione e della eccessiva burocratizzazione del partito.
Protagonista sfortunato della battaglia volta a limitare le prerogative dell'apparato fu Trotzkij, il più autorevole e il più popolare dopo Lenin fra i capi bolscevichi, ma anche il più isolato rispetto agli altri leader di primo piano – Zinov'ev, Kamenev, Bucharin – che respinsero le sue critiche alla gestione del partito e fecero blocco col segretario generale.
Lo scontro non riguardava solo il problema della «burocratizzazione». Trotzkij collegava l'involuzione autoritaria del partito all'isolamento internazionale dello Stato sovietico e riteneva che l'Unione Sovietica dovesse estendere il processo rivoluzionario nell'Occidente capitalistico.
Contro questa tesi, per cui fu coniata l'espressione «rivoluzione permanente», scese in campo lo stesso Stalin.
Stalin sosteneva che, nei tempi brevi, la vittoria del «socialismo in un solo paese» era «possibile e probabile» e che l'Unione Sovietica aveva in sé le forze sufficienti a fronteggiare l'ostilità del mondo capitalista. La teoria del «socialismo in un solo paese» rappresentava una rottura con quanto era sempre stato affermato dai bolscevichi, ma si adattava alla situazione reale, che da tempo non consentiva illusioni circa la possibilità di una rivoluzione mondiale, e offriva inoltre al paese lo stimolo di un potente richiamo patriottico.
Anche l'atteggiamento delle potenze europee, che fra il '24 e il '25 si decisero a instaurare rapporti diplomatici con lo Stato sovietico, finì col rafforzare implicitamente le tesi di Stalin.

L'eliminazione degli oppositori

Una volta sconfitto Trotzkij, venne meno però il principale legame che teneva uniti i suoi avversari politici.
A partire dall'autunno del '25, Zinov'ev e Kamenev, riprendendo idee già sostenute da Trotzkij, si pronunciarono per un'interruzione dell'esperimento della Nep, che a loro avviso stava facendo rinascere il capitalismo nelle campagne, e per un rilancio dell'industrializzazione a spese, se necessario, degli strati contadini privilegiati.
La tesi opposta, favorevole alla prosecuzione della Nep, fu sostenuta da Bucharin, che ebbe l'appoggio di Stalin.
Zinov'ev e Kamenev, messi in minoranza nel partito, si riaccostarono a Trotzkij e cercarono di organizzare un fronte unico degli avversari del segretario. Ma i leader dell'opposizione furono dapprima allontanati dagli organi dirigenti e poi, nel '27, espulsi dal partito.
I loro seguaci furono perseguitati e incarcerati. Trotzkij fu deportato in una località dell'Asia centrale e successivamente espulso dall'Urss.
Con la sconfitta dell'opposizione di sinistra si chiudeva definitivamente la prima fase della rivoluzione comunista, la fase della costruzione del nuovo Stato. Se ne apriva una nuova, caratterizzata dalla continua crescita del potere personale di Stalin e dal suo tentativo di portare l'Unione Sovietica alla condizione di grande potenza industriale e militare.

 

 

L'ITALIA: DOPOGUERRA E FASCISMO

 

 

[ Introduzione audio ]

Le tensioni del dopoguerra

Un paese inquieto

Uscita vincitrice dalla prova più impegnativa della sua storia unitaria, l'Italia si trovò a condividere i problemi politici e le tensioni sociali che la Grande Guerra aveva suscitato in tutta Europa.
Rispetto agli altri paesi vincitori, problemi e tensioni si presentavano però in forma più acuta: sia perché le strutture economiche erano meno avanzate e più ampie le sacche di arretratezza, sia perché le istituzioni politiche erano meno radicate nella società.
L'esperienza del primo conflitto mondiale aveva fortemente accelerato il processo di avvicinamento delle masse allo Stato, ma lo aveva fatto in modo traumatico, provocando nuove divisioni. Aveva alimentato il rifiuto della guerra e dei suoi orrori; ma aveva anche generato, come negli altri paesi, una diffusa assuefazione alla violenza e accentuato la tendenza a risolvere le questioni controverse con atti di forza. Una tendenza che, in Italia, si inseriva in un contesto storico da sempre segnato dalla radicalità dello scontro politico e sociale.
Quella che usciva della guerra era dunque una società inquieta e attraversata da profonde fratture, unita però da una generale ansia di rinnovamento, da una sorta di febbre rivendicativa che tendeva a saltare le mediazioni politiche e a spostare il centro delle lotte dal Parlamento alle piazze.

Scioperi e lotte agrarie

Le tensioni sociali erano legate in primo luogo al continuo aumento dei prezzi al consumo.
Fra il giugno e il luglio del 1919 le principali città italiane divennero teatro di una serie di violenti tumulti contro il caro-viveri, mentre le industrie erano investite da una ondata di scioperi volti ad ottenere aumenti salariali.
Anche il settore dei servizi pubblici, in genere meno sindacalizzato, fu sconvolto da una lunga serie di astensioni dal lavoro.
Non meno intense furono in questo periodo le lotte dei lavoratori agricoli. In Val Padana, dove prevaleva il bracciantato, le "leghe rosse" controllate dai socialisti avevano in pratica il monopolio della rappresentanza sindacale e miravano alla socializzazione della terra; soprattutto nelle regioni centrali, in cui dominavano la mezzadria e la piccola proprietà, erano attive anche le "leghe bianche" cattoliche, che si battevano piuttosto per lo sviluppo della piccola proprietà contadina.
L'aspirazione alla proprietà della terra fu poi all'origine di un altro movimento che si sviluppò in forma spontanea nelle campagne del Centro-sud: l'occupazione di terre incolte e latifondi da parte di contadini poveri, spesso ex combattenti.

La «vittoria mutilata»

Ad agitare la scena italiana dell'immediato dopoguerra contribuì anche una cattiva gestione della trattativa di pace, che rese il clima più simile a quello di un paese sconfitto che a quello di una potenza vincitrice.
L'Italia era uscita dalla guerra nettamente rafforzata: aveva ottenuto – secondo gli accordi firmati a Londra nel 1915 – Trento, Trieste e le altre «terre irredente»; aveva raggiunto i "confini naturali" segnati dalle Alpi, includendo nel suo territorio anche zone non italiane come il Sud-Tirolo (ribattezzato Alto Adige); aveva infine visto scomparire dalle sue frontiere il nemico tradizionale, l'Impero asburgico.
La nascita del nuovo Stato jugoslavo, tuttavia, poneva una serie di problemi non previsti nel momento in cui era stato stipulato il patto di Londra: in base a quel patto, infatti, l'Italia avrebbe dovuto annettere anche la Dalmazia, una striscia costiera considerata indispensabile per il controllo dell'Adriatico ma abitata in prevalenza da slavi; non era prevista invece l'annessione della città di Fiume, a maggioranza italiana.
Alla conferenza di Versailles, il presidente del Consiglio Orlando e il ministro degli Esteri Sonnino chiesero l'annessione di Fiume sulla base del principio di nazionalità, in aggiunta ai territori promessi nel 1915. Tali richieste incontrarono l'opposizione degli alleati, in particolare del presidente degli Stati Uniti.

I confini italiani nel 1919

Nell'aprile del '19, per protestare contro l'atteggiamento di Wilson – che aveva cercato di scavalcarli indirizzando un messaggio al popolo italiano – Orlando e Sonnino abbandonarono Versailles e fecero ritorno in Italia, dove furono accolti da imponenti manifestazioni patriottiche. Un mese dopo, però, dovettero tornare a Parigi senza aver ottenuto alcun risultato.
Questo insuccesso segnò la fine del governo Orlando.
Il nuovo ministero presieduto da Francesco Saverio Nitti si trovò ad affrontare una situazione già gravemente deteriorata.
Gli avvenimenti della primavera 1919 avevano infatti suscitato in larghi strati dell'opinione pubblica un sentimento di ostilità verso gli ex alleati, accusati di voler defraudare l'Italia dei frutti della vittoria. Si parlò allora di «vittoria mutilata»: un'espressione coniata da Gabriele D'Annunzio, ormai assurto al ruolo di protagonista politico, anche in virtù di alcune audaci imprese compiute durante la guerra.

D'Annunzio a Fiume

La manifestazione più clamorosa di questa protesta si ebbe nel settembre 1919, quando alcuni reparti militari ribelli assieme a gruppi di volontari, sotto il comando proprio di D'Annunzio, occuparono la città di Fiume, posta allora sotto controllo internazionale, e ne proclamarono l'annessione all'Italia.
Concepita all'inizio come un mezzo di pressione sul governo, l'avventura fiumana si prolungò per quindici mesi e si trasformò in un'inedita esperienza politica.
A Fiume, dove D'Annunzio istituì una provvisoria «reggenza», furono sperimentati per la prima volta formule e rituali collettivi – adunate coreografiche, dialoghi fra il capo e la folla – che sarebbero stati ripresi e applicati su ben più larga scala dai movimenti autoritari degli anni '20 e '30.

 

[ Introduzione audio ]

La crisi politica e il "biennio rosso"

Le elezioni del 1919

Le prime elezioni politiche del dopoguerra, che si tennero nel novembre 1919, mostrarono la gravità delle fratture che attraversavano la società e il sistema politico.
Furono queste le prime elezioni tenute col nuovo metodo della rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista: metodo che prevedeva il confronto fra liste di partito, anziché fra singoli candidati, e che, contrariamente al vecchio sistema del collegio uninominale, assicurava alle forze politiche un numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti, favorendo i gruppi organizzati su base nazionale.
L'esito fu disastroso per la vecchia classe dirigente:
 - i gruppi liberal-democratici, che si erano presentati divisi alle elezioni, persero la maggioranza assoluta passando dagli oltre 300 seggi del 1913 a circa 200;
 - i socialisti, che pure avevano adottato un programma rivoluzionario e dichiaravano di ispirarsi al modello sovietico, ottennero un successo clamoroso con 156 seggi (tre volte più che nel 1913);
 - il Partito popolare italiano (Ppi), con 100 deputati, si affermava come la principale novità politica del dopoguerra.
Fondato all'inizio del 1919 da un sacerdote siciliano, don Luigi Sturzo, il Ppi, riuniva le forze di ispirazione cattolica, che entravano così per la prima volta apertamente nella competizione politica, ponendo fine alla storica anomalia nata con la rottura fra la Chiesa e il Regno d'Italia.
Pur dichiarandosi non confessionale, cioè non espressione diretta degli interessi e delle istanze della Chiesa, e adottando un programma democratico, il nuovo partito godeva dell'appoggio della Chiesa, spaventata dalla minaccia socialista.
I due vincitori delle elezioni non potevano però coalizzarsi fra loro, dal momento che il Psi era dominato dalla corrente "massimalista", ostile a ogni collaborazione con i gruppi "borghesi".
L'unica maggioranza possibile era quella basata sull'accordo fra popolari e liberal-democratici, e su questa precaria alleanza si fondarono gli ultimi governi dell'era liberale, prima dell'avvento del fascismo.

Il ritorno di Giolitti

Indebolito dall'esito delle elezioni, il ministero Nitti sopravvisse fino al giugno 1920, quando a costituire il nuovo governo fu chiamato l'ormai quasi ottantenne Giovanni Giolitti.
Nei dodici mesi in cui tenne la guida dell'esecutivo, Giolitti diede ancora prova di abilità e di energia.
Un risultato importante fu raggiunto in politica estera, con la firma, nel novembre 1920, del trattato di Rapallo con la Jugoslavia.
L'Italia conservò Trieste e tutta l'Istria. La Jugoslavia ebbe la Dalmazia, salvo la città di Zara che fu assegnata all'Italia.
Fiume fu dichiarata città libera (sarebbe diventata italiana, grazie a un successivo accordo con la Jugoslavia, nel 1924).
Il trattato fu accolto con generale favore dall'opinione pubblica e dalle forze politiche: non vi furono reazioni di rilievo quando, il giorno di Natale del 1920, le truppe regolari italiane attaccarono Fiume, costringendo D'Annunzio ad abbandonare la città.

L'occupazione delle fabbriche

Più serie furono le difficoltà incontrate da Giolitti sul terreno della politica interna.
I conflitti sociali conobbero, nell'estate-autunno del '20, il loro episodio più drammatico con l'agitazione dei metalmeccanici culminata nell'occupazione delle fabbriche.
La vertenza vedeva contrapporsi gli industriali del settore, nucleo di punta del mondo imprenditoriale, e i metalmeccanici, una categoria operaia compatta e combattiva, guidata dal più forte dei sindacati aderenti alla Confederazione generale del lavoro (Cgl), vale a dire la Federazione italiana operai metallurgici (Fiom).
A Torino e in altri centri industriali del Nord si era poi sviluppata, fuori dal sindacato, l'esperienza dei Consigli di fabbrica, ispirata al modello dei soviet e animata da un gruppo di giovani intellettuali (Gramsci, Togliatti, Terracina, Tasca), che si riunivano attorno alla rivista «L'Ordine nuovo».
Fu la Fiom a dare inizio alla vertenza, presentando una serie di richieste economiche e normative, cui gli industriali opposero un netto rifiuto.
Alla fine di agosto, in risposta alla chiusura degli stabilimenti attuata da una industria milanese, la Fiom ordinò ai lavoratori di occupare le fabbriche.
Nei primi giorni di settembre, 400 mila operai occuparono gli stabilimenti metallurgici e meccanici del Nord, issarono le bandiere rosse sui tetti delle officine e organizzarono servizi armati di vigilanza (le «Guardie rosse»). Molti lavoratori in lotta vissero questa esperienza come l'inizio di un moto rivoluzionario destinato a estendersi a tutto il paese.
In realtà il movimento non era in grado di uscire dalle fabbriche e di porsi in modo concreto il problema del potere.
Prevalse così la linea dei dirigenti della Cgl, che ottennero miglioramenti salariali e aperture in tema di controllo sindacale sulla gestione delle aziende. Tale esito fu favorito dall'iniziativa mediatrice di Giolitti, che si era attenuto a una linea di rigorosa neutralità fra sindacato e industriali, resistendo alle pressioni del padronato per un intervento della forza pubblica contro le fabbriche occupate.
Sul piano sindacale, gli operai uscivano vincitori dallo scontro. Sul piano politico, però, la sensazione dominante era di delusione rispetto alle attese maturate nei giorni dell'occupazione.
D'altro canto, gli industriali non nascondevano la loro irritazione per aver dovuto subire le pressioni del governo. E la borghesia tutta, passata la «grande paura» della rivoluzione, si apprestava a sfruttare ogni occasione di rivincita.

La scissione del Psi e la fine del "biennio rosso"

Queste polemiche si intrecciarono con le fratture sviluppatesi all'interno del Partito socialista.
Al congresso del Psi che si tenne a Livorno nel gennaio 1921 la minoranza di estrema sinistra – in particolare la corrente che faceva capo ad Amadeo Bordiga e i torinesi di «Ordine Nuovo» – lasciò il partito per dar vita al Partito comunista d'Italia (Pcd'I), in linea con le indicazioni dell'Internazionale comunista, avversate dalla maggioranza massimalista del Psi.
La nuova formazione nasceva con un programma rigorosamente leninista, proprio nel momento in cui la prospettiva rivoluzionaria andava svanendo non solo in Italia.
L'occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno segnarono la fine del "biennio rosso" in Italia.
Provata da due anni di lotte e indebolita dalle divisioni interne, la classe operaia cominciò ad accusare i colpi della crisi che stava investendo l'economia italiana. In questo quadro, in larga parte comune a tutta l'Europa, si inserì un fenomeno che invece non aveva riscontro in nessun altro paese: lo sviluppo improvviso del movimento fascista.

 

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Lo squadrismo fascista

I Fasci di combattimento

Il 23 marzo 1919 l'ex socialista rivoluzionario Benito Mussolini, direttore del quotidiano «II Popolo d'Italia», fondò a Milano i «Fasci di combattimento».
Il nuovo movimento si schierava politicamente a sinistra, chiedeva audaci riforme sociali e si dichiarava favorevole alla repubblica; ma nel contempo ostentava un acceso nazionalismo e una feroce avversione nei confronti del Partito socialista.
Fino all'autunno del '20, il fascismo svolse un ruolo marginale nella vita politica: nelle elezioni del 1919 le liste dei Fasci ottennero poche migliaia di voti e nessun deputato.

Fascismo agrario e leghe rosse

Tra la fine del 1920 e l'inizio del 1921, il movimento subì un rapido processo di mutazione che lo portò ad accantonare l'originario programma radical-democratico, a organizzare formazioni paramilitari – le squadre d'azione – e a condurre una lotta spietata contro il movimento socialista, in particolare contro le organizzazioni contadine della Valle Padana, le leghe rosse.
Questa trasformazione da piccolo movimento di ceti medi urbani a partito armato radicato nelle campagne (per questo si parlò di «fascismo agrario») si spiega in parte con una scelta di Mussolini, che decise di cavalcare l'ondata di riflusso antisocialista seguita al "biennio rosso"; in parte va collegata alla particolare situazione delle campagne padane, dove lo squadrismo fascista si sviluppò, quelle stesse in cui più forte era la presenza delle leghe rosse che, nel primo dopoguerra, avevano conosciuto un notevole sviluppo, controllavano il mercato del lavoro, disponevano di una fitta rete di cooperative e avevano in mano buona parte delle amministrazioni comunali.
Ad aprire le prime brecce nell'edificio delle organizzazioni rosse fu proprio l'offensiva fascista.
L'episodio scatenante si verificò a Bologna il 21 novembre 1920, quando gli squadristi si mobilitarono per impedire la cerimonia d'insediamento della nuova amministrazione comunale socialista. Vi furono scontri e sparatorie, con morti e feriti, dentro e fuori il Palazzo d'Accursio, sede del municipio. Per un tragico errore i socialisti incaricati di difendere il palazzo comunale gettarono bombe a mano sulla folla, composta dai loro stessi sostenitori, provocando una decina di morti.
Da ciò i fascisti trassero pretesto per scatenare una serie di ritorsioni contro i socialisti. I proprietari terrieri scoprirono allora nei Fasci lo strumento capace di abbattere il potere delle leghe e cominciarono a sovvenzionarli generosamente.
Il movimento fascista vide affluire nelle sue file nuove e numerose reclute: ufficiali smobilitati ed ex arditi che faticavano a reinserirsi nella vita civile, figli della piccola borghesia alla ricerca di nuovi canali di promozione sociale e di affermazione politica; giovani e giovanissimi che non avevano fatto in tempo a partecipare alla guerra e che trovavano l'occasione per combattere una loro battaglia contro quelli che consideravano nemici della patria.
Nel giro di pochi mesi, il fenomeno dello squadrismo dilagò in tutte le province padane, estendendosi anche ad altre zone del Centro-nord, mentre pressoché immune dal contagio fascista rimaneva il Mezzogiorno, con l'eccezione della Puglia dove esisteva una fitta rete di leghe socialiste.

Le tecniche squadriste

L'offensiva ebbe ovunque le stesse caratteristiche.
Le squadre partivano in genere dalle città e si spostavano in camion per le campagne, verso i centri rurali. Obiettivo delle spedizioni erano non solo le sedi delle amministrazioni locali e delle rappresentanze sindacali socialiste – i municipi, le Camere del lavoro, le leghe, le Case del popolo –, che vennero sistematicamente devastate e incendiate, ma le persone stesse, dirigenti e militanti socialisti, sottoposti a ripetute violenze e spesso costretti a lasciare il loro paese.
Le amministrazioni "rosse" della Valle Padana furono in buona parte costrette a dimettersi.
Centinaia di leghe furono sciolte e molti dei loro aderenti passarono, per scelta o per costrizione, alle nuove organizzazioni costituite dagli stessi fascisti, che promettevano di incoraggiare la formazione della piccola proprietà coltivatrice.
Il successo dell'offensiva fascista non può spiegarsi solo con fattori di ordine "militare"; né può essere imputato interamente agli errori dei socialisti, che pure furono molti e di non poco conto: primo fra tutti quello di ferire i sentimenti patriottici dei ceti medi e di spaventarli con la promessa di una prossima e cruenta resa dei conti rivoluzionaria.
In realtà il movimento operaio, nel 1921-22, si trovò a combattere una lotta impari contro un nemico che poteva giovarsi della benevola neutralità, o addirittura dell'aperto sostegno, di buona parte della classe dirigente e degli apparati statali.
Raramente la forza pubblica, portata a vedere nei fascisti dei naturali alleati nella lotta contro i "rossi", si oppose con efficacia alle azioni squadristiche. La stessa magistratura adottò nei loro confronti criteri ben diversi da quelli usati contro i sovversivi di sinistra.
Pesanti furono anche le responsabilità del governo. Giolitti infatti, pur evitando di favorire apertamente lo squadrismo, pensò di servirsi del movimento fascista per ridurre a più miti pretese i socialisti (e gli stessi popolari) e di poterlo in seguito assorbire nella maggioranza liberale.

 

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Mussolini alla conquista del potere

Le elezioni del 1921

Alle elezioni del maggio 1921 il disegno di Giolitti si concretizzò con l'ingresso di candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali, cioè nelle liste di coalizione in cui i gruppi "costituzionali" (conservatori, liberali, democratici) si unirono per impedire una nuova affermazione dei partiti di massa.
I fascisti ottenevano così una legittimazione da parte della classe dirigente, senza per questo dover rinunciare ai metodi illegali. Anzi, la campagna elettorale fornì loro lo spunto per intensificare intimidazioni e violenze contro gli avversari.
Ciononostante, i risultati delle urne delusero chi aveva voluto le elezioni.
I socialisti subirono una limitata flessione. I popolari addirittura si rafforzarono. I gruppi liberal-democratici migliorarono le loro posizioni, ma non tanto da riacquistare il completo controllo del Parlamento.
In definitiva, la maggior novità fu costituita dall'ingresso alla Camera di 35 deputati fascisti, capeggiati da un Mussolini deciso a giocare il ruolo di nuovo arbitro della politica nazionale.

Il patto di pacificazione e la nascita del Pnf

L'esito delle elezioni di maggio mise praticamente fine all'ultimo esperimento governativo di Giolitti, che si dimise all'inizio di luglio.
Il suo successore, l'ex socialista Ivanoe Bonomi, tentò di far uscire il paese dalla guerra civile favorendo una tregua d'armi fra le due parti in lotta.
Nell'agosto 1921, fu in effetti firmato un patto di pacificazione tra socialisti e fascisti, che si impegnavano a rinunciare alla violenza e a sciogliere le loro formazioni armate.
Il patto rientrava in quel momento nella strategia di Mussolini, che mirava a inserirsi nel gioco politico «ufficiale» e temeva il diffondersi di una reazione popolare contro lo squadrismo. Questa strategia non era però condivisa dai fascisti intransigenti, che si riconoscevano nello squadrismo agrario e nei suoi capi locali, i cosiddetti ras.
I ras (Grandi a Bologna, Farinacci a Cremona, Balbo a Ferrara, per citare solo i più noti) sabotarono in ogni modo il patto di pacificazione e giunsero a mettere in discussione l'autorità di Mussolini. La ricomposizione si ebbe al congresso dei Fasci tenutosi a Roma ai primi di novembre.
Mussolini si rese conto di non poter fare a meno della massa d'urto dello squadrismo agrario e sconfessò il patto di pacificazione (che del resto non aveva mai funzionato sul serio). I ras riconobbero la guida politica di Mussolini e accettarono la trasformazione del movimento fascista in un vero e proprio partito, cosa che avrebbe limitato non poco la loro libertà d'azione.
Nasceva così il Partito nazionale fascista (Pnf), che poteva contare su una base di oltre 200 mila iscritti, in gran parte nelle regioni del Centro-nord.

L'agonia dello Stato liberale

Il ministero Bonomi cadde nel febbraio del 1922.
Il debole governo di Luigi Facta non mise alcun freno alla violenza fascista che si rese protagonista di operazioni sempre più ampie e clamorose: scorrerie che coinvolgevano intere province, occupazione in armi di grandi centri, come Ferrara, Bologna e Cremona.
All'inizio di agosto, in risposta alla decisione dei dirigenti sindacali di proclamare uno sciopero generale legalitario in difesa delle libertà costituzionali, i fascisti lanciarono una nuova e più violenta offensiva contro il movimento operaio, che non seppe opporre all'attacco squadrista né una mobilitazione di massa né un'iniziativa politica volta ad appoggiare un governo capace di far rispettare la legge.
Sconfitto il movimento operaio, il fascismo doveva porsi il problema della conquista dello Stato.
In questa delicata fase Mussolini giocò, come al solito, su due tavoli.
Da un lato intrecciò trattative con tutti i più autorevoli esponenti liberali in vista della partecipazione fascista a un nuovo governo; rassicurò la monarchia sconfessando le passate simpatie repubblicane; si guadagnò il favore degli industriali annunciando di voler restituire spazio all'iniziativa privata. Dall'altro lasciò che l'apparato militare del fascismo si preparasse apertamente alla presa del potere mediante un colpo di Stato.

La marcia su Roma

Prese così corpo il progetto di una marcia su Roma, ossia di una mobilitazione generale di tutte le forze fasciste, con obiettivo la conquista del potere centrale.
Un piano del genere non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse incontrato una ferma reazione da parte delle autorità. Per quanto agguerrite, le squadre fasciste erano pur sempre delle bande indisciplinate ed equipaggiate in modo approssimativo, non certo in grado di affrontare uno scontro con l'esercito regolare.
Ne era consapevole lo stesso Mussolini, che contava soprattutto sulla debolezza del governo e sulla benevola neutralità della monarchia.
In effetti, nel generale disfacimento dei poteri statali, decisivo fu l'atteggiamento del re. Spaventato dalla prospettiva di una guerra civile, Vittorio Emanuele III rifiutò, la mattina del 28 ottobre 1922, il giorno fissato per la marcia fascista sulla capitale, di firmare il decreto per la proclamazione dello stato d'assedio (cioè per il passaggio dei poteri alle autorità militari), che era stato preparato in tutta fretta dal governo Facta, già dimissionario.
Il rifiuto del re aprì la via del potere a Mussolini, che non si accontentò della soluzione auspicata dal re e dagli ambienti moderati (partecipazione fascista a un governo guidato da un esponente conservatore), ma chiese e ottenne di essere chiamato lui stesso a presiedere il governo.
La mattina del 30 ottobre 1922, mentre gli squadristi entravano nella capitale senza incontrare alcuna resistenza da parte della forza pubblica, Mussolini fu ricevuto dal re.
La sera stessa il nuovo governo guidato da Mussolini era già pronto.
Ne facevano parte, oltre ai fascisti, esponenti di tutti i gruppi che avevano partecipato ai precedenti governi: liberali giolittiani, liberali di destra, democratici e popolari.

Cambio di governo o nuovo regime?

La crisi si era dunque risolta in modo quanto meno ambiguo.
I fascisti gridarono al trionfo e si convinsero di aver attuato una rivoluzione che in realtà era stata soltanto simulata.
I moderati si rallegrarono per il fatto che la legalità costituzionale, violata nei fatti, era stata rispettata almeno nelle forme.
I rivoluzionari (socialisti massimalisti e comunisti) si illusero che nulla fosse cambiato nella sostanza, dal momento che ai loro occhi ogni governo borghese era espressione della stessa dittatura di classe.
Il paese nel suo complesso seguì gli eventi con un misto di indifferenza e di rassegnazione.
Pochi capirono che il sistema liberale aveva ricevuto un colpo mortale e che il cambio di governo sarebbe presto diventato un cambio di regime.

 

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Verso il regime

Il Gran consiglio e la Milizia

Salito al potere con una finta rivoluzione, Mussolini, con 35 (meno del 7% dei seggi), non disponeva di una sua maggioranza alla Camera.
Riuscì ugualmente a consolidare il suo potere per la miopia degli alleati di governo liberali e cattolici, i cosiddetti «fiancheggiatori», che continuarono a garantire il loro appoggio anche quando fu chiaro che il Partito fascista intendeva assumere un ruolo incompatibile con i principi basilari dello Stato liberale.
Nel dicembre 1922 fu istituito il Gran consiglio del fascismo, che aveva il compito di indicare le linee generali della politica fascista e di servire da raccordo fra partito e governo.
Nel gennaio 1923 le squadre fasciste vennero inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale: un corpo armato di partito che aveva come scopo dichiarato quello di «proteggere gli inesorabili sviluppi della rivoluzione» ma che, nelle intenzioni di Mussolini, doveva anche disciplinare lo squadrismo e limitare il potere dei ras.
L'istituzionalizzazione della Milizia non servi peraltro a far cessare le violenze illegali contro gli oppositori, alle quali ora si sommava la repressione "legale" condotta dalla magistratura e dagli organi di polizia.
Le conseguenze di questa azione combinata su quel che restava delle organizzazioni del movimento operaio furono disastrose.
Il numero degli scioperi, già in rapido calo a partire dal '21, scese nel '23 a livelli insignificanti. I salari reali subirono una costante riduzione, riavvicinandosi ai livelli dell'anteguerra.

La ripresa economica

La compressione salariale era del resto una componente importante della politica economica del governo che, fedele alle promesse della vigilia, mirò soprattutto a restituire libertà d'azione e margini di profitto all'iniziativa privata.
Fu alleggerito il carico fiscale sulle imprese, privatizzato il servizio telefonico e contenuta la spesa statale con un energico sfoltimento dei dipendenti pubblici (vennero colpiti soprattutto i ferrovieri, una delle categorie più sindacalizzate).
Sul piano economico e finanziario, la politica liberista ottenne discreti successi: fra il '22 e il '25 vi fu un notevole aumento della produzione e il bilancio dello Stato tornò in pareggio. Il risultato era in buona parte dovuto all'opera degli ultimi ministeri liberali, ma valse ugualmente a rafforzare il governo e a rinsaldare i legami fra potere economico e fascismo.

L'appoggio della Chiesa

Un altro sostegno decisivo Mussolini lo ebbe dalla Chiesa cattolica in cui, dopo l'elezione del nuovo papa Pio XI (nel febbraio 1922), stavano riprendendo il sopravvento le tendenze più conservatrici.
Per molti cattolici il fascismo, al di là dei suoi orientamenti ideologici, aveva il merito di aver allontanato il pericolo di una rivoluzione socialista.
Dal canto suo Mussolini, abbandonati i toni anticlericali del primo fascismo, si mostrò disposto a importanti concessioni. La riforma scolastica varata nella primavera del 1923 dall'allora ministro della Pubblica Istruzione, il filosofo Giovanni Gentile, prevedeva l'insegnamento della religione nelle scuole elementari e l'introduzione di un esame di Stato al termine di ogni ciclo di studi: una misura da tempo richiesta dai cattolici, in quanto metteva sullo stesso piano scuole pubbliche e private.
La prima vittima dell'avvicinamento fra Chiesa e fascismo fu il Partito popolare, considerato ormai dalle gerarchie ecclesiastiche un ostacolo sulla via del miglioramento dei rapporti con lo Stato.
Nell'aprile 1923 Mussolini impose le dimissioni dei ministri popolari dal governo. Poco dopo, don Sturzo, sotto le pressioni del Vaticano, lasciò la segreteria del Ppi.

La nuova legge elettorale

Liberatosi del più scomodo fra i suoi alleati, Mussolini aveva il problema di crearsi una sua maggioranza parlamentare, sanzionando al tempo stesso la posizione di preminenza del fascismo. Fu questo lo scopo della nuova legge elettorale maggioritaria, varata nell'estate del 1923 col voto favorevole di buona parte dei liberali e dei cattolici di destra.
La legge avvantaggiava vistosamente la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa (con almeno il 25% dei voti), assegnandole i due terzi dei seggi disponibili.
Quando, all'inizio del 1924, la Camera fu sciolta, molti esponenti liberali (compresi Orlando e Salandra) e alcuni cattolici conservatori accettarono di candidarsi assieme ai fascisti nelle liste nazionali presentate in tutti i collegi col simbolo del fascio.
Le forze antifasciste erano invece profondamente divise. I socialisti, i comunisti, i popolari, i liberali di opposizione guidati da Giovanni Amendola e gli altri partiti minori si presentarono ciascuno con proprie liste: il che significava condannarsi a sicura sconfitta.

Le elezioni del '24

Nonostante questo vantaggio iniziale, i fascisti non rinunciarono alla violenza contro gli avversari, sia durante la campagna elettorale sia nel corso delle votazioni, che ebbero luogo il 6 aprile 1924. La scontata vittoria fascista assunse così proporzioni clamorose, tanto da rendere inutile il meccanismo della legge maggioritaria: le «liste nazionali», infatti, ottennero il 65% dei voti e più di tre quarti dei seggi.
Il successo fu massiccio soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole, cioè nelle regioni in cui il fascismo aveva minori radici, ma si era rapidamente ingrossato, dopo l'andata al governo, con l'adesione dei notabili moderati e delle loro clientele.

 

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La dittatura a viso aperto

Il delitto Matteotti

A poco più di due mesi dalle elezioni, un evento tragico e inatteso intervenne a mutare bruscamente lo scenario.
Il 10 giugno 1924, il deputato socialista Giacomo Matteotti fu rapito a Roma da un gruppo di squadristi, caricato a forza su un'auto e ucciso a pugnalate.
Il suo cadavere, abbandonato in una macchia boscosa a pochi chilometri dalla capitale, fu trovato solo due mesi dopo.
Dieci giorni prima di essere ucciso, Matteotti aveva pronunciato alla Camera una durissima requisitoria contro il fascismo, denunciandone le violenze e contestando la validità dei risultati elettorali.
Era dunque naturale che la sua scomparsa suscitasse nell'opinione pubblica, pur assuefatta alla violenza politica, un'ondata di indignazione contro il fascismo e il suo capo. Sebbene gli esecutori materiali del crimine fossero stati arrestati dopo pochi giorni, né allora né in seguito si poterono individuare con certezza i mandanti diretti.
Il paese capì tuttavia che il delitto era il risultato di una pratica ormai consolidata di violenze e di impunità, di cui Mussolini e i suoi seguaci portavano intera la responsabilità. Il fascismo, che fino a pochi giorni prima era parso inattaccabile, si trovò improvvisamente isolato.

L'Aventino

Ma l'opposizione, drasticamente ridimensionata dalle elezioni, non aveva la possibilità di mettere in minoranza il governo, né d'altra parte era in grado di affrontare una prova di forza sul piano della mobilitazione di piazza.
L'unica iniziativa concreta presa dai gruppi antifascisti fu quella di astenersi dai lavori parlamentari e di riunirsi separatamente finché non fosse stata ripristinata la legalità democratica.
La secessione dell'Aventino – come fu definita con un'espressione tratta da un episodio della storia romana: la plebe che si ritira sul colle Aventino per protestare contro i patrizi – aveva un indubbio significato ideale, ma era di per sé priva di qualsiasi efficacia pratica. I partiti "aventiniani" si limitarono infatti ad agitare di fronte all'opinione pubblica una «questione morale», sperando in un intervento della corona o in uno sfaldamento della maggioranza fascista.
Ma il re non intervenne. E i fiancheggiatori non tolsero l'appoggio al governo.

Il discorso del 3 gennaio

Nel giro di pochi mesi l'ondata antifascista rifluì.
Mussolini, pressato dall'ala intransigente del fascismo, decise di contrattaccare.
Il 3 gennaio 1925, in un discorso alla Camera, il capo del governo ruppe ogni cautela legalitaria, assumendosi la «responsabilità politica, morale e storica» di tutto quanto era avvenuto e minacciando apertamente di usare la forza contro le opposizioni.
Nei giorni successivi, una raffica di arresti, perquisizioni e sequestri si abbatté sui partiti d'opposizione e sui loro organi di stampa.
Anziché provocare la fine dell'avventura fascista, la crisi Matteotti aveva determinato la disfatta dei partiti democratici e accelerato il passaggio a una vera e propria dittatura. A questo punto non restava spazio per equivoci e compromessi. La scelta era tra fascismo e antifascismo, tra dittatura e libertà.
Molti politici e uomini di cultura che avevano fin allora mantenuto nei confronti del fascismo un atteggiamento di benevola neutralità sentirono la necessità di prendere posizione. A un Manifesto degli intellettuali del fascismo diffuso nell'aprile '25 per iniziativa di Giovanni Gentile (divenuto ormai il filosofo ufficiale del fascismo), gli antifascisti risposero con un "contromanifesto" redatto da Benedetto Croce, che rivendicava i diritti di libertà ereditati dalla tradizione risorgimentale.

Repressione e fascistizzazione dello Stato

Ma intanto il fascismo portava a compimento l'occupazione e chiudeva ogni residuo spazio di libertà politica e sindacale. Molti esponenti antifascisti furono costretti a prendere la via dell'esilio.
Giovanni Amendola morì in Francia nell'estate del '26 in seguito ai postumi di un'aggressione squadrista. Sempre in Francia era morto pochi mesi prima il giovane liberale di sinistra Piero Gobetti che era stato, con la sua rivista «La Rivoluzione Liberale», uno degli animatori del dibattito politico fra il '22 e il '24. Gli organi di stampa dei partiti antifascisti furono messi nell'impossibilità di funzionare. I grandi quotidiani di informazione, che avevano assunto una linea critica verso il governo dopo il delitto Matteotti, furono "fascistizzati" mediante pressioni sui proprietari che licenziarono i direttori antifascisti.
Nell'ottobre '25, il sindacalismo libero ricevette un colpo mortale dal patto di Palazzo Vidoni, con cui la Confindustria si impegnava a riconoscere la rappresentanza dei lavoratori ai soli sindacati fascisti.

La fine dello Stato liberale

Eliminate o ridotte al silenzio le voci d'opposizione, il fascismo non si accontentò più di esercitare una dittatura di fatto, ma procedette alla formulazione di nuove leggi destinate a stravolgere definitivamente i connotati dello Stato liberale.
La nuova legislazione ebbe il suo maggior artefice nel ministro della Giustizia, l'ex nazionalista Alfredo Rocco:
 - con la legge del dicembre '25 venivano rafforzati i poteri del capo del governo sia rispetto agli altri ministri sia rispetto al Parlamento;
 - nel febbraio '26 una riforma delle amministrazioni locali abolì l'elettività dei sindaci e dei consigli comunali;
 - nell'aprile '26, una legge sindacale proibì lo sciopero e stabilì che solo i sindacati «legalmente riconosciuti» (cioè quelli fascisti) avevano il diritto di stipulare contratti collettivi;
 - nel novembre '26, all'indomani di un fallito attentato alla vita di Mussolini, una raffica di misure repressive («provvedimenti per la difesa dello Stato») cancellò le ultime tracce di vita democratica: furono sciolti tutti i partiti antifascisti e soppresse tutte le pubblicazioni contrarie al regime; furono dichiarati decaduti dal mandato i deputati aventiniani; fu reintrodotta la pena di morte per i colpevoli di reati «contro la sicurezza dello Stato»; fu istituito, per giudicare questi reati, un Tribunale speciale composto non da giudici ordinari, ma da ufficiali delle forze armate e della Milizia;
 - nel 1928 una nuova legge elettorale introduceva il sistema della lista unica (con tanti candidati quanti erano i seggi da occupare) e lasciava agli elettori solo la scelta se approvarla o respingerla in blocco;
 - sempre nel 1928 fu "costituzionalizzato" il Gran consiglio che diventò un organo dello Stato, dotato di prerogative molto importanti, fra cui quella di preparare le liste elettorali.
I provvedimenti del '28 completavano la costruzione del regime, ma già le leggi «fascistissime» del novembre '26 avevano messo fine allo Stato liberale nato con l'unità d'Italia e avevano dato vita a un nuovo regime: un regime a partito unico, in cui era stata abolita la separazione dei poteri e tutte le decisioni importanti erano concentrate nelle mani di un solo uomo.

 

Il contagio autoritario

 

Il successo del fascismo in Italia non fu un caso isolato. Già nel corso degli anni '20, il regime mussoliniano rappresentò per molti paesi un possibile modello, alternativo a quello democratico-liberale.

Europa meridionale

Portogallo

António de Oliveira Salazar

1932-68

Unione nazionale

Spagna

gen. Miguel Primo de Rivera

1923-30

Unione patriottica

gen. Francisco Franco

1936/39-75

Falange

Grecia

Ioannis Metaxas

1936-41

Europa centrale e balcanica

Polonia

gen. Józef Pilsudski

1926-35

Blocco nazionale

Josef Jósef

1935-39

Ungheria

Miklós Horthy

1920-44

Austria

Engelbert Dollfuss

1932-34

Partito cristiano-sociale

Kurtvon Schuschnigg

1934-38

Slovacchia

mons. Joseph Tiso

1938/39-45

Partito popolare slovacco

Jugoslavia

re Alessandro I

1929-34

Partito nazionale jugoslavo

Milan Stojadinovič

1935-39

Bulgaria

re Boris III

1934-43

Romania

re Carol II

1930-40

Fronte della rinascita popolare

gen. Ion Antonescu

1940-44

Europa del Nord

Lituania

Auguste Voldemaras

1926-29

Lettonia

Karlis Ulmanis

1934-40

Nelle stesse democrazie occidentali non pochi guardarono a quel modello come a una soluzione praticabile, almeno in alcuni suoi aspetti, e adatta comunque a quei paesi in cui le istituzioni rappresentative non poggiavano su una solida base di cultura e di tradizione liberale, scontando invece il peso preponderante dei militari, dell'aristocrazia terriera delle Chiese.

L'Europa centro-orientale

Il primo paese a sperimentare, prima ancora dell'avvento del fascismo, un autoritarismo di questo tipo fu l'Ungheria dell'ammiraglio Miklós Horthy, ex comandante della marina asburgica divenuto nel 1920 «reggente» in attesa di una futura (e mai attuata) restaurazione monarchica: il regime rappresentativo sopravvisse solo formalmente e le libertà politiche e sindacali furono fortemente limitate.
Un altro regime semidittatoriale si affermò in Polonia nel 1926, quando l'ex socialista Josef Pilsudski guidò una "marcia su Varsavia" e modificò la costituzione in senso autoritario.
Anche in Austria le tensioni fra il Partito cristiano-sociale al potere e l'opposizione socialdemocratica portarono, nella seconda metà degli anni '20, a una netta involuzione autoritaria. Nel 1934, il cancelliere Engelbert Dollfuss, dopo aver represso sanguinosamente una rivolta operaia scoppiata nella capitale (la Comune di Vienna), avrebbe messo fuori legge il Partito socialdemocratico e varato una nuova costituzione di ispirazione clericale e corporativa.

Gli Stati balcanici

Non meno agitate furono negli anni '20 le vicende degli Stati balcanici.
In Grecia il regime repubblicano nato nel '24 non riuscì a funzionare regolarmente per i continui interventi dei militari e per la ricorrente minaccia dei gruppi monarchici.
In Bulgaria l'esperimento democratico attuato dal primo ministro Stambolijski, leader del Partito dei contadini e promotore di un'ampia riforma agraria, fu interrotto nel '23 da un colpo di Stato militare.
Un caso a parte era rappresentato dalla Jugoslavia, dove la scena politica era dominata dal contrasto fra i diversi gruppi etnici. Per domare la protesta dei croati, che si sentivano oppressi dal centralismo serbo, il re Alessandro I attuò nel 1929 un colpo di Stato, col risultato di aggravare le tensioni e di spingere il movimento separatista croato (gli ustascia) sulla via del terrorismo.

Spagna e Portogallo

Nel complesso si trattava di regimi autoritari di tipo tradizionale, sostenuti dall'esercito e dai gruppi conservatori, e privi di una base di massa, molto simili a quelli che nello stesso periodo si affermarono in un'altra area geografica, anch'essa afflitta da grave arretratezza economica e da profonde disuguaglianze sociali: la Penisola iberica.
In Spagna, un colpo di Stato fu attuato nel 1923 dal generale Miguel Primo de Rivera, con l'appoggio del sovrano Alfonso XIII. Nel 1930, dopo sette anni di governo semidittatoriale, Primo de Rivera fu costretto a dimettersi di fronte a una massiccia ondata di proteste popolari. Nelle elezioni amministrative del 1931 i partiti democratici e repubblicani ottennero un larghissimo successo, che indusse il re a lasciare il paese. Si formò così una Repubblica, destinata anch'essa – come si vedrà in seguito – a vita breve e travagliata.
Anche in Portogallo furono i militari a interrompere, nel 1926, l'esperienza di una fragile democrazia parlamentare. Ma fu un economista cattolico, António de Oliveira Salazar (ministro delle Finanze dal '28, presidente del Consiglio dal '32), ad assumere il ruolo di ispiratore e guida di un regime autoritario, clericale e corporativo che sarebbe rimasto in vita per quasi mezzo secolo.

 

 

UNA CRISI PLANETARIA

 

 

La grande crisi: le cause e le conseguenze

Negli anni della crisi finanziaria mondiale iniziata nel 2008, si è fatto spesso ricorso al paragone con la "grande crisi" per antonomasia: quella scoppiata alla fine del 1929 col crollo improvviso della Borsa di New York e subito propagatasi in tutto il mondo industrializzato, per poi prolungarsi per buona parte degli anni '30 e trasformarsi così in "grande depressione", cioè in una fase prolungata di recessione economica.
Tra le due crisi vi sono in effetti molti punti di contatto: entrambe partirono dagli Stati Uniti (allora come oggi centro principale dell'economia capitalistica e della finanza mondiale) e colpirono duramente l'Europa; entrambe ebbero origine dall'esplosione di quella che chiamiamo una "bolla speculativa" (ossia un anomalo gonfiamento del valore dei titoli azionari o di altri strumenti finanziari); entrambe si ripercossero negativamente sull'economia produttiva, provocando fallimenti a catena, disoccupazione, disagi materiali, soprattutto fra i ceti più poveri.
Rispetto a quella degli anni recenti, la crisi degli anni '30 ebbe tuttavia effetti più devastanti sul piano sociale, anche perché colpì duramente proprio le economie più sviluppate del pianeta, a cominciare da quelle degli Usa e della Germania, allora strettamente collegate fra loro.
Sul piano politico, le conseguenze furono drammatiche: un'ondata di discredito e di sfiducia colpi non solo il sistema dell'economia di mercato, ma anche le istituzioni rappresentative e la stessa democrazia liberale, che con quel sistema economico veniva identificata.

L'eclissi della democrazia

Uscita in apparenza vincitrice dalla prima guerra mondiale, la democrazia politica, fondata sulle istituzioni rappresentative e sul suffragio universale, aveva già subito sconfitte importanti nel corso degli anni '20, con l'affermazione del fascismo in Italia e di altri regimi variamente autoritari in molti paesi dell'Europa meridionale e orientale.
Gli effetti della grande crisi la indebolirono ulteriormente, fino a metterne a rischio l'esistenza sull'intero continente europeo.
Alla democrazia si imputava di non aver saputo mantenere le sue promesse di giustizia e di uguaglianza e di non saper tutelare gli interessi nazionali: di essere insomma un regime debole e imbelle, fattore di disgregazione anziché di coesione.
Cresceva intanto il fascino dei modelli alternativi: quello comunista che si stava affermando in Urss sotto la guida spietata di Stalin; e quello proposto dal nazionalsocialismo – variante radicale del fascismo – dopo l'avvento al potere di Hitler in Germania nel 1933.
Giungeva così al suo culmine quella che è stata definita "l'epoca delle tirannie", caratterizzata dal culto della forza e dal disprezzo del valore della vita umana.
In questo clima maturarono, nell'indifferenza di gran parte delle opinioni pubbliche europee, le politiche di aggressione, l'oppressione delle minoranze, le discriminazioni razziali, le persecuzioni, fino agli stermini di massa che accompagnarono il secondo conflitto mondiale.

Autoritarismo e totalitarismo

Nel secondo dopoguerra, il termine "totalitarismo" fu usato dalla scienza politica per indicare una particolare forma di autoritarismo, tipica del secolo XX, che non si accontentava di controllare la società (come tendevano a fare i regimi autoritari "tradizionali"), ma pretendeva di pervaderla totalmente, di trasformarla nel profondo sotto la guida di un capo, attraverso l'uso combinato del terrore e della propaganda: quel potere, insomma, che non solo reprime il dissenso attraverso gli apparati di polizia, ma cerca anche di mobilitare i cittadini attraverso proprie organizzazioni e di imporre la sua ideologia attraverso il monopolio dell'educazione e dei mezzi di comunicazione di massa.
Il concetto di totalitarismo è chiaramente modellato sull'esperienza di due regimi per altri versi fra loro contrapposti: quello comunista-staliniano in Urss e quello nazista-hitleriano in Germania (mentre più discussa è la sua applicazione al fascismo italiano, che pure fu il primo a definirsi totalitario).
Per questo la categoria di "totalitarismo" è stata a lungo guardata con sospetto dalla sinistra marxista.
Oggi è usata comunemente, come la più adatta a designare quella forma di potere assoluto che si affermò nell'Europa degli anni '30 e che può considerarsi tipica della moderna società di massa.

Stalinismo e modernizzazione

La collettivizzazione del settore agricolo e la contemporanea industrializzazione forzata dell'Urss, imposte da Stalin a partire dalla fine degli anni '20, furono un'operazione grandiosa e terribile, una "rivoluzione dall'alto", più violenta e più costosa in termini di vite umane di qualsiasi rivoluzione dal basso: non solo per i molti milioni di morti che essa provocò direttamente, ma anche perché quell'operazione rappresentò lo sfondo, e la giustificazione, di uno dei regimi più oppressivi, arbitrari e sanguinari che la storia avesse mai conosciuto: quello che Stalin costruì portando all'esasperazione i tratti totalitari del sistema uscito dalla rivoluzione bolscevica del 1917.
L'associazione fra dispotismo personale e modernizzazione economica può aiutare a capire il fenomeno, altrimenti inspiegabile, del grande prestigio che Stalin acquisì fra i lavoratori e gli intellettuali di sinistra di tutto il mondo (e che sarebbe vistosamente cresciuto dopo che l'Urss fu coinvolta nel secondo conflitto mondiale dall'attacco della Germania nazista) proprio nel momento in cui il suo regime mostrava il volto più spietato.
Negli anni della crisi del capitalismo e dell'eclissi della democrazia, deportazioni, epurazioni ("grandi purghe") e massacri di massa potevano passare in secondo piano rispetto alla costruzione di un nuovo sistema capace di realizzare il socialismo e insieme di vincere la guerra.

La guerra ideologica

Scoppiato, nel 1939, a soli ventun anni dalla fine della "Grande Guerra", il secondo conflitto mondiale si presentò all'inizio come una replica del primo, o come una nuova fase di un'unica "guerra dei trent'anni" iniziata nell'estate del 1914.
Simile era lo schieramento delle potenze coinvolte (Gran Bretagna e Francia da una parte, Germania dall'altra, questa volta però con l'appoggio dell'Italia e, all'inizio, dell'Urss). E simile, almeno in apparenza, l'oggetto del conflitto: il tentativo della Germania di imporre la propria egemonia all'Europa, contrastato con tutti i mezzi dalle potenze "democratiche".
Profondamente diverse furono però le motivazioni e le stesse modalità delle due guerre. In particolare Hitler, primo e indiscusso responsabile dello scoppio del conflitto, perseguiva un progetto di dominio che andava ben oltre le tradizionali logiche di potenza. La guerra, dunque, acquistò subito una forte caratterizzazione ideologica, che si accentuò quando (nel 1941) diventò veramente mondiale, con l'ingresso dell'Unione Sovietica e degli Stati Uniti, attaccati rispettivamente dalla Germania e dal Giappone.
Il conflitto si trasformò allora in una "guerra antifascista", che vedeva gli Stati democratici alleati con la Russia comunista contro Hitler e i suoi alleati italiani e giapponesi.
Dunque uno scontro fra ideologie e visioni del mondo, feroce come una guerra civile, caratterizzato per giunta dalla spaventosa forza distruttiva dei nuovi mezzi bellici, che annullava ogni distinzione fra militari e civili.
Nell'ambito di questa guerra la deportazione e lo sterminio degli inermi diventarono la regola, in proporzioni mai viste prima. Si spiega così il fatto che nel tragico bilancio finale del conflitto (circa 50 milioni di morti) le vittime civili fossero assai più numerose di quelle in divisa.

Lo sterminio pianificato

Lo sterminio di larga parte della popolazione ebraica nei paesi occupati dalle armate tedesche fu l'atto finale di un lungo itinerario di persecuzione cominciato nella Germania hitleriana e poi portato avanti nella sua forma più spietata e radicale nel contesto delle politiche razziali attuate dai nazisti in Europa centro-orientale nel corso del secondo conflitto mondiale. Si trattò di un crimine di massa per molti aspetti unico (anche a prescindere dalle sue dimensioni, comunque spaventose), la cui condanna sarebbe diventata per questo un momento fondativo della coscienza occidentale e della ricostruzione dei rapporti internazionali all'indomani della guerra.
Due sono le caratteristiche che distinguono la Shoah (in ebraico 'catastrofe') dai tanti delitti collettivi consumati nell'"epoca delle tirannie", e segnatamente negli anni della seconda guerra mondiale.
La prima sta nel suo essere originata da un piano consapevole di sterminio volto alla cancellazione dalla faccia della terra di un intero popolo, individuato come nemico in quanto tale, in base a un criterio esclusivamente razziale.
La seconda consiste nel fatto di essere stata consumata nel cuore dell'Europa, per opera soprattutto di un popolo di grandi tradizioni culturali e con alto livello di istruzione come quello tedesco, in una società da tempo industrializzata: l'unica peraltro in cui era possibile applicare allo sterminio le modalità tipiche della produzione in serie, coniugare così strettamente il progresso tecnologico con la barbarie più feroce.

 

Dalla ripresa alla crisi

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La crescita degli anni '20

Nella seconda metà degli anni '20, l'Europa e il mondo industrializzato, superati i traumi del primo conflitto mondiale, sembravano avviarsi verso una nuova stagione di prosperità, simile a quella vissuta all'inizio del '900.
I rapporti fra le maggiori potenze attraversavano una fase di distensione, grazie anche al consolidamento della democrazia in Germania.
L'economia dell'Occidente capitalistico, trainata dalla spettacolosa espansione produttiva degli Stati Uniti, aveva ripreso a svilupparsi con discreta regolarità dopo le convulsioni dell'immediato dopoguerra.

Le contraddizioni della crescita

L'apparente ritorno alla normalità dell'economia internazionale nascondeva però alcuni squilibri profondi che interessavano in primo luogo il vecchio continente.
Durante la guerra, gli apparati produttivi dei maggiori Stati europei erano stati piegati alle esigenze dello sforzo bellico; e la domanda mondiale di beni di consumo, oltre che di materie prime, era stata soddisfatta in larga parte dai paesi extraeuropei, che erano rimasti estranei al conflitto o vi avevano preso parte solo marginalmente. La capacità produttiva di questi paesi era perciò cresciuta notevolmente.
A guerra finita, l'economia internazionale si trovò di conseguenza alle prese con una sovrapproduzione cronica, cioè con una capacità produttiva eccessiva rispetto alle capacità di assorbimento dei mercati.
Un altro problema fu costituito dalla scelta "isolazionista" degli Stati Uniti: ossia dal loro rifiuto di assumersi non solo il ruolo di protagonista del nuovo ordine internazionale ma anche quello di leader dell'economia mondiale, a cui la loro stessa potenza li chiamava. Gli Stati Uniti attuarono così scelte di politica economica che penalizzavano fortemente le nazioni europee, introducendo nuovi dazi doganali sulle merci importate (praticando cioè una politica protezionistica) e varando provvedimenti che limitavano drasticamente l'immigrazione.
In questo modo, impedirono alle merci provenienti dall'estero di trovare sbocco nel mercato in quel momento più favorevole e negarono agli europei che al ritorno dalla guerra non avevano trovato lavoro la possibilità di cercare fortuna oltreoceano, come invece avevano fatto le precedenti generazioni.

Una cesura epocale

Gli squilibri e le contraddizioni dell'economia internazionale vennero allo scoperto alla fine del 1929, quando ebbe inizio una crisi economica tanto imprevista quanto catastrofica.
Scoppiata negli Stati Uniti nell'autunno del 1929 e prolungatasi per buona parte degli anni '30, la «grande crisi» – come ancora oggi viene chiamata – fece sentire i suoi effetti anche sulla politica e sulla cultura, sulle strutture sociali e sulle istituzioni statali, segnando una netta cesura, che si aggiunse a quella creata dalla Grande Guerra, nello sviluppo delle società occidentali.
La crisi sconvolse i vecchi assetti e accelerò trasformazioni già in atto. Diede un'ulteriore, decisiva spinta alla decadenza dell'Europa liberale, creando le premesse per l'affermazione di regimi autoritari.
Compromise seriamente gli equilibri internazionali, mettendo in moto una catena di eventi che avrebbe portato, nel giro di un decennio, a un nuovo conflitto mondiale.

 

Gli Stati Uniti e il crollo del '29

[ Introduzione audio ]

Il primato economico degli Usa

Usciti vincitori da una guerra per loro relativamente breve (e combattuta lontano dal proprio territorio), gli Stati Uniti videro definitivamente confermato nel dopoguerra il loro ruolo di grande potenza economica mondiale. Erano il primo paese produttore in tutti i settori più importanti dell'industria e dell'agricoltura. Ma erano anche il primo esportatore di capitali e il primo creditore, in virtù dei prestiti concessi agli alleati nel corso del conflitto.
A guerra finita, il dollaro era la nuova moneta forte dell'economia internazionale. E, accanto al mercato finanziario di Londra, cresceva di importanza quello di New York.
A partire dal 1921, superata una breve fase di stagnazione, l'economia statunitense cominciò a crescere a ritmi molto rapidi. La diffusione della produzione in serie e i miglioramenti nell'organizzazione del lavoro in fabbrica favorirono notevoli aumenti di produttività.
Salì la produzione industriale e, con essa, il reddito nazionale, anche se, contemporaneamente, diminuì il numero degli occupati nell'industria, poiché gli sviluppi della tecnica causarono una diminuzione della quantità di lavoro necessaria a ottenere un determinato prodotto. Crebbe, invece, per l'espansione delle funzioni organizzative e burocratiche, l'occupazione nel settore dei servizi, mentre la diffusione fra i ceti medi di beni fin allora riservati a pochi (automobili ed elettrodomestici) faceva degli Stati Uniti il laboratorio di nuovi modi di vita e di nuovi modelli di consumo.

Isolazionismo e conservatorismo

A questo indiscusso primato non corrispondeva però una adeguata capacità di guida dei processi economici. All'isolazionismo in politica estera fece riscontro una forte egemonia conservatrice.
I repubblicani, che rimasero al potere per tutti gli anni '20, alimentarono le aspettative più ottimistiche sull'immancabile crescita della prosperità americana, senza troppo preoccuparsi dei gravi problemi sociali che pure continuavano a manifestarsi nel paese. La distribuzione dei redditi, infatti, era fortemente sperequata e comportava l'emarginazione di consistenti fasce della popolazione.
A tutto questo si aggiunse, inoltre, un'ondata di ostilità nei confronti delle minoranze etniche. Furono introdotte leggi limitative dell'immigrazione, anche per impedire un'eccessiva contaminazione dei caratteri etnici della popolazione bianca e la diffusione di ideologie sovversive di origine europea.
Il punto culminante di questa reazione fu il processo ai due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati di omicidio con una montatura giudiziaria e mandati a morte nel 1927.
Contemporaneamente si inasprirono le pratiche discriminatorie nei confronti della popolazione nera e la setta del Ku Klux Klan, espressione del razzismo più isterico, raggiunse negli Stati del Sud le dimensioni di un'organizzazione di massa.
Consistenti settori della popolazione si chiusero in una difesa ottusa e fanatica dei valori della civiltà bianca e protestante: anche cattolici ed ebrei venivano guardati con diffidenza.
Lo stesso proibizionismo – cioè il divieto di fabbricare e vendere bevande alcoliche, introdotto nel 1920 e rimasto in vigore fino al 1934 – scaturì da questo retroterra culturale, poiché l'ubriachezza era ritenuta un vizio tipico di neri e proletari in genere.

La febbre speculativa

Questa realtà sociale così contraddittoria non intaccava però il sostanziale ottimismo della borghesia nordamericana e la sua fiducia in una continua moltiplicazione della ricchezza. La conseguenza più vistosa di questo clima fu la frenetica attività della Borsa di New York (chiamata Wall Street dal nome della via in cui tuttora ha sede).
Incoraggiati dalla prospettiva di facili guadagni, infatti, i risparmiatori acquistavano azioni per rivenderle a prezzo maggiorato, facendo assegnamento sulla continua ascesa delle quotazioni, sostenuta dalla crescente domanda di titoli. Questa incontenibile euforia speculativa poggiava in realtà su fondamenta assai fragili.
La domanda sostenuta di beni di consumo aveva fatto si che nel settore industriale si formasse una capacità produttiva sproporzionata alle possibilità di assorbimento del mercato interno: possibilità limitate sia dalla particolare natura dei beni di consumo durevoli (che, non avendo bisogno di essere continuamente sostituiti, tendevano a «saturare» il mercato), sia dalla crisi del settore agricolo, che teneva bassi i redditi dei ceti rurali, limitandone il potere di acquisto.

Il legame con l'Europa

L'industria statunitense aveva ovviato a questa difficoltà con l'aumento delle esportazioni nel resto del mondo, in particolare nel vecchio continente.
Così fra economia americana ed economia europea si era venuto a creare uno stretto rapporto di interdipendenza: l'espansione americana finanziava con un cospicuo afflusso di prestiti la ripresa europea e quest'ultima, a sua volta, alimentava con le sue importazioni lo sviluppo degli Stati Uniti. Questo meccanismo, però, poteva incepparsi da un momento all'altro, anche perché i crediti statunitensi all'estero erano generalmente erogati da banche private e dunque legati a puri calcoli di profitto.
Quando, nel 1928, molti capitali americani furono dirottati verso le più redditizie operazioni speculative di Wall Street, le conseguenze sull'economia europea si fecero sentire immediatamente, ripercuotendosi subito dopo sulla produzione industriale degli Stati Uniti, il cui indice cominciò a scendere già nell'estate del 1929.

La caduta della Borsa

In una situazione già carica di segnali allarmanti si abbatterono gli effetti catastrofici del crollo della Borsa di New York: un evento che fu a un tempo la spia del malessere dell'economia mondiale e l'elemento propulsore che portò d'un tratto in superficie tutti gli squilibri accumulatisi nel precedente periodo di espansione.
Il valore dei titoli a Wall Street raggiunse i livelli più elevati all'inizio del settembre 1929. Seguirono alcune settimane di incertezza, durante le quali cominciò a emergere la tendenza degli speculatori a vendere i propri pacchetti azionari per realizzare i guadagni fin allora ottenuti. La corsa alle vendite determinò naturalmente una precipitosa caduta del valore dei titoli, distruggendo in pochi giorni i sogni di ricchezza dei loro possessori. A metà novembre le quotazioni si stabilizzarono su valori più o meno dimezzati. Ma intanto molte fortune si erano volatilizzate.
Il crollo del mercato azionario colpì in primo luogo i ceti ricchi e benestanti. Ma, riducendo drasticamente la loro capacità di acquisto e di investimento, ebbe conseguenze disastrose sull'intera economia nazionale, colpendo tutti gli strati della popolazione: un'industria chiudeva i battenti perché priva di ordini, licenziando i suoi dipendenti; i lavoratori disoccupati erano costretti a ridurre i loro consumi; il mercato diventava così sempre più asfittico, provocando il crollo di altre imprese, portando alla rovina gli esercizi commerciali, aggravando la crisi dell'agricoltura che non trovava più sbocchi per i suoi prodotti.

 

La crisi diventa mondiale

[ Introduzione audio ]

Il dilagare della crisi

La crisi innescata dal crollo del 1929 raggiunse in poco tempo un'estensione mai vista in precedenza.
La recessione economica si diffuse rapidamente in tutto il mondo – con l'eccezione dell'Unione Sovietica – come una spaventosa epidemia, presentandosi ovunque con i medesimi sintomi e con la stessa dinamica.
Fra il 1929 e il 1932 la produzione mondiale di manufatti diminuì del 30% e quella di materie prime del 26%. I prezzi caddero bruscamente sia nel settore industriale sia, soprattutto, in quello agricolo, dove il calo fu di oltre il 50%. I disoccupati raggiunsero il numero di 14 milioni negli Stati Uniti e di 6 milioni in Germania, cui si deve aggiungere la cifra, ingente anche se incalcolabile, dei sotto-occupati.
La diffusione internazionale della crisi era il risultato delle strette relazioni commerciali e finanziarie che univano le diverse aree del mondo fra loro e le rendevano tutte dipendenti, sia pur in diversa misura, da quanto accadeva nel paese leader dell'economia mondiale, gli Stati Uniti.
Quando, con lo scoppio della crisi, le banche americane ridussero, fino a sospenderla, l'erogazione di crediti all'estero, gli Stati europei si trovarono a corto di capitali, mentre le loro esportazioni negli Usa si ridussero per il generale calo della domanda. A tutto ciò si aggiunse la decisione, presa nel 1930 dal presidente degli Stati Uniti, Herbert Hoover, di inasprire il protezionismo per difendere la produzione interna.

La scelta protezionistica e le svalutazioni

La crisi e le risposte che ad essa vennero date dai governi provocarono un brusco passo indietro nell'integrazione tra i diversi mercati nazionali.
Il protezionismo statunitense indusse gli altri paesi ad adottare analoghe misure a difesa della propria bilancia commerciale. Molti Stati, poi, svalutarono le loro monete, per rendere più bassi i prezzi delle proprie merci e quindi favorire le esportazioni.
Anche in questo caso, si avviarono reazioni a catena che ebbero l'effetto di rendere altamente instabili i rapporti di cambio tra le diverse monete. La conseguenza di tutto ciò fu una contrazione drastica del commercio internazionale, che fra il 1929 e il 1932 – l'anno in cui la crisi giunse al culmine – si ridusse di oltre il 60% rispetto al triennio precedente.

L'aumento delle disuguaglianze

Anche i paesi meno sviluppati, in America Latina, Asia e Africa, pagarono un duro prezzo. Le loro economie si basavano in larga parte sull'esportazione di prodotti agricoli e materie prime verso i paesi più ricchi e quindi furono fortemente penalizzate dalle politiche protezionistiche.
Nel giro di pochi anni i ricavi delle esportazioni si ridussero di quasi due terzi per l'America Latina e l'Asia e di circa il 40% per l'Africa. Negli stessi anni, in quei continenti si accelerava la crescita demografica: non solo quindi la ricchezza prodotta diminuiva, ma si doveva distribuire a un numero più elevato di persone. Il divario tra i paesi più ricchi e quelli meno sviluppati toccò una delle sue punte massime.

L'assenza di collaborazione

Dopo l'inizio della crisi i governi dei paesi più industrializzati provarono a mettere a punto soluzioni condivise per fronteggiare le emergenze. Tuttavia, gli incontri e le conferenze internazionali non portarono ad alcun risultato.
Al crescente allentamento dei legami commerciali e finanziari corrispose l'assenza di una effettiva collaborazione tra gli Stati.
La crisi più grave fin allora sperimentata in età contemporanea, la prima ad avere un'estensione realmente globale, fu quindi affrontata senza meccanismi di controllo e di governo adeguati. Se alla vigilia della prima guerra mondiale il mondo sembrava, sul piano economico, sempre più unificato da inarrestabili flussi di merci, capitali e persone, venti anni dopo esso appariva frammentato da nuovi confini, barriere doganali e linee di separazione, mentre gli scambi si concentravano in aree specifiche sempre meno comunicanti le une con le altre.

 

Le conseguenze in Europa

[ Introduzione audio ]

La crisi finanziaria

In Europa al declino delle attività produttive e commerciali si sovrappose una crisi finanziaria che ebbe le sue prime manifestazioni in Austria e in Germania, dove il fallimento di alcune importanti banche portò al collasso dell'intero sistema del credito.
Alla crisi bancaria seguì una crisi monetaria.
I crolli verificatisi in Austria e Germania provocarono infatti un allarme incontrollato sulla solidità delle finanze inglesi (molti capitali britannici erano stati infatti investiti in quei due paesi) e sulla stessa tenuta della sterlina. Le banche inglesi dovettero far fronte a un precipitoso ritiro dei capitali stranieri e a ingenti richieste di conversione delle sterline nel loro equivalente in oro.
Nel settembre 1931, esauritesi le riserve auree della Banca d'Inghilterra, fu sospesa la convertibilità della sterlina in oro e la valuta inglese fu svalutata: si trattò di un avvenimento che destò sensazione, poiché sanzionava emblematicamente la decadenza della Gran Bretagna dal ruolo di «banchiere del mondo».
Analoghi provvedimenti vennero successivamente adottati da molti altri paesi, nella speranza che il deprezzamento della moneta favorisse le esportazioni e aprisse varchi nelle barriere doganali ovunque frapposte alla circolazione delle merci.

Le politiche di austerità

Quando la crisi ebbe inizio, tutti i governi dei paesi industrializzati ritennero di affrontarla affidandosi ai classici principi della scuola economica liberale, vale a dire tagliando drasticamente la spesa pubblica, per sanare i deficit di bilancio: vennero così ridotti gli stipendi ai pubblici dipendenti, diminuite le prestazioni sociali fornite dallo Stato e furono imposte nuove tasse.
Questi provvedimenti ridussero ulteriormente la domanda interna, aggravando perciò la recessione e la disoccupazione.

La crisi in Germania

In Germania le conseguenze della crisi si fecero sentire più che in ogni altro Stato europeo, a causa della stretta integrazione che il sistema dei prestiti internazionali aveva creato fra l'economia statunitense e quella tedesca, ancora gravata dall'onere delle riparazioni di guerra.
La crisi mise in gravi difficoltà il governo di coalizione allora guidato dai socialdemocratici, provocando un dissenso insanabile fra questi ultimi e i partiti di centro-destra sui sussidi di disoccupazione e sulle altre prestazioni sociali assicurate dallo Stato, che i moderati volevano ridimensionare sensibilmente.
Il nuovo capo del governo, il cattolico Heinrich Brüning, attuò una severissima politica di sacrifici, anche allo scopo di rivelare al mondo l'intollerabile onere che la Germania era condannata a sopportare per tener fede all'obbligo delle riparazioni.
Lo scopo fu in parte raggiunto nel 1932, quando una conferenza internazionale ridusse sensibilmente l'entità delle riparazioni e ne sospese il versamento per tre anni (trascorsi i quali, comunque, i pagamenti non furono mai ripresi). Ma intanto la politica di Brüning aveva prodotto ben più tragici frutti: 6 milioni di lavoratori disoccupati facevano da sfondo alla rapida ascesa del Partito nazionalsocialista di Hitler che seppe sfruttare il disagio e il risentimento largamente diffusi nella popolazione.

Francia e Gran Bretagna

Anche in Francia la politica di austerità fu applicata con estremo rigore.
Qui la crisi giunse in ritardo, nella seconda metà del '31, ma durò più a lungo (nel '38 la produzione non era ancora tornata ai livelli del '29) anche perché i governi vollero legare il loro prestigio alla difesa della moneta nazionale, il franco, ritardandone fino al '37 la svalutazione.
La crisi economica coincise con un periodo di grande instabilità della situazione politica francese: fra l'ottobre del '29 e il giugno del '36 si succedettero ben diciassette governi, ora di centro-destra ora di centro-sinistra.
In Gran Bretagna il ministero guidato dal laburista Ramsay MacDonald cercò di fronteggiare la crisi con un programma che prevedeva, fra l'altro, un drastico taglio del sussidio ai disoccupati. Questo programma incontrò però la ferma opposizione delle Trade Unions, le associazioni sindacali, nerbo del movimento laburista. A quel punto (agosto 1931) MacDonald ruppe clamorosamente col suo partito e, seguito da una minoranza di deputati laburisti, si accordò con liberali e conservatori per la formazione di un «governo nazionale» di cui egli stesso assunse la presidenza. Fu sotto questo governo che la Gran Bretagna svalutò la sterlina e abbandonò la sua secolare tradizione liberoscambista, adottando un sistema di tariffe doganali che privilegiava gli scambi commerciali nell'ambito del Commonwealth.
A partire dal 1933 l'economia europea cominciò a manifestare sintomi di miglioramento, ma nella maggior parte dei paesi la ripresa fu molto lenta: un vero rilancio produttivo si ebbe solo alla fine del decennio e fu dovuto anche al generale incremento delle spese militari conseguente all'aggravarsi delle tensioni internazionali.

 

Roosevelt e il New Deal

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La vittoria di Roosevelt

Nel novembre 1932, dopo tre anni di crisi che avevano gettato la popolazione in un angoscioso stato di insicurezza, si tennero negli Stati Uniti le elezioni presidenziali. Il presidente uscente, il repubblicano Herbert Hoover, che non aveva conseguito alcun successo nella lotta contro la crisi, fu nettamente sconfitto dal democratico Franklin Delano Roosevelt, governatore dello Stato di New York.
Quando presentò la sua candidatura alla presidenza, Roosevelt non aveva un programma organico da contrapporre ai repubblicani: fin dal momento della campagna elettorale seppe però far valere le sue notevoli doti di comunicativa, instaurando con i cittadini un rapporto diretto, convinto com'era che la condizione preliminare di un'azione politica efficace stesse nella capacità di infondere speranza e coraggio nella popolazione.
Divennero celebri le sue Conversazioni al caminetto, una trasmissione radiofonica che teneva spesso, con tono familiare e suadente, per illustrare ai concittadini la sua attività.

Il New Deal

Già nel discorso di accettazione della candidatura, del 2 luglio 1932, Roosevelt annunciò di voler inaugurare un New Deal ("nuovo patto" o "nuovo corso") nella politica degli Stati Uniti: un nuovo corso che si sarebbe caratterizzato soprattutto per un più energico intervento dello Stato centrale nei processi economici.
Il New Deal fu avviato immediatamente nei primi mesi della presidenza Roosevelt – i cosiddetti «cento giorni» – con una serie di provvedimenti che dovevano servire da terapia d'urto per arrestare il corso della crisi: si cercò in primo luogo di ristrutturare e risanare, con ingenti aiuti pubblici, il sistema creditizio, sconvolto da cinquemila fallimenti bancari che avevano polverizzato i risparmi di milioni di americani; e furono facilitati i prestiti per consentire ai cittadini indebitati di estinguere le ipoteche sulle case; furono aumentati i sussidi di disoccupazione e fu svalutato il dollaro per rendere più competitive le esportazioni.
A queste misure di emergenza, il governò affiancò alcuni provvedimenti più organici qualificanti, caratterizzati dall'uso di nuovi e originali strumenti d'intervento.
L'Agricultural Adjustment Act (Aaa) si proponeva di limitare la sovrapproduzione nel settore agricolo, assicurando premi in denaro a coloro che avessero ridotto coltivazioni e allevamenti. Il National Industrial Recovery Act (Nira) imponeva alle imprese operanti nei vari settori dei "codici di comportamento" volti a evitare, mediante accordi sulla produzione e sui prezzi, le conseguenze di una concorrenza troppo accanita, ma anche a tutelare i diritti e i salari dei lavoratori.
Particolare rilievo ebbe, infine, l'istituzione della Tennessee Valley Authority (Tva), un ente che aveva il compito di sfruttare le risorse idroelettriche del bacino del Tennessee, producendo energia a buon mercato a vantaggio degli agricoltori, ed era anche impegnato in opere di sistemazione del territorio.

Spesa pubblica e legislazione sociale

Se l'esperienza della Tva – rimasta come un modello di intervento organico sul territorio da parte del potere centrale – rappresentò per Roosevelt un notevole successo sia sul piano economico sia su quello propagandistico, le altre iniziative ebbero effetti più lenti e contraddittori.
Il calo della produzione agricola previsto dall'Aaa causò l'espulsione dalle campagne di vaste masse di lavoratori. Alla fine del '34 gli investimenti erano ancora stagnanti, mentre i disoccupati raggiungevano gli 11 milioni.
Per porre rimedio a questa situazione, il governo federale allargò al di là di ogni consuetudine il flusso della spesa pubblica, nella convinzione che le difficoltà derivanti dalla crescita del deficit potessero essere compensate dal contemporaneo aumento della produzione e del reddito.
Parallelamente, si intensificò l'impegno nel campo delle riforme sociali.
Nel 1935 furono varate una riforma fiscale, una legge sulla sicurezza sociale – che garantì alla maggior parte dei lavoratori la pensione di vecchiaia e riorganizzò l'assistenza statale a favore dei bisognosi – e una nuova disciplina dei rapporti di lavoro, che garantiva il libero svolgimento dell'azione sindacale.

Consensi e opposizioni al New Deal

Con le sue misure progressiste in campo sociale Roosevelt si guadagnò l'appoggio del movimento sindacale che, negli anni del New Deal, attraversò una fase di espansione grazie anche a un'ondata di lotte operaie senza precedenti nella storia americana.
D'altra parte, le novità del New Deal e i suoi risultati non sempre brillanti diedero spazio al formarsi di un'ampia coalizione avversa al presidente.
La Corte suprema degli Stati Uniti, massimo organo del potere giudiziario, cercò di bloccare le riforme di Roosevelt dichiarando, nel 1935-36, l'incostituzionalità del Nira e dell'Aaa. Forte dello schiacciante successo ottenuto nelle elezioni presidenziali del '36, Roosevelt reagì ripresentando con lievi modifiche le leggi bocciate.
In conclusione, l'azione di Roosevelt, se da un lato smentì i principi cardine del liberismo – secondo cui lo Stato deve lasciare libero corso alle leggi del mercato e all'iniziativa imprenditoriale – dimostrando al contrario che l'intervento statale era indispensabile per arrestare il corso della crisi, dall'altro non riuscì a conseguire completamente il fine ultimo che si era proposto: quello cioè di ridare slancio all'iniziativa economica dei privati. Per tutti gli anni '30 l'economia americana ebbe bisogno di continue iniezioni di denaro pubblico.
Sarebbe giunta a una vera ripresa, nonché alla piena occupazione, solo durante la seconda guerra mondiale, con lo sviluppo della produzione bellica.

 

L'intervento dello Stato in economia

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La sfiducia nel mercato

Prima dello scoppio della grande crisi, l'intervento dei poteri pubblici in economia era stato largamente attuato, soprattutto in Europa, per favorire l'industrializzazione, per moderare i conflitti di classe e, in forme particolarmente incisive, per organizzare la produzione in tempo di guerra. Ma la cultura dominante fra gli economisti e gli statisti dei paesi industrializzati considerava ancora queste forme di intervento come una conseguenza di specifiche situazioni o al massimo come un supporto che doveva rendere più scorrevole il funzionamento del mercato.
La crisi del 1929 fece però sorgere un complesso di problemi la cui soluzione non poteva essere affidata all'iniziativa dei soggetti privati. E la fiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi e di espandersi per forza propria precipitò ai livelli minimi.
Molti, in quegli anni, subirono il fascino delle alternative di sistema che si andavano affermando in Europa: dal collettivismo integrale dell'Urss di Stalin agli esperimenti corporativi (basati cioè sulla gestione diretta dell'economia da parte delle rappresentanze sociali e delle organizzazioni di mestiere) proposti dal fascismo italiano e dai regimi autoritari di destra.

Le forme dell'intervento

Dopo la crisi del '29 fu ovunque lo Stato ad assumersi nuovi e importanti compiti.
Dalle tradizionali misure di sostegno alle attività produttive (come i dazi sulle importazioni) si passò all'adozione di più radicali misure di controllo (sul cambio della moneta, sui prezzi e sui salari) e, infine, all'assunzione da parte dello Stato di un ruolo attivo nell'espansione economica.
In alcuni casi, come quello appena visto degli Stati Uniti, si agi soprattutto attraverso lo stimolo alla domanda interna mediante l'espansione della spesa pubblica; in altri, come in Italia, si giunse all'assunzione diretta da parte dello Stato di imprese industriali in difficoltà; altrove – in Gran Bretagna e, in forme più incisive, nei paesi scandinavi – si puntò sull'elaborazione di programmi di sviluppo che si proponevano di orientare, tramite il credito o la manovra fiscale, l'attività economica verso obiettivi fissati dal potere politico.

Le teorie di Keynes

Il primo e più importante tentativo di sistemazione teorica delle trasformazioni in corso giunse nel 1936, con la pubblicazione da parte dell'economista inglese John Maynard Keynes del volume Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, che aprì un capitolo nuovo nella storia della scienza economica.
Il crollo del '29 e la successiva crisi fornirono a Keynes gli elementi per confutare alcune proposizioni fondamentali della teoria economica classica, in particolare quella secondo cui il mercato tenderebbe spontaneamente a produrre l'equilibrio tra domanda e offerta e a raggiungere la piena occupazione.
Keynes riteneva invece che i meccanismi spontanei del capitalismo non fossero in grado di garantire da soli un'utilizzazione ottimale delle risorse. Ciò lo indusse a criticare radicalmente le politiche deflazionistiche che, riducendo il potere d'acquisto dei privati mediante il contenimento della spesa pubblica e la restrizione del credito, aggravavano, nelle situazioni di crisi, le difficoltà dell'economia.
Era dunque compito dello Stato sostenere la domanda con politiche di aumento della spesa pubblica, anche a costo di allargare, per periodi determinati, il deficit del bilancio statale e di accrescere la quantità di moneta in circolazione. Gli effetti inflazionistici di queste misure sarebbero stati compensati dai benefici arrecati ai redditi e alla produzione.
Le linee di intervento proposte da Keynes in sede di teoria economica rispecchiavano molto da vicino quelle che Roosevelt stava attuando – o aveva già attuato – negli Stati Uniti del New Deal. Politiche analoghe, basate essenzialmente sull'espansione della spesa pubblica, sarebbero state adottate da quasi tutti i governi occidentali dopo la fine della seconda guerra mondiale.

 

Le trasformazioni nella vita sociale

[ Introduzione audio ]

Le città e i servizi

Dopo il 1929 l'intero Occidente industrializzato subì, come si è visto, un generale processo di impoverimento.
Questo, tuttavia, non impedì che nuove abitudini di vita, nuovi e più moderni modelli di consumo si affermassero, anche in Europa, presso vasti strati della popolazione, soprattutto urbana.
Nel corso degli anni '30, il processo di urbanizzazione si accelerò a causa della grave crisi in cui versava il settore agricolo. Crescita delle città significava sviluppo del settore edilizio. Lo sviluppo edilizio ebbe a sua volta conseguenze notevoli non solo sull'economia, ma anche sul modo di vita delle masse urbane.
Le case di nuova costruzione, in particolare quelle destinate ai ceti medi, erano di solito fornite di acqua corrente e di elettricità; inoltre, dato che si trovavano per lo più in zone periferiche, resero necessario uno sviluppo dei trasporti pubblici – tram elettrici, autobus e metropolitane – e della stessa motorizzazione privata.

I ceti medi

Inoltre la grande crisi, se per un verso accentuò le distanze fra ricchi e poveri, e fra occupati e disoccupati, per un altro determinò un certo miglioramento nelle retribuzioni reali e nei livelli di consumo di quei lavoratori che avevano mantenuto la loro occupazione e a cui il drastico calo dei prezzi agricoli aveva consentito di ridurre la quota di reddito riservata ai consumi alimentari e di aumentare quindi quella da destinare ad altri beni.
Così si spiega come mai, proprio negli anni '30, in Europa alcuni settori sociali – in primo luogo i ceti medi – poterono fruire per la prima volta su larga scala di quei beni di consumo durevoli che si erano diffusi negli Stati Uniti durante il decennio precedente.

I nuovi consumi

La produzione europea di veicoli a motore fece registrare consistenti progressi, anche se restò lontana dai livelli statunitensi: nel 1938 circolavano in Europa oltre 8 milioni di autovetture, contro i 5 del 1930, mentre nello stesso periodo gli Usa passarono da 25 a 30 milioni.
Nel vecchio continente l'automobile rimase, per tutti gli anni '30, un bene riservato a pochi. Ma intanto cominciavano a comparire anche in Europa le prime vetture "popolari" – come la Volkswagen ('vettura del popolo') in Germania o la "Topolino" in Italia – concepite per emulare il successo della leggendaria Ford T, la prima utilitaria, che negli Stati Uniti, fra il 1908 e il 1924, era stata venduta in 15 milioni di esemplari.
Un discorso analogo si può fare per la produzione degli elettrodomestici. I più costosi, come frigoriferi e scaldabagni, continuarono a essere considerati beni di lusso, ma il loro uso si andò ugualmente estendendo, almeno fra le categorie a reddito più elevato.
Più ampia diffusione, anche fra i ceti medio-inferiori, ebbero altri apparecchi domestici, come il ferro da stiro elettrico, la cucina a gas e soprattutto la radio.

Le nuove frontiere dell'informazione: la radio

I primi apparecchi per la trasmissione del suono attraverso l'etere senza l'ausilio dei fili erano stati sperimentati alla fine dell'800.
Durante i primi vent'anni del '900 la tecnica radiofonica aveva fatto continui progressi.
Il grande salto si ebbe dopo la fine della prima guerra mondiale, quando la radio si trasformò da mezzo di comunicazione fra singoli soggetti in strumento di irradiazione di programmi destinati a un pubblico fornito di apparecchi riceventi: dunque un mezzo di informazione e di svago.
I primi programmi regolari di trasmissioni si ebbero negli Stati Uniti nel 1920 e furono organizzati da compagnie private che si finanziavano con gli introiti pubblicitari. Nei maggiori paesi europei le trasmissioni si svilupparono negli anni immediatamente successivi, per lo più a opera di enti che operavano sotto il controllo statale, sul modello dell'inglese Bbc (British Broadcasting Corporation), e imponevano agli utenti un canone di abbonamento.
Nell'uno come nell'altro caso, lo sviluppo della radiofonia fu rapidissimo: alla fine degli anni '20 esistevano circa 3 milioni di apparecchi in Gran Bretagna, altrettanti in Germania e quasi 10 negli Stati Uniti. Queste cifre si moltiplicarono nel decennio successivo: nel 1939 c'erano in tutto il mondo circa 100 milioni di radio, metà delle quali nel Nord America.
Anche come mezzo di informazione la radio non temeva confronti: i notiziari radiofonici potevano essere ascoltati in qualsiasi ora, non richiedevano particolari sforzi di attenzione né spese supplementari ed erano per giunta molto più tempestivi dei giornali. A partire dagli anni '30, infatti, la diffusione della stampa subì un netto rallentamento. I giornali quotidiani continuarono a essere acquistati e letti soprattutto dal pubblico più qualificato, ma persero molta della loro capacità di espansione fra le classi popolari.
Per riguadagnare il terreno perduto, il settore della carta stampata cominciò a puntare più sull'immagine: da qui lo sviluppo delle riviste illustrate (capofila del genere fu l'americana «Life»), dove la parte fotografica prevaleva decisamente sui testi.
Capostipite di una serie di invenzioni destinate a improntare di sé la civiltà contemporanea, la radio segnò una tappa decisiva nel cammino della società di massa e inaugurò – come a suo tempo il telegrafo e il telefono – un'era nuova nel campo delle telecomunicazioni. Se ne resero conto alcuni grandi gruppi industriali, in particolare i colossi elettrici americani e tedeschi, che puntarono decisamente sullo sviluppo della radiofonia. Se ne resero conto anche gli uomini politici, da Roosevelt a Hitler e Mussolini, che affidarono alla radio i loro discorsi più importanti e di essa si servirono per assicurare ai loro messaggi una diffusione capillare.

Il cinema

Gli anni del trionfo della radio videro anche l'affermazione di un'altra forma di comunicazione di massa tipica del nostro tempo: il cinema.
Verso la fine degli anni '20, con l'invenzione del sonoro, il cinema divenne uno spettacolo "completo", come lo erano il teatro di prosa o l'opera lirica. Con la differenza che la proiezione di un film, ripetibile infinite volte, aveva costi incomparabilmente più bassi rispetto a una rappresentazione teatrale, poteva essere realizzata in qualsiasi locale abbastanza ampio per contenere uno schermo ed era quindi alla portata di un pubblico vastissimo.
Spettacolo popolare per eccellenza, esempio di fusione fra creazione artistica e prodotto industriale, il cinema non era solo un mezzo di svago. Era anche un veicolo attraverso cui imporre immagini e personaggi: col boom del cinema nacque il fenomeno del "divismo" di massa, ossia quel particolare rapporto di attrazione, spesso ai limiti dell'idolatria, che lega il grande pubblico agli attori più popolari, o meglio alla loro immagine diffusa dagli schermi.
Attraverso il cinema si potevano anche divulgare messaggi ideologici e visioni del mondo: si pensi al ruolo svolto dalla cinematografia statunitense – la più importante per prestigio e volume di produzione – nel diffondere in tutto il mondo i valori tipici della società americana: il coraggio fisico, la tecnica, l'ascesa individuale.
Una forma di propaganda più diretta era quella affidata ai cinegiornali d'attualità che venivano proiettati nelle sale cinematografiche in apertura di spettacolo e svolgevano una funzione complementare a quella dei notiziari radiofonici.

Politica e spettacolo

Insomma, lo sviluppo delle comunicazioni di massa non solo cambiò radicalmente i modi di concepire e di usare il tempo libero, ma ebbe effetti rivoluzionari in tutti i settori dell'attività umana.
La radio e il cinema costituivano un formidabile moltiplicatore, capace di trasformare in spettacolo di massa qualsiasi manifestazione della vita sociale: la creazione artistica come la competizione sportiva (fu in questo periodo che lo sport perse il suo carattere di attività dilettantistica fine a se stessa per trasformarsi in esibizione destinata essenzialmente al pubblico), la cultura come la politica.
Furono soprattutto i regimi autoritari a sfruttare appieno le possibilità insite nei nuovi mezzi di comunicazione e ad accentuare il lato «spettacolare» delle manifestazioni di massa. Ma anche nelle democrazie la radio, il cinema e la stampa illustrata contribuirono a «spettacolizzare» la competizione politica, a valorizzarne gli aspetti più eclatanti, a concentrare l'attenzione sulle figure dei leader.

 

I dilemmi della scienza

Negli anni fra le due guerre mondiali, l'onda lunga della rivoluzione della scienza applicata, cominciata negli ultimi decenni dell'800, continuò a far sentire i suoi effetti sulla vita quotidiana e sulla salute, sulle attività di pace e sullo sviluppo dei mezzi bellici.
Risalgono agli anni '20 e '30 alcune scoperte che avrebbero segnato in modo decisivo la storia del '900, dando la misura del carattere non neutrale della scienza moderna, vale a dire del suo potere sconfinato, delle sue implicazioni politiche e sociali, della contraddittorietà dei suoi esiti.

La ricerca sull'atomo

In questi anni un folto gruppo di fisici di diversi paesi, quasi tutti nati all'inizio del secolo (l'italiano Enrico Fermi, gli inglesi Paul Dirac e James Chadwick, i francesi Frédéric Joliot e Louis De Broglie, i tedeschi Erwin Schrödinger e Werner Heisenberg per citarne solo alcuni), portò avanti gli studi e gli esperimenti sul nucleo dell'atomo avviati all'inizio del '900 da Ernest Rutherford e da Niels Bohr. Si trattava di ricerche essenzialmente teoriche, che assunsero però un'immediata risonanza anche al di fuori degli ambienti scientifici quando, alla fine degli anni '30, si scoprì che dalla scissione, provocata artificialmente, di un nucleo atomico di materiale radioattivo era possibile liberare enormi quantità di energia.
Molti intuirono allora che da questa nuova straordinaria fonte di energia sarebbe stato possibile ottenere un'arma più potente di qualsiasi altra fin allora realizzata. Ma soltanto nel 1942 quando, durante la seconda guerra mondiale, una équipe di scienziati nordamericani guidata da Fermi realizzò il primo reattore nucleare, lo spettro della «guerra atomica» si materializzò minacciosamente, inducendo i due schieramenti in lotta a un'affannosa e segretissima corsa verso la costruzione della nuova bomba.

L'aviazione e i suoi impieghi militari

Se i possibili impieghi bellici della fisica nucleare restarono per molto tempo sconosciuti ai più, nessuno poteva ignorare il nesso strettissimo che intercorreva fra le caratteristiche della guerra futura e gli sviluppi della tecnica aviatoria.
Negli anni '20 e '30, l'aeronautica compi in tutti i paesi industrializzati progressi notevoli: gli aerei divennero più sicuri e più rapidi (i mezzi più veloci toccavano punte di 7-800 km orari), aumentando nel contempo la loro capacità di carico e la loro autonomia.
Imprese come la trasvolata solitaria dell'americano Charles Lindbergh, che nel 1927 compì per primo su un piccolo aereo il volo senza scalo da New York a Parigi, valsero a esaltare agli occhi dell'opinione pubblica mondiale le nuove possibilità offerte dal trasporto aereo.
L'aviazione civile, dopo i primi timidi passi negli anni '20, conobbe nel decennio successivo un considerevole incremento, soprattutto negli Stati Uniti, pur restando, a causa dei suoi alti costi, un servizio accessibile solo alle categorie privilegiate.
I progressi dell'aviazione civile furono però superati dai contemporanei sviluppi dell'aeronautica militare. Dopo aver accolto con scetticismo i primi impieghi bellici dell'aviazione, generali e uomini di governo finirono col convincersi che un'arma aerea, autonoma dall'esercito e dalla marina, era destinata a svolgere un ruolo decisivo nelle guerre future.
Tutte le grandi e medie potenze intensificarono, dall'inizio degli anni '30, la costruzione di aerei militari: aerei da caccia sempre più veloci, aerei da trasporto sempre più capienti, bombardieri dotati di sempre maggiore autonomia.
L'ipotesi di una guerra in cui i contendenti si combattessero seminando morte dal cielo fra le popolazioni civili diventava ormai una tragica certezza.

 

 

L'EUROPA DEGLI ANNI '30: DEMOCRAZIE E DITTATURE

 

 

Democrazie in crisi e fascismi

[ Introduzione audio ]

L'eclissi della democrazia

Negli anni '30 del '900, in coincidenza col dilagare della crisi economica, la democrazia visse la sua stagione più buia e rischiò addirittura di vedere le sue istituzioni e le sue culture cancellate dall'Europa continentale, anche dai paesi in cui sembravano avere basi più solide.
Già nel decennio precedente, regimi autoritari si erano affermati in molti Stati dell'Europa mediterranea e orientale. Ma, nei paesi più progrediti sul piano dell'economia e delle strutture civili, questi regimi erano stati visti soprattutto come un prodotto dell'arretratezza economica e politica e dell'insufficiente radicamento dei principi liberal-democratici.
Con la grande crisi del 1929, con i successi del nazismo in Germania e con la crescita generalizzata dei movimenti estremisti e razzisti soprattutto in Europa orientale (in Polonia come in Romania, in Ungheria come in Jugoslavia), si capì che il male era più profondo e non risparmiava nemmeno i paesi economicamente più sviluppati. In ampi strati dell'opinione pubblica si diffuse, infatti, la convinzione che i sistemi democratici fossero troppo deboli per tutelare gli interessi nazionali e troppo inefficienti per garantire il benessere dei cittadini; che la vera alternativa fosse quella fra il comunismo sovietico e i regimi autoritari di destra.
Furono questi ultimi a conoscere negli anni '30 il loro periodo di maggior fortuna: sia sotto la veste delle dittature reazionarie di tipo tradizionale, sia nelle forme più "moderne" del fascismo italiano e poi del nazismo tedesco.

I caratteri dei regimi fascisti

Caratteristica fondamentale dei movimenti e dei regimi che convenzionalmente chiamiamo fascisti – anche se il fascismo non ebbe mai una base dottrinaria ben definita – era il tentativo di proporsi come artefici di una propria rivoluzione (e non solo di una controrivoluzione), di dar vita a un nuovo ordine politico e sociale, diverso da quelli conosciuti fin allora.
Sul piano dell'organizzazione politica, fascismo significava accentramento del potere nelle mani di un capo, struttura gerarchica dello Stato, inquadramento più o meno forzato della popolazione nelle organizzazioni di massa, rigido controllo sull'informazione e sulla cultura. Sul piano economico e sociale, il fascismo si vantava di aver inventato una "terza via" fra capitalismo e comunismo: ma questo modello non riuscì mai a prender corpo e l'unica vera novità in questo campo consistette nella soppressione della libera dialettica sindacale, oltre che in un complessivo rafforzamento dell'intervento statale in economia.
Eppure, nonostante la sua inconsistenza teorica, il fascismo e i regimi ad esso affini esercitarono una notevole attrazione, soprattutto sugli strati sociali intermedi. Ai giovani in cerca di avventura, agli intellettuali bisognosi di certezze, ai piccolo-borghesi delusi dalla democrazia e spaventati dall'alternativa comunista, le nuove dittature parevano offrire una prospettiva nuova ed emozionante: la sensazione di appartenere a una comunità e di riconoscersi in un capo, la convinzione, non importa quanto fondata, di essere inseriti in una gerarchia basata sul merito (e non sulla ricchezza o sui privilegi di nascita), l'indicazione di un nemico cui attribuire ogni possibile colpa.

Società di massa e totalitarismi

Tutto ciò rappresentava una sorta di protezione contro il senso di schiacciamento e di anonimato provocato dai processi di "massificazione": dunque una reazione contro la società di massa, ma al tempo stesso un'esaltazione di alcuni suoi aspetti.
Più di quanto non avessero mai fatto le classi dirigenti liberal-democratiche, il fascismo seppe capire la società di massa, ne interpretò le componenti aggressive e violente e soprattutto ne sfruttò appieno le tecniche e gli strumenti: i mezzi di propaganda (soprattutto quelli nuovi, come la radio e il cinema), i canali di informazione e di istruzione, le strutture associative, in particolare quelle giovanili.
Questa capacità di adattamento alla società di massa e di controllo sui suoi meccanismi costituì una caratteristica specifica del fascismo e del nazismo, ma anche di un regime di opposta matrice ideologica e sociale come quello sovietico nell'età di Stalin: fu insomma propria di tutti quei regimi che, per la loro pretesa di dominare in modo "totale" la società, di condizionare non solo i comportamenti ma la stessa mentalità dei cittadini, sono stati definiti totalitari.

 

Dall'igiene razziale alle politiche di sterminio

[ Introduzione audio ]

Caratteristica comune ai regimi totalitari, anche in tempo di pace, fu la scarsa o nulla considerazione del valore della vita umana e della dignità dell'individuo.
Mai come in questa fase della storia europea – non a caso culminata con le stragi di massa del secondo conflitto mondiale – si affermò la tendenza a risolvere i problemi col ricorso sistematico alla forza, con le deportazioni e i campi di concentramento, infine con lo sterminio di intere popolazioni o gruppi sociali.

La nazione come corpo unico

Queste pratiche non erano del tutto estranee all'Europa di inizio '900, che aveva conosciuto ripetuti e indiscriminati massacri nei territori dell'ex-Impero ottomano (in particolare durante le guerre balcaniche) e li aveva praticati nelle guerre coloniali.
Il salto qualitativo si ebbe però con la prima guerra mondiale, che non solo produsse una generale assuefazione alla morte di massa, ma abituò i gruppi dirigenti e le opinioni pubbliche a ragionare in termini di salute e di efficienza collettiva (delle forze armate e della stessa nazione), più che di benessere dei singoli.
Infine, la controversa applicazione del principio di nazionalità, a guerra terminata, creò nuovi problemi di convivenza fra gruppi etnici, spesso risolti con il trasferimento forzato o la persecuzione delle minoranze, da parte di Stati che si volevano il più possibile omogenei.
Tutto ciò contribuiva a creare un atteggiamento diffuso, quasi un senso comune che vedeva nella comunità nazionale non tanto un insieme di individui, quanto un'entità collettiva, un organismo unico la cui integrità andava tutelata a ogni costo, anche al prezzo dell'espulsione di qualsiasi corpo estraneo o dell'amputazione di presunte parti "malate".

La diffusione delle teorie eugenetiche

In questo quadro si spiega la rinnovata fortuna dell'eugenetica, una teoria nata nella seconda metà dell'800, che sosteneva la necessità di un perfezionamento non spontaneo della specie umana attraverso pratiche simili a quelle adottate per gli animali e per le piante: selezioni e incroci volti a far prevalere, nella trasmissione ereditaria, i caratteri positivi su quelli negativi.
Figlia della cultura positivista ottocentesca (il suo inventore, Francis Galton, era cugino di Charles Darwin), l'eugenetica non era all'inizio necessariamente legata al nazionalismo né alle ideologie razziste (al contrario, affascinò non pochi intellettuali progressisti, soprattutto anglosassoni). E alcune delle sue applicazioni più inquietanti – divieto di matrimoni fra soggetti sani e portatori di malattie ereditarie, sterilizzazione di questi ultimi, interventi chirurgici sul cervello di malati mentali – furono adottate per la prima volta, nei primi decenni del '900, dai poteri pubblici in Stati democratici, come gli Usa, la Gran Bretagna e i paesi scandinavi (non in quelli a maggioranza cattolica, per la decisa opposizione della Chiesa).

Dalla selezione allo sterminio

Il passaggio da queste esperienze a una diffusa pratica di eliminazione fisica dei soggetti ritenuti estranei alla comunità, pericolosi o semplicemente inadatti si ebbe però solo nei regimi totalitari.
Nella Germania nazista l'adozione di misure di sterilizzazione forzata e poi di soppressione di individui malati si inquadrava nel progetto di una società basata sulla purezza della razza "eletta" e sul suo dominio su scala mondiale; e suonava come minacciosa premessa alle deportazioni e allo sterminio razziale che sarebbero stati praticati ai danni degli ebrei negli anni del secondo conflitto mondiale.
Diverse nelle motivazioni ma analoghe nelle conseguenze furono le politiche di sterminio adottate nell'Unione Sovietica di Stalin: qui le vittime (in primo luogo i kulaki) erano scelte su basi ideologiche e di classe. Ma anche intere popolazioni (i tartari di Crimea, i tedeschi del Volga) furono deportate e in larga parte sterminate perché ritenute in blocco politicamente infide.
Alla base di questi orrori c'erano dunque storie diverse, ma un'unica idea di fondo: quella di una comunità omogenea e compatta, capace di espellere da sé ogni elemento di diversità (ideologica o religiosa, etnica o razziale) e di operare come un'unica massa agli ordini di un unico capo dotato di un potere assoluto e incontrollato. Il che costituiva l'obiettivo autentico – anche se mai perfettamente raggiunto – dei totalitarismi novecenteschi.

 

L'ascesa del nazismo

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Nel novembre 1923, quando fini in prigione per aver tentato di organizzare un colpo di Stato a Monaco di Baviera, Adolf Hitler era un personaggio semisconosciuto, capo di una piccola formazione politica estremista. Meno di dieci anni dopo, nel gennaio 1933, lo stesso Hitler, leader di un partito che ormai rappresentava circa un terzo dell'elettorato tedesco, diventava capo del governo.
Per capire i motivi di questa imprevedibile ascesa è necessario tornare brevemente sulla Germania degli anni '20 e sugli effetti devastanti della grande crisi sulla società tedesca.

Hitler e il Partito nazista

Fino al 1930, infatti, il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (Nsdap) – o nazista, come veniva comunemente chiamato – rimase un gruppo marginale, che si serviva sistematicamente della violenza contro gli avversari politici, potendo contare su una robusta organizzazione armata: le SA (sigla di Sturm Abteilungen, cioè 'reparti d'assalto') comandate dal capitano dell'esercito Ernst Röhm.
Dopo il fallimentare tentativo di Monaco, Hitler aveva cercato, sull'esempio di quanto aveva fatto Mussolini in Italia, di dare al partito un volto più "rispettabile". Aveva messo da parte le rivendicazioni di stampo anticapitalistico che figuravano nel programma nazista, riuscendo così ad assicurarsi un certo sostegno finanziario da parte di alcuni ambienti della grande industria. Ma non aveva affatto rinunciato al nucleo centrale di quel programma.

Mein Kampf

Hitler espose con chiarezza i suoi progetti a lungo termine in un libro dal titolo Mein Kampf ('La mia battaglia'), scritto nei mesi del carcere.
Hitler credeva nell'esistenza di una razza superiore e conquistatrice, quella ariana, progressivamente inquinata dalla commistione con le razze 'inferiori'.
I caratteri originari dell'arianesimo si erano per lui conservati solo nei popoli nordici, in particolare nel popolo tedesco, che avrebbe dunque dovuto dominare sull'Europa e sul mondo.
Per realizzare questo sogno era necessario dapprima schiacciare i nemici interni: primi fra tutti gli ebrei, considerati, in quanto «popolo senza patria», i portatori del virus della dissoluzione morale, responsabili a un tempo dei misfatti del capitale finanziario e di quelli del bolscevismo.
Una volta ricostituita la propria unità in un nuovo Stato, i tedeschi avrebbero dovuto respingere le imposizioni del trattato di Versailles, recuperare i territori perduti ed espandersi verso est a danno dei popoli slavi, considerati razzialmente inferiori.
La ricerca dello "spazio vitale" a Oriente avrebbe fatto coincidere l'espansione territoriale con la crociata ideologica contro il comunismo.

La crisi economica e i successi dei nazisti

Questo programma, in apparenza poco realistico, aveva trovato scarsi consensi nella Germania di Weimar.
Nelle elezioni del maggio 1928, infatti, i nazisti ottennero appena il 2,5% dei voti.
Ma con lo scoppio della grande crisi economica, la maggioranza dei tedeschi, colpiti per la terza volta in poco più di un decennio (dopo gli anni della guerra e quelli della grande inflazione), perse ogni fiducia nella Repubblica e nei partiti che in essa si identificavano.
In questa situazione i nazisti poterono far leva sulla paura della grande borghesia, sulla frustrazione dei ceti medi, sulla rabbia dei disoccupati. Ai suoi concittadini provati dalla crisi Hitler offriva non solo la prospettiva esaltante della riconquista di un primato della nazione tedesca, non solo l'indicazione di alcuni capri espiatori cui addossare la responsabilità delle disgrazie del paese, ma anche l'immagine tangibile di una forza politica, la sua, in grado di ristabilire l'ordine contro «traditori» e «nemici interni».
L'agonia della Repubblica di Weimar cominciò nel settembre 1930, quando il cancelliere Heinrich Brüning, esponente del Centro cattolico, convocò nuove elezioni sperando di far uscire dalle urne una maggioranza favorevole alla sua politica di austerità. Accadde invece che i nazisti ebbero uno spettacolare incremento (dal 2,5 al 18,3% dei voti) a spese soprattutto della destra tradizionale, mentre i comunisti guadagnarono posizioni ai danni dei socialdemocratici.
L'aspetto più grave dei risultati stava nel fatto che, mentre i partiti contrari al sistema si rafforzavano, i partiti fedeli alla Repubblica non disponevano più di una solida maggioranza; Brüning continuò a governare per altri due anni grazie al sostegno del presidente Hindenburg, che si valse sistematicamente dei poteri straordinari previsti dalla Costituzione nei casi di emergenza.
Ma in quei due anni le istituzioni parlamentari si indebolirono ulteriormente, mentre la situazione economica andava precipitando.

Il collasso della Repubblica

La crisi raggiunse il suo apice nel 1932.
La produzione industriale calò dei 50% rispetto al 1928 e i senza lavoro raggiunsero i 6 milioni: ciò significava che la disoccupazione toccava la metà delle famiglie tedesche.
Frattanto i nazisti ingrossavano le loro file in modo impressionante (un milione e mezzo di iscritti). Le città divennero teatro di scontri sanguinosi: nei soli mesi di luglio e agosto si registrarono più di 150 morti.
Si consumava intanto il collasso del sistema repubblicano. Due crisi di governo e tre consultazioni elettorali tenute a pochi mesi di distanza l'una dall'altra non fecero che confermare la crescita delle forze eversive e l'impossibilità di formare una qualsiasi maggioranza "costituzionale".
Si cominciò, nel marzo 1932, con le elezioni per la presidenza della Repubblica. Per sbarrare la strada a Hitler, i partiti democratici non trovarono di meglio che appoggiare la rielezione dell'ottantacinquenne maresciallo Hindenburg. Quest'ultimo si affermò con un margine abbastanza netto su Hitler, che ottenne comunque ben 13 milioni di voti, pari al 37%. Ma, una volta confermato nella carica, il vecchio generale cedette alle pressioni dei militari e della grande industria e congedò il primo ministro Brüning.
A guidare il governo furono chiamati in successione due uomini della destra conservatrice, il cattolico Franz von Papen e, poi, il generale Kurt von Schleicher. Privi del sostegno del Parlamento, entrambi i tentativi fallirono. Nelle due successive elezioni politiche che Papen fece convocare nella vana speranza di procurarsi una maggioranza, i nazisti si affermarono come il primo partito tedesco: 37% dei voti nel luglio '32, il doppio che nelle precedenti elezioni del '30, e 33% in novembre. I gruppi conservatori, l'esercito, lo stesso Hindenburg finirono col convincersi che senza di loro non era possibile governare.

Hitlier diventa cancelliere

Il 30 gennaio 1933 Hitler fu convocato dal presidente della Repubblica e accettò di capeggiare un governo in cui i nazisti avevano solo tre ministeri su undici e in cui erano rappresentate tutte le più importanti componenti della destra.
Gli esponenti conservatori credettero di aver ingabbiato Hitler e di poter utilizzare il nazismo per un'operazione di pura marca conservatrice. Si sarebbero presto resi conto di aver sbagliato grossolanamente i loro calcoli.

 

Il consolidamento del potere di Hitler

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L'incendio del Reichstag

A Hitler bastarono pochi mesi per imporre la sua dittatura personale. L'occasione per una prima stretta repressiva fu offerta dall'incendio appiccato alla sede del Reichstag, il Parlamento nazionale, a Berlino, nella notte del 27 febbraio 1933.
L'arresto di un comunista olandese, semisquilibrato mentale, indicato come l'autore dell'attentato, fornì al governo il pretesto per un'imponente operazione di polizia contro i comunisti e per una serie di misure eccezionali che limitavano o annullavano le libertà di stampa e di riunione.
Nelle successive elezioni del 5 marzo i nazisti ottennero un numero di voti (il 44%) che, uniti a quelli dei gruppi di destra, sarebbero bastati ad assicurare al governo un'ampia base parlamentare. Ma Hitler mirava ormai all'abolizione del Parlamento. E il Reichstag appena eletto lo assecondò approvando una legge che conferiva al governo i pieni poteri, compreso quello di modificare la Costituzione.
Nel giugno 1933 la Spd fu sciolta, insieme ai sindacati di orientamento socialista. Gli stessi partiti conservatori, che avevano favorito l'avvento del nazismo, cessarono di esistere.
In luglio Hitler poteva varare una legge che proclamava quello nazionalsocialista unico partito consentito in Germania. Infine, in novembre, una nuova consultazione elettorale, questa volta di tipo "plebiscitario", su lista unica, faceva registrare un 92% di voti favorevoli.

La «notte dei lunghi coltelli»

Di fronte a Hitler restavano ancora due ostacoli: da una parte l'ala estremista del nazismo, rappresentata soprattutto dalle SA di Röhm; dall'altra la vecchia destra, impersonata dal presidente Hindenburg e dai capi dell'esercito, che chiedevano in termini ultimativi a Hitler di tutelare le tradizionali prerogative delle forze armate.
Hitler, che temeva anche lui l'autonomia delle SA (e, già da qualche anno, aveva provveduto a formare una sua milizia personale, le SS, sigla di Schutz-Staffeln, 'squadre di difesa'), decise di risolvere il problema nel modo più drastico e a lui più congeniale: con un massacro che fece inorridire il mondo civile.
Nella notte del 30 giugno 1934, la «notte dei lunghi coltelli», reparti delle SS assassinarono Röhm insieme a tutto lo stato maggiore delle SA.

Hitler capo dello Stato

La contropartita chiesta e ottenuta da Hitler fu l'assenso delle forze armate alla sua candidatura alla successione di Hindenburg.
Quando il vecchio maresciallo morì, nell'agosto del '34, Hitler, in base a una legge da lui stesso promulgata, poté così cumulare le funzioni di cancelliere e capo dello Stato. Ciò significava, fra l'altro, l'obbligo per gli ufficiali di prestare giuramento di fedeltà al capo del nazismo: in prospettiva, la fine di quell'autonomia dal potere politico di cui i generali tedeschi si erano mostrati così gelosi.

 

Il Terzo Reich

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Il Führer e le masse

Con l'assunzione della presidenza da parte di Hitler scomparivano anche le ultime tracce del sistema repubblicano.
Nasceva il Terzo Reich, il "Terzo Impero" (dopo il Sacro romano Impero medievale e quello nato nel 1871), nel quale si realizzava pienamente quel 'principio del capo' (Führerprinzip) che costituiva un punto cardine della dottrina nazista.
Il capo (Führer è l'equivalente tedesco di "duce") non era soltanto colui al quale spettavano tutte le decisioni ma anche la fonte suprema dei diritto; non era solo la guida del popolo, ma anche colui che unico ne esprimeva le autentiche aspirazioni.
Il rapporto tra capo e popolo era diretto, privo di mediazioni istituzionali e di ogni forma di rappresentanza. Il solo tramite fra il capo e le masse era costituito dal partito unico e da tutti gli organismi ad esso collegati: come il Fronte del lavoro, che sostituiva i disciolti sindacati, o le organizzazioni giovanili che facevano capo alla Hitlerjugend (Gioventù hitleriana).
Compito di queste organizzazioni era trasformare l'insieme dei cittadini in una "comunità di popolo" compatta e disciplinata. Da questa comunità di popolo erano esclusi, per definizione, gli elementi «antinazionali», i cittadini di origine straniera o di stirpe "non ariana" e soprattutto gli ebrei.

Gli ebrei tedeschi

Gli ebrei erano allora in Germania una ristretta minoranza: circa 500 mila su una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti. Ma, diversamente da quanto accadeva in Europa orientale, erano concentrati in prevalenza nelle grandi città e, pur non facendo parte della classe dirigente tradizionale, occupavano le zone medio-alte della scala sociale: erano per lo più commercianti, liberi professionisti, intellettuali e artisti; parecchi avevano posizioni di prestigio nell'industria e nell'alta finanza.
Nei confronti di questa minoranza attivamente inserita nella comunità nazionale, la propaganda nazista riuscì a risvegliare quei sentimenti di ostilità – contro la diversità etnica e religiosa e contro il presunto privilegio economico – che erano largamente diffusi, soprattutto fra le classi popolari, in tutta l'Europa centro-orientale.

Le leggi di Norimberga e la discriminazione

La discriminazione fu ufficialmente sancita, nel settembre 1935, dalle cosiddette leggi di Norimberga che tolsero agli ebrei la nazionalità tedesca e quindi tutti i diritti politici, e proibirono i matrimoni fra ebrei e non ebrei.
Successivamente agli ebrei fu impedito di avere attività industriali e commerciali; di esercitare determinate professioni (come la medicina e l'avvocatura), di avere incarichi statali e direttivi.
Nel 1938, traendo pretesto dall'uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi per mano di un ebreo, i nazisti organizzarono un gigantesco pogrom in tutta la Germania: nella notte fra il 9 e il 10 novembre (chiamata «notte dei cristalli» per via delle molte vetrine di negozi appartenenti a ebrei infrante dalla furia dei dimostranti) esplose la violenza, con la distruzione di sinagoghe, la devastazione di abitazioni, decine di ebrei uccisi e migliaia arrestati.
Da allora in poi la vita divenne pressoché impossibile per gli ebrei tedeschi, privati dei loro beni, del lavoro, esclusi da molti luoghi pubblici – scuole, musei, biblioteche –, accusati di cospirare contro il Reich e dunque minacciati di nuove violenze. Tutto ciò spinse molti ebrei tedeschi a emigrare: in circa 200 mila fra il '33 e il '39 lasciarono la Germania.

La «soluzione finale»

Infine, a guerra mondiale già iniziata, Hitler concepì il progetto mostruoso di una «soluzione finale» del problema: soluzione che prevedeva la deportazione in massa e lo sterminio del popolo ebraico.
La persecuzione degli ebrei era la manifestazione estrema di un più vaste programma di difesa dell'integrità della "razza" che comportò, fra l'altro, la sterilizzazione forzata per i portatori di malattie ereditarie e, dalla fine degli anni '30, anche la soppressione dei malati di mente classificati come incurabili.
Tali misure suscitarono reazioni di silenziosa protesta che indussero il regime a sospendere il programma impropriamente detto di "eutanasia".
Fu uno dei rari casi in cui si manifestò una frattura fra la società civile e un regime che in generale poggiava su un'ampia base di consenso.

Le deboli reazioni delle Chiese cristiane

Fino a quando non fu definitivamente sconfitta in guerra, la macchina del regime nazista poté funzionare senza incontrare ostacoli di rilievo.
I cattolici, dopo lo scioglimento del Partite del Centro, finirono con l'adattarsi al regime, incoraggiati anche dall'atteggiamento della Chiesa di Roma che, nel luglio del '33, stipulò un Concordato col governo nazista.
Solo nel marzo 1937, di fronte agli eccessi della politica razziale, il papa Pio XI intervenne con un'enciclica in lingua tedesca (Mit Brennender Sorge, 'Con viva ansia'), per condannare le dottrine e le pratiche razziste. Ma non vi fu, né allora né in seguito, una scomunica ufficiale del nazismo, né una denuncia del Concordato.
Deboli furono anche le resistenze offerte dalla maggioranza protestante. Le Chiese luterane, per lo più orientate in senso conservatore e tradizionalmente ossequienti al potere, si piegarono alle imposizioni del regime, compreso il giuramento di fedeltà dei pastori al Führer.
Solo una minoranza di ministri del culto (la cosiddetta "Chiesa confessante") si oppose attivamente alla nazificazione e fu perciò perseguitata.

Repressione e consenso

Per spiegare la debolezza dell'opposizione al nazismo, è necessario mettere in conto, in primo luogo, la vastità e l'efficienza dell'apparato repressivo e terroristico: le molte polizie – dalla Gestapo (Geheime Staatspolizei, 'polizia segreta di Stato') all'onnipresente «servizio di sicurezza» delle SS – che controllavano con ogni mezzo la vita pubblica e privata dei cittadini; i campi di concentramento (Lager) dove gli oppositori venivano rinchiusi a centinaia di migliaia e sottoposti, sotto la regia di speciali reparti delle SS, a un lento annientamento.
Tutto questo, però, può spiegare la limitatezza del dissenso, almeno di quello esplicito, ma non aiuta a capire le dimensioni del consenso al regime.
Una prima risposta sta nei successi di Hitler in politica estera, di cui si parlerà più avanti. Un altro importante fattore di consenso fu senza dubbio la ripresa economica.
Superato già nel '33 il momento più acuto della crisi, la produzione industriale tornò in pochi anni ai livelli del '28, per superarli nel '38-39. Grazie all'impulso dato ai lavori pubblici e soprattutto alla politica di riarmo messa in atto da Hitler, la disoccupazione diminuì rapidamente: fra il '33 e il '36 i disoccupati si ridussero da 6 milioni a 500 mila.

Un'utopia antimoderna

Per spiegare l'ampiezza del consenso al regime, occorre però tener conto di un altro fattore essenziale: la capacità del nazismo di imporre formule e miti capaci di toccare le corde profonde dell'anima popolare.
Il regime hitleriano propose ai tedeschi un'utopia reazionaria e "ruralista": un mondo popolato da uomini belli e sani, profondamente legati alla terra, una società di contadini-guerrieri, libera dalle malattie della civiltà industriale.
Questo ideale — ovviamente irrealizzabile in una società industrializzata e altamente urbanizzata come quella tedesca — contrastava in realtà con la prassi concreta del regime, sospinto dalla sua logica bellicista a favorire lo sviluppo della grande industria. Ma si innestava su una solida tradizione culturale nazionale, di origine soprattutto romantica, fondata sui miti della terra e del sangue; e rifletteva uno stato d'animo, largamente diffuso a livello popolare, di istintivo rifiuto della civiltà moderna.

Propaganda e comunicazioni di massa

La caratteristica peculiare della politica culturale nazista stava nel fatto che per diffondere un'utopia antimoderna il regime si serviva di tutti i più moderni strumenti dell'età delle comunicazioni di massa: la stampa, la radio, i film di propaganda.
Quello di Hitler fu il primo governo a istituire in tempo di pace un ministero per la Propaganda (affidato all'abilissimo Joseph Göbbels) che puntava al controllo totale di ogni manifestazione culturale del paese e divenne uno dei principali centri di potere del regime.
La stampa fu sottoposta a strettissimo controllo. Gli intellettuali furono inquadrati in un'organizzazione nazionale (la Camera di cultura del Reich) e dovettero fare atto di adesione al nazismo: quelli che non vollero piegarsi furono costretti al silenzio o obbligati a lasciare il paese. Ma, soprattutto, furono utilizzate in misura mai vista prima le tecniche dello spettacolo.
Tutti i momenti più significativi della vita del regime furono infatti scanditi da cerimonie pubbliche: sfilate militari, esibizioni sportive di gruppo e soprattutto adunate di massa – come quelle organizzate annualmente a Norimberga in occasione dei congressi del partito – culminanti nel discorso del Führer o di altri dirigenti.
Queste cerimonie-spettacolo erano preparate con estrema cura: la scenografia doveva essere solenne e monumentale, il colpo d'occhio suggestivo, la coreografia impeccabile.
L'importanza delle cerimonie pubbliche non si limitava a questi aspetti di parata. Nella grande adunata il cittadino cercava quei momenti di socializzazione, sia pure forzata, che la vita delle grandi città non offriva spontaneamente e ritrovava quegli elementi "sacrali" che aveva perso col tramonto della vecchia società contadina, il cui ritmo era appunto scandito da feste e da riti.

 

L'Urss: collettivizzazione e industrializzazione

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Negli anni '30, mentre la grande depressione economica investiva l'Occidente capialistico e fascismo e nazismo trionfavano in Italia e in Germania, lavoratori e intellettuali di tutto il mondo guardavano con interesse e speranza all'Unione Sovietica: il paese che tentava di costruire una nuova società fondata sui principi del socialismo e si presentava come l'estrema trincea dell'antifascismo mondiale.
Non solo: mentre gli Stati capitalistici si dibattevano nelle spire della crisi, l'Urss, in virtù del suo stesso isolamento economico, non ne era affatto toccata, anzi si rendeva protagonista di un gigantesco sforzo di industrializzazione.

La scelta dell'industrializzazione forzata

La decisione di forzare i tempi dello sviluppo industriale e di porre fine all'esperienza di parziale liberalizzazione della Nep fu presa da Stalin tra il '27 e il '28, subito dopo la definitiva sconfitta di quell'opposizione di sinistra capeggiata da Zinov'ev e Kamenev che proprio sulla necessità dell'industrializzazione aveva impostato la sua battaglia.
Confluivano in questa scelta l'idea – comune a Lenin e a tutto il partito bolscevico – dell'industrializzazione come presupposto insostituibile della società socialista e la convinzione, forte soprattutto in Stalin, che solo un rapido sviluppo dell'industria pesante avrebbe potuto fare dell'Urss una grande potenza militare, in grado di competere con le potenze capitalistiche.

La collettivizzazione e la campagna contro i kulaki

Il primo e più importante ostacolo alla costruzione di un'economia altamente industrializzata e totalmente collettivizzata fu individuato nel ceto dei contadini benestanti, i kulaki, accusati di affamare le città non consegnando allo Stato la quota di prodotto dovuta e di arricchirsi alle spalle del popolo con la vendita sul mercato.
Contro di loro furono adottate misure restrittive e operate ingenti requisizioni. E, poiché queste misure si rivelarono inefficaci, Stalin proclamò, nell'estate '29, la necessità di accelerare la collettivizzazione del settore agricolo, espropriando i contadini di terre, bestiame e mezzi di produzione e inquadrandoli nelle fattorie collettive. L'obiettivo era quello di «eliminare i kulaki come classe».
Nonostante l'opposizione di Nikolaj Bucharin, numero due del regime e teorico della Nep, la maggioranza del partito si schierò con Stalin: Bucharin e i suoi amici, condannati nel 1930 come «deviazionisti di destra», furono esclusi dai vertici del partito.
E il gruppo dirigente comunista procedette sulla via della collettivizzazione forzata, senza arretrare dinanzi alla prospettiva di una inevitabile, sanguinosa repressione.
I contadini ricchi, ma anche tutti coloro che si opponevano alle requisizioni e resistevano al trasferimento nelle fattorie collettive (i kolchoz), furono considerati come «nemici del popolo». Migliaia furono i fucilati dopo processi sommari. Centinaia di migliaia gli arrestati. Milioni di contadini furono deportati con le loro famiglie in Siberia o nella Russia settentrionale, chiusi in campi di lavoro forzato o abbandonati in terre inospitali.

La carestia

Agli effetti della repressione si sommarono quelli di una nuova spaventosa carestia che ebbe il suo culmine nel biennio '32-33, determinata da una serie di fattori concomitanti: l'inefficienza di una macchina organizzativa troppo centralizzata per tener conto delle situazioni locali; la resistenza opposta dai contadini che, in molti casi, preferirono macellare subito il bestiame piuttosto che consegnarlo alle fattorie collettive; ma anche la cinica determinazione delle autorità centrali che non solo non aiutarono in alcun modo la popolazione affamata, ma insistettero nella politica delle requisizioni.
I risultati in termini di costi umani furono terribili: fra il '29 e il '33 i kulaki, che in tutta l'Urss erano circa 5 milioni, scomparvero non solo come "classe", ma, in gran parte, anche come persone fisiche. Nella sola Ucraina, in quegli stessi anni, le vittime ammontarono, secondo calcoli recenti, a 4 milioni, fra cui numerosissimi bambini.
Ma anche il bilancio economico dell'operazione fu, nell'immediato, disastroso: solo alla fine degli anni '30 la produzione agricola tornò ai livelli dei tempi della Nep. Ma intanto deportazioni, morti per fame, ma anche la fuga nelle città, avevano ridotto drasticamente la popolazione nelle campagne mentre la grande maggioranza dei contadini (oltre il 90% nel 1939) era stata inserita nelle fattorie collettive.

I piani quinquennali

Il vero scopo della collettivizzazione dell'agricoltura, che lo stesso Stalin definì una «rivoluzione dall'alto», era però favorire l'industrializzazione del paese mediante lo spostamento di risorse economiche e di energie umane dalle campagne alle fabbriche.
Da questo punto di vista i risultati furono indubbiamente notevoli, anche se inferiori a quelli programmati: il primo piano quinquennale per l'industria, varato nel 1928, fissava infatti una serie di obiettivi tecnicamente impossibili da conseguire. La crescita del settore fu comunque imponente. Nel 1932 la produzione industriale era aumentata, rispetto al '28, di circa il 50% e il numero degli addetti all'industria era passato da 3 milioni scarsi a oltre 5 milioni.
Col secondo piano quinquennale (1933-37), la produzione aumentò di un altro 120% e il numero degli operai giunse a toccare i 10 milioni.
Questi risultati furono consentiti non solo da una straordinaria concentrazione di risorse – resa a sua volta possibile da un gigantesco prelievo di ricchezza a spese dell'intera popolazione e soprattutto dei ceti rurali – ma anche dal clima di entusiasmo ideologico e patriottico, che permise ai lavoratori dell'industria di sopportare sacrifici pesanti, seppur non paragonabili a quelli dei contadini, in termini di consumi individuali e di ritmi lavorativi. Gli operai furono infatti sottoposti a una disciplina severissima, ai limiti della militarizzazione, ma furono anche stimolati con incentivi materiali che premiavano i lavoratori più produttivi.
Il caso di un minatore del bacino del Don, Aleksej Stachanov, diventato famoso per aver estratto in una notte un quantitativo di carbone superiore di ben quattordici volte a quello normale, diede origine a un vero e proprio movimento di massa detto appunto "stachanovismo", sostenuto dalle autorità ed esaltato da Stalin.

Il mito di Stalin

L'eco di questi successi varcò i confini dell'Urss galvanizzando i comunisti di tutto il mondo e suscitando ammirazione anche presso esponenti di altri schieramenti politici. Intellettuali sin allora lontani dai partiti comunisti ne divennero simpatizzanti o aderenti.
Poco conosciuti, o volutamente ignorati, fuori dall'Urss erano i costi umani e politici di quell'impresa. Pochi immaginarono le reali dimensioni della tragedia che si era consumata nelle campagne. E pochi si resero conto che il clima creatosi nel paese in coincidenza col lancio dei piani quinquennali – un clima di esaltazione collettiva, ma anche di sospetto e di repressione giustificata con l'esigenza di colpire i "sabotatori" – era il più adatto ad accentuare i tratti totalitari del regime e la crescita del potere assoluto di Stalin.

 

L'Urss: le "grandi purghe" e i processi

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Il potere assoluto di Stalin

Sorretto da un onnipotente apparato burocratico e poliziesco ma anche dal consenso spontaneo di milioni di lavoratori – Stalin finì con l'assumere in Urss un ruolo di capo assoluto, non diverso da quello svolto nello stesso periodo dai dittatori di opposta sponda ideologica.
Era il padre e la guida infallibile del suo popolo. Era l'autorità politica suprema, il depositario dell'autentica dottrina marxista-leninista, e al tempo stesso il garante della sua corretta applicazione. Ogni critica, da qualunque parte avanzata, assumeva i caratteri odiosi del tradimento.

Il controllo della cultura

Le stesse attività culturali dovevano ispirarsi alle direttive del capo e dei suoi interpreti autorizzati: uno di questi, Andrej Zdanov, sarebbe assurto alla fine degli anni '30 al ruolo di controllore di tutto il settore culturale.
La letteratura, il cinema, la musica e le arti figurative furono sottoposte a un regime di rigida censura e costrette a svolgere una funzione propagandistica e pedagogica entro i canoni del cosiddetto «realismo socialista»: il che in pratica significava dedicarsi alla descrizione e all'esaltazione della realtà sovietica.
La storia recente fu riscritta per mettere meglio in luce il ruolo di Stalin e cancellare quello di Trotzkij e degli altri oppositori sconfitti.
Persino il settore delle scienze naturali fu messo sotto controllo e scienziati illustri furono perseguitati per aver sostenuto teorie giudicate non ortodosse.

Le radici del terrore staliniano

Questa deriva totalitaria, che si accentuò nel corso degli anni '30, era in parte già implicita nei caratteri del bolscevismo e nella prassi autoritaria inaugurata da Lenin subito dopo la presa del potere. Ma Stalin introdusse nella gestione di questo sistema elementi di spietatezza e di arbitrio, riconducibili anche ad alcuni aspetti patologici della sua personalità, che peraltro non gli impedivano di ragionare in termini di cinico realismo.
Non si limitò a combattere i nemici della rivoluzione, ma eliminò buona parte del gruppo dirigente comunista. Non solo emarginò politicamente tutti i suoi rivali reali o potenziali, ma li sterminò fisicamente. E fece sparire assieme a loro migliaia di quadri dirigenti del partito e un numero incalcolabile di semplici cittadini sospetti di «deviazionismo» o soltanto invisi alla polizia politica.

La macchina del terrore: "purghe", Gulag, processi

La macchina del terrore aveva cominciato a funzionare già, come abbiamo visto, negli anni della collettivizzazione e del primo piano quinquennale: vittime principali erano stati i contadini, ma anche commercianti, tecnici e dirigenti di partito accusati di sabotare lo sforzo produttivo.
Nel 1934 l'assassinio — probabilmente organizzato dallo stesso Stalin — di Sergej Kirov, astro nascente del gruppo dirigente comunista, fornì il pretesto per un'imponente ondata di arresti fra i quadri del partito. Iniziava così la stagione delle "grandi purghe", ossia delle epurazioni di massa che periodicamente colpivano dirigenti politici o intere categorie di cittadini.
Si trattò di una gigantesca repressione poliziesca che assunse negli anni successivi un ritmo impressionante e fu condotta nell'arbitrio più assoluto, coinvolgendo milioni di persone e dando vita ad un immenso universo concentrazionario formato dai campi di lavoro (detti, con termine tedesco, Lager) disseminati in tutte le zone più inospitali dell'Urss: quell'universo cui, molti anni dopo, il romanziere Aleksandr Solìenitsyn avrebbe dato il nome di «Arcipelago Gulag» (Gulag è in realtà una sigla burocratica che sta per 'Amministrazione centrale dei Lager').
In molti casi le vittime furono prelevate dalle loro case e deportate nei campi di concentramento senza nemmeno conoscere i loro capi di imputazione.
Peggiore fu la sorte di coloro che furono sottoposti a pubblici processi, formalmente regolari ma in realtà basati su confessioni estorte con la tortura, in cui gli imputati si confessavano colpevoli di complotti tramati immancabilmente d'intesa con i "trotzkisti" e con gli agenti del fascismo internazionale e venivano poi condannati a morte.
In questo modo furono eliminati tutti gli antichi oppositori di Stalin – Zinov'ev e Kamenev furono fucilati nel '36, Bucharin nel '38 – ma anche molti stretti collaboratori del dittatore, inghiottiti dalla stessa macchina che avevano contribuito a creare. Trotzkij, esule dal '29 e animatore dall'estero di un'instancabile polemica antistaliniana, fu ucciso nel 1940 in Messico da un sicario di Stalin.

Un tragico bilancio

In generale, la repressione non risparmiò alcun settore della società.
Professionisti e intellettuali, tecnici e scienziati scomparvero a decine di migliaia nei campi di concentramento.
Nel '37 una drastica epurazione colpi i quadri delle forze armate: furono eliminati circa 20 mila ufficiali, a cominciare dal maresciallo Tuchačevskij, capo dell'Armata rossa.
Si calcola che, tra il '37 e il '38, circa 700 mila persone perirono a causa delle "purghe".
Fra l'inizio della collettivizzazione e lo scoppio della seconda guerra mondiale, il conto totale delle vittime ammontò a 10-11 milioni.

Gli echi in Occidente

Le "grandi purghe" e i processi degli anni '30 provocarono notevole impressione in Occidente.
Nel complesso, però, la denuncia dello stalinismo non ebbe grande rilievo negli ambienti democratici e socialisti. Lo impedivano il difetto di informazioni sulle reali dimensioni del fenomeno, ma anche i pregiudizi ideologici — in particolare l'idea, di origine giacobina, che una certa dose di terrore fosse componente indispensabile di ogni grande rivoluzione — e soprattutto le remore politiche: troppo prezioso era il contributo dell'Unione Sovietica e del comunismo internazionale alla lotta contro il fascismo.
Così l'immagine di Stalin riuscì a passare indenne attraverso il drammatico periodo delle persecuzioni di massa e il regime comunista sovietico continuò a mantenere intatto il suo fascino su milioni di lavoratori europei.

 

Le democrazie europee e i «fronti popolari»

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Le prime iniziative internazionali di Hitler

Se già la grande crisi aveva distrutto le basi economiche della cooperazione fra vinti e vincitori e fra Europa e Stati Uniti, l'avvento al potere di Hitler diede un colpo definitivo all'equilibrio internazionale faticosamente costruito nella seconda metà degli anni '20, all'insegna della «sicurezza collettiva».
La prima importante decisione del governo nazista in materia di politica estera fu, nell'ottobre '33, il ritiro della Germania dalla Società delle nazioni.
La decisione destò allarme in tutta Europa. Anche l'Italia fascista, nonostante le affinità ideologiche con la Germania nazista e nonostante il comune atteggiamento "revisionista" (critico cioè nei confronti dell'assetto internazionale stabilito a Versailles), ebbe ben presto motivo di preoccuparsi per le mire aggressive tedesche. Quando in Austria, nel luglio del '34, gruppi nazisti ispirati da Berlino tentarono di impadronirsi del potere e uccisero il cancelliere Dollfuss al fine di preparare l'unificazione fra Austria e Germania, Mussolini reagì immediatamente facendo schierare quattro divisioni al confine italo-austriaco.
Hitler, che non era ancora pronto per una guerra, fu costretto a fare marcia indietro sconfessando gli autori del complotto.
Meno di un anno dopo (aprile 1935), di fronte a una nuova iniziativa unilaterale del governo nazista, che reintrodusse in Germania la coscrizione obbligatoria vietata dal trattato di Versailles, i rappresentanti di Italia, Francia e Gran Bretagna si riunirono a Stresa per condannare il riarmo tedesco e per riaffermare il loro interesse all'indipendenza dell'Austria.
L'accordo di Stresa fu l'ultima manifestazione di solidarietà fra le tre potenze vincitrici all'interno del sistema di «sicurezza collettiva».
Mentre si accordava con le democrazie occidentali per contrastare il riarmo tedesco, Mussolini stava già preparando l'aggressione all'Impero etiopico, unico grande Stato indipendente del continente africano, rompendo così il «fronte di Stresa» e dando avvio al riavvicinamento italo-tedesco.

L'avvicinamento dell'Urss alle democrazie

Intanto la causa della sicurezza collettiva aveva trovato un nuovo e insperato sostegno proprio nel paese che fin allora era rimasto – per sua e per altrui volontà – estraneo a tutte le iniziative di cooperazione europea: l'Unione Sovietica.
Fino al '33 la politica estera dell'Urss si era ispirata al rifiuto dei trattati di Versailles, senza fare alcuna distinzione fra Stati fascisti e democrazie "borghesi".
I successi di Hitler, che non aveva mai fatto mistero dei suoi progetti ostili nei confronti dell'Urss, indussero Stalin a una svolta radicale. Nel settembre 1934 l'Unione Sovietica entrò nella Società delle nazioni e nel maggio '35 stipulò un'alleanza militare con la Francia.

L'Internazionale comunista e i «fronti popolari»

Questa svolta diplomatica ebbe immediato riscontro in un altrettanto rapido capovolgimento della linea seguita dalla Terza Internazionale e dai partiti comunisti europei. Fu improvvisamente accantonata la tattica della contrapposizione frontale nei confronti delle forze democratico-borghesi e più ancora delle socialdemocrazie (prima accusate di favorire «oggettivamente» il fascismo o addirittura di costituire «un'ala del fascismo», da cui l'espressione polemica «socialfascismo»): tattica che aveva contribuito a isolare il movimento comunista e a spianare la strada al nazismo in Germania.
La nuova parola d'ordine, lanciata ufficialmente nel VII congresso del Comintern (Mosca, agosto 1935), fu quella della lotta al fascismo, indicato come il primo e il principale nemico.
Ai partiti comunisti spettava il compito di riallacciare i rapporti non solo con gli altri partiti operai, ma anche con le forze democratiche, di favorire ovunque possibile la nascita di larghe coalizioni dette «fronti popolari» (dove l'aggettivo stava a indicare il passaggio in secondo piano degli obiettivi più propriamente socialisti), di appoggiare i governi decisi a difendere le istituzioni rappresentative.
Questa linea, se da una parte rispecchiava la nuova politica estera sovietica, dall'altra era il risultato di una pressione unitaria della base operaia europea, spaventata dalla minaccia fascista. Questa spinta si avverti soprattutto in Francia, dove l'instabilità dei governi e il susseguirsi degli scandali politico-finanziari mettevano a dura prova le istituzioni repubblicane, dando spazio alla crescita della destra reazionaria e dei movimenti filofascisti.
Quando, il 6 febbraio 1934, l'estrema destra organizzò una marcia sul Parlamento per impedire l'insediamento del governo presieduto dal radicale Daladier, socialisti e comunisti risposero con manifestazioni unitarie, le prime dopo molti anni.
Fu questo il primo segno di un riavvicinamento che anticipava la svolta dell'Internazionale comunista e che sarebbe poi stato sanzionato dalla firma, in Francia e in altri paesi, di patti di unità d'azione fra socialisti e comunisti.

La rimilitarizzazione della Renania

La nuova linea unitaria fece rinascere nella sinistra la speranza di poter fronteggiare vittoriosamente le sfide del nazismo e del fascismo. Ma la speranza si rivelò illusoria. L'avvicinamento fra l'Urss e le democrazie non bastò a fermare, nel '35, l'aggressione dell'Italia fascista all'Etiopia; né poté impedire che, nella primavera del '36, Hitler violasse un'altra clausola del trattato di Versailles, reintroducendo truppe tedesche nella Renania "smilitarizzata".
La passività mostrata in questa occasione dalle democrazie, che non intervennero contro una Germania militarmente ancora debole, avrebbe oggettivamente incoraggiato i piani aggressivi di Hitler.

Il Fronte popolare in Francia

Il solo risultato concreto della politica dei fronti popolari fu quello di restituire un minimo di unità al movimento operaio europeo, per la prima volta dopo la grande rottura della rivoluzione russa, e di ridare così alla sinistra l'opportunità di assumere responsabilità di governo nelle democrazie occidentali.
Nel febbraio 1936 una coalizione di fronte popolare comprendente anche i comunisti vinse le elezioni politiche in Spagna. Nel maggio dello stesso anno, in Francia il netto successo elettorale delle sinistre apri la strada alla formazione di un governo composto da radicali e socialisti, sostenuto dall'esterno dai comunisti e presieduto dal socialista Léon Blum.
L'insediamento del primo governo a guida socialista nella storia francese fu accompagnato da grandi manifestazioni di entusiasmo popolare. La Francia repubblicana e socialista parve ritrovare per un momento l'atmosfera fra esaltata e festosa delle rivoluzioni ottocentesche.
Gli operai dell'industria diedero vita a un'imponente ondata di scioperi, strappando a un padronato riluttante, grazie alla decisiva mediazione del governo, la firma (giugno 1936) degli storici accordi di Palazzo Matignon che prevedevano, oltre a consistenti aumenti salariali, la riduzione della settimana lavorativa a quaranta ore e la concessione di quindici giorni di ferie pagate.

Declino e caduta del Fronte popolare

Ma tali accordi, che rispondevano a esigenze più che legittime (le due settimane di ferie, ad esempio, erano state conquistate in altri paesi europei ed erano in vigore anche in Italia e in Germania), crearono notevoli difficoltà all'economia francese, che non si era ancora ripresa dalla grande depressione.
L'improvviso aumento del costo del lavoro pregiudicò la competitività dei prodotti dell'industria e innescò un rapido processo inflazionistico che vanificò in gran parte i vantaggi salariali conseguiti dai lavoratori. L'inflazione, e i contemporanea fuga dei capitali all'estero, costrinsero il governo a due successive svalutazioni del franco.
Di fronte alla violenta ostilità degli ambienti industriali e finanziari, oltre che alla ricorrente minaccia dell'estrema destra, il governo Blum si dimise nel giugno del '37 senza essere riuscito a condurre in porto un organico programma di riforme. La maggioranza di sinistra resistette ancora per un anno, prima di dissolversi a causa dei continui contrasti fra i radicali e i partiti operai.

 

La guerra civile in Spagna

[ Introduzione audio ]

Fra il 1936 e il 1939, mentre in Francia si consumava l'esperienza del Fronte popolare, la Spagna fu sconvolta da una sanguinosa guerra civile: un conflitto che si caricò di accesi antagonismi ideologici, trasformandosi in uno scontro fra democrazia e fascismo, fra rivoluzione sociale e reazione conservatrice, fra clericalismo e anticlericalismo.
Scoppiata in un momento di forti tensioni internazionali, la guerra civile spagnola contribuì a sua volta ad aggravarle. Ma le sue origini furono essenzialmente nazionali e vanno ricondotte ai contrasti che avevano lacerato il paese nella prima metà degli anni '30.

Un paese lacerato

Dopo la fine della dittatura di Primo de Rivera e la caduta della monarchia, la Spagna aveva attraversato un periodo di grave instabilità economica, politica e sociale, che aveva visto succedersi un fallito colpo di Stato militare (estate '32) e una insurrezione anarchica sanguinosamente repressa (autunno '34).
Alle tensioni che percorrevano l'intera Europa negli anni della grande depressione si sommavano quelle specifiche di un paese arretrato e prevalentemente agricolo qual era allora la Spagna: dove qualsiasi tentativo riformatore si scontrava da un lato contro l'ottusità di un ceto dominante reazionario, dall'altro contro le tendenze sovversive e antistatali di un proletariato fortemente influenzato dalle ideologie rivoluzionarie.
La Spagna era l'unico paese al mondo in cui la maggior centrale sindacale (la Cnt) fosse controllata dagli anarchici. Ma era anche uno degli Stati in cui più si faceva sentire il peso dell'aristocrazia terriera, che possedeva oltre il 40% delle terre coltivate ed era strettamente legata a una Chiesa a sua volta schierata in gran parte su posizioni conservatrici e tradizionaliste.
Queste tensioni condizionarono pesantemente anche la vita politica della Spagna repubblicana, che pure si era data, nel 1932, una Costituzione democratica molto avanzata. Le principali forze politiche, divise su tutto, erano accomunate da una concezione strumentale della democrazia, che le portava a rispettare i verdetti elettorali solo quando erano favorevoli alla propria parte.

La guerra civile e il colpo di Stato

Quando, nel febbraio 1936, la coalizione di Fronte popolare (che vedeva per la prima volta i comunisti alleati a repubblicani e socialisti) si affermò nelle elezioni politiche, la tensione esplose in tutto il paese. Le masse proletarie vissero la vittoria come l'inizio di una rivoluzione sociale: un'autentica esplosione di collera popolare si rivolse contro i grandi proprietari, i notabili conservatori e soprattutto contro il clero cattolico. I gruppi di destra risposero con la violenza squadristica, in cui si distinsero le formazioni della Falange, che si ispiravano al modello fascista.

La guerra civile

La guerra civile di fatto era dunque già in atto quando un gruppo di militari, seguendo una consolidata tradizione nazionale, decise di ribellarsi al governo repubblicano. L'evento scatenante fu l'uccisione, il 13 luglio 1936, da parte di poliziotti repubblicani, dell'esponente monarchico-conservatore José Calvo Sotelo.
A guidare la ribellione fu una giunta di cinque generali, in cui il ruolo predominante fu assunto dal poco più che quarantenne Francisco Franco, a capo delle truppe coloniali di stanza in Marocco. I ribelli assunsero inizialmente il controllo di gran parte della Spagna occidentale; le prime fasi dello scontro parvero però favorevoli al governo repubblicano che, appoggiato da una parte delle stesse forze armate e sostenuto da un'intensa mobilitazione popolare, mantenne il controllo della capitale e delle regioni del Nord-est, le più ricche e industrializzate.

Gli interventi esterni

A far pendere la bilancia a favore dei "nazionalisti" di Franco fu il comportamento delle potenze europee.
Italia e Germania aiutarono massicciamente gli insorti franchisti. Mussolini inviò in Spagna un contingente di 50 mila "volontari" (ma si trattava in realtà di reparti regolari) oltre a notevoli quantità di materiale bellico, mentre Hitler fornì soprattutto aerei e piloti e si servì della guerra per sperimentare l'efficienza della sua aviazione.
Nessun aiuto venne invece alla Repubblica da parte delle potenze democratiche.
Frenato dagli alleati inglesi e preoccupato dal rischio di uno scontro aperto con gli Stati fascisti, il governo francese di Fronte popolare si astenne da ogni aiuto palese ai repubblicani e aderì a un accordo fra le grandi potenze per il non intervento nella crisi spagnola, sottoscritto, nell'agosto del '36, anche da Italia e Germania, ma di fatto rispettato soltanto da Francia e Gran Bretagna.
L'unico Stato a portare un aiuto efficace alla Repubblica fu l'Urss, che rifornì il governo spagnolo di materiale bellico e favorì, attraverso il Comintern, la formazione di Brigate internazionali: reparti volontari composti in buona parte da comunisti ma aperti ad antifascisti di tutte le tendenze e di tutti i paesi.
Numerosi furono gli italiani e i tedeschi che trovarono nella guerra l'occasione per combattere in campo aperto quella battaglia che non potevano affrontare in patria. «Oggi in Spagna, domani in Italia» fu lo slogan lanciato da Carlo Rosselli a nome dell'emigrazione antifascista italiana.
L'intervento dei volontari antifascisti ebbe un significato morale e politico largamente superiore a quello militare, che pure non fu trascurabile (lo si vide nella battaglia di Guadalajara del marzo '37, quando gli italiani della Brigata Garibaldi sconfissero i loro connazionali inquadrati nei reparti fascisti). Ma ciò non bastava a controbilanciare gli appoggi internazionali di cui godevano i franchisti.

Le divisioni Inferiori fra i repubblicani e la vittoria dei franchisti

Inferiori agli avversari sul piano militare, i repubblicani erano anche indeboliti dalle loro divisioni interne.
Mentre Franco, insignito del titolo di caudillo ('duce, condottiero'), realizzava l'unità di tutte le destre in un partito unico chiamato Falange nazionalista (ma con i falangisti della prima ora ridotti in posizione subalterna), il Fronte popolare vedeva allontanarsi quei settori della borghesia progressista che, favorevoli in un primo tempo alla Repubblica, erano ora spaventati dalle violenze degli anarchici.
Mentre i nazionalisti mettevano in piedi nei loro territori uno Stato dai chiari connotati autoritari, i repubblicani si scontravano fra loro sull'organizzazione presente e futura della società e sul modo stesso di combattere la guerra. Particolarmente grave era il contrasto che divideva gli anarchici – insofferenti di qualsiasi disciplina militare e di ogni compromesso politico – dagli altri partiti della coalizione: a cominciare dai comunisti, favorevoli, in omaggio alla strategia dei fronti popolari, a una linea relativamente moderata.
Il contrasto assunse toni drammatici soprattutto nella primavera del '37, quando, a Barcellona, gli anarchici si scontrarono armi in pugno con i comunisti e l'esercito regolare repubblicano.
I comunisti che, grazie al legame con l'Urss, godevano di un'influenza sproporzionata alla loro modesta consistenza numerica, adottarono nei confronti degli anarchici metodi simili a quelli in uso nella Russia di Stalin: numerosi militanti scomparvero fra il '37 e il '38 e un intero partito, il Poum, nato dalla confluenza fra trotzkisti e anarchici, fu liquidato anche con l'intervento di agenti sovietici.
Le divisioni nel fronte repubblicano facilitarono l'offensiva delle forze nazionaliste: un'offensiva lenta ma sistematica e spietata, volta a eliminare ogni sacca di resistenza militare e ogni possibile centro di dissidenza politica.
Abbandonata da tutti (anche il Comintern decise in autunno il ritiro delle Brigate internazionali), la Repubblica spagnola resistette fino all'inizio del '39, quando i nazionalisti sferrarono l'offensiva finale che si concluse, in marzo, con la caduta di Madrid.

Il bilancio della guerra civile

Tre anni di guerra civile lasciarono nel paese una pesante eredità di lutti e distruzioni: circa 500 mila morti (ai quali vanno aggiunte le decine di migliaia di vittime di una feroce repressione protrattasi per molti anni dopo il '39), quasi 300 mila emigrati politici, un dissesto economico di proporzioni incalcolabili.
Terminata pochi mesi prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, la guerra civile spagnola ne rappresentò per molti aspetti un sinistro preludio: anche perché in Spagna furono adottati per la prima volta metodi e tecniche di guerra (i bombardamenti dei centri abitati, le rappresaglie, i rastrellamenti dei civili) che l'Europa e il mondo avrebbero presto sperimentato su ben più ampia scala.

 

Verso la guerra

[ Introduzione audio ]

I piani di espansione di Hitler

Nel periodo in cui si combatté la guerra di Spagna, la marcia dell'Europa verso la catastrofe di un secondo conflitto generale subì una paurosa accelerazione. Il fattore scatenante fu senza dubbio la politica della Germania hitleriana. Il comportamento arrendevole tenuto da Gran Bretagna e Francia in tutte le occasioni di confronto con le potenze fasciste convinse Hitler – che contava ormai sull'amicizia dell'Italia – di poter accelerare i tempi per la realizzazione del suo programma di espansione e di dominio.
I piani hitleriani non comportavano necessariamente una guerra contro le potenze occidentali, anche se non scartavano a priori questa eventualità. Al contrario, Hitler sperò fino all'ultimo di poter evitare uno scontro con la Gran Bretagna, a patto naturalmente che la Gran Bretagna lasciasse campo libero alle mire tedesche in Europa centro-orientale.

La Gran Bretagna e l'appeasement

In questa speranza, il dittatore tedesco fu incoraggiato dalla politica seguita dai governi conservatori britannici, in particolare dal primo ministro Neville Chamberlain, sostenitore convinto di quella che allora fu chiamata politica dell'appeasement (in inglese pacificazione'): una politica basata sul presupposto che fosse possibile ammansire Hitler accontentandolo nelle sue rivendicazioni più "ragionevoli" e risarcendo in qualche modo la Germania del trattamento subìto a Versailles.
Il presupposto era sbagliato, visto che i programmi di Hitler non erano affatto "ragionevoli".
Ma l'idea dell'appeasement riscosse ugualmente notevole successo perché rispondeva a una tendenza diffusa nella classe dirigente e nell'opinione pubblica inglese, incline al pacifismo (anche i laburisti, che contestavano l'appeasement in nome dell'antifascismo, si opponevano poi a qualsiasi politica di riarmo) e poco convinta, nel fondo, dell'equità del trattato di Versailles.
La più coerente opposizione alla politica di Chamberlain venne da una minoranza di conservatori che facevano capo a Winston Churchill, convinti che l'unico modo per fermare Hitler fosse quello di opporsi con decisione a tutte le sue pretese, anche a costo di affrontare subito una guerra.

La crisi della Francia

La Francia, che era stata negli anni '20 la prima garante dei trattati di Versailles, era attraversata oltre che da profonde lacerazioni politiche, da una crisi morale che ne minò la capacità di reazione.
Forte era innanzitutto la paura di una nuova guerra; e troppo recente il trauma del primo conflitto mondiale che ai francesi era costato un prezzo in vite umane superiore, in proporzione, a quello di qualsiasi altro popolo. Sentendosi protetti dalla linea Maginot, i francesi si chiedevano se valesse la pena rischiare una nuova guerra per difendere i lontani alleati dell'Est europeo. Ad alimentare queste perplessità concorrevano sia il tradizionale pacifismo dei socialisti sia l'aperto filofascismo di una destra tanto spaventata dal Fronte popolare da dimenticare le sue tradizioni nazionaliste («meglio Hitler che Blum» fu lo slogan di moda in quegli anni negli ambienti reazionari).
Così la Francia, che restava sulla carta la prima potenza militare d'Europa, si adattò a una politica timida e oscillante, sostanzialmente subalterna a quella della Gran Bretagna. E ciò consentì alla Germania di cogliere una serie di successi senza nemmeno dover mettere alla prova le sue forze armate ancora in fase di ricostituzione.

L'annessione tedesca dell'Austria

Il primo successo clamoroso Hitler lo ottenne nel marzo 1938 con l'annessione (Anschluss) dell'Austria al Reich tedesco.
Era questo un obiettivo che il Führer, austriaco di nascita, aveva particolarmente a cuore e che, come abbiamo visto, aveva già tentato di raggiungere nell'estate del '34. Allora ne era stato impedito dalla decisa reazione delle potenze occidentali, in particolare dell'Italia.
Ma quando, all'inizio del '38, Hitler rilanciò la questione, mobilitando i nazisti austriaci e costringendo alle dimissioni il governo in carica, Mussolini rinunciò a opporsi alle pretese tedesche.
Nessuna reazione venne dal governo britannico, che considerava non del tutto infondata la rivendicazione dell'Anschluss (l'Austria era un paese di lingua tedesca, che già in passato si era mostrato favorevole all'unificazione con la Germania).
L'11 marzo 1938 il capo dei nazisti austriaci Seyss-Inquart, diventato capo del governo, chiese l'intervento dell'esercito tedesco «per salvare il paese dal caos». Il giorno seguente le truppe del Reich procedettero all'occupazione del territorio austriaco.
Un mese dopo, un plebiscito sanzionò a schiacciante maggioranza l'avvenuta unificazione.

La crisi dei Sudeti e la conferenza di Monaco

La questione austriaca si era appena chiusa, e già Hitler metteva sul tappeto una nuova rivendicazione: quella riguardante i Sudeti, ossia gli oltre tre milioni di tedeschi che vivevano entro i confini della Cecoslovacchia.
Anche in questo caso Hitler agì mobilitando i nazisti locali e spingendoli a formulare richieste sempre più pesanti all'indirizzo del governo ceco: il quale, in un primo tempo, si mostrò disposto alla concessione di più larghe autonomie alla comunità tedesca. Ma questo non bastò ad accontentare Hitler, che in realtà mirava apertamente all'annessione della regione e alla distruzione dello Stato cecoslovacco.
Due volte, nel settembre del '38, Chamberlain volò in Germania per sottoporre invano a Hitler ipotesi di compromesso. Alla fine di settembre, quando ormai l'Europa si stava preparando alla guerra, Hitler accettò la proposta di un incontro fra i capi di governo delle grandi potenze europee (Urss esclusa), lanciata in extremis da Mussolini.
Nell'incontro, che si svolse a Monaco di Baviera il 29-30 settembre 1938, i primi ministri di Gran Bretagna e Francia, Chamberlain e Daladier, accettarono un progetto presentato dall'Italia che in realtà accoglieva quasi alla lettera le richieste tedesche e prevedeva l'annessione al Reich dell'intero territorio dei Sudeti.
Ai cecoslovacchi, che non erano stati nemmeno consultati, non restò che accettare un accordo che li lasciava alla mercé della Germania e apriva la strada al dissolvimento della loro Repubblica.

Il disonore e la guerra

Chamberlain, Daladier e lo stesso Mussolini furono accolti, al rientro in patria, da grandi manifestazioni di entusiasmo popolare e acclamati come salvatori della pace. Ma quella salvata a Monaco era una pace fragile e precaria, pagata per giunta a caro prezzo. Accordandosi con Hitler sulla testa della Cecoslovacchia, le potenze democratiche avevano distrutto, assieme alle ultime tracce del principio di sicurezza collettiva, la loro stessa credibilità e avevano aperto la strada a nuove aggressioni.
Il commento più appropriato agli accordi di Monaco fu quello di Winston Churchill: «Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra».

 

 

IL FASCISMO IN ITALIA

 

 

[ Introduzione audio ]

Lo Stato fascista

Lo Stato e il partito

Nella storia dei regimi autoritari nel periodo fra le due guerre mondiali, il fascismo italiano occupa un posto di grande rilievo, se non altro per una questione di priorità cronologica.
Nella seconda metà degli anni '20, quando in Germania il nazismo era ancora una forza marginale, in Italia lo Stato fascista era una realtà già consolidata nelle sue strutture giuridiche – fondate sulla negazione di ogni principio democratico – e nelle sue manifestazioni esteriori: le adunate di cittadini in uniforme, le campagne propagandistiche orchestrate dall'autorità, l'amplificazione dell'immagine e della parola del capo, oggetto di un vero e proprio culto.
Caratteristica essenziale del regime era la sovrapposizione di due strutture e di due gerarchie parallele: quella dello Stato, che aveva conservato l'impalcatura del vecchio Stato monarchico, e quella del partito con le sue numerose ramificazioni.
Al di sopra di tutti si esercitava incontrastato il potere di Mussolini, che riuniva in sé la qualifica di capo del governo e quella di "duce" del fascismo. Ma, contrariamente a quanto sarebbe accaduto nei regimi più tipicamente totalitari, nel fascismo italiano l'apparato dello Stato ebbe fin dall'inizio, per esplicita scelta di Mussolini, una netta preponderanza sulla macchina del partito.
Per trasmettere la sua volontà dal centro alla periferia, Mussolini si servi del tradizionale strumento dei prefetti – i funzionari pubblici che rappresentano, in ogni Provincia, il governo – assai più che degli organi locali del Partito fascista.
A controllare l'ordine pubblico e reprimere il dissenso provvedeva la Polizia di Stato, mentre la Milizia era confinata a una funzione decorativa e "ausiliaria", imparagonabile al ruolo svolto, per esempio, dalle SS nella Germania nazista.
Seppur privo di autonomia politica, il Pnf venne però continuamente dilatando le sue dimensioni e la sua presenza nella società civile.
Dalla fine degli anni '20 l'iscrizione al partito cessò di essere il segno dell'appartenenza a un'élite e divenne una pratica di massa (nel 1939 gli iscritti superavano i 2 milioni e mezzo), necessaria fra l'altro per ottenere un posto nell'amministrazione statale.

Le organizzazioni di massa

Faceva capo al partito anche una serie di organismi collaterali, come l'Opera nazionale dopolavoro (che si occupava del tempo libero dei lavoratori organizzando gare sportive, gite e altre attività ricreative) e le numerose organizzazioni giovanili: i Fasci giovanili, per i giovani dai diciotto ai ventun anni, i Gruppi universitari fascisti (Guf) e soprattutto l'Opera nazionale Balilla (Onb).
Quest'ultima, nata nel 1926, inquadrava tutti i ragazzi fra gli otto e i diciotto anni – divisi, secondo l'età, in «figli della lupa» (dai sei agli otto anni), «balilla» (dagli otto ai dodici) e «avanguardisti» (dai tredici ai diciotto) – e forniva loro, oltre a un supplemento di educazione fisica e a qualche forma di istruzione "premilitare", anche un indottrinamento ideologico di base.
Nel complesso, queste strutture svolsero una funzione importante nella fascistizzazione del paese: attraverso queste e altre organizzazioni di massa, dai sindacati di regime alla Milizia, il fascismo cercava di "occupare", insieme con lo Stato, anche la società, riplasmandola dalle fondamenta.

Patti lateranensi

Nel suo tentativo di permeare di sé la società il fascismo incontrava però degli ostacoli; il maggiore era rappresentato dalla Chiesa.
In un paese in cui oltre il 99% della popolazione si dichiarava di fede cattolica, in cui la pratica religiosa era ovunque diffusa, in cui le parrocchie rappresentavano spesso l'unico centro di aggregazione sociale e culturale, non era facile governare contro la Chiesa o senza trovare con essa un qualche accordo.
Consapevole di ciò, Mussolini cercò un'intesa col Vaticano – profittando della disponibilità manifestata dalle gerarchie ecclesiastiche nei confronti del regime – per comporre definitivamente lo storico contrasto fra Stato e Chiesa che aveva segnato l'intera vita del Regno d'Italia.
Le trattative, condotte in segreto, fra governo e Santa Sede si conclusero il 1 febbraio 1929 con la stipula dei patti che presero il nome dai palazzi del Laterano, cioè dal luogo in cui Mussolini e il segretario di Stato vaticano, cardinal Pietro Gasparri, si incontrarono per la firma.
I Patti lateranensi si articolavano in tre parti distinte:
 - un trattato internazionale, con cui la Santa Sede poneva ufficialmente fine alla «questione romana» riconoscendo lo Stato italiano e la sua capitale e vedendosi riconosciuta la sovranità sullo «Stato della Città del Vaticano» (uno Stato poco più che simbolico, comprendente la basilica di San Pietro, i palazzi pontifici e un piccolo territorio circostante);
 - una convenzione finanziaria, con cui l'Italia si impegnava a pagare al papa una forte somma, corrispondente a quella che con la «legge delle guarentigie» del 1871 lo Stato si era impegnato a pagare annualmente e che il papa aveva sempre rifiutato di accettare;
 - infine un concordato, che regolava i rapporti interni fra la Chiesa e il Regno d'Italia, intaccando sensibilmente il carattere laico dello Stato. Il concordato stabiliva fra l'altro che i sacerdoti fossero esonerati dal servizio militare, che i preti spretati fossero esclusi dagli uffici pubblici, che il matrimonio religioso avesse effetti civili, che l'insegnamento della dottrina cattolica fosse considerato «fondamento e coronamento» dell'istruzione pubblica, che le organizzazioni dipendenti dall'Azione cattolica potessero continuare a svolgere la propria attività, purché sotto il controllo delle gerarchie ecclesiastiche e al di fuori di ogni partito politico.

La crescita del consenso

Per il regime fascista i Patti lateranensi rappresentarono un notevole successo propagandistico.
Presentandosi come l'artefice della "conciliazione", Mussolini consolidò la sua area di consenso e la estese anche a strati della popolazione rimasti fin allora ostili o indifferenti.
Le prime elezioni plebiscitarie – tenute col sistema della lista unica e indette, non a caso, nel marzo 1929, a poche settimane dalla firma dei Patti – registrarono un afflusso alle urne senza precedenti (quasi il 90%) con un 98% di voti favorevoli. Un risultato da valutare con cautela (come tutti quelli dei plebisciti tenuti in regimi autoritari, dove l'elettore non ha una vera libertà di scelta e manca qualsiasi controllo sulla veridicità dei dati), ma comunque indicativo di un diffuso orientamento favorevole al regime.

I vantaggi per la Chiesa

Se il fascismo trasse dai Patti lateranensi immediati vantaggi politici, fu però il Vaticano a cogliere i successi più significativi e duraturi.
In cambio della rinuncia a qualcosa che aveva irrevocabilmente perduto da quasi sessant'anni (il potere temporale), la Chiesa acquistò una posizione di privilegio nei rapporti con lo Stato – anche in materie importanti come l'istruzione e la legislazione matrimoniale – e rafforzò notevolmente la sua presenza nella società.
Mantenendo intatta, seppur limitata nelle sue attività, la rete di associazioni e circoli facente capo all'Azione cattolica, la gerarchia ecclesiastica si assicurava un margine di autonomia ed entrava in concorrenza col fascismo proprio nel settore delle organizzazioni giovanili. Di questi spazi la Chiesa non si servi mai per fare opera di opposizione; li usò, però, per educare ai suoi valori una parte non trascurabile della gioventù, per formare una classe dirigente capace, all'occorrenza, di prendere il posto di quella fascista: cosa che si sarebbe verificata nel secondo dopoguerra.

La monarchia

La Chiesa non costituì l'unico ostacolo per le aspirazioni totalitarie del fascismo.
Un altro limite insuperabile stava all'interno, anzi al vertice delle istituzioni statali ed era rappresentato dalla monarchia.
Per quanto fosse nei fatti regolarmente esautorato, fino ad apparire come un ostaggio nelle mani di Mussolini, il re restava pur sempre la più alta autorità dello Stato. A lui spettavano, secondo lo Statuto, il comando supremo delle Forze armate, la scelta dei senatori e il diritto di nomina e revoca del capo del governo.
Si trattava di poteri del tutto teorici, destinati a restare tali finché il regime fosse rimasto forte e compatto attorno al suo capo. Ma, in caso di crisi o di spaccatura interna, le carte migliori sarebbero fatalmente tornate in mano al re, punto di riferimento obbligato per i militari e la borghesia conservatrice.
Questa eventualità rappresentava per il fascismo un motivo di sotterranea debolezza.

 

[ Introduzione audio ]

Il totalitarismo italiano e i suoi limiti

L'immagine dell'Italia fascista

Se osserviamo l'Italia del ventennio fascista quale ci appare attraverso i materiali prodotti durante il regime (cinegiornali d'attualità, foto ufficiali, stampa illustrata), vediamo emergere con evidenza l'immagine di un paese largamente fascistizzato.
I ritratti di Mussolini esposti nelle scuole e negli uffici o innalzati per le strade in giganteschi cartelli. Gli edifici pubblici e i monumenti, le copertine dei libri e le cartoline ornati dall'emblema del fascio littorio, insegna del potere dei magistrati di Roma antica, eletto a simbolo del regime. I muri istoriati da scritte guerriere. Le grandi folle mobilitate in occasione delle ricorrenze fasciste (come l'anniversario della marcia su Roma) o dei discorsi del duce trasmessi dalla radio. Gli scolari che sfilavano in formazione militare, vestiti in camicia nera e armati di fucili di legno. I loro padri, anch'essi in divisa fascista, che si riunivano nei giorni festivi agli ordini dei fasci locali per celebrare i riti del regime.
Il problema è vedere se queste immagini rispecchiavano la realtà dell'Italia di allora.
Per comprendere se il paese fosse davvero cambiato rispetto al periodo precedente, così com'era cambiata la sua immagine ufficiale, è necessario dare uno sguardo alle condizioni del "paese reale", quali risultano dai dati statistici.

La società italiana tra sviluppo e arretratezza

I dati ci dicono in primo luogo che, anche durante il periodo fascista, l'Italia continuò a muoversi e a svilupparsi secondo le linee di tendenza comuni a tutti i paesi dell'Europa occidentale, benché con un ritmo più lento di quello tenuto nel ventennio precedente.
La popolazione, che era di 38 milioni nel 1921, passò a 44 nel 1939.
Nello stesso periodo si accentuò l'urbanizzazione e la percentuale dei residenti in comuni con più di 100 mila abitanti sali dal 13 al 18%; la quota degli addetti all'agricoltura sul totale della popolazione attiva calò dal 58 al 51%, mentre quella degli occupati nell'industria passò dal 23 al 26,5% e quella degli addetti al terziario dal 18 al 22%.
Nonostante questi segni di sviluppo, alla vigilia della seconda guerra mondiale l'Italia era ancora un paese fortemente arretrato rispetto alle maggiori potenze europee.
Alla fine degli anni '30, il reddito medio di un italiano era poco più della metà di quello di un francese, un terzo di quello di un inglese (e un quarto di quello di uno statunitense). Malgrado spendesse più della metà del suo reddito in consumi alimentari, l'italiano medio si nutriva essenzialmente di farinacei, mangiava carne e beveva latte in quantità tre volte inferiore a quella di un inglese o di un americano, considerava generi di lusso il caffè, il tè e lo zucchero.
Nel 1938 c'era in Italia un'automobile ogni 100 abitanti (mentre il rapporto era di 1 a 20 in Gran Bretagna e in Francia), un telefono ogni 70 abitanti (1 a 13 in Gran Bretagna, 1 a 27 in Francia), un apparecchio radio ogni 40 (1 a 6 in Gran Bretagna, 1 a 8 in Francia).

Il tradizionalismo fascista

L'arretratezza economica e civile della società italiana fu per certi aspetti funzionale al regime e all'ideologia fascista.
Il fascismo, come il nazismo, predicò il «ritorno alla campagna», lanciando a più riprese la parola d'ordine della ruralizzazione, e tentò di scoraggiare, senza peraltro riuscirvi, l'afflusso dei lavoratori verso i centri urbani.
Il fascismo inoltre, d'accordo in questo con la Chiesa, difese ed esaltò la funzione del matrimonio e della famiglia, come garanzia di stabilità e come base per lo sviluppo demografico.
Ispirandosi alla dottrina che identificava la potenza con la forza del numero, il fascismo cercò di incoraggiare con ogni mezzo l'incremento della popolazione: furono aumentati gli assegni familiari dei lavoratori, vennero favorite le assunzioni dei padri di famiglia, furono istituiti premi per le coppie più prolifiche, venne addirittura imposta una tassa sui celibi.
In coerenza con questa linea, il regime ostacolò il lavoro delle donne (anche in questo caso con scarso successo) e, più in generale, si oppose al processo di emancipazione femminile.
In realtà anche le donne ebbero, durante il fascismo, le loro strutture organizzative – i Fasci femminili, le Giovani italiane, le Massaie rurali –, ma si trattava di organismi poco vitali, la cui funzione principale stava nel ribadire la centralità delle virtù domestiche, l'immagine tradizionale della donna come «angelo del focolare».

L'utopia dell' "uomo nuovo"

Il fascismo, però, non era solo un regime conservatore e immobilista. Se da un lato voleva mantenere in vita strutture sociali e tradizioni del passato, dall'altro era in qualche modo proiettato verso il futuro, verso la creazione dell' "uomo nuovo", verso un sistema totalitario moderno, in cui l'intera popolazione fosse inquadrata nelle strutture del regime e pronta a combattere per la grandezza nazionale.
Per la realizzazione di questa utopia il ritardo economico e culturale del paese rappresentava però un ostacolo insormontabile. Non era facile far giungere il messaggio fascista nei piccoli paesi dove non arrivavano le strade carrozzabili, non c'erano scuole e non si sapeva che cosa fossero la radio e il cinema.

Le classi lavoratrici

Ma era soprattutto la scarsezza delle risorse che impediva al regime di praticare una politica economica e sociale capace di conquistare il consenso delle classi lavoratrici. Nel 1927 venne varata con grande solennità la Carta del lavoro (in cui si parlava fra l'altro di «uguaglianza giuridica» fra imprenditori e prestatori d'opera e di «solidarietà fra i vari settori della produzione»).
Ma le generiche enunciazioni della Carta non erano certo sufficienti a ripagare i lavoratori della scomparsa dei sindacati liberi e dunque della perdita di qualsiasi autonomia organizzativa e capacità contrattuale.
I vantaggi dell'organizzazione dopolavoristica e i miglioramenti nel campo della previdenza sociale (pensioni, ferie pagate) non bastarono a compensare il calo dei salari reali che, nel settore industriale, scesero del 20% fra il 1921 e il 1939.

I limiti del consenso al regime

Non a caso, i maggiori successi, in termini di partecipazione e di consenso, il regime li ottenne presso la media e piccola borghesia.
I ceti medi, infatti, non solo furono complessivamente favoriti dalle scelte economiche del regime e si videro aprire nuovi canali di ascesa sociale dalla moltiplicazione degli apparati burocratici (sia nello Stato, sia nel partito e negli enti di nuova istituzione), ma erano anche i più sensibili ai valori esaltati dal fascismo (la nazione, la gerarchia, l'ordine sociale), i più disposti a recepirne i messaggi e a farne proprie le parole d'ordine.
In sintesi, il fenomeno della fascistizzazione fu ampio, ma riguardò essenzialmente gli strati intermedi della società, toccando solo parzialmente le classi popolari.
Il regime riuscì a cambiare, in maniera anche vistosa, i comportamenti pubblici e le forme di partecipazione collettiva, ma non a trasformare nel profondo mentalità e strutture sociali.

 

[ Introduzione audio ]

Scuola, cultura, informazione

La fascistizzazione della scuola

In coerenza con la sua aspirazione al controllo totale della società, e in particolare delle giovani generazioni, il fascismo dedicò un'attenzione tutta particolare alla scuola, già profondamente ristrutturata nel 1923 con la riforma Gentile: una riforma che sanciva il primato delle discipline umanistiche, considerate il principale strumento di formazione della classe dirigente.
Una volta consolidatosi, il regime si preoccupò di fascistizzare l'istruzione sia con una più stretta sorveglianza sugli insegnanti, sia attraverso il controllo dei libri scolastici e l'imposizione, dal 1930, di testi unici per le elementari.

Universita e mondo della cultura

Rispetto alla scuola elementare e media, l'università godette di un'autonomia molto maggiore. Ma non la usò per contestare le scelte culturali del fascismo.
Quando, nel 1931, fu imposto a tutti i docenti il giuramento di fedeltà al regime, su 1200 professori titolari solo una dozzina, per lo più anziani e prossimi alla pensione, rifiutarono di giurare e persero così le cattedre.
Vi furono insegnanti non fascisti, o addirittura antifascisti, che si piegarono all'imposizione solo per poter continuare la loro attività. Ma, nella maggior parte dei casi, il giuramento non suscitò particolari problemi di coscienza.
In generale, gli ambienti dell'alta cultura – universitaria e non – si allinearono su una posizione di sostanziale adesione al regime.
Alcuni fra i nomi più illustri della cultura italiana – oltre a Giovanni Gentile, storici come Gioacchino Volpe, scrittori come Luigi Pirandello, scienziati come Guglielmo Marconi, musicisti come Pietro Mascagni, architetti come Marcello Piacentini – fecero esplicita professione di fede fascista.
Molti accettarono di inserirsi nelle istituzioni culturali pubbliche, godendo delle gratificazioni materiali e dei riconoscimenti di cui il fascismo fu prodigo nei loro confronti.

Il controllo della stampa

Ben più diretto e capillare fu il controllo esercitato dal regime sull'informazione e sui mezzi di comunicazione di massa.
Tutto il settore della stampa politica – già fascistizzata fra il '22 e il '26 – fu sottoposto a un controllo sempre più stretto e soffocante da parte del potere centrale, che non si limitava alla semplice censura, ma interveniva con precise direttive sul merito degli articoli.
Affidata istituzionalmente a un apposito ufficio – poi trasformato in ministero per la Cultura popolare (Minculpop), creato nel 1937 a imitazione di quello nazista per la propaganda – la sorveglianza sulla stampa era in realtà esercitata personalmente da Mussolini, il quale, non dimentico del suo passato di giornalista, dedicava alla lettura dei quotidiani una parte notevole del suo tempo.

La radio e il cinema

Al controllo sulla carta stampata il regime univa quello sulle trasmissioni radiofoniche, affidate, dal 1927, a un ente di Stato denominato Eiar (progenitore dell'attuale Rai).
Come mezzo d'ascolto privato, la radio ebbe però una diffusione abbastanza lenta, in confronto a quella dei paesi più sviluppati.
Solo dopo il 1935 si affermò come essenziale canale di propaganda, grazie anche alla decisione del governo di installare apparecchi nelle scuole, negli uffici pubblici, nelle sedi delle organizzazioni di partito. E solo negli ultimi anni '30 entrò stabilmente nelle case della classe media, influenzandone non poco i gusti e le abitudini.
Come la radio, anche il cinema fu oggetto privilegiato delle attenzioni del regime e ne ricevette generose sovvenzioni, che avevano lo scopo di favorire la produzione nazionale e di limitare la massiccia penetrazione dei film statunitensi.
Sulla normale produzione cinematografica il regime esercitò però un controllo abbastanza elastico, volto più a bandire dalle pellicole qualsiasi argomento politicamente e socialmente scabroso che non a introdurvi temi di esplicita propaganda.
Per questo bastavano i cinegiornali d'attualità, prodotti da un apposito ente statale – l'Istituto Luce – e proiettati obbligatoriamente nelle sale cinematografiche all'inizio di ogni spettacolo.
I cinegiornali furono uno dei più importanti strumenti di propaganda di massa di cui disponesse il fascismo: sia perché raggiungevano un pubblico valutabile in parecchi milioni di persone, sia perché fornivano delle immagini capaci di attirare l'attenzione popolare e scelte accuratamente per meglio illustrare i trionfi del fascismo e del suo capo.

 

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Economia e ideologia

Il progetto corporativo

Fin dai suoi esordi, il fascismo italiano ebbe l'ambizione di presentarsi come portatore di nuove soluzioni nel campo dell'economia.
La formula fatta propria ufficialmente dal regime fu quella del corporativismo: un'idea che affondava le sue radici addirittura nel Medioevo, nell'esperienza delle corporazioni di arti e mestieri, e aveva già ispirato nell'800 il pensiero sociale cattolico.
In sostanza il corporativismo avrebbe dovuto significare gestione diretta dell'economia da parte delle categorie produttive, organizzate appunto in «corporazioni» distinte per settori di attività e comprendenti sia gli imprenditori sia i lavoratori dipendenti.
Le istituzioni corporative avrebbero dovuto incarnare una "terza via" fra capitalismo e socialismo e contemporaneamente risolvere il problema della rappresentanza politica secondo criteri diversi da quelli "individualistici" della democrazia. In realtà un vero sistema corporativo non vide mai la luce.
Per molti anni le corporazioni restarono un puro progetto. Quando infine vennero istituite, nel 1934, tutto si risolse nella creazione di una nuova burocrazia sovrapposta a quelle già esistenti e priva di qualsiasi rappresentatività in quanto designata dall'alto.
Il fascismo riuscì ugualmente a realizzare interventi importanti nell'economia, ma non inventò un nuovo sistema. E non mantenne nemmeno, nel corso del ventennio, una linea di politica economica coerente.

Dal liberismo al protezionismo

Nei suoi primi anni di governo (1922-25) il fascismo adottò una linea liberista, di forte incoraggiamento all'iniziativa privata. Questa politica provocò però, assieme a un consistente incremento produttivo, un riaccendersi dell'inflazione, un crescente deficit negli scambi con l'estero e un deterioramento del valore della lira.
Nell'estate del 1925 si ebbe una brusca svolta; e venne inaugurato un nuovo corso fondato sul protezionismo, sulla deflazione, sulla stabilizzazione monetaria e su un più accentuato intervento statale nell'economia.
Prima importante misura fu l'aumento del dazio sui cereali: una misura che si inseriva in una tendenza di lungo periodo volta a favorire la produzione cerealicola nazionale, ma che questa volta fu accompagnata da una rumorosa campagna propagandistica detta «battaglia del grano». L'obiettivo era il raggiungimento dell'autosufficienza nella produzione dei cereali, da conseguire sia attraverso l'aumento della superficie coltivata a frumento, sia mediante l'impiego di tecniche più avanzate: il che avrebbe favorito anche le industrie produttrici di concimi e macchine agricole. Lo scopo fu in buona parte raggiunto: alla fine degli anni '30 la produzione di grano era aumentata del 50%. Ma il prezzo fu il sacrificio di altri settori, come l'allevamento (danneggiato dalla riduzione dei pascoli), e delle colture rivolte all'esportazione.

La rivalutazione della lira

La seconda "battaglia" fu quella per la rivalutazione della lira.
Nell'agosto 1926 il duce annunciò di voler riportare il cambio in ternazionale della moneta ai livelli precedenti il conflitto mondiale, e fissò l'obiettivo di «quota novanta», ossia 90 lire per una sterlina (contro le 145 del cambio allora in vigore).
Alla base di questa scelta c'era soprattutto il desiderio di dare al mondo un'immagine di stabilità monetaria oltre che politica, rassicurando i risparmiatori.
Anche questo obiettivo fu raggiunto, grazie a una forte restrizione del credito e con l'aiuto di un cospicuo prestito concesso da grandi banche statunitensi.
I prezzi diminuirono e la lira recuperò il potere d'acquisto perduto. Ma a goderne non furono i lavoratori, che si videro tagliare i salari in misura più che proporzionale.
Molte piccole e medie aziende agricole entrarono in crisi perché strozzate dal calo dei prezzi dei loro prodotti e dalla restrizione del credito. Nel settore industriale, furono colpite soprattutto le imprese che lavoravano per l'esportazione, danneggiate dalla rivalutazione della moneta.

Gli effetti della grande crisi

L'economia italiana non si era ancora ripresa dalla cura deflazionistica, quando cominciarono a farsi sentire le conseguenze della crisi mondiale.
Gli effetti furono meno drammatici che in altri paesi europei, anche perché la politica economica adottata dopo il 1925 aveva in qualche modo anticipato gli effetti negativi della crisi. Ma la recessione si fece sentire pesantemente anche in Italia: il commercio con l'estero si ridusse drasticamente (nel '33 il volume delle esportazioni era più che dimezzato rispetto al '29); l'agricoltura subì un nuovo colpo a causa del calo delle esportazioni e dell'ulteriore tracollo dei prezzi; le imprese industriali accusarono gravi difficoltà e la disoccupazione aumentò bruscamente.
La risposta del regime si attuò su due direttrici principali: lo sviluppo dei lavori pubblici come strumento per rilanciare la produzione (qui si può notare una analogia con le politiche messe in atto sia negli Stati Uniti di Roosevelt sia nella Germania di Hitler); e l'intervento diretto dello Stato a sostegno dei settori in crisi.

I lavori pubblici

La politica dei lavori pubblici ebbe il suo maggiore sviluppo nella prima metà degli anni '30.
Furono realizzate nuove strade e costruiti nuovi edifici pubblici dove il regime poté appagare il suo gusto per il monumentale. Fu varato il «risanamento» del centro storico della capitale, che provocò la distruzione di interi antichi quartieri. E fu avviato un ambizioso programma di bonifica integrale che avrebbe dovuto portare al recupero e alla valorizzazione delle terre incolte.
Il progetto, ostacolato sia dalle difficoltà della finanza pubblica sia dalle resistenze dei grandi proprietari, fu attuato solo parzialmente. Fu però portata a termine, nel giro di soli tre anni (dal '31 al '34), la bonifica dell'Agro Pontino, un vasto territorio paludoso e malarico a Sud della capitale.
In complesso furono recuperati alle colture circa 60 mila ettari.
Furono creati 3000 nuovi poderi dove vennero trasferiti contadini provenienti dalle zone più depresse del Centro-Nord (soprattutto dal Veneto); furono costruiti villaggi rurali e vere e proprie «città nuove» come Sabaudia e Littoria (l'odierna Latina): per il regime, un indubbio successo propagandistico.

La crisi bancaria e l'intervento statale

Fu comunque nel settore dell'industria e del credito che l'intervento dello Stato assunse le forme più incisive.
In difficoltà erano soprattutto le grandi banche (Banca Commerciale e Credito italiano) che erano state create alla fine dell'800 allo scopo di sostenere gli investimenti nell'industria e che, nel dopoguerra, avevano assunto il controllo di importanti gruppi industriali, soprattutto nel settore siderurgico.
Per evitare che la crisi di questi gruppi trascinasse con sé quella delle banche, il governo intervenne creando dapprima (1931) un nuovo istituto di credito, l'Istituto mobiliare italiano (Imi), col compito di sostituire le banche in difficoltà nel sostegno alle industrie in crisi, e dando vita due anni dopo (1933) all'Istituto per la ricostruzione industriale (Iri).
Valendosi di fondi forniti in gran parte dallo Stato, l'Iri rilevò le partecipazioni industriali delle banche, assumendo così il controllo di alcune fra le maggiori imprese italiane, fra cui l'Ansaldo, l'Ilva e la Terni.

L'Italia Stato imprenditore

Nei progetti originari, il compito dell'Istituto avrebbe dovuto essere transitorio, limitandosi al risanamento delle imprese in crisi in vista di una loro riprivatizzazione. Accadde invece che la vendita ai privati risultò impraticabile (date le dimensioni delle imprese e i rischi connessi alla loro gestione) e l'Iri diventò, nel 1937, un ente permanente.
In questo modo lo Stato italiano si trovò a controllare una quota dell'apparato industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro paese (salvo naturalmente l'Urss): diventò cioè Stato-imprenditore oltre che Stato-banchiere, senza con ciò minacciare l'autonomia delle grandi imprese.
Al contrario, i maggiori gruppi privati furono aiutati a rafforzarsi e a ingrandirsi e accolsero con favore l'intervento statale, che accollava alla collettività i costi della crisi industriale e bancaria.

L'autarchia e l'economia di guerra

Intorno alla metà degli anni '30 l'Italia era uscita dalla fase più acuta della crisi, sia pure a prezzo di sacrifici non lievi.
A questo punto, però, mancarono al regime la capacità e la volontà di profittare della ripresa per mettere in moto un processo di sviluppo che si riflettesse sulle condizioni di vita della popolazione.
Al contrario, il regime si lanciò in una politica di dispendiose imprese militari che sottrasse risorse ai consumi privati e agli investimenti produttivi.
Alla fine del 1935, traendo spunto dalle sanzioni economiche imposte all'Italia per l'aggressione all'Etiopia, Mussolini decise inoltre di intensificare la politica "autarchica" già inaugurata con la «battaglia del grano» e consistente nella ricerca di una sempre maggiore autosufficienza economica, soprattutto nel campo dei prodotti e delle materie prime indispensabili in caso di guerra.
L'autarchia si tradusse in una ulteriore stretta protezionistica, in un più intenso sfruttamento del sottosuolo e in un incoraggiamento alla ricerca applicata, soprattutto nel campo delle fibre artificiali e dei combustibili sintetici. I risultati finali non furono brillanti.
L'autosufficienza rimase un traguardo irraggiungibile. E la produzione industriale crebbe piuttosto lentamente.
Cominciava per l'Italia una lunga stagione di economia di guerra destinata a prolungarsi senza interruzioni fino al secondo conflitto mondiale.

 

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La politica estera e l'Impero

La vocazione nazionalista

Diversamente dalla Germania, uscita sconfitta dalla guerra e punita al tavolo della pace, l'Italia mussoliniana non aveva da avanzare rivendicazioni territoriali capaci di mobilitare l'opinione pubblica.
Nonostante le delusioni subite a Versailles, era pur sempre una potenza vincitrice e aveva risolto in modo soddisfacente la spinosa questione adriatica.
Non per questo il fascismo poteva accantonare quella vocazione nazionalista ed espansionista che faceva parte dei suoi caratteri originari e lo portava a proporsi come il restauratore delle glorie di Roma antica.
Fino ai primi anni '30, le aspirazioni imperiali del fascismo rimasero vaghe e si tradussero, più che in una coerente direttiva di politica estera, in una generica contestazione dell'assetto europeo uscito dai trattati di Versailles. Il che tuttavia non impedì all'Italia di mantenere buoni rapporti con la Gran Bretagna e di restare all'interno del sistema di sicurezza collettiva fondato sull'intesa fra le potenze vincitrici.
L'accordo di Stresa dell'aprile 1935 fu la manifestazione più significativa di questa fase della politica estera fascista. Ma fu anche l'ultima: mentre si accordava con le democrazie occidentali per contrastare il riarmo tedesco, Mussolini stava già preparando l'aggressione all'Impero etiopico, allora l'unico grande Stato indipendente del continente africano.

L'impresa etiopica e le sanzioni

A spingere Mussolini verso un'impresa di cui pochi in Italia sentivano la necessità furono motivi di politica internazionale e interna.
Con la guerra d'Etiopia il duce intendeva innanzitutto dare uno sfogo alla vocazione imperiale del fascismo, vendicando al contempo lo scacco subito dall'Italia nel 1896 con la sconfitta di Adua. Ma voleva anche creare una nuova occasione di mobilitazione popolare che facesse passare in secondo piano i problemi economici e sociali del paese.
I governi francese e britannico erano disposti ad assecondare, almeno in parte, le mire italiane. Ma non potevano accettare che uno Stato indipendente, membro della Società delle nazioni, fosse cancellato dalla carta geografica da un atto di aggressione. Così, quando all'inizio di ottobre del 1935 l'Italia diede inizio all'invasione dell'Etiopia, Francia e Gran Bretagna proposero al Consiglio della Società delle nazioni l'adozione di sanzioni, consistenti nel divieto di esportare in Italia merci necessarie all'industria di guerra.
Approvate a schiacciante maggioranza pochi giorni dopo l'inizio dell'invasione, le sanzioni ebbero un'efficacia molto limitata: sia perché il blocco non era esteso alle materie prime, sia perché non impegnava gli Stati che non facevano parte della Società delle nazioni, come gli Stati Uniti e la Germania.
Le decisioni prese ebbero però l'effetto di creare una frattura fra il regime fascista e le democrazie europee e consentirono a Mussolini di montare un'imponente campagna propagandistica tesa a presentare l'Italia come vittima di una congiura internazionale.
L'immagine dell'Italia «proletaria» cui le nazioni «plutocratiche», già padrone di sterminati imperi coloniali, volevano impedire la conquista di un proprio «posto al sole» riuscì in effetti a far breccia nell'opinione pubblica italiana, non escluse le classi popolari, alle quali fu fatto intravedere il miraggio di nuovi posti di lavoro e di nuove opportunità di ricchezza da conquistare oltremare.
Le piazze si riempirono di folle inneggianti a Mussolini e alla guerra. Studenti e attivisti di partito diedero vita a rumorose manifestazioni anti-inglesi. Milioni di coppie, a cominciare da quella reale, accolsero l'invito del governo a donare alla patria l'oro delle loro fedi nuziali.

L'impero

Sul piano militare l'impresa fu più difficile del previsto: gli etiopici si batterono con accanimento per più di sette mesi sotto la guida del negus Hailé Selassié.
Ma il loro esercito, male organizzato e peggio equipaggiato, nulla poteva contro un corpo di spedizione che giunse a impegnare circa 400 mila uomini e fece ampio ricorso ai mezzi corazzati e all'aviazione, usata in più occasioni per bombardare le truppe nemiche con gas asfissianti.
Il 5 maggio 1936, le truppe italiane, comandate dal maresciallo Pietro Badoglio, entrarono in Addis Abeba. Quattro giorni dopo, Mussolini poteva annunciare alle folle plaudenti «la riapparizione dell'Impero sui colli fatali di Roma» e offrire a re Vittorio Emanuele III la corona di imperatore d'Etiopia.
Da un punto di vista economico la conquista dell'Etiopia, paese povero di risorse naturali e poco adatto agli insediamenti agricoli, rappresentò per l'Italia un peso non indifferente, cui si aggiunsero i problemi suscitati dalle sanzioni. Ma sul piano politico il successo fu indiscutibile. Portando a termine una campagna coloniale vittoriosa, imponendo la propria volontà alle democrazie occidentali e costringendole poi ad accettare il fatto compiuto (le sanzioni furono ritirate nell'estate 1936), Mussolini diede a molti la sensazione, illusoria, di aver conquistato per l'Italia una posizione di grande potenza.

Dall'Asse Berlino-Roma al Patto d'acciaio

Inebriato dal successo, il duce credette di poter condurre una politica ambiziosa e spregiudicata, sfruttando ogni occasione (come, per esempio, la guerra civile in Spagna) per allargare l'area di influenza italiana.
In questo piano rientrava, almeno in un primo tempo, anche l'avvicinamento dell'Italia alla Germania, cominciato subito dopo la guerra d'Etiopia e sancito, nell'ottobre 1936, dalla firma di un patto di amicizia cui fu dato il nome di Asse Roma-Berlino.
Rafforzata dal comune impegno nella guerra civile spagnola e, nell'autunno '37, dall'adesione italiana al cosiddetto patto anti-Comintern (un accordo stipulato l'anno prima da Germania e Giappone, che impegnava i due paesi a lottare contro il comunismo internazionale), l'Asse Roma-Berlino non era ancora una vera alleanza militare.
Mussolini considerava infatti l'appoggio alla Germania non tanto come una scelta irreversibile, quanto come uno strumento che, aumentando il peso contrattuale dell'Italia, le consentisse di ottenere qualche ulteriore vantaggio in campo coloniale: il tutto in attesa che il paese fosse preparato ad affrontare un conflitto in posizione di forza.
Ma il dinamismo aggressivo della Germania non consentì a Mussolini i tempi e gli spazi di manovra necessari per realizzare il suo programma. Credendo di potersi servire dell'amicizia tedesca, il duce ne fu in realtà sempre più condizionato, al punto da dover accettare passivamente tutte le iniziative di Hitler (comprese quelle più sgradite come l'annessione dell'Austria).
Finché, nel maggio 1939, si decise alla scelta che sarebbe risultata fatale al regime e al paese: la firma di un formale patto di alleanza con la Germania — il «patto d'acciaio» — che legava definitivamente le sorti dell'Italia a quelle dello Stato nazista.

 

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La stretta totalitaria e le leggi razziali

Le incrinature del consenso

La vittoriosa campagna contro l'Etiopia segnò per il regime fascista l'apogeo del successo e della popolarità. Ma, svaniti gli entusiasmi che avevano accompagnato l'impresa coloniale, il fronte apparentemente compatto dei consensi conobbe alcune significative incrinature.
A suscitare preoccupazione era soprattutto il nuovo indirizzo di politica estera attuato da Mussolini e dal suo principale collaboratore di questi anni, il genero Galeazzo Ciano, assurto poco più che trentenne alla carica di ministro degli Esteri.
L'aspetto che più inquietava l'opinione pubblica era l'amicizia con la Germania: un'amicizia che urtava contro le tradizioni del Risorgimento e della Grande Guerra, e soprattutto contro la diffusa antipatia (anche se talvolta mista a una certa dose di ammirazione) di cui era oggetto lo Stato nazista.
La politica mussoliniana si mostrava inoltre avara di risultati immediati e faceva sembrare più vicina l'eventualità di una nuova guerra europea.
Non fu un caso se le uniche manifestazioni di spontaneo entusiasmo popolare di questo periodo si ebbero in coincidenza col ritorno di Mussolini dalla Conferenza di Monaco, nel '38, e furono rivolte al duce (che non le gradì) in quanto presunto salvatore della pace.

La campagna anti-borghese di Mussolini

Ma le aspirazioni alla pace contrastavano con i programmi di Mussolini.
Il duce auspicava per l'Italia un avvenire di imprese militari e pensava che gli italiani avrebbero dovuto non solo armarsi adeguatamente, ma anche rinnovarsi nel profondo, trasformandosi in un popolo di conquistatori e di guerrieri. Ciò implicava da parte del duce un atteggiamento duro e quasi punitivo nei confronti della popolazione, in particolare della borghesia, intesa non tanto come classe sociale quanto come atteggiamento mentale (tendenza agli agi e alla vita comoda, ricerca del profitto anteposta al perseguimento di ideali superiori) che doveva essere definitivamente estirpato dal costume nazionale.

La radicalizzazione del regime totalitario

Per avvicinarsi a questo obiettivo il regime doveva diventare più di quanto non fosse stato fin allora.
Da qui scaturirono alcune modifiche istituzionali, che andavano dalla creazione del ministero per la Cultura popolare all'accorpamento delle organizzazioni giovanili nella Gioventù italiana del littorio (Gil), dall'ampliamento delle funzioni del Partito fascista alla sostituzione, nel 1939, della Camera dei deputati con una nuova Camera dei fasci e delle corporazioni dove, abolita ogni finzione elettorale, si entrava semplicemente in virtù delle cariche ricoperte negli organi di regime.
A una medesima logica rispondevano alcune iniziative di carattere più che altro formale, e quasi folkloristico, che tuttavia possono dare un'idea del clima di quegli anni: la campagna contro l'uso del «lei» (considerato «servile» e poco italiano e da sostituirsi quindi col «voi») e contro tutti i termini stranieri; l'imposizione della divisa ai funzionari pubblici; l'adozione del «passo romano» (una variante del «passo dell'oca» in uso nell'esercito tedesco) per conferire un aspetto più marziale alle sfilate militari.

Le leggi razziali

Ma la manifestazione più seria e più aberrante della stretta totalitaria voluta da Mussolini fu l'introduzione, nell'autunno del 1938, di una serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei: leggi che ricalcavano nelle grandi linee quelle naziste del '35, escludendo gli israeliti dagli uffici pubblici, limitandone l'esercizio delle professioni e vietando i matrimoni misti.
Preannunciata da un manifesto di sedicenti scienziati (che sosteneva l'esistenza di una «pura razza italiana» di indiscutibile origine ariana) e preparata da un'intensa campagna di stampa, la legislazione razziale giunse tuttavia del tutto inattesa in un paese che non aveva mai conosciuto – al contrario della Germania, della Russia e della stessa Francia – forme di antisemitismo diffuso: anche perché la comunità ebraica era assai poco numerosa (circa 50 mila persone concentrate per lo più a Roma e nelle città del Centro-Nord) e complessivamente ben integrata nella società.
Adottando queste misure, tanto gratuite quanto moralmente ripugnanti, Mussolini si proponeva di inoculare nel popolo italiano il germe dell'orgoglio razziale e di fornirgli così un nuovo motivo di aggressività e compattezza nazionale. Ma, anziché suscitare consenso e mobilitazione (non vi furono in Italia, né allora né in seguito, episodi di violenza popolare contro gli ebrei, come mancarono, d'altro canto, le proteste e le manifestazioni di solidarietà con le vittime), le leggi razziali furono accolte con indifferenza o con perplessità dall'opinione pubblica; e aprirono per giunta un serio contrasto con la Chiesa, contraria non tanto alla discriminazione in sé quanto alle sue motivazioni biologico-razziali.

Il coinvolgimento dei giovani

In generale, lo sforzo compiuto da Mussolini sul finire degli anni '30 per fare del regime fascista un totalitarismo pienamente realizzato e per cambiare la mentalità degli italiani ebbe risultati mediocri.
L'unico settore della società in cui le aspirazioni totalitarie ottennero qualche successo fu quello giovanile. I ragazzi cresciuti nelle organizzazioni di regime, gli studenti inquadrati nei Gruppi universitari fascisti, i giovani più impegnati intellettualmente che ogni anno partecipavano a migliaia ai «littoriali della cultura» (concorsi nazionali riservati ai migliori studenti medi e universitari) si abituarono a "pensare fascista", a considerare il regime come una realtà immutabile, come un quadro di riferimento obbligato nelle sue linee di fondo.
Fu solo con lo scoppio del conflitto e con i primi rovesci bellici che il fascismo cominciò a perdere progressivamente il sostegno sul quale più contava: quello appunto dei giovani. I quali, diventati nel frattempo soldati e ufficiali, vissero in prima persona il fallimento di un regime che, avendo puntato tutto sulla politica di potenza, si dimostrò poi incapace di preparare sul serio la guerra e la perse rovinosamente.

 

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L'opposizione al fascismo

Il silenzio e l'esilio interno

A partire dalla metà degli anni '20 – da quando cioè ogni forma di dissenso politico fu bandita dal paese e punita come un crimine – un numero crescente di italiani dovette affrontare il carcere o il confino politico, l'esilio o la clandestinità.
Non tutti gli antifascisti sperimentarono i rigori della repressione. Molti, anzi i più, scelsero il silenzio o cercarono di sfruttare i ridotti spazi di autonomia culturale che il regime lasciava sussistere purché non si trasformassero in centri di opposizione politica. Fu questa la strada scelta dalla maggior parte dei popolari e dei liberali non fascistizzati e anche da molti socialisti.
Se i cattolici potevano contare su qualche forma di tacito e prudente appoggio da parte di una Chiesa che restava pur sempre alleata del fascismo, i liberali trovarono un importante punto di riferimento in Benedetto Croce. Protetto dalla sua notorietà internazionale, ma anche da una precisa scelta del regime (preoccupato dei danni di immagine che gli sarebbero derivati da un intervento repressivo), l'anziano filosofo poté proseguire senza eccessivi fastidi la sua attività culturale e pubblicistica, evitando però ogni esplicita presa di posizione politica.
Grazie ai suoi libri e alla sua rivista «La Critica», che continuò a stamparsi per tutto il ventennio, molti intellettuali ebbero la possibilità di conoscere e mantenere in vita la tradizione dell'idealismo liberale, contrapposta a quella idealistico-totalitaria impersonata da Gentile.

La clandestinità

Per coloro che intendevano opporsi attivamente alla dittatura, restavano aperte solo due strade: l'esilio all'estero e l'agitazione clandestina in patria.
A praticare fin dall'inizio quest'ultima forma di lotta furono soprattutto, anche se non esclusivamente, i comunisti. Durante tutto il ventennio, il Partito comunista riuscì a tenere in piedi e ad alimentare dall'interno e dall'estero una propria rete clandestina, a diffondere opuscoli, giornali e volantini di propaganda, a infiltrare suoi uomini nei sindacati e nelle organizzazioni giovanili fasciste. Tutto questo nonostante i modesti risultati immediati e gli altissimi rischi cui andavano incontro i militanti: più di tre quarti dei 4500 condannati dal Tribunale speciale e degli oltre 10 mila confinati fra il '26 e il '43 furono infatti comunisti.

L'emigrazione politica

Anche gli altri gruppi antifascisti (socialisti riformisti e massimalisti e repubblicani) cercarono di tenere in vita qualche isolato nucleo clandestino in Italia.
Ma la loro attività principale si svolse all'estero, soprattutto in Francia, già sede di una numerosa comunità italiana, dove si erano rifugiati molti esponenti antifascisti (fra cui i vecchi capi del socialismo italiano come Turati e Treves e i leader della generazione più giovane, come Pietro Nenni e Giuseppe Saragat).
Nel 1927 questi gruppi si federarono in un'organizzazione unitaria, la Concentrazione antifascista, che si ricollegava all'esperienza dell'Aventino, ereditandone però, con il contenuto ideale, anche i limiti pratici e le divisioni interne.
Nonostante questi limiti, i partiti della Concentrazione svolsero un'attività importante a livello di testimonianza e di propaganda, fecero sentire la voce dell'Italia antifascista nelle organizzazioni internazionali, stamparono i loro giornali, proseguirono in esilio le elaborazioni ideologiche e i dibattiti politici iniziati in patria sulle ragioni della loro sconfitta e sui possibili fattori di una riscossa democratica.
Di particolare interesse fu la riflessione autocritica che vide impegnati i socialisti e che portò, nel 1930, in un congresso tenuto a Parigi, alla riunificazione dei due tronconi (massimalista e riformista) in cui il Psi si era diviso nel '22.

Giustizia e libertà

Un nuovo impulso all'azione concreta contro il fascismo e un'aperta critica alla tattica attendista della Concentrazione vennero dal movimento di Giustizia e Libertà (in sigla GL), fondato nell'estate del '29 da due antifascisti della giovane generazione: Emilio Lussu e Carlo Rosselli, che nel '37 sarebbe stato assassinato da sicari fascisti assieme al fratello Nello.
GL voleva essere innanzitutto un organismo di lotta, capace di far concorrenza ai comunisti sul piano dell'attività clandestina (infatti riuscì a costituire piccoli nuclei organizzati in varie città); ma si proponeva anche come nucleo di una nuova formazione politica che sapesse coniugare gli ideali di libertà e di giustizia sociale, ricomponendo la frattura fra liberalismo e socialismo, secondo le linee indicate da Rosselli in un libro del 1930 intitolato Socialismo liberale.

I comunisti

Fortemente polemici verso i partiti della Concentrazione, ma altrettanto ostili ai tentativi di GL, erano i comunisti, attestati su una posizione di rigido isolamento.
Anche i comunisti avevano un «centro estero» con sede a Parigi, ma il vero centro dirigente era a Mosca. Palmiro Togliatti, il leader che guidò il partito negli anni dell'esilio, era anche un dirigente di primo piano dell'Internazionale comunista. Era dunque inevitabile che il Pci si allineasse senza riserve alla strategia dettata da Mosca, che ne seguisse fedelmente anche le formulazioni più settarie, che si adeguasse all'imperante culto di Stalin.
I dirigenti che assunsero posizioni eterodosse furono espulsi dal partito. Le critiche alla linea ufficiale formulate in carcere da leader come Umberto Terracina e Antonio Gramsci rimasero sconosciute ai militanti. Egualmente sconosciute rimasero le originali riflessioni sulla storia d'Italia, sul ruolo degli intellettuali e sulla strategia del partito elaborate, sempre in carcere, da Gramsci e affidate ai quaderni di appunti che sarebbero stati pubblicati nel secondo dopoguerra, molti anni dopo la morte, nel 1937, del loro autore, stroncato dalla dura esperienza carceraria.

I «fronti popolari»

A metà degli anni '30, la svolta dei «fronti popolari» aprì anche per l'antifascismo italiano una fase nuova, che vide il Pci riannodare i contatti con le altre forze d'opposizione, partecipare alle manifestazioni unitarie contro il fascismo, stringere nel '34 un patto di unità d'azione con i socialisti.
Ma questa stagione, che conobbe il suo momento più alto con l'esperienza della guerra di Spagna, durò solo pochi anni.
Il fallimento del Fronte popolare in Francia, le lotte interne allo schieramento repubblicano in Spagna, gli echi delle "grandi purghe" staliniane, la rottura fra l'Urss e le democrazie occidentali culminata nel patto tedesco-sovietico del '39: tutti questi fatti si ripercossero negativamente sull'unità del movimento antifascista italiano, che fu colto disorientato e diviso dallo scoppio del secondo conflitto mondiale.

Un bilancio dell'antifascismo

Se si volesse tracciare un bilancio del movimento antifascista in base ai suoi scarsi successi immediati, si dovrebbe concludere che la sua incidenza sulla situazione italiana di quegli anni fu poco più che nulla.
Per molto tempo gli antifascisti attesero invano un grande sommovimento popolare che abbattesse il regime. Si illusero che lo scossone potesse venire dalla grande crisi o dall'avventura etiopica, dovendo poi constatare che il fascismo era uscito rafforzato dall'una e dall'altra.
Eppure il movimento antifascista svolse, fra il '26 e il '43, un ruolo di grande importanza politica oltre che morale: testimoniò con la sua sola presenza l'esistenza di un'Italia che non si piegava alla dittatura e ad essa diede voce e rappresentanza politica; rese possibile il sorgere, dopo il '43, di un movimento di resistenza armata al nazifascismo (movimento che invece mancò in Germania); anticipò con le sue riflessioni teoriche e i suoi dibattiti molti tratti della futura Italia democratica.

 

 

OLTRE L'EUROPA

 

 

Il tramonto dei colonialismo

La partecipazione delle colonie alla guerra

Nel corso della prima guerra mondiale, le due maggiori potenze coloniali, Gran Bretagna e Francia, avevano fatto ampio ricorso all'aiuto dei loro territori d'oltremare, sotto forma non solo di materie prime ma anche di uomini da mandare al fronte.
Circa 400 mila africani – più 70 mila fra indocinesi e caraibici – avevano combattuto nell'esercito francese.
La Gran Bretagna aveva mobilitato un milione e trecentomila indiani e quasi altrettanti uomini dai dominion bianchi: Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica.
La partecipazione alla guerra e il contatto con altre culture politiche fortemente imbevute di ideali nazionali e democratici avevano fatto crescere nei popoli extraeuropei la consapevolezza di aver maturato nuovi diritti e di aver mutato i rapporti di forza con i colonizzatori. Nacquero così, in molti paesi, nuovi movimenti indipendentisti, animati all'inizio da ristretti gruppi intellettuali che per lo più avevano studiato nelle università europee.

Il diritto all'auto-determinazione

A questa prima, embrionale presa di coscienza contribuirono anche gli echi dei grandi eventi politici che avevano accompagnato la fase finale del conflitto, a cominciare dalla rivoluzione russa: i bolscevichi non solo concessero ampie autonomie amministrative e linguistiche ai territori dell'Asia centrale già appartenenti all'Impero zarista, ma non esitarono a innalzare la bandiera della liberazione dei popoli dall'imperialismo e sostennero apertamente i movimenti anticoloniali.
Non meno importante fu la diffusione dell'ideologia wilsoniana che riconosceva, almeno in teoria, a tutti i popoli il diritto all'autodeterminazione.
In realtà fu subito chiaro che, per la maggior parte degli europei e degli stessi americani, questo diritto si immaginava riservato alle sole popolazioni bianche.
Alla conferenza della pace di Versailles, la proposta della delegazione giapponese di proclamare in un documento ufficiale l'uguaglianza fra tutte le "razze" non fu nemmeno presa in considerazione.
In compenso gli Stati Uniti – che non erano mai stati una potenza coloniale in senso stretto – si batterono affinché l'assegnazione alle potenze vincitrici dei territori già appartenenti alla Germania e all'Impero turco avvenisse sotto la forma del mandato: un istituto che, se da un lato serviva a mascherare la prosecuzione a tempo indeterminato del dominio coloniale, dall'altro conteneva un implicito riconoscimento del diritto dei popoli extraeuropei all'autogoverno.

 

La rivoluzione kemalista inTurchia

Kemal e la guerra con la Grecia

Fra tutti i paesi sconfitti nella prima guerra mondiale, l'Impero turco fu forse quello cui venne riservata la sorte peggiore.
Drasticamente ridimensionato dal punto di vista territoriale, amputato anche nel suo nucleo storico (l'Anatolia) dall'occupazione greca di Smirne, era inoltre oggetto di un tentativo di spartizione in zone di influenza da parte di Gran Bretagna e Francia, che occupavano militarmente alcune regioni costiere e manovravano un governo centrale inefficiente e corrotto.
La reazione a questo stato di cose venne dalle forze armate. Fu infatti un generale, Mustafa Kemal, che aveva combattuto contro gli inglesi durante la guerra, ad assumere la guida del movimento di riscossa nazionale, con l'appoggio di molti intellettuali e di buona parte della borghesia turca. Mentre le potenze vincitrici trattavano col governo-fantoccio del sultano, un'Assemblea nazionale riunita ad Ankara nella primavera del 1920 affidava a Kemal il compito di liberare il suolo della Turchia dagli stranieri.
L'impresa fu condotta a termine in poco più di due anni. Inglesi e francesi rinunciarono ai loro progetti di penetrazione economica e lasciarono la Grecia a vedersela da sola contro i turchi. Fra il '21 e il '22, l'esercito turco sconfisse ripetutamente i greci e li costrinse a evacuare la zona di Smirne: la città fu in parte incendiata e i suoi abitanti costretti a fuggire precipitosamente su navi inglesi e francesi.
Per la Grecia, costretta a riaccogliere in patria quasi un milione di profughi che da secoli vivevano in quella regione, fu un'autentica tragedia nazionale.
La Turchia ebbe riconosciuta la sua sovranità su tutta l'Anatolia e si vide restituito quel lembo di territorio europeo (la Tracia orientale) che le garantiva il controllo degli stretti.

Repubblica e modernizzazione

Contemporaneamente, si avviava la trasformazione della Turchia in uno Stato nazionale, laico e repubblicano.
Nel novembre '22 venne abolito il sultanato e, un anno dopo, fu proclamata la repubblica. Nel '24 fu approvata una nuova costituzione. Nominato presidente con poteri semidittatoriali, Mustafà Kemal (insignito del soprannome di Atatürk, ossia 'padre dei turchi') si impegnò a fondo in una politica di occidentalizzazione e di laicizzazione dello Stato. Furono varati nuovi codici ispirati ai modelli occidentali e aboliti i tribunali che giudicavano in base ai principi del Corano. Fu adottato l'alfabeto latino e tutto il sistema di istruzione fu riformato sull'esempio delle nazioni europee. Anche l'abbigliamento tradizionale fu sostituito con quello occidentale e alle donne fu proibito l'uso del velo negli uffici pubblici.
L'esperimento modernizzatore riuscì solo in parte, come avrebbero dimostrato le travagliate vicende della Repubblica turca dopo la morte, nel 1938, del suo fondatore; ma ebbe il valore di un modello per molti paesi impegnati sulla strada dell'emancipazione dai vincoli coloniali.

 

Il nodo del Medio Oriente

Il crollo dell'Impero ottomano fece sentire le sue conseguenze in tutta quella vasta area compresa fra la Turchia, la sponda sud-orientale del Mediterraneo, il Mar Rosso e il Golfo Persico che dell'Impero faceva parte, almeno formalmente, e che in gran parte coincide con quello che oggi siamo soliti chiamare "Medio Oriente".
In questa regione, abitata quasi per intero da popolazioni arabe di religione musulmana, gli impegni spesso contraddittori presi durante la guerra dalle potenze dell'Intesa determinarono una situazione quanto mai intricata.

Strategia britannica e nazionalismo arabo

Un impegno totalmente disatteso fu ad esempio quello assunto dalle potenze vincitrici nei confronti dei curdi, un popolo musulmano non arabo che viveva in un ampio territorio montuoso oggi diviso fra Turchia, Siria, Iraq e Iran.
La promessa di un Kurdistan indipendente non si realizzò mai, anche perché contrastava con la priorità allora accordata dalla Gran Bretagna ai rapporti con il mondo arabo.
Il nazionalismo arabo, in quegli anni, era ancora un movimento in embrione, legato più al prestigio dei capi tribali che alla spinta delle popolazioni.
Nel 1915 i britannici si accordarono con uno di questi capi, Hussein Ibn Alì, emiro della Mecca (la città santa dell'Islam), promettendo l'appoggio alla creazione di un grande regno arabo indipendente comprendente l'Arabia, la Mesopotamia e la Siria in cambio di una collaborazione militare contro l'Impero ottomano.
Nel 1916 Hussein lanciò le sue tribù beduine – composte per lo più da nomadi che vivevano nel deserto e si spostavano a dorso di dromedari – in una «guerra santa» contro i turchi, che si affiancò efficacemente alla campagna dell'esercito inglese. Alla guida delle truppe erano i figli di Hussein, Abdallah e Feisal. Loro consigliere era un agente britannico, appassionato della cultura islamica, il colonnello Thomas Edward Lawrence, il leggendario Lawrence d'Arabia.

I progetti di spartizione

Le vere intenzioni della Gran Bretagna sul futuro dei territori arabi sottratti all'Impero ottomano erano però diverse, anche perché il governo non poteva non tener conto degli interessi della Francia in quella regione.
Nel maggio 1916 francesi e britannici si accordarono per la spartizione in zone d'influenza di tutta la zona compresa fra la Turchia e la Penisola arabica: alla Francia la Siria e il Libano, alla Gran Bretagna la Mesopotamia e la Palestina.
A guerra finita, nonostante le proteste degli arabi, la spartizione si realizzò, appena velata dall'assegnazione alle due potenze dei rispettivi territori sotto forma di mandato.
Come compenso alla forzata rinuncia al grande regno arabo, la Gran Bretagna creò nella zona di sua competenza due nuovi Stati, governati dalla dinastia hashemita (ossia dai discendenti dell'emiro Hussein), sempre sotto controllo britannico: l'Iraq (l'antica Mesopotamia) e la Transgiordania (l'attuale Giordania).
Nel 1932 nacque un altro Stato, l'Arabia Saudita, fondato nella Penisola arabica dal sovrano Ibn Saud, che aveva sottratto alla dinastia hashemita il controllo dei luoghi santi.

Il Medio Oriente fra le due guerre mondiali

Immigrazione ebraica

Un'altra ipoteca sulla sovranità nei territori ex ottomani era stata intanto posta in Palestina, dove il governo britannico aveva riconosciuto, nel novembre 1917, con una dichiarazione ufficiale del ministro degli Esteri Arthur James Balfour, il diritto del movimento sionista a creare in Palestina una sede nazionale per il popolo ebraico, secondo il progetto lanciato alla fine dell'800 da Theodor Herzl.
Redatta in consultazione con il presidente americano Wilson, sotto la pressione del movimento sionista, di cui si voleva ottenere l'appoggio alla causa dell'Intesa, la Dichiarazione Balfour faceva salvi i «diritti civili e religiosi» (non si parlava di quelli politici) delle comunità non ebraiche. Venne così legittimata l'immigrazione sionista, che cominciò a svilupparsi in quegli anni attorno ai piccoli insediamenti ebraici già presenti nella regione.
Tra 1920 e 1921 scoppiarono i primi violenti scontri tra i coloni ebrei e i residenti arabi, insofferenti della minaccia portata ai loro diritti sulla Palestina.
Negli anni '30, dopo l'avvio delle persecuzioni razziali in Europa, il flusso degli immigrati ebrei aumentò rapidamente, suscitando ulteriori tensioni e risentimenti nella popolazione araba. Era l'inizio di un conflitto che avrebbe insanguinato la regione nei decenni successivi, prolungandosi per tutto il '900 e oltre.

 

I movimento indipendentista in India

Dall'impero britannico al Commonwealth

Per quanto fossero uscite esauste dalla Grande Guerra e faticassero sempre più a mantenere il controllo dei loro imperi, le potenze coloniali europee si opposero con durezza a qualsiasi allentamento dei vincoli fra la madrepatria e i territori d'oltremare.
L'unica parziale, ma importante, eccezione fu quella della Gran Bretagna, che si orientò, sia pur con riluttanza, alla concessione graduale di maggiori autonomie almeno ad alcune delle sue colonie. Questa tendenza si manifestò, come si è visto, nell'area mediorientale e portò, oltre che alla creazione dei nuovi regni arabi, alla rinuncia al protettorato inglese sull'Egitto: il più importante e il più popoloso fra i paesi del Nord Africa fu trasformato nel '22 in regno autonomo e ottenne nel '36 la piena indipendenza, pur restando nell'orbita della Gran Bretagna, che conservò comunque una presenza militare nel paese, oltre al controllo (assieme alla Francia) della Compagnia del Canale di Suez.
Un'altra tappa nel processo di graduale smobilitazione dell'Impero britannico fu rappresentata dalla Conferenza imperiale che si tenne a Londra nel 1926 e nella quale i dominion bianchi (Canada, Sudafrica, Australia) – che già godevano di una condizione di semi-indipendenza e avevano partecipato con proprie delegazioni alla conferenza della pace – furono riconosciuti come «comunità autonome ed eguali in seno all'Impero», unite dal comune vincolo di fedeltà alla Corona d'Inghilterra e «liberamente associate come membri del Commonwealth britannico», ossia una libera federazione fra Stati, che sarebbe servita anche in futuro ad assicurare il mantenimento di una serie di legami economici e istituzionali fra la Gran Bretagna e le sue ex colonie.

Il caso dell'India

Il paese in cui il processo di emancipazione assunse un valore esemplare fu senza dubbio l'India: la più importante, sul piano economico e strategico, fra le colonie britanniche, quella il cui controllo era ancora considerato essenziale da una parte della classe dirigente del Regno Unito, ma anche quella in cui le aspirazioni all'indipendenza si erano fatte sentire maggiormente già prima della Grande Guerra, trovando un canale di espressione nel Congresso nazionale indiano: un organismo nato alla fine dell'800 come rappresentanza dei notabili e poi apertosi a istanze più radicali.
Durante il primo conflitto mondiale il governo britannico aveva premiato il lealismo manifestato dalla classe dirigente locale in occasione della guerra, promettendo ufficialmente, nel novembre 1917, «una crescente associazione degli indiani a ogni ramo dell'amministrazione e un graduale sviluppo di forme di autogoverno, in vista della progressiva realizzazione di un governo responsabile in India».
Queste promesse, formulate non a caso nel momento più difficile della guerra e successivamente attuate in modo lento e parziale, non bastarono però a bloccare lo sviluppo del movimento nazionalista.
Quando, nell'aprile '19, nella città di Amritsar, le truppe inglesi repressero sanguinosamente una manifestazione popolare di protesta (i morti furono quasi 400), la frattura fra colonizzatori e colonizzatisi si approfondì bruscamente.

Gandhi e la non violenza

Intanto, in seno al Congresso nazionale indiano – trasformatosi nel 1920 in un vero e proprio partito politico – e in genere fra la maggioranza della popolazione di religione induista, riscuoteva sempre maggiori consensi la predicazione di un nuovo e prestigioso leader indipendentista, Mohandas Karamchand Gandhi.
Adottando nuove forme di lotta, basate sulla resistenza passiva, sulla non violenza e sul rifiuto di qualsiasi collaborazione con i dominatori, e coniugando la battaglia per l'indipendenza con quella per la rottura del sistema delle caste, Gandhi acquistò in breve tempo un'immensa popolarità e fece del nazionalismo indiano un autentico movimento di massa.
Alla crescita del movimento indipendentista – che faceva proseliti anche nella forte minoranza musulmana – gli inglesi risposero alternando gli interventi repressivi alle concessioni.
Nel 1919, con il Government of India Act, venne riconosciuto maggior spazio agli indiani nei ranghi dell'amministrazione, fu attuato un limitato decentramento e venne consentita a una ristretta minoranza della popolazione l'elezione di propri organismi rappresentativi. Nel 1935 il diritto di voto fu esteso al 15% circa della popolazione e vennero ampliati gli spazi di autonomia alle singole province.
Questi provvedimenti non valsero a fermare la marcia dell'India verso la piena indipendenza, ma offrirono al movimento nazionale indiano canali legali attraverso cui esprimersi e combattere le proprie battaglie: un'esperienza che avrebbe contribuito alla tenuta delle istituzioni rappresentative nella futura India indipendente.

 

La guerra civile in Cina

L'anarchia militare

Per tutta la prima metà del '900, lo Stato più popoloso del mondo, la Cina, fu sconvolto e paralizzato da una lunga e sanguinosa guerra civile.
La repubblica democratica creata dalla rivoluzione del 1911 ebbe vita quanto mai travagliata. Il suo padre fondatore, Sun Yat-sen, leader del Kuomintang (il Partito nazionalista cinese), fu costretto all'esilio dopo appena due anni di governo. E il regime autoritario imposto dal generale Yuan Shi-kai nel 1913 non riuscì ad assicurare al paese tranquillità e unità. Anzi, venuto meno il collante costituito dal pur screditato potere imperiale, la Cina precipitò in una situazione di semi-anarchia. Il governo non aveva forza sufficiente per imporre la sua autorità alle province, dove i governatori militari – i cosiddetti signori della guerra – si comportavano come capi feudali, arruolando milizie e imponendo tributi, né per opporsi alle mire egemoniche del Giappone che, entrato in guerra contro la Germania nel 1915, mirava a sostituirsi alle potenze europee nel controllo delle zone più ricche della Cina.
La decisione, presa nell'agosto 1917, di intervenire nel conflitto mondiale a fianco dell'Intesa non servi a mutare la situazione.
Alla conferenza della pace – cui pure partecipò come Stato vincitore – la Cina fu sacrificata dalle grandi potenze occidentali che riconobbero al Giappone il diritto di subentrare alla Germania sconfitta nel controllo economico della regione dello Shantung.

Il ritorno di Sun Yat-sen

Questa ennesima umiliazione – che significava per la Cina la conferma di una condizione di sovranità limitata – ebbe l'effetto di risvegliare l'agitazione nazionalista, che si raccolse ancora una volta attorno al Kuomintang e al suo leader Sun Yat-sen, tornato nel frattempo dall'esilio. Nel maggio 1919, scoppiarono dimostrazioni di protesta iniziate nelle università e poi propagatesi in tutte le grandi città.
La lotta intrapresa contro il governo centrale da Sun Yat-sen, che nel '21 formò un proprio governo a Canton, ebbe anche l'appoggio del Partito comunista cinese, fondato, sempre nel '21, da un gruppo di intellettuali (fra i quali il giovane Mao Zedong), per lo più passati attraverso l'esperienza nazionalista e successivamente influenzati dall'esempio della rivoluzione russa.
Anche l'Unione Sovietica sostenne attivamente la causa di Sun Yat-sen (in omaggio alla strategia che prescriveva l'appoggio del movimento operaio alle «borghesie nazionali» impegnate nei movimenti di liberazione dal colonialismo), inviò aiuti economici e militari al governo di Canton e indusse addirittura il Partito comunista ad aderire in blocco al Kuomintang (conservando però la sua struttura organizzativa).

Chang Kai-shek e la repressione dei comunisti

L'alleanza fra nazionalisti e comunisti non sopravvisse però alla morte, nel 1925, di Sun Yat-sen.
Il suo successore Chang Kai-shek, esponente dell'ala moderata del Kuomintang, era molto meno aperto alle istanze di riforma sociale e molto più diffidente nei riguardi dei comunisti, i cui progressi suscitavano crescente preoccupazione nei ceti borghesi.
I contrasti cominciarono a manifestarsi nel '26 – quando Chang Kai-shek, alla guida di un nuovo esercito, iniziò la campagna per scacciare il governo di Pechino (ancora riconosciuto dalle potenze occidentali) – ed esplosero l'anno successivo.
Nell'aprile 1927 a Shanghai, massimo centro industriale cinese e roccaforte dei comunisti, le milizie operaie, che avevano liberato da sole la città dai governativi e non intendevano deporre le armi, furono affrontate e sconfitte dalle truppe di Chang Kai-shek.
In dicembre un'insurrezione operaia a Canton fu repressa in un bagno di sangue. Il Partito comunista fu messo fuori legge e molti dirigenti furono incarcerati.
Dopo aver condotto a termine vittoriosamente la lotta contro il governo di Pechino (la capitale fu conquistata nel giugno '28), Chang Kai-shek cercò di riorganizzare l'economia e l'apparato statale secondo modelli di ispirazione occidentale, ma fortemente venati di autoritarismo.
Il suo progetto però si scontrava contro l'obiettiva difficoltà di controllare un paese immenso e profondamente diviso. Da un lato c'erano i comunisti che, sconfitti nelle città, cominciarono a organizzare «basi rosse» nelle campagne, rimaste fin allora estranee al processo rivoluzionario. Dall'altro sopravviveva in alcune province il potere dei «signori della guerra», aiutati dal Giappone che non aveva rinunciato ai suoi progetti di espansione ed era ostile al consolidamento di un forte potere statale in Cina.

L'invasione giapponese della Manciuria

Nel 1931, traendo pretesto da un incidente di frontiera, i giapponesi invasero la Manciuria, una vasta regione sotto la sovranità cinese, ai confini con la Siberia, da tempo oggetto delle loro mire, e vi crearono uno Stato-fantoccio, il Manchu-kuo, che avrebbe dovuto servire da base per un'ulteriore espansione sul continente.
L'inerzia manifestata nell'occasione dal governo di Chang e lo scarso appoggio ad esso fornito dalle potenze occidentali (la Società delle nazioni si limitò a una platonica condanna dell'aggressione) diedero nuovo spazio all'azione dei comunisti, che sempre più potevano presentarsi come i soli autentici difensori degli interessi nazionali.

Mao Zedong e la «lunga marcia»

Decisiva per le fortune del Partito comunista fu la strategia di Mao Tse-tung, che individuava nelle masse rurali il vero protagonista del processo rivoluzionario, rovesciando la teoria marxista ortodossa in modo ancor più radicale di quanto non avesse fatto a suo tempo Lenin.
All'inizio degli anni '30, i comunisti fecero numerosi proseliti fra i contadini (delusi per la mancata attuazione della promessa riforma agraria da parte del governo nazionalista) e allargarono le loro basi in molte zone agricole, dove i latifondi furono espropriati e le terre distribuite fra i coltivatori.
Costretto a combattere su due fronti, Chang Kai-shek decise di dare la priorità alla lotta contro i comunisti, anche a costo di trascurare la minaccia giapponese, e lanciò, fra il '31 e il '34, una serie di sanguinose campagne militari contro le zone da loro controllate. Nell'ottobre del '34, circa 100 mila militanti, accerchiati nello Hunan, nel Sud del paese, decisero di evacuare quella zona e di trasferirsi nella regione settentrionale dello Shanxi, giudicata meglio difendibile.
Ne giunsero a destinazione meno di 10 mila, dopo una marcia durata un anno e lunga 10 mila chilometri attraverso l'interno della Cina.

La lunga marcia (1934-35)

Con quella che sarebbe poi passata alla storia e all'epopea rivoluzionaria come la «lunga marcia», Mao Zedong riuscì comunque a salvare il nucleo dirigente comunista e a ricostituire il partito proprio nelle zone in cui più forte era la minaccia giapponese. Quando, nel '36, Chang Kai-shek decise di lanciare una nuova campagna contro i comunisti, dovette scontrarsi con l'aperta dissidenza di una parte dell'esercito, che chiedeva la fine della guerra civile e l'unione di tutte le forze nazionali contro l'aggressione giapponese.
Si giunse così, all'inizio del '37, a un accordo stipulato sotto gli auspici dell'Urss fra comunisti e nazionalisti, con cui le due parti si impegnavano a costituire un fronte unito contro il nemico giapponese che si apprestava a lanciare una nuova e più devastante offensiva.

 

L'imperialismo giapponese

Sviluppo industriale e militarismo

La partecipazione alla prima guerra mondiale aveva consentito al Giappone di consolidare, con un costo militare relativamente esiguo, la sua posizione di massima potenza asiatica e di rafforzare la sua struttura produttiva, grazie soprattutto alla conquista di nuovi mercati non più raggiungibili dalle potenze europee impegnate nel conflitto.
Il dinamismo dell'economia — in particolare delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie, gli zaibatsu —, l'impetuosa crescita demografica (nei primi trent'anni del secolo la popolazione passò da 44 a 65 milioni di abitanti), la stessa struttura della classe dirigente, imperniata sull'unione fra grande industria, grande proprietà terriera e alti gradi militari, spingevano il Giappone verso una politica imperialistica che aveva come campo d'azione il Pacifico e l'intera Asia orientale e come obiettivo principale la sottomissione di vaste zone della Cina.
Questa politica veniva giustificata dalla classe dirigente con le esigenze reali di un paese troppo popoloso e dinamico rispetto alla sua limitata estensione territoriale, ma poggiava anche sulla rivendicazione di una superiorità culturale e razziale e di una naturale vocazione al dominio sull'intero scacchiere asiatico.

La crescita dei movimenti di destra

Durante il primo decennio postbellico, le spinte imperialistiche si conciliarono col mantenimento di un quadro istituzionale vicino al modello liberale, con lo sviluppo di una certa dialettica politica, con la crescita, sia pur contrastata, di partiti e sindacati operai.
Già negli anni '20, però, fecero la loro comparsa movimenti autoritari di destra, in parte ispirati al modello dei fascismi occidentali, in parte impregnati di cultura tradizionalista (difesa delle antiche strutture sociali e familiari, culto dell'imperatore come suprema autorità politica e religiosa).
Alla fine degli anni '20, queste tendenze furono favorite sia dalle conseguenze della grande crisi (che determinò una certa contrazione delle attività economiche suscitando un diffuso malcontento popolare), sia dalle preoccupazioni suscitate nella classe dirigente dai progressi dei partiti di sinistra nelle prime elezioni a suffragio universale che si tennero nel 1928.

Il regime autoritario e la scelta espansionista

Cominciò così per il Giappone, in significativa coincidenza con quanto stava accadendo in molti Stati euro- pei, una stagione di crescente autoritarismo. Questo autoritarismo non sfociò, almeno in un primo tempo, in forme esplicitamente fasciste (un tentativo di colpo di Stato dei gruppi estremisti di destra fu represso dall'esercito nel 1936; solo nel '40 fu istituito un regime a partito unico); ma si risolse ugualmente nella chiusura di ogni spazio di opposizione legale, in una dura repressione antioperaia, in pratica nell'assunzione diretta del potere da parte dei generali (direttamente coinvolti nelle scelte politiche) e degli esponenti degli zaibatsu, con l'autorevole copertura dell'imperatore Hirohito, salito al trono nel 1926.
Furono queste forze a gestire la politica imperialistica in Estremo Oriente, a scegliere una collocazione internazionale molto vicina a quella delle potenze fasciste europee (nel '36 il Giappone firmò con la Germania il patto anti-Comintern, cui successivamente avrebbe aderito anche l'Italia e, infine, a far precipitare il paese nella catastrofica avventura del secondo conflitto mondiale.

 

L'Oriente in guerra

L'aggressione giapponese alla Cina

Nel luglio del 1937, uno scontro fra militari giapponesi e cinesi sul ponte Marco Polo, presso Pechino – forse un incidente, forse una messa in scena orchestrata dagli aggressori –, fornì al governo nipponico il pretesto per lanciare un attacco in forze contro la Cina.
L'Estremo Oriente asiatico, dove già dall'inizio degli anni '30 era in atto un conflitto non dichiarato, che si intrecciava con le vicende della guerra civile in Cina, entrò da questo momento in un vero stato di guerra, anticipando di due anni lo scontro mondiale che si sarebbe acceso a partire dall'Europa e annunciandone in larga misura le devastazioni e gli orrori.
Questa volta la resistenza cinese fu accanita, sia da parte dell'esercito regolare sia da parte dei guerriglieri-contadini organizzati dai comunisti.
Ma non bastò a compensare l'enorme dislivello militare (e soprattutto industriale) fra i due contendenti e il peso delle divisioni interne alla Repubblica cinese, dove, come si è visto, comunisti e nazionalisti avevano appena raggiunto un precario accordo.

Il massacro di Nanchino

Alla fine del 1937, dopo pochi mesi di guerra, i giapponesi raggiunsero Nanchino, allora capitale della Cina, e la occuparono dopo un breve assedio.
Per sei terribili settimane (fra il dicembre '37 e il febbraio '38), gli occupanti infierirono sulla popolazione, donne e bambini compresi, con uccisioni, incendi e saccheggi. I morti, in buona parte civili, furono moltissimi: fra i 200 mila e i 300 mila secondo stime attendibili. E altissimo fu il numero degli stupri (tanto da far parlare dello «stupro di Nanchino» come di una sorta di crimine collettivo).
La guerra si prolungò con fasi alterne, sempre contrassegnata dall'elevatissimo numero di vittime civili, causate soprattutto dai bombardamenti giapponesi.
L'avanzata degli aggressori proseguì sistematicamente ma lentamente, a causa anche dell'impossibilità di controllare le aree interne di un paese vastissimo come la Cina.
Nell'estate del '39, il Giappone occupava comunque buona parte della zona costiera, tutto il Nord-est industrializzato e quasi tutte le città più importanti, a cominciare da Nanchino dove fu insediato un governo-fantoccio. Ma a questo punto le vicende della guerra cino-giapponese cominciarono a intrecciarsi con quelle del secondo conflitto mondiale che, dal 1941, avrebbe avuto proprio in Asia orientale un teatro decisivo.

 

L'Africa coloniale

Marginalità e soggezione

I nuovi fermenti politici che, negli anni fra le due guerre, si manifestarono nelle colonie asiatiche e nei paesi arabi interessarono solo marginalmente quella parte del continente africano – che comunemente chiamiamo "Africa nera" o "Africa sub-sahariana" – in cui il dominio coloniale era nella maggior parte dei casi arrivato più tardi e non sembrava mostrare segni di crisi.
Il miglioramento delle condizioni sanitarie (causa principale dello sviluppo demografico del continente: dai circa 120 milioni del 1900 ai 165 del 1935), la pur lenta diffusione dell'istruzione di base, soprattutto attraverso le scuole missionarie, l'aumentata partecipazione al commercio internazionale, la crescita rapidissima dei grandi centri urbani (come Dakar, Lagos, Nairobi): tutto questo non mutava nella sostanza la condizione di marginalità economica e di subalternità politica delle popolazioni africane, escluse da ogni forma di partecipazione al governo dei loro paesi.

Le prime organizzazioni politiche

Qualcosa tuttavia cominciava a cambiare. Se per i figli delle famiglie economicamente più agiate (ma anche per chi riusciva a fruire di borse di studio) si apriva la possibilità di studiare in Europa, per un numero ben più elevato di giovani era il servizio militare a offrire l'occasione di uscire dal chiuso delle comunità di villaggio, di maturare nuove esperienze e di praticare nuove forme di socializzazione.
Nacquero così, all'inizio degli anni '20, le prime organizzazioni autonome dei nativi: la Young Baganda Association in Uganda, il National Congress of British West Africa in Costa d'oro (il futuro Ghana), la East Africa Association in Kenya, il National Democratic Party in Nigeria, e altre consimili.
Fra il 1919 e il 1927 si tennero, in diverse capitali europee, quattro congressi panafricani, dove furono discussi i problemi comuni e furono lanciate per la prima volta proposte di federazione fra le colonie.
Il tema dell'indipendenza era ancora assente da questi dibattiti, dove si affrontavano per lo più questioni specifiche (in primo luogo la lotta contro la discriminazione razziale) e si studiavano forme di partecipazione e canali di rappresentanza più aperti per le popolazioni locali.
Ma intanto venivano emergendo nuove figure di intellettuali, come il keniano Jomo Kenyatta, laureato in etnologia a Londra, il senegalese Léopold Senghor, laureato in lettere a Parigi e apprezzato poeta in lingua francese, il ghanese Nkwarne Nkrumah, laureato in filosofia dopo aver studiato in Gran Bretagna e negli Usa: tutti destinati, nel secondo dopoguerra, a svolgere un ruolo decisivo nelle lotte per l'indipendenza dei loro paesi.

 

L'America Latina fra le due guerre mondiali

Le conseguenze della grande crisi

Negli anni '20 e '30 anche i paesi latino-americani risentirono fortemente dei mutamenti in atto in Europa e nel Nord America.
Il trauma maggiore fu rappresentato dalla grande crisi economica, che ridusse i tradizionali flussi commerciali e fece crollare i prezzi delle materie prime e delle derrate alimentari: tutte le economie del continente, che si fondavano essenzialmente sulle esportazioni di minerali, carne e prodotti agricoli, si trovarono in gravi difficoltà.
Anche nel caso dell'America Latina, gli effetti della depressione economica furono accentuati dal legame sempre più stretto con gli Usa, che si erano ormai sostituiti alla Gran Bretagna nel ruolo di potenza egemone dell'intero continente. Alcuni Stati subirono passivamente la crisi, altri – i più grandi e i più importanti: Brasile, Argentina, Cile e Messico – reagirono promuovendo un processo di diversificazione produttiva, che consentì lo sviluppo di alcuni settori di industria manifatturiera per sopperire alle esigenze del mercato interno.

Le dittature personali

Questi mutamenti non furono senza influenza sugli equilibri politici dei singoli Stati, che conobbero quasi tutti vicende molto agitate.
Nei paesi ancora legati al sistema della monocoltura continuarono a prevalere le vecchie oligarchie terriere, in un'alternanza di instabili regimi liberali e spietate dittature personali gestite per lo più da militari, come quelle di Fulgencio Batista a Cuba (1933) e di Anastasio Somoza in Nicaragua (1936), destinate a durare ben oltre la fine della seconda guerra mondiale.
Nei paesi in via di industrializzazione, invece, dove era già emerso un nucleo di classe operaia, la crisi ebbe effetti più complessi e contraddittori.
Anche gli Stati più importanti e dinamici, comunque, sperimentarono forme di autoritarismo più o meno marcato.

Autoritarismo e populismo

Nell'autunno del 1930 due sommovimenti politici quasi contemporanei ebbero luogo in Argentina e in Brasile.
In Argentina un colpo di Stato militare rovesciò le istituzioni democratiche: segui, per oltre un decennio, una serie di governi conservatori tenuti sotto stretta tutela dai generali e dalle oligarchie terriere.
In Brasile, invece, una rivolta popolare contro le vecchie oligarchie, appoggiata da una parte delle forze armate, portò al potere Getulio Vargas, avvocato e politico di formazione liberal-progressista, governatore del Rio Grande do Sul (uno degli Stati in cui era divisa la Repub- blica federale brasiliana). Vargas diede vita a un regime autoritario, basato sul rapporto diretto fra capo e masse, su un acceso nazionalismo e su un energico intervento statale a sostegno della produzione, ma anche sulla concessione di una legislazione sociale per i lavoratori urbani: un regime destinato a servire da mo- dello ad altre esperienze politiche latino-americane, che sarebbero state definite col termine populismo.
Una forma di populismo molto avanzata sul piano sociale fu quella praticata in Messico sotto la presidenza di Lazaro Cárdenas (1934-40), che portò avanti in modo deciso la riforma agraria iniziata negli anni '20 e nazionalizzò la produzione petrolifera. Nella sua versione più radicale e demagogica, il populismo si sarebbe poi affermato in Argentina, durante e dopo la seconda guerra mondiale, con l'ascesa al potere del colonnello Juan Domingo Perón i del movimento che da lui prese il nome di peronismo, improntando di sé la storia del paese anche nei decenni successivi.

 

 

GUERRA MONDIALE, GUERRA TOTALE

 

 

Le origini e le responsabilità

Nell'estate del 1939 lo scoppio di una nuova guerra fra le potenze europee era un evento largamente atteso. Mentre nel 1914 il conflitto generale era stato occasionato da un singolo evento tragico e imprevedibile come l'attentato di Sarajevo, venticinque anni dopo tutto sembrava condurre verso l'inevitabile scontro fra la Germania nazista e le democrazie dell'Europa occidentale.
Per la seconda guerra mondiale, inoltre, la questione delle responsabilità è molto meno controversa di quanto non sia per la prima. Non vi sono dubbi sul fatto che a provocare il conflitto fu la politica di conquista e di aggressione della Germania hitleriana. Anche se ciò non significa che le altre potenze fossero immuni da errori o da colpe.

Dalla Cecoslovacchia alla Polonia

Le democrazie occidentali si erano illuse, nella conferenza di Monaco, di aver placato la Germania con la cessione dei Sudeti.
In realtà, già nell'ottobre del '38, Hitler aveva pronti i piani per l'occupazione della Boemia e della Moravia, ossia della parte più popolosa e industrialmente più sviluppata dell'unico Stato democratico del Centro-Europa: la Repubblica cecoslovacca, già indebolita dalla perdita dei Sudeti e minata dalla lotta fra le diverse nazionalità che convivevano entro i suoi confini.
L'operazione scattò nel marzo 1939. Mentre la Slovacchia si proclamava indipendente con l'appoggio dei tedeschi, Hitler dava vita al «protettorato di Boemia e Moravia», parte integrante del Grande Reich tedesco.

L'espansione del terzo Reich, 1938-39

La distruzione dello Stato cecoslovacco determinò però una svolta nell'atteggiamento delle potenze occidentali.
Fra il marzo e il maggio 1939, accantonata la politica dell'appeasement, Gran Bretagna e Francia diedero vita a una vera e propria offensiva diplomatica, volta a contenere l'aggressività delle potenze dell'Asse, stipulando patti di assistenza militare con i paesi più direttamente minacciati dall'espansionismo tedesco (Belgio, Olanda, Grecia, Romania e Turchia). Il più importante di tutti fu quello con la Polonia, che costituiva il primo obiettivo dei progetti di Hitler: già in marzo, infatti, Hitler aveva rivendicato il possesso di Danzica e il diritto di passaggio attraverso il "corridoio" che univa la città al territorio polacco.
L'alleanza fra Gran Bretagna, Francia e Polonia, conclusa fra marzo e aprile, costituiva una risposta a queste minacce; e significava che le potenze occidentali erano disposte ad affrontare la guerra pur di impedire che la Polonia subisse la sorte della Cecoslovacchia.

L'Italia e il «patto d'acciaio»

Il radicalizzarsi della contrapposizione fra la Germania e gli anglo-francesi tolse ogni residuo spazio di manovra all'Italia.
Mussolini cercò dapprima di contrapporre alle iniziative di Hitler una propria iniziativa unilaterale: l'occupazione (aprile 1939) del piccolo Regno di Albania, considerato una base per una ulteriore penetrazione nei Balcani.
Un mese dopo (maggio '39), Mussolini, convinto che l'Italia non potesse restare neutrale nello scontro che si andava profilando e sicuro della superiorità della Germania, decise di accettare le pressanti richieste tedesche di trasformare il generico vincolo dell'Asse Roma-Berlino in una vera e propria alleanza militare, che fu significativamente chiamata «patto d'acciaio». Il patto stabiliva che, se una delle due parti si fosse trovata impegnata in un conflitto per una causa qualsiasi (dunque anche in veste di aggressore), l'altra sarebbe stata obbligata a scendere in campo al suo fianco.
Mussolini e il ministro degli Esteri Ciano accettarono sconsideratamente un impegno così gravoso, pur sapendo che l'Italia non era preparata militarmente a un conflitto europeo, fidandosi delle assicurazioni verbali di Hitler circa la sua intenzione di non scatenare la guerra prima di due o tre anni.
In realtà, nel maggio '39, lo Stato maggiore tedesco stava già preparando l'invasione della Polonia.

Il patto tedesco-sovietico

La principale incognita era costituita a questo punto dall'atteggiamento dell'Urss.
Un'adesione sovietica alla coalizione antitedesca avrebbe probabilmente bloccato i piani di Hitler. Ma le trattative fra l'Urss e i franco-inglesi furono compromesse da una serie di reciproche e non infondate diffidenze: i sovietici sospettavano che gli occidentali mirassero a indirizzare su di loro l'aggressività della Germania; gli occidentali attribuivano ai sovietici ambizioni egemoniche sull'Europa dell'Est; inoltre i polacchi – che temevano una presenza militare russa non meno di un'aggressione tedesca – non volevano concedere alle truppe dell'Urss il permesso di attraversare il proprio territorio in caso di attacco da parte della Germania.
I sovietici cominciarono allora a prestare attenzione alle offerte di intesa che stavano intanto giungendo da parte di Hitler.
Il 23 agosto 1939, i ministri degli Esteri tedesco e sovietico, Joachim von Ribbentrop e Vjaéeslav Molotov, firmavano a Mosca un patto di non aggressione fra i due paesi. L'annuncio dell'accordo fra due regimi ideologicamente contrapposti rappresentò uno dei più grandi colpi di scena nella storia della diplomazia di ogni tempo e fu accolto in tutto il mondo con un misto di stupore e di indignazione. Si trattò in realtà di un gesto di spregiudicato realismo, che assicurava ad ambo le parti considerevoli vantaggi.
L'Urss non solo allontanava momentaneamente la minaccia tedesca dai suoi confini, ma otteneva anche, mediante un protocollo segreto, un riconoscimento delle sue aspirazioni territoriali nei confronti degli Stati baltici, della Romania e della Polonia (di cui si prevedeva la spartizione).
Dal canto suo Hitler era costretto a modificare la sua strategia di fondo, rinviando lo scontro col nemico storico, la Russia sovietica; ma intanto poteva risolvere la questione polacca senza correre il rischio della guerra su due fronti.

Una guerra totale

Il 1° settembre 1939, le truppe tedesche attaccarono la Polonia.
Il 3 settembre Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Germania, mentre l'Italia, il giorno stesso dello scoppio delle ostilità, si affrettò a proclamare la sua «non belligeranza».
La seconda guerra mondiale cominciava così come una continuazione, o una replica, della prima. Molto simili erano la posta in gioco e le cause di fondo: il tentativo della Germania di affermare la propria egemonia sul continente europeo e la volontà di Gran Bretagna e Francia di impedire questa affermazione. Simile era anche la tendenza del conflitto ad allargarsi fuori dai confini europei. Ma questa volta l'estensione del teatro di guerra sarebbe stata ancora maggiore e ancora più rivoluzionarie le conseguenze sugli equilibri internazionali.
Rispetto al primo conflitto mondiale, il secondo vide inoltre accentuarsi il carattere totale della guerra: lo scontro ideologico fra i due schieramenti fu più aspro e radicale, e più ampia fu la mobilitazione dei cittadini con o senza uniforme. Nuove tecniche di guerra e nuove armi furono impiegate anche fuori dai campi di battaglia e le conseguenze sulle popolazioni civili furono più tragiche che in qualsiasi guerra del passato.

 

La guerra-lampo

La distruzione della Polonia

Le prime settimane di guerra furono sufficienti alla Germania per sbarazzarsi della Polonia e per offrire al mondo un'impressionante dimostrazione di efficienza bellica.
L'offensiva tedesca, accompagnata da una serie di micidiali bombardamenti aerei, ebbe facilmente ragione di un esercito antiquato e mal guidato. Fu questa la prima applicazione della guerra-lampo (in tedesco Blitzkrieg), una strategia che si basava sull'uso congiunto dell'aviazione e delle forze corazzate, affidando a queste ultime il peso principale dell'attacco.
L'impiego su vasta scala dei carri armati e delle autoblindo e il loro raggruppamento in speciali reparti motorizzati rendevano di nuovo possibile la guerra di movimento, e consentivano, in caso di successo, di impadronirsi in pochi giorni di territori molto vasti, tagliando fuori gli eserciti nemici dalle loro fonti di rifornimento.
Fu esattamente quanto accadde nella campagna di Polonia.
A metà settembre le armate del Reich già assediavano Varsavia che, semidistrutta dai bombardamenti, capitolò alla fine del mese.
Frattanto l'Urss, in base alle clausole segrete del patto Molotov-Ribbentrop, si impadroniva delle regioni orientali del paese, dopo aver invaso le tre piccole repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania) che persero cosi la loro indipendenza.
All'inizio di ottobre cessava ogni resistenza da parte dell'esercito polacco.
Tedeschi e sovietici imposero nei territori sotto il loro controllo uno spietato regime di occupazione: in questo periodo si consumò, per opera dei sovietici, il massacro di oltre 4000 ufficiali polacchi fatti prigionieri, i cui corpi, gettati in fosse comuni, sarebbero stati scoperti dai tedeschi, nel '43, nella foresta di Katyn, in territorio russo.
La Repubblica polacca cessava cosi di esistere dopo appena vent'anni di vita, senza aver ricevuto alcun aiuto concreto dai suoi alleati occidentali che, non volendo affrontare uno scontro in campo aperto, restarono sulla difensiva, aspettando l'attacco tedesco.

La guerra nel Nord Europa

Per i successivi sette mesi, la guerra a Occidente restò così congelata. L'Europa visse una fase di attesa che i francesi chiamarono drôle de guerre ('strana guerra' o 'guerra per finta' o 'guerra per scherzo') e che certo non giovò al morale delle truppe, mentre consentì ai tedeschi di riorganizzare le forze in vista dello scontro decisivo.
Mentre le armi tacevano sul fronte occidentale, il teatro di guerra si spostava inaspettatamente nell'Europa del Nord.
Questa volta fu l'Urss a prendere l'iniziativa, attaccando il 30 novembre la Finlandia, colpevole di aver rifiutato alcune rettifiche di confine. La campagna si rivelò però più difficile del previsto: i finlandesi resistettero per più di tre mesi infliggendo notevoli perdite agli aggressori. Nel marzo 1940 la Finlandia dovette cedere alle richieste sovietiche, conservando tuttavia la sua indipendenza.
A questo punto fu di nuovo la Germania a cogliere tutti di sorpresa e a prevenire ogni eventuale mossa anglo-francese nel Nord Europa lanciando, il 9 aprile 1940, un improvviso attacco alla Danimarca e alla Norvegia.
La Danimarca si arrese senza combattere.
La Norvegia oppose una certa resistenza, ma anche in questo caso l'azione tedesca si rivelò incontenibile, nonostante la relativa esiguità delle forze impiegate. Nella primavera del '40, Hitler controllava buona parte dell'Europa centro-settentrionale. I tempi erano maturi per scatenare l'attacco a Occidente.

 

La sconfitta della Francia e la resistenza della Gran Bretagna

L'attacco tedesco alla Francia ebbe inizio il 10 maggio 1940 e si risolse nel giro di poche settimane in un nuovo travolgente successo, tanto più clamoroso in quanto ottenuto a spese delle due maggiori potenze occidentali coalizzate.
L'esercito francese, in particolare, era il più consistente e il meglio armato d'Europa, disponendo di una forte aviazione e di ingenti forze corazzate.
A provocare la sconfitta furono gli errori dei comandi, ancora legati a una concezione statica della guerra e troppo fiduciosi nell'efficacia delle fortificazioni difensive che costituivano la famosa linea Maginot e che coprivano solo la frontiera franco-tedesca, lasciando scoperto il confine col Belgio, da dove in realtà veniva la minaccia più seria.

La battaglia di Francia

Infatti, come nel 1914, i tedeschi iniziarono l'attacco violando la neutralità dello Stato confinante. Questa volta, oltre al Belgio, furono invasi anche Olanda e Lussemburgo.
Fra il 12 e il 15 maggio, dopo aver attraversato velocemente la foresta delle Ardenne, in territorio belga (ritenuta invalicabile dai carri armati), i reparti corazzati tedeschi sfondarono nei pressi di Sedan, ossia nel punto centrale della linea difensiva francese, le cui forze più consistenti erano in parte impegnate nella difesa del Belgio, in parte dislocate a sud, a presidiare l'inutile linea Maginot.
Le truppe tedesche dilagarono in pianura e puntarono verso il canale della Manica, chiudendo in una sacca molti reparti francesi e belgi e l'intero corpo di spedizione inglese, appena sbarcato sul continente.
Solo un momentaneo rallentamento dell'offensiva consentì al grosso delle forze britanniche, assieme a circa 100 mila fra belgi e francesi, un difficile reimbarco nel porto di Dunkerque (29 maggio-4 giugno). La sosta tedesca era dovuta in parte all'esigenza di riorganizzare le forze in vista dell'attacco definitivo, in parte forse a un calcolo politico di Hitler, che voleva lasciarsi aperta la strada di un accordo con la Gran Bretagna.
Per gli inglesi la ritirata rappresentò comunque la possibilità di continuare la lotta. Ma per la Francia, fiaccata nel morale oltre che nell'efficienza bellica, la sconfitta era ormai irreparabile.
Il 14 giugno i tedeschi entravano a Parigi, mentre lunghe colonne di profughi si riversavano verso il Sud.

L'armistizio

Assieme alle forze armate, cedeva anche la classe politica: il governo presieduto da Paul Reynaud, fautore della resistenza a oltranza, fu costretto a dimettersi. Divenne presidente del Consiglio l'ottantaquattrenne maresciallo Philippe Pétain (comandante dell'esercito francese nell'ultima fase della Grande Guerra), che aprì immediatamente le trattative per l'armistizio.
Invano il generale Charles De Gaulle, sottosegretario alla difesa nel governo Reynaud, lanciò da Londra, il 18 giugno, un appello ai francesi per incitarli a continuare a combattere a fianco dei loro alleati.
L'armistizio fu firmato il 22 giugno 1940 nella stessa località (il villaggio di Rethondes) e nello stesso vagone ferroviario che nel novembre '18 avevano visto la delegazione tedesca piegarsi ai vincitori di allora.

L'attacco alla Francia

In base all'armistizio il governo, che stabilì la sua sede nella cittadina termale di Vichy, conservava la sua sovranità su una zona corrispondente grosso modo alla metà centromeridionale del paese, oltre che sulle colonie. Il resto della Francia restava sotto l'occupazione tedesca.

Il regime di Vichy

Il crollo militare della Francia e l'avvento di Pétain segnarono anche la fine della Terza Repubblica, nata settant'anni prima da un'altra catastrofe bellica (quella subita da Napoleone III contro i prussiani). Il 9 luglio l'Assemblea nazionale, riunita a Vichy, si spogliava dei suoi poteri, affidando al presidente del Consiglio il compito di promulgare una nuova Costituzione.
Come molti francesi, Pétain attribuiva la responsabilità della sconfitta non agli errori dei comandi militari, ma alla classe dirigente repubblicana e al sistema democratico-parlamentare, considerato troppo permissivo e dunque causa di rilassamento morale.
La «rivoluzione nazionale» da lui promossa – col diffuso consenso di un'opinione pubblica passiva e smarrita, desiderosa soprattutto di finirla con la guerra – si risolse così in un ritorno alle tradizioni dell'ancien régime: culto dell'autorità, difesa della religione e della famiglia, esaltazione retorica della piccola proprietà e del lavoro nei campi, organizzazione sociale di stampo corporativo.
Rotto ogni rapporto con la Gran Bretagna, il regime di Vichy vide progressivamente restringersi i suoi margini di autonomia e si ridusse al rango di Stato-satellite della Germania hitleriana.

Churchill

Dal giugno 1940 la Gran Bretagna era rimasta sola a combattere contro la Germania e i suoi alleati.
A questo punto Hitler sarebbe stato disposto a trattare, a patto di vedersi riconosciute le sue conquiste. Ma ogni ipotesi di tregua trovò un ostacolo insuperabile nella volontà di resistenza della classe dirigente e del popolo britannico.
Interprete e ispiratore di questa linea intransigente fu il primo ministro conservatore Winston Churchill, da sempre duro oppositore della politica di appeasement.
Chiamato nel maggio del 1940, dopo le dimissioni di Chamberlain, a guidare un nuovo governo di coalizione nazionale, Churchill enunciò subito il suo programma in un celebre discorso: una sola politica, «la guerra per mare, per terra e nell'aria, con tutte le nostre energie», e un solo obiettivo, «la vittoria a tutti i costi [ ... ] per quanto lunga e dura possa essere la strada». Ai suoi concittadini non aveva nulla da offrire «se non sangue, travagli, lacrime e sudore»

La battaglia d'Inghilterra

I sacrifici annunciati da Churchill divennero ben presto una dura realtà.
All'inizio di luglio, Hitler dava il via al progetto per l'invasione della Gran Bretagna (l'operazione «Leone marino»).
Premessa essenziale per la riuscita del piano era il dominio dell'aria, che avrebbe consentito ai tedeschi di compensare la superiorità navale della Gran Bretagna. Quella scatenata dalla Germania nell'estate del '40 fu la prima grande battaglia aerea della storia. Per circa tre mesi l'aviazione tedesca (Luftwaffe) effettuò continue incursioni in territorio britannico, prima contro obiettivi militari, poi contro i principali centri industriali, compresa Londra, che fu ripetutamente bombardata.
Gli attacchi furono però efficacemente contrastati dalla contraerea e dagli aerei da caccia della Royal Air Force (Raf), che si avvaleva fra l'altro di un ottimo sistema di informazione e di avvistamento radar.
All'inizio dell'autunno apparve chiaro che, nonostante le perdite umane e le distruzioni materiali subite, la Gran Bretagna non era stata piegata e l'operazione «Leone marino» fu rinviata a tempo indefinito.
La battaglia d'Inghilterra, tuttavia, aveva dato una tragica dimostrazione delle potenzialità distruttive del mezzo aereo: i bombardamenti sulle città, le terrificanti incursioni notturne precedute dal suono delle sirene e dalla fuga dei civili verso i rifugi antiaerei, gli orrori prodotti dalle bombe incendiarie sarebbero diventati un elemento ricorrente e un fattore decisivo nelle successive fasi della guerra.
La tenace resistenza britannica aveva ottenuto comunque un successo determinante, soprattutto dal punto di vista psicologico, imponendo alla Germania la prima battuta d'arresto dall'inizio del conflitto.

 

L'Italia e la "guerra parallela"

Dalla «non belligeranza» alla dichiarazione di guerra

Nell'estate del 1939 l'Italia fu colta di sorpresa dal precipitare della crisi internazionale. E, allo scoppio della guerra, non poté far altro che annunciare la propria «non belligeranza» (un'espressione usata per evitare il termine "neutralità", poco consono alla retorica fascista), giustificando l'inadempienza agli impegni del «patto d'acciaio» con l'impreparazione ad affrontare un conflitto di lunga durata.
In effetti l'equipaggiamento delle forze armate, già scarso e antiquato, era stato ulteriormente impoverito dalle imprese in Etiopia e in Spagna. Insufficienti erano anche le scorte di materie prime, per le quali l'Italia dipendeva dalle importazioni estere.
Ma nel maggio 1940, di fronte al crollo della Francia, Mussolini si convinse che l'esito del conflitto era ormai deciso e vinse le resistenze di quei settori della classe dirigente (il re, i gerarchi dell'ala "moderata" del fascismo, gli industriali, gli stessi vertici militari) che fin allora si erano mostrati meno favorevoli all'entrata in guerra.
Anche l'opinione pubblica, prima avversa all'alleanza con la Germania, cambiò orientamento di fronte alla prospettiva di una vittoria da ottenersi con pochissimo sforzo (lo stesso Mussolini, in privato, parlò di «qualche migliaio di morti da gettare sul tavolo della pace»).

I primi fallimenti

Il 10 giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, il duce annunciò a una folla plaudente l'entrata in guerra dell'Italia contro Francia e Gran Bretagna.
L'offensiva sulle Alpi contro la Francia, sferrata il 21 giugno in condizioni di netta superiorità numerica contro un avversario praticamente già sconfitto, si risolse però in una disastrosa prova di inefficienza.
L'armistizio subito richiesto dalla Francia e firmato il 24 giugno prevedeva solo qualche minima rettifica di confine, oltre alla smilitarizzazione di una fascia di territorio francese profonda 50 km.
Non diversamente andarono le cose in Africa settentrionale, dove l'attacco lanciato in settembre dal territorio libico contro le forze britanniche in Egitto dovette arrestarsi per l'insufficienza dei mezzi corazzati.
Mussolini, convinto che l'Italia dovesse combattere una sua guerra, parallela e non subalterna a quella tedesca, rifiutò un'offerta d'aiuto da parte della Germania, preoccupato di sottrarsi alla tutela del più potente alleato. Si trattava però di una guerra che le forze armate italiane non erano in grado di affrontare, come gli avvenimenti dei mesi successivi avrebbero ampiamente dimostrato.

L'aggressione alla Grecia

Nell'ottobre 1940 l'esercito italiano, muovendo dall'Albania, attaccava improvvisamente la Grecia.
Questa offensiva, decisa senza adeguata preparazione e senza alcuna giustificazione plausibile, si scontrò con una resistenza molto più dura del previsto. Alla fine di novembre i greci passarono al contrattacco e gli italiani furono costretti a ripiegare in territorio albanese.
L'esito fallimentare della campagna suscitò nel paese sconcerto e preoccupazione. Le notizie che filtravano dal fronte greco – e parlavano di disorganizzazione, di carenza di equipaggiamento invernale, di fenomeni di sbandamento fra le truppe – diedero un primo grave colpo all'immagine guerriera del regime. Tanto più che quelle notizie si accompagnavano all'eco dei contemporanei insuccessi in Africa.

Il fronte africano

Nel dicembre '40 i britannici passarono al contrattacco e, grazie anche alla superiorità dei loro carri armati, in poche settimane conquistarono l'intera Cirenaica (ossia la parte orientale della Libia) infliggendo agli italiani la perdita di 140 mila uomini fra morti, feriti e prigionieri.
Per evitare la definitiva cacciata dalla Libia, Mussolini fu costretto questa volta ad accettare l'aiuto della Germania.
Nel marzo 1941, con l'arrivo dei primi reparti tedeschi, equipaggiati con moderni mezzi corazzati e comandati da un brillante stratega della guerra di movimento, il generale Erwin Rommel, le truppe dell'Asse cominciavano una lunga controffensiva che, già in aprile, portò alla riconquista della Cirenaica.

La guerra parallela

Ma intanto l'Africa orientale italiana (Etiopia, Somalia, Eritrea), difficilmente difendibile per la sua posizione geografica, stava cadendo nelle mani degli inglesi: il 6 aprile 1941 fu occupata Addis Abeba, dove pochi giorni dopo rientrava trionfalmente il negus.
Fu un altro durissimo colpo per il prestigio dell'Italia, ormai costretta a rinunciare a ogni sogno di "guerra parallela" e ridotta ovunque a recitare il ruolo dell'alleato subalterno.

L'intervento tedesco nei Balcani

Anche nei Balcani, come in Nord Africa, il fallimento delle iniziative italiane fini con l'aprire la strada all'intervento in forze della Germania.
Nell'aprile 1941, la Jugoslavia e la Grecia, attaccate simultaneamente da truppe tedesche e italiane, furono facilmente travolte, mentre i britannici – che in marzo erano sbarcati in territorio ellenico – erano costretti a ritirarsi, abbandonando per la seconda volta il continente europeo.
Anche l'Italia, da questo momento, si trovò a svolgere assieme alla Germania il ruolo di potenza occupante nei Balcani, vedendosi assegnate una parte della Slovenia (che fu annessa al Regno d'Italia), ampie zone della Croazia, della Dalmazia e del Montenegro e gran parte del territorio greco.
Pur se meno feroce di quella tedesca, l'occupazione italiana fu segnata da violenze e rappresaglie che si sovrapposero ai conflitti etnici e politici di un paese già profondamente diviso.
Nella primavera del '41, restava aperto il solo fronte nordafricano (dove gli inglesi erano avvantaggiati dalla superiorità navale nel Mediterraneo, oltre che dall'ampio retroterra di cui disponevano in Africa e in Medio Oriente). Ma Hitler non aveva più rivali in Europa. E poteva concentrare il grosso delle sue forze verso l'obiettivo più ambito: la conquista dello «spazio vitale» a est ai danni dell'Urss.

 

1941: l'entrata in guerra di Urss e Stati Uniti

L'attacco tedesco all'Unione Sovietica

Che l'Urss costituisse da sempre il principale obiettivo delle mire espansionistiche di Hitler non era un mistero per nessuno.
Stalin si illuse tuttavia che Hitler non avrebbe mai aggredito la Russia prima di aver chiuso la partita con la Gran Bretagna. Così, quando il 22 giugno 1941 l'offensiva tedesca – denominata in codice operazione Barbarossa – scattò su un fronte lungo 1600 km, dal Baltico al Mar Nero, i sovietici furono colti impreparati (anche perché le "grandi purghe" del '37-38 avevano privato l'Armata rossa dei suoi migliori ufficiali).
In due settimane le armate del Reich penetrarono in territorio sovietico per centinaia di chilometri.
L'offensiva – cui prese parte anche un corpo di spedizione italiano inviato in tutta fretta da Mussolini, ansioso di inserirsi nella crociata antibolscevica – continuò per tutta l'estate travolgendo ogni resistenza. Ma l'attacco decisivo verso Mosca fu sferrato troppo tardi, all'inizio di ottobre, e fu bloccato a poche decine di chilometri dalla capitale dal sopraggiungere del maltempo, che rese impraticabile la maggior parte delle strade e rallentò il movimento degli automezzi.

La resistenza dell'Urss

In dicembre i sovietici lanciavano la loro prima controffensiva, allontanando la minaccia da Mosca. All'inizio dell'inverno, i tedeschi erano ancora padroni di territori vastissimi e importantissimi dal punto di vista economico (l'Ucraina, la Bielorussia, le regioni baltiche).
Ma Hitler aveva mancato l'obiettivo di mettere fuori causa l'Urss ed era costretto a tenere il grosso del suo esercito immobilizzato nelle pianure russe, alle prese con un terribile inverno e con una resistenza sempre più accanita.
Guidata personalmente da Stalin – che fece appello al sentimento patriottico del popolo russo – la guerra difensiva dei sovietici risultò infatti più efficace del previsto. Attingendo a un serbatoio umano che sembrava inesauribile e riorganizzando la produzione industriale nelle regioni a est del Volga, l'Urss riuscì infatti a compensare le spaventose perdite subite (3 milioni di uomini, 20 mila carri armati e 15 mila aerei nei primi tre mesi di guerra).
Anche la guerra meccanizzata si trasformava così in una guerra d'usura, in cui l'elemento decisivo era costituito dalla capacità di compensare rapidamente il logorio degli uomini e dei materiali. In una guerra del genere – così com'era accaduto nel primo conflitto mondiale – la Germania era destinata a perdere il suo vantaggio iniziale, dovuto alla superiorità tecnica e strategica. Tanto più nel momento in cui la massima potenza industriale del mondo si schierava a fianco di Gran Bretagna e Urss.

Gli aiuti americani e la Carta atlantica

Allo scoppio del conflitto, gli Stati Uniti avevano ribadito la loro linea isolazionista di non intervento negli affari europei. Ma, una volta rieletto alla presidenza per la terza volta nel novembre 1940, Roosevelt si impegnò in una politica di aperto sostegno economico alla Gran Bretagna, rimasta sola a combattere contro la Germania.
Nel marzo 1941 fu approvata una legge, detta «degli affitti e prestiti», che consentiva la fornitura di materiale bellico a condizioni molto favorevoli a quegli Stati la cui difesa fosse considerata vitale per gli interessi americani.
In maggio gli Stati Uniti ruppero le relazioni diplomatiche con Germania e Italia.
In giugno la marina militare Usa fu incaricata di scortare fino all'Islanda i convogli che trasportavano aiuti a nazioni alleate e autorizzata a rispondere a eventuali attacchi. Questa politica – che tendeva a fare degli Stati Uniti l'«arsenale delle democrazie» – ebbe il suo suggello ufficiale nell'incontro fra Roosevelt e Churchill avvenuto il 14 agosto 1941 su una nave da guerra al largo dell'isola di Terranova.
Frutto dell'incontro fu la cosiddetta Carta atlantica: un documento in otto punti in cui i due statisti ribadivano la condanna dei regimi fascisti e fissavano le linee di un nuovo ordine democratico da costruire a guerra finita:
 - rispetto dei principi di sovranità popolare e di autodecisione dei popoli,
 - libertà dei commerci,
 - libertà dei mari,
 - cooperazione internazionale,
 - rinuncia all'uso della forza nei rapporti fra gli Stati.
Il coinvolgimento degli Usa in quella che sempre più stava diventando una guerra antifascista sembrava già a questo punto inevitabile.

La guerra nei Pacifico

A trascinare gli Stati Uniti nel conflitto fu però l'aggressione improvvisa subita nel Pacifico da parte del Giappone: la maggiore potenza dell'emisfero orientale e il principale alleato asiatico di Germania e Italia, cui era legato, dal settembre 1940, da un patto di alleanza detto patto tripartito.
Già impegnato dal '37 nella guerra contro la Cina, il Giappone aveva profittato del conflitto europeo per allargare le sue aspirazioni espansionistiche a tutti i territori del Sud-est asiatico. Quando, nel luglio 1941, i giapponesi invasero l'Indocina francese, Stati Uniti e Gran Bretagna reagirono decretando il blocco delle esportazioni verso il Giappone. L'Impero asiatico si trovò a questo punto di fronte a una scelta: piegarsi alle richieste delle potenze occidentali (che esigevano il ritiro delle truppe giapponesi dall'Indocina e dalla Cina) o scatenare la guerra per conquistare nuovi territori e procurarsi così le materie prime necessarie alla sua politica di grande potenza.
Il governo giapponese, dominato dalle correnti belliciste, scelse la strada della guerra.
Il 7 dicembre 1941, l'aviazione giapponese attaccò, senza previa dichiarazione di guerra, la flotta degli Stati Uniti ancorata a Pearl Harbor, nelle Hawaii, e la distrusse in buona parte.
Nei mesi successivi, profittando della netta superiorità navale così conquistata nel Pacifico, i giapponesi raggiunsero di slancio tutti gli obiettivi che si erano prefissati: nel maggio '42 controllavano le Filippine (strappate agli Usa), la Malesia e la Birmania britanniche, l'Indonesia olandese ed erano in grado di minacciare l'Australia e la stessa India, costringendo la Gran Bretagna a distogliere forze preziose dal Medio Oriente.

Il patto delle Nazioni Unite

Pochi giorni dopo l'attacco a Pearl Harbor, anche Germania e Italia dichiaravano guerra agli Stati Uniti.
Il conflitto diventava a questo punto veramente mondiale. Gli anglo-americani e i sovietici, trovatisi a combattere dalla stessa parte più per scelta altrui che per propria volontà, si posero subito il problema di elaborare una strategia comune per battere le potenze fasciste. Lo fecero per la prima volta nella conferenza che si tenne a Washíngton fra il dicembre 1941 e il gennaio 1942, nella quale tutte le 26 nazioni in guerra contro Germania, Italia e Giappone (oltre ai "tre grandi" – Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna – c'erano anche i paesi del Commonwealth e numerosi rappresentanti di Stati occupati dai tedeschi) sottoscrissero il patto detto «delle Nazioni Unite»: i contraenti – gli alleati, come da allora sarebbero stati definiti – si impegnavano a tener fede ai principi della Carta atlantica, a combattere le potenze fasciste, a non concludere armistizi o paci separate.

 

L'ordine dei dominatori. Resistenza e collaborazionismo

Il nuovo ordine mondiale

Nella primavera-estate del 1942 le potenze dell'Asse (così veniva anche chiamata l'alleanza fra gli Stati aderenti al patto tripartito Roma-Berlino-Tokio) raggiunsero la loro massima espansione territoriale.
Il Giappone dominava su tutto il Sud-est asiatico, su vaste zone della Cina e su molte isole del Pacifico. In Europa i tedeschi controllavano, direttamente o indirettamente, un territorio di circa 6 milioni di km2 con oltre 350 milioni di abitanti. Attorno alla Germania e all'Italia ruotavano gli alleati "minori": Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Croazia e Francia di Vichy. Spagna, Turchia e Svezia, formalmente neutrali, erano di fatto incluse nella sfera politico-economica dell'Asse. All'interno di questo blocco l'Italia aveva un ruolo marginale. Il cuore pulsante del sistema era infatti la Germania, la cui macchina bellica lavorava a pieno ritmo, grazie anche al lavoro obbligatorio dei prigionieri di guerra e degli operai prelevati dai paesi occupati.
Sia la Germania sia il Giappone cercarono di costruire nelle zone sotto il loro controllo un «nuovo ordine» basato sulla supremazia della nazione eletta. Mentre però il Giappone si appoggiò ai movimenti indipendentisti dei paesi soggetti al dominio coloniale e fece propria, strumentalmente, la causa della lotta contro l'imperialismo europeo, la Germania non concesse nulla alle aspirazioni dei popoli ad essa soggetti. Per le popolazioni considerate razzialmente inferiori, i progetti hitleriani prevedevano solo la totale subordinazione, se non addirittura lo sterminio (era questo, come vedremo fra poco, il destino riservato agli ebrei).

Sfruttamento e terrore

Un trattamento particolarmente duro e inumano fu riservato ai popoli slavi: nei piani di Hitler tutta l'Europa orientale doveva diventare una colonia agricola del Reich, ogni traccia di industrializzazione e di urbanizzazione doveva essere cancellata, ogni forma di istruzione superiore bandita. Le élite dirigenti e gli intellettuali (a cominciare dai quadri del Partito comunista in Russia) andavano eliminati fisicamente.
Circa 6 milioni di civili sovietici e 2 milioni e mezzo di polacchi, senza contare gli ebrei, morirono negli anni dell'occupazione tedesca. Dei quasi 6 milioni di prigionieri di guerra russi, più della metà non fece mai ritorno in patria.

Le vittorie dell'Asse fino al 1942

Il sistema di sfruttamento, di terrore e di sterminio pianificato e costruito dai tedeschi nell'Europa occupata portò alla Germania consistenti vantaggi immediati: una riserva inesauribile di forza-lavoro gratuita, un flusso continuo di materie prime, un enorme prelievo di ricchezza e di beni di consumo che permise ai cittadini tedeschi di mantenere, almeno fino al '43, un livello di vita molto più elevato di quello consentito agli altri popoli europei.
Questo sistema di dominio, ispirato a un cieco fanatismo razziale, costrinse però i tedeschi a mantenere nei territori occupati forti contingenti di truppe; suscitò nelle popolazioni soggette moti di ribellione che spesso sarebbero sfociati in resistenza armata; sollevò infine contro la Germania nazista un'ondata di odio che avrebbe finito per rivolgersi contro l'intero popolo tedesco.

I movimenti di resistenza

Episodi di resistenza all'occupazione nazista – in forme che andavano dalla non collaborazione alla diffusione di materiale propagandistico, alla trasmissione di informazioni agli alleati, al sabotaggio – si manifestarono già nella prima fase della guerra in tutti i paesi invasi dai tedeschi.
Protagonisti di questi episodi erano all'inizio piccoli gruppi, legati per lo più ai governi in esilio o ai movimenti di liberazione (come la Francia libera di De Gaulle) che avevano trovato ospitalità in Gran Bretagna.
Le file della Resistenza si ingrossarono dopo l'attacco tedesco all'Urss, che portò i comunisti di tutta Europa a impegnarsi attivamente nella lotta armata contro il nazismo.
Non sempre le diverse forze che confluivano nella Resistenza riuscirono a stabilire una linea d'azione comune. I comunisti, nonostante avessero adottato una strategia che subordinava ogni obiettivo rivoluzionario alla lotta di liberazione nazionale (in omaggio a questa strategia Stalin, nel maggio 1943, decise lo scioglimento del Comintern), erano guardati con sospetto dagli anglo-americani e dalle componenti moderate del fronte antifascista.
Accordi unitari furono ugualmente raggiunti in Francia e in Italia. Ma la collaborazione si rivelò impossibile in quei paesi dell'Europa orientale e balcanica dove più fondato era il timore che i partiti comunisti fungessero da strumento per i piani egemonici dell'Urss. In Jugoslavia in particolare – il paese in cui il movimento di resistenza assunse più che altrove le dimensioni di una guerra di popolo – l'esercito partigiano guidato dal comunista Josip Broz (più noto col nome di battaglia di Tito) si scontrò con i gruppi nazionalistici e monarchici che pure si opponevano ai tedeschi.

Il collaborazionismo

La resistenza al nazismo rappresentò solo una faccia della realtà dell'Europa occupata.
In tutti i paesi invasi dalla Germania o da essa controllati, vi fu una parte più o meno consistente della popolazione che, per opportunismo o per convinzione, accettò di collaborare con i dominatori. Le forze di occupazione tedesche trovarono ovunque alleati nella lotta contro la Resistenza, volontari pronti ad arruolarsi nelle loro file (decine di migliaia di giovani di diversi paesi furono inquadrati nei reparti combattenti delle SS), leader disposti a governare in nome e alle dipendenze degli occupanti. In alcuni paesi i tedeschi si servirono di esponenti dei fascismi locali. In altri trovarono il sostegno di movimenti separatisti (gli slovacchi, gli ustascia croati) già in lotta contro gli Stati cui appartenevano o di esponenti della classe dirigente al potere prima della guerra.
Il caso più importante in questo senso fu quello della Francia di Vichy, la cui sottomissione ai tedeschi si accentuò nella primavera del '42, quando Pétain affidò il governo a Pierre Laval, già primo ministro negli anni '30.
La sua accondiscendenza verso la Germania non servì a evitare che, dopo lo sbarco alleato in Nord Africa alla fine del '42, per prevenire un attacco angloamericano nella Francia meridionale, i tedeschi occupassero anche la Francia di Vichy ponendo fine a ogni finzione di autonomia.

 

La Shoah

Un progetto di sterminio

Ancor prima che il conflitto mondiale avesse inizio, in un discorso tenuto il 30 gennaio 1939, Hitler aveva ribadito la necessità di liberare definitivamente la Germania dalla presenza degli ebrei e aveva anche profetizzato «la distruzione della razza ebraica in Europa», come punizione per le presunte responsabilità della «finanza internazionale ebraica» nello scoppio di una nuova guerra.
La minaccia hitleriana divenne realtà già nelle prime fasi del conflitto. Prima i massacri indiscriminati, ma ancora sporadici, nelle comunità ebraiche in Polonia, dove vivevano oltre 3 milioni di ebrei, progressivamente rinchiusi nei ghetti istituiti dai nazisti. Quindi, dopo l'invasione dell'Urss nell'estate 1941, cominciò a essere praticata in modo sistematico l'eliminazione fisica degli ebrei nei territori via via occupati. Cominciava così quell'operazione di sterminio, di genocidio pianificato che, con un termine ebraico, sarebbe stata definita Shoah ('catastrofe', 'cataclisma').

Dalle fucilazioni alle camere a gas

Inizialmente furono reparti speciali di SS (gli Einsatzgruppen: 'gruppi operativi'), con l'ausilio di militari dell'esercito regolare e di collaborazionisti (prevalentemente dei paesi baltici), a eseguire fucilazioni di massa, come quella del settembre del 1941 quando nella fossa di Babi Yar, in Ucraina, furono uccisi oltre 33 mila ebrei di Kiev. Ma questa procedura richiedeva tempi lunghi, era troppo visibile e inadatta ai grandi numeri: in più poteva provocare qualche resistenza, o qualche cedimento psicologico, tra i militari.
Dall'inizio di dicembre 1941 a Chefmno, in Polonia, erano state impiegate camere a gas mobili su autocarri diesel in cui gli ebrei venivano uccisi dall'ossido di carbonio dei motori, mentre era iniziata a Belzec la costruzione del primo campo (in tedesco Lager) di sterminio, cui seguirono quelli di Treblinka, Majdanek e il più noto, quello di Auschwitz-Birkenau, non lontano da Cracovia. In questi campi vennero avviati non solo gli ebrei polacchi, ucraini, russi ma anche quelli prelevati negli altri paesi occupati dai nazisti.
Deportare milioni di ebrei costituiva un grosso problema organizzativo che si provò a risolvere in una riunione dei maggiori responsabili della politica antiebraica tenuta a Wannsee, un sobborgo residenziale di Berlino, nel gennaio 1942.
Per gli ebrei tedeschi si doveva passare dall'incentivo all'emigrazione alla deportazione verso est. Egualmente verso est sarebbero stati evacuati gli ebrei rastrellati nel resto d'Europa (il cui totale ammontava sulla carta a 11 milioni). Il verbale di quella riunione, giunto fino a noi, era volutamente reticente per quanto riguardava il destino degli ebrei: era chiaro però che i più deboli sarebbero stati vittime della «selezione naturale» durante i lavori forzati a cui sarebbero stati destinati, mentre gli elementi più validi sarebbero stati «opportunamente trattati» (ossia eliminati quando non fossero più stati in grado di lavorare) per evitare che ricostituissero «la cellula germinale di una rinascita ebraica».

I numeri dello sterminio

Soprattutto ad Auschwitz cominciarono a giungere, dopo lunghi viaggi nei carri bestiame piombati, i deportati provenienti da tutta Europa: all'arrivo veniva compiuta una selezione che divideva gli abili al lavoro dai più deboli, dagli anziani, dai bambini che venivano immediatamente portati alle camere a gas alimentate dai fumi sprigionati da un potente insetticida a base di acido cianidrico (lo Zyklon B). I corpi venivano poi bruciati nei forni crematori o seppelliti in grandi fosse comuni.
Ad Auschwitz le vittime furono 1,5 milioni, a Treblinka 900 mila. Nel complesso gli ebrei sterminati – uccisi direttamente o morti di stenti – furono poco meno di 6 milioni. Il maggiore contributo di vittime fu costituito da 3 milioni di polacchi (il 90% del totale), 900 mila ucraini, 450 mila ungheresi, 300 mila romeni per ricordare solo gli appartenenti alle maggiori comunità dell'Europa orientale. Ma anche nei paesi occidentali le vittime furono numerose in rapporto alla loro più ridotta presenza: i 54 mila greci e i 105 mila olandesi rappresentavano più del 70% delle loro comunità di appartenenza. 6800 furono i deportati dall'Italia, tra i quali solo 837 i sopravvissuti.
Alle vittime ebree si devono aggiungere anche gli zingari, cinti e rom, anch'essi oggetto dei pregiudizi razziali nazisti, con un numero di uccisi che oscilla, secondo le stime, tra un minimo di 220 mila e un massimo di 500 mila. Nei campi affluirono anche molti prigionieri sovietici, in particolare i commissari politici dell'Armata rossa, e numerosi militari e civili polacchi.

L'ossessione ideologica

Questa gigantesca operazione di sterminio sottrasse truppe e risorse all'impegno bellico tedesco anche se moltissimi ebrei, come del resto i prigionieri di guerra, vennero impiegati nelle attività produttive tedesche, trovando egualmente la morte per malattia o denutrizione.
L'ossessione ideologica antiebraica non si spense nemmeno negli ultimi mesi di guerra, e con essa non si fermò la macchina dello sterminio, costringendo i superstiti delle eliminazioni a lunghe marce nel gelo dell'inverno 1945 per abbandonare i Lager minacciati dall'avanzata sovietica, e anche per occultare l'infamia che vi era stata perpetrata.
Auschwitz col tempo è diventata l'emblema del male assoluto, un luogo e un evento su cui misurare quanto la barbarie possa allignare nei popoli civili e possa alimentarsi della modernità tecnologica del mondo industrializzato. La condanna di questi orrori sarebbe diventata nel tempo un principio basilare della coscienza occidentale e avrebbe dato impulso allo sviluppo di una giustizia penale internazionale capace di colpire i responsabili dei "crimini contro l'umanità".

 

Le battaglie decisive

La guerra sui mari

Fra il 1942 e il 1943, l'avanzata delle potenze dell'Asse si arrestò e la guerra subì una svolta decisiva su tutti i fronti.
I primi segni di un'inversione di tendenza si ebbero nel Pacifico, dove la spinta offensiva dei giapponesi fu fermata dagli americani – nel maggio-giugno '42 – nelle due battaglie del Mar dei Coralli, di fronte alle coste della Nuova Guinea, e delle isole Midway, a ovest delle Hawaii: le prime battaglie navali in cui le flotte si affrontarono senza vedersi, a decine di chilometri l'una dall'altra, bombardandosi a vicenda con gli apparecchi che decollavano dalle portaerei.
Dopo che, nel febbraio '43, le truppe da sbarco americane (i marines) ebbero conquistato l'isola di Guadalcanal, i giapponesi rinunciarono alle azioni offensive, limitandosi a difendere le posizioni raggiunte all'inizio della guerra. Da allora, nonostante la priorità accordata al fronte europeo, gli Stati Uniti iniziarono una lenta riconquista delle posizioni perdute.

La guerra nel Pacifico '41-'45

Dalla fine del '42, i rapporti di forza cambiarono anche nell'Atlantico, dove i tedeschi avevano condotto fin allora un'efficace guerra sottomarina contro i convogli che trasportavano armi e approvvigionamenti dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna.
Gli alleati riuscirono a limitare notevolmente le perdite, grazie a una serie di innovazioni tecniche (radar più perfezionati, bombe di profondità, razzi antisommergibile) e grazie a una migliore organizzazione dei trasporti via mare.

El Alamein

A segnare la svolta furono però due grandi battaglie di terra combattute, quasi contemporaneamente, in Egitto e in Russia.
Nell'estate del 1943, in Nord Africa, le truppe italo-tedesche comandate dal generale Rommel, avanzando lungo la costa mediterranea, erano arrivate a circa cento chilometri da Alessan

dria, minacciando la presenza britannica in Egitto e, in prospettiva, in tutto il Medio Oriente.
Fra luglio e ottobre, nei pressi della cittadina costiera di El Alamein, i due eserciti si affrontarono in una serie di sanguinosi scontri.
A fine ottobre il generale Montgomery, comandante delle forze britanniche, poteva lanciare la controffensiva disponendo di una notevole superiorità in uomini e mezzi. Ai primi di novembre gli italo-tedeschi cominciavano una lunga ritirata che li avrebbe portati, in tre mesi, a ripercorrere a ritroso tutto il litorale libico fino alla Tunisia.

Stalingrado

Ancora più decisivo fu lo scontro tra tedeschi e sovietici che ebbe per centro la città industriale di Stalingrado (cosi battezzata dal 1925 in omaggio al dittatore), sul Volga, punto nodale della difesa russa nel settore sud-est.
Nell'agosto 1942, le armate tedesche (rinforzate da quelle dei paesi alleati, fra cui l'Italia) misero sotto assedio la città che, se conquistata, avrebbe aperto agli invasori la strada del bacino del Don, con le sue risorse minerarie, e del Caucaso, con i suoi pozzi petroliferi.
In novembre, dopo mesi di durissimi combattimenti, strada per strada, casa per casa, i sovietici contrattaccarono efficacemente sui fianchi dello schieramento nemico, e chiusero i tedeschi in una morsa.
Anziché autorizzare la ritirata, Hitler ordinò la resistenza a oltranza, sacrificando cosi un'intera armata che, all'inizio di febbraio, fu costretta ad arrendersi.
Per i tedeschi questo fu il più grave rovescio subito dall'inizio della guerra. Per i sovietici e per gli antifascisti di tutto il mondo, Stalingrado divenne immediatamente un simbolo di riscossa, il segno più evidente della svolta intervenuta nel corso del conflitto.
La controffensiva sovietica travolse anche il corpo di spedizione italiano, schierato nella regione del Don. Male armate e peggio equipaggiate, quasi sprovviste di mezzi motorizzati, le truppe italiane furono costrette a una tragica ritirata nell'inverno russo, durante la quale persero circa la metà dei loro effettivi (oltre 100 mila uomini su poco più di 200 mila).

Lo sbarco in Nord Africa e la conferenza di Casablanca

Frattanto, sempre nel novembre '42, un contingente anglo-americano era sbarcato in Algeria e in Marocco, stringendo le forze dell'Asse in una tenaglia (gli ultimi reparti si sarebbero arresi nel maggio del 1943).

La guerra in Nord Africa

Si apriva ora per gli alleati il problema dell'attacco alla "fortezza Europa". Su questo punto, però, la strategia di Churchill, che intendeva chiudere prima di tutto la partita in Africa per poi intervenire in Europa meridionale, si scontrava con le richieste di Stalin, che avrebbe preferito uno sbarco immediato nell'Europa del Nord per alleggerire la pressione tedesca sull'Urss.
Prevalse, in questa fase, il punto di vista inglese. Nella conferenza che si tenne a Casablanca, in Marocco, nel gennaio 1943, inglesi e americani decisero che per prima sarebbe stata attaccata l'Italia, considerata l'obiettivo più facile sia per motivi logistici (la vicinanza della Sicilia alle coste della Tunisia), sia per ragioni politico-militari (lo stato di crisi in cui versavano le forze armate italiane e il regime fascista).
Nella stessa conferenza, con una decisione di portata storica che serviva soprattutto a rassicurare i sovietici sulla serietà dell'impegno alleato, gli anglo-americani si accordarono sul principio della resa incondizionata da imporre agli avversari: la guerra sarebbe continuata fino alla vittoria totale, senza patteggiamenti di sorta con la Germania o con i suoi alleati.

 

Dallo sbarco in Sicilia allo sbarco in Normandia

La campagna d'Italia

La campagna militare contro l'Italia (il «ventre molle» dell'Asse, secondo la definizione di Churchill) ebbe inizio il 12 giugno 1943 con la conquista alleata dell'isola di Pantelleria. Un mese dopo, il 10 luglio, i primi contingenti anglo-americani sbarcavano in Sicilia e in poche settimane si impadronivano dell'isola, mal difesa da truppe in larga parte convinte dell'inevitabilità della sconfitta. Lo sbarco determinò il crollo del regime fascista, ma anche l'occupazione da parte dei tedeschi dell'Italia centrosettentrionale. E l'avanzata degli alleati rimase a lungo bloccata a Sud di Roma.

L'avanzata dell'Armata rossa

Intanto i sovietici riprendevano l'iniziativa su tutto il fronte orientale. Dopo aver respinto, nel luglio 1943, l'ultima controffensiva tedesca, l'Armata rossa iniziò una lenta ma inarrestabile avanzata che si sarebbe conclusa solo nell'aprile-maggio 1945 con la conquista di Berlino.
Queste vittorie ottenute a prezzo di un eccezionale sforzo organizzativo e di un enorme sacrificio di vite umane (quasi 10 milioni di militari morti nel corso della guerra), consentirono all'Unione Sovietica di accrescere notevolmente il suo peso in seno alla "grande alleanza" antinazista.
Il nuovo ruolo dell'Urss emerse chiaramente nella conferenza interalleata di Teheran (novembre-dicembre 1943), la prima in cui i "tre grandi" – Roosevelt, Stalin e Churchill – si incontrarono personalmente.
Questa volta Stalin ottenne dagli anglo-americani l'impegno, da tempo sollecitato, per uno sbarco in forze sulle coste francesi, da attuarsi nella primavera del '44.

La liberazione della Francia

Si trattava di un'operazione rischiosa, anche perché i tedeschi avevano munito tutta la zona costiera con imponenti fortificazioni difensive (il cosiddetto «vallo atlantico»).
Per attuare il piano, che prevedeva lo sbarco sulle coste settentrionali della Normandia, furono necessari un lungo lavoro di preparazione, un'accurata campagna di disinformazione circa il luogo esatto dello sbarco e un eccezionale spiegamento di mezzi, tale da assicurare agli alleati – che agivano sotto il comando unificato del generale americano Eisenhower – una schiacciante superiorità aeronavale.
L'operazione Overlord – questo il nome in codice dello sbarco in Normandia – scattò all'alba del 6 giugno 1944, preparata da un'impressionante serie di bombardamenti e da un nutrito lancio di paracadutisti. Nonostante l'accanita resistenza tedesca, gli attaccanti riuscirono a far sbarcare in territorio francese, nelle successive quattro settimane, oltre un milione e mezzo di uomini.

La controffensiva in Europa

Alla fine di luglio, dopo due mesi di combattimenti, gli alleati riuscirono a sfondare le difese tedesche e a dilagare nel Nord della Francia. Il 25 agosto, gli anglo-americani e i reparti di De Gaulle entravano a Parigi, già liberata dai partigiani.
In settembre la Francia era quasi completamente liberata. Poche settimane prima (20 luglio 1944) Hitler era miracolosamente scampato a un attentato organizzato da un gruppo di alti ufficiali dell'esercito e di esponenti della vecchia classe dirigente tedesca, nell'ultimo disperato tentativo di separare le sorti della Germania da quelle del nazismo e del suo capo.

 

L'Italia: la caduta del fascismo e l'armistizio

La crisi dei regime e il 25 luglio

Lo sbarco anglo-americano in Sicilia rappresentò il colpo di grazia per un regime già in profonda crisi, screditato da una lunga serie di insuccessi militari.
Un segnale allarmante era venuto, nel marzo 1943, dai grandi scioperi operai che, partendo da Torino, avevano interessato tutti i maggiori centri industriali del Nord.
A determinare la caduta di Mussolini non furono però le proteste popolari, né le iniziative dei partiti antifascisti, ancora sconosciute alla maggioranza della popolazione. Fu invece una sorta di congiura che faceva capo al re e vedeva tutte le componenti moderate del regime (industriali, militari, gerarchi dell'ala monarchico-conservatrice) unite ad alcuni esponenti del mondo politico prefascista, nel tentativo di portare il paese fuori da una guerra ormai perduta e di assicurare la sopravvivenza della monarchia.
Il pretesto formale per l'intervento del re fu offerto da una riunione del Gran consiglio del fascismo, tenutasi nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943 e conclusasi con l'approvazione a forte maggioranza di un ordine del giorno presentato dall'ex ministro Dino Grandi, che invitava il sovrano a riassumere le sue funzioni di comandante supremo delle forze armate e suonava quindi come esplicita sfiducia nei confronti del duce.
Il pomeriggio del 25 luglio, Mussolini era convocato da Vittorio Emanuele III, invitato a rassegnare le dimissioni e immediatamente arrestato dai carabinieri. Capo del governo era nominato il maresciallo Pietro Badoglio, già comandante delle forze armate.

Il crollo del fascismo

L'annuncio della caduta di Mussolini fu accolto dalla popolazione con incontenibili manifestazioni di esultanza. La gente scese per le strade e sfogò il suo risentimento contro sedi e simboli del regime. Non vi fu spargimento di sangue, anche perché il Partito fascista, che per vent'anni aveva riempito la scena politica italiana, scomparve praticamente nel nulla con tutte le sue mastodontiche organizzazioni collaterali, prima ancora che Badoglio provvedesse a scioglierlo d'autorità.
L'entusiasmo popolare era dovuto non tanto alla gioia per la riconquistata libertà, quanto alla diffusa speranza di una prossima fine della guerra.
L'uscita dal conflitto si sarebbe però rivelata per l'Italia più tragica di quanto non fosse stata la guerra stessa.
I tedeschi si affrettarono a rafforzare la loro presenza militare per prevenire, o punire, la ormai prevedibile defezione dell'alleato. Il governo Badoglio, dal canto suo, proclamò che nulla sarebbe cambiato nell'impegno bellico italiano («la guerra continua»). Ma intanto allacciò trattative segretissime con gli alleati per giungere a una pace separata.

L'armistizio e il disastro dell'8 settembre

Con gli anglo-americani, legati all'impegno della «resa incondizionata», c'era però ben poco da trattare.
Quello che l'Italia dovette sottoscrivere fu appunto un atto di resa. Firmato il 3 settembre a Cassibile, in Sicilia, l'armistizio fu reso noto solo l'8 settembre, in coincidenza con lo sbarco di un contingente alleato a Salerno.
L'annuncio dell'armistizio, comunicato da Badoglio al paese con un messaggio radiofonico, gettò l'Italia nel caos più completo. Mentre il re e il governo abbandonavano la capitale per riparare a Brindisi, sotto la protezione degli alleati appena sbarcati in Puglia, i tedeschi procedevano all'occupazione dell'Italia centro-settentrionale.
Abbandonate a se stesse, con ordini vaghi e contraddittori, le truppe si sbandarono senza poter opporre ai tedeschi una resistenza organizzata. Roma fu inutilmente difesa solo da alcuni reparti isolati ai quali si unirono gruppi di civili armati (gli scontri, che ebbero luogo a Porta San Paolo il 9 settembre, furono il primo episodio della Resistenza italiana).
Ben 600 mila furono i militari fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in Germania. Molti soldati fuggirono cercando di tornare alle loro case. La sorte più tragica toccò ai militari raggiunti dall'annuncio dell'armistizio lontano dall'Italia: in particolare ai 650 mila che operavano nei Balcani, trattati come nemici sia dai partigiani jugoslavi e greci sia dai tedeschi, che punirono spietatamente ogni tentativo di resistenza: l'episodio più grave avvenne nell'isola greca di Cefalonia dove fu sterminata un'intera divisione italiana che aveva rifiutato di arrendersi.
Attestatisi su una linea difensiva (la linea Gustav) che andava da Gaeta a Pescara e aveva il suo punto nodale nella zona di Cassino, i tedeschi riuscirono a bloccare l'offensiva alleata fino alla primavera dell'anno successivo, nonostante lo sbarco di un forte contingente angloamericano ad Anzio (circa cinquanta chilometri a sud di Roma), nel gennaio 1944.
Diventata campo di battaglia per eserciti stranieri, l'Italia doveva affrontare i momenti più duri di tutta la sua storia unitaria.

 

L'Italia: Resistenza e guerra civile

L'Italia spezzata in due

A partire dall'autunno 1943, l'Italia fu non solo divisa di fatto da un fronte, ma anche spezzata in due entità statali distinte, in guerra l'una contro l'altra.
Mentre nel Sud il vecchio Stato monarchico sopravviveva formalmente col suo governo e la sua burocrazia, esercitando la sua sovranità sotto il controllo alleato, nell'Italia settentrionale il fascismo rinasceva dalle sue ceneri sotto la protezione degli occupanti nazisti.
Il 12 settembre 1943, un commando di aviatori e paracadutisti tedeschi liberò Mussolini dalla prigionia di Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Pochi giorni dopo, il duce annunciò la nascita, nell'Italia occupata dai tedeschi, di un nuovo Stato fascista, che avrebbe preso il nome di Repubblica sociale italiana (Rsi).
La Rsi si proponeva innanzitutto di punire gli artefici del «tradimento» del 25 luglio, monarchici, «badogliani» e fascisti moderati: cinque dei gerarchi che avevano votato l'ordine del giorno Grandi – fra cui il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano – furono fucilati a Verona nel gennaio '44 dopo un sommario processo.
Il nuovo Stato repubblicano – o «repubblichino», come fu spregiativamente chiamato dagli antifascisti – trasferì i suoi uffici e le sue rappresentanze da Roma, troppo vicina al fronte, al Nord, nella zona del Lago di Garda (donde la denominazione di Repubblica di Salò).
Il nuovo regime, e il nuovo Partito fascista repubblicano, cercarono di guadagnare consensi riesumando le parole d'ordine rivoluzionarie del primo fascismo e lanciando un programma di socializzazione delle imprese industriali, che non riuscì mai a decollare.

L'occupazione tedesca e la Resistenza

In generale la Repubblica di Mussolini non acquistò mai credibilità per la sua totale dipendenza dai tedeschi, che si comportavano a tutti gli effetti come un esercito di occupazione, praticando un intenso sfruttamento delle risorse economiche e umane dei territori controllati – requisizioni, deportazione di lavoratori in Germania – e applicandovi le politiche razziali già sperimentate negli altri paesi occupati.
L'episodio più tragico si verificò il 16 ottobre '43, quando oltre mille ebrei di Roma (la più antica comunità israelitica d'Europa) furono prelevati dalle loro case e inviati nel campo di sterminio di Auschwitz, dal quale pochissimi fecero ritorno.
La principale funzione svolta dal governo di Salò e dalle sue forze armate fu quella di combattere il movimento di Resistenza contro i tedeschi che stava nascendo nell'Italia occupata.
Le regioni del Centro-Nord diventavano così teatro di una guerra civile tra italiani, che si sovrapponeva a quella combattuta dagli eserciti stranieri. Le prime formazioni armate si raccolsero nelle zone montane dell'Italia centro-settentrionale subito dopo l'8 settembre e nacquero dall'incontro fra piccoli nuclei di militanti antifascisti e gruppi di militari sbandati che non avevano voluto consegnarsi ai tedeschi. I partigiani agivano soprattutto lontano dai centri abitati, con attacchi improvvisi e con azioni di sabotaggio; ma erano presenti anche nelle città con i Gruppi di azione patriottica (Gap), piccole formazioni di tre o quattro elementi (anche donne) che compivano attentati contro militari o contro singole personalità tedesche e repubblichine.
Gli occupanti risposero con spietate rappresaglie: particolarmente feroce quella messa in atto a Roma, nel marzo '44, quando, in risposta a un attentato in cui avevano trovato la morte 33 militari tedeschi, furono fucilati alle Fosse Ardeatine 335 detenuti, ebrei, antifascisti e militari badogliani (in una proporzione di 10 a 1, con 5 in più aggiunti per errore).

La rinascita dei partiti

Dopo una prima fase di aggregazione spontanea, le bande partigiane si andarono organizzando in base all'orientamento politico prevalente fra i loro membri: le Brigate Garibaldi, le più numerose e attive, erano formate in maggioranza da comunisti; le formazioni di Giustizia e Libertà si ricollegavano all'omonimo movimento antifascista degli anni '30; le Brigate Matteotti erano legate ai socialisti; vi erano poi formazioni cattoliche e liberali e bande "autonome" composte per lo più da militari di orientamento monarchico.
Fin dall'inizio, dunque, le vicende della Resistenza si intrecciarono strettamente con quelle dei partiti antifascisti, ricostituiti in clandestinità o riemersi alla luce dopo la caduta del fascismo.
Nell'estate del 1942 era sorto, dalla confluenza di diversi gruppi che si collocavano in area intermedia fra il liberalismo progressista e il socialismo, il Partito d'azione (Pda).
In ottobre numerosi esponenti cattolici avevano elaborato il programma di una nuova formazione destinata a raccogliere l'eredità del Partito popolare: la Democrazia cristiana (Dc).
Subito dopo il 25 luglio, fu costituito il Partito liberale (Pli) e rinacquero il Partito repubblicano (Pri) e quello socialista, col nome di Partito socialista di unità proletaria (Psiup).
Quanto ai comunisti, da sempre presenti nel paese coi loro nuclei clandestini e già attivi negli scioperi di marzo, riuscirono a ricostituire buona parte del loro gruppo dirigente, soprattutto dopo la liberazione, avvenuta in agosto, di molti leader dal carcere o dal confino.

Il Cln e il governo Badoglio

Fra il 9 e il 10 settembre, i rappresentanti di sei partiti (Pci, Psiup, Dc, Pli, Pda, oltre alla Democrazia del lavoro, appena fondata dall'ex presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi) si riunirono a Roma e si costituirono in Comitato di liberazione nazionale (Cln), incitando la popolazione «alla lotta e alla resistenza [ ... ] per riconquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni».
I partiti antifascisti si proponevano così come guida e rappresentanza dell'Italia democratica, in contrapposizione non solo agli occupanti tedeschi e ai loro collaboratori fascisti, ma anche a Badoglio e allo stesso sovrano, corresponsabile della dittatura e della guerra.
Privi di una base di massa nell'Italia liberata, i partiti del Cln non avevano però la forza per imporsi al governo Badoglio, che godeva della fiducia degli alleati, in quanto garante degli impegni assunti con l'armistizio.
Nell'ottobre '43 il governo dichiarò guerra alla Germania e ottenne per l'Italia la qualifica di «cobelligerante»; un piccolo Corpo italiano di liberazione combatté in effetti a fianco degli anglo-americani, in rappresentanza del ricostituito esercito italiano.

Togliatti e la «svolta di Salerno»

Il contrasto tra Cln e governo fu sbloccato solo nel marzo 1944 dall'iniziativa del leader comunista Palmiro Togliatti, giunto in Italia dall'Urss dopo un esilio durato quasi vent'anni.
Appena sbarcato a Napoli, Togliatti, scavalcando la posizione ufficiale del Cln, propose di accantonare ogni pregiudiziale contro il re o contro Badoglio e di formare un governo di unità nazionale capace di concentrare le sue energie sulla lotta contro il nazifascismo. La «svolta di Salerno» (così chiamata perché Salerno era allora la capitale provvisoria del «Regno del Sud») era in armonia con la linea allora tenuta dell'Urss (che aveva già riconosciuto il governo Badoglio), ma serviva anche a legittimare il Pci come partito nazionale.

La tregua istituzionale

La scelta togliattiana, criticata da socialisti e azionisti, consentì comunque di formare, il 24 aprile, il primo governo di unità nazionale, presieduto sempre da Badoglio e comprendente i rappresentanti dei partiti del Cln.
L'accordo prevedeva anche che Vittorio Emanuele III si facesse da parte, trasmettendo i suoi poteri al figlio Umberto, in attesa che, a guerra finita, fosse il popolo a decidere la sorte dell'istituzione monarchica.
Nel giugno 1944, dopo che Roma era stata liberata dagli alleati, Umberto assunse la luogotenenza generale del Regno. Badoglio si dimise e lasciò il posto a un nuovo governo guidato da Ivanoe Bonomi, presidente del Cln.
Riprendeva intanto, dopo la liberazione di Roma, l'avanzata alleata nelle regioni centrali. La base di reclutamento delle formazioni partigiane si allargò, anche per l'afflusso di molti giovani renitenti alla leva decretata dal governo di Salò. Le azioni militari dei partigiani divennero più ampie e frequenti, nonostante le continue rappresaglie tedesche (la più terribile, in questa fase, fu quella messa in atto a Marzabotto, nell'Appennino bolognese, dove, nel settembre '44, furono uccisi 770 civili).
Molte città, fra cui Firenze, furono liberate prima dell'arrivo degli alleati.

Un difficile inverno

Questa attività – che testimoniava l'esistenza di un'Italia decisa a rompere i ponti col fascismo e a dare un contributo attivo alla causa alleata – aveva però un valore simbolico molto superiore alla sua forza militare.
L'efficacia dell'azione partigiana era infatti limitata sia dai contrasti fra le diverse componenti politiche (che talvolta sfociarono in aperto conflitto), sia, soprattutto, dall'obiettiva difficoltà di coinvolgere una popolazione preoccupata soprattutto della propria sopravvivenza e quindi incline a non schierarsi in uno scontro il cui esito restava affidato essenzialmente all'azione delle armate anglo-americane.

L'Italia dal '43 al '45

Nell'autunno del '44, l'offensiva alleata sul fronte italiano – diventato secondario nel quadro della strategia alleata dopo lo sbarco in Normandia – si bloccò lungo la nuova linea difensiva tedesca (la linea gotica, fra Rimini e La Spezia). La Resistenza visse allora il suo momento più difficile, soprattutto dopo il proclama del comando alleato, che, nel novembre '44, invitava i partigiani a sospendere le operazioni su vasta scala in attesa dell'ultima e definitiva spallata.
Il movimento partigiano riuscì tuttavia a mantenersi attivo e a sopravvivere al difficile inverno '44-45.
Nella primavera del '45, con la ripresa dell'offensiva alleata, la Resistenza, forte di 200 mila uomini armati, sarebbe stata pronta a promuovere l'insurrezione generale contro gli occupanti in ritirata.

 

La fine della guerra e la bomba atomica

Il dramma della Germania

Nell'autunno 1944 la Germania poteva considerarsi virtualmente sconfitta.
Il fronte dei suoi alleati nella guerra contro l'Urss (dopo l'Italia, si ritirarono dal conflitto Romania, Bulgaria, Finlandia, Ungheria) si stava sfaldando.
In ottobre, i sovietici e i partigiani jugoslavi liberarono Belgrado, mentre gli inglesi sbarcavano in Grecia.
L'offensiva alleata si era momentaneamente arrestata in Francia e in Italia. Ma la sproporzione di forze fra i due schieramenti era tale da non lasciare alcun dubbio sull'esito dello scontro. Il territorio del Reich non era ancora stato toccato da eserciti stranieri, ma era sottoposto a continui bombardamenti da parte degli alleati che disponevano ormai del dominio dell'aria. L'offensiva aerea aveva lo scopo non solo di colpire la produzione industriale e il sistema di comunicazioni, ma anche di "demoralizzare" il popolo tedesco fino a minarne la capacità di resistenza.
Molte città della Germania (fra cui Amburgo e Dresda) furono ridotte a cumuli di macerie. In tutto, oltre 600 mila civili perirono sotto i bombardamenti.
Nemmeno i bombardamenti servirono, però, a piegare la feroce determinazione del Führer, deciso a far sì che l'intero popolo tedesco condividesse fino in fondo la sorte del regime nazista. Peraltro, Hitler si illuse fino all'ultimo di poter rovesciare la situazione grazie all'impiego di nuove "armi segrete" (razzi telecomandati VI e V2 furono in effetti lanciati contro le città inglesi, ma con risultati tutt'altro che decisivi) o per un'improvvisa rottura dell`innaturale" alleanza fra l'Urss e le democrazie occidentali.

La "grande alleanza" e gli accordi sul dopoguerra

Questa ipotesi era in realtà del tutto infondata. Nonostante l'accesa concorrenzialità che si manifestava all'interno della "grande alleanza", anglo-americani e sovietici continuarono a tener fede agli impegni assunti e a cercare accordi globali per la sistemazione dell'Europa postbellica.
Nella conferenza di Mosca dell'ottobre '44, Churchill e Stalin abbozzarono una divisione in sfere d'influenza dei paesi balcanici (Romania e Bulgaria all'Urss, Grecia alla Gran Bretagna, situazione di equilibrio in Jugoslavia e Ungheria): un progetto che, in contrasto con le proclamazioni della Carta atlantica, non teneva in alcun conto la volontà dei popoli interessati.
I tre grandi si incontrarono ancora in Urss, nella cittadina termale di Yalta, in Crimea, nel febbraio 1945.
In questa occasione fu stabilito, fra l'altro, che la Germania sarebbe stata divisa in quattro zone di occupazione (una delle quali riservata alla Francia) e sottoposta a radicali misure di "denazificazione" e che i popoli dei paesi liberati avrebbero potuto esprimersi mediante libere elezioni.
Dal canto suo, l'Urss si impegnò a entrare in guerra contro il Giappone.

L'ultima offensiva in Europa

Mentre i grandi discutevano a Yalta sulle sorti future dell'Europa, era già scattata l'offensiva finale che, nel giro di pochi mesi, avrebbe portato al crollo del Terzo Reich.
A metà gennaio, dopo un'ultima efficace controffensiva tedesca nelle Ardenne, gli angloamericani riprendevano l'iniziativa sul fronte occidentale.
I sovietici, dopo aver conquistato Varsavia, attraversavano tutto il restante territorio polacco. In febbraio erano già a poche decine di chilometri da Berlino (un obiettivo che Stalin voleva raggiungere prima degli angloamericani).
Più a sud l'Armata rossa cacciava i tedeschi dall'Ungheria per poi puntare su Vienna, che fu raggiunta il 23 aprile, e su Praga, liberata il 4 maggio.
Frattanto gli anglo-americani attaccavano sul Reno, che fu attraversato il 22 marzo, e dilagavano nel cuore della Germania incontrando, per la prima volta dall'inizio della guerra, una scarsissima resistenza da parte dei soldati tedeschi, che invece continuavano a combattere con disperato accanimento sul fronte orientale (al doppio scopo di proteggere la fuga dei civili dalla devastante avanzata dell'Armata rossa e di ridurre per quanto possibile la zona di occupazione dell'Urss).
Il 25 aprile le avanguardie alleate raggiungevano l'Elba e si congiungevano coi sovietici che stavano accerchiando Berlino.

La morte di Mussolini e di Hitler e la resa tedesca

In quegli stessi giorni crollava anche il fronte italiano.
Il 25 aprile, mentre il Cln lanciava l'ordine dell'insurrezione generale contro il nemico in ritirata, i tedeschi abbandonavano Milano.
Mussolini fu catturato mentre tentava di fuggire in Svizzera e fucilato dai partigiani il 28, assieme ad altri gerarchi e alla sua giovane amante, Clara Petacci.
I loro cadaveri, appesi per i piedi, furono esposti per alcune ore a piazzale Loreto, a Milano.
Il 30 aprile, mentre i sovietici stavano entrando a Berlino, Hitler si suicidò nel bunker sotterraneo dove era stata trasferita la sede del governo, lasciando la presidenza del Reich all'ammiraglio Karl Dönitz, che offrì subito la resa agli alleati.
Il 7 maggio 1945, nel quartier generale alleato a Reims, fu firmato l'atto di capitolazione delle forze armate tedesche. Le ostilità cessarono nella notte fra l'8 e il 9 maggio.
La guerra europea si concludeva così, a cinque anni e otto mesi dal suo inizio, con la morte dei due dittatori che più d'ogni altro avevano contribuito a scatenarla. Restava aperto, a questo punto, solo il fronte del Pacifico.

La sconfitta del Giappone e la bomba atomica

Nell'estate del '45 gli americani, ormai liberi da impegni bellici in Europa, erano pronti a portare l'attacco nel territorio del Giappone, ormai isolato e sottoposto a continui bombardamenti: un nemico che però continuava a combattere con eccezionale accanimento, rifiutando di arrendersi anche nelle condizioni più disperate e facendo ampio ricorso all'azione dei kamikaze, aviatori suicidi che si gettavano sulle navi avversarie con i loro aerei carichi di esplosivo.
Il nuovo presidente americano Harry Truman (Roosevelt era morto il 12 aprile 1945) decise allora di impiegare contro il Giappone la nuova arma "totale", la bomba a fissione nucleare o bomba atomica, che era stata appena messa a punto da un gruppo di scienziati e sperimentata per la prima volta in luglio nel deserto del Nuovo Messico.
La decisione di Truman serviva innanzitutto ad abbreviare una guerra che si annunciava ancora lunga e sanguinosa, ma aveva anche lo scopo di offrire al mondo (e soprattutto agli alleati-rivali sovietici) la dimostrazione della potenza militare americana.
Il 6 agosto 1945, un bombardiere americano sganciava la prima bomba atomica sulla città di Hiroshima. Tre giorni dopo, l'operazione era ripetuta a Nagasaki. In entrambi i casi le conseguenze furono spaventose: non solo per il numero dei morti (100 mila a Hiroshima, 60 mila a Nagasaki) e per la distruzione totale delle due città, ma anche per gli effetti di lungo periodo su quanti erano stati contaminati dalle radiazioni.
Il 15 agosto, dopo che l'Urss aveva anch'essa dichiarato guerra al Giappone, l'imperatore Hirohito offrì agli alleati la resa senza condizioni.
Con la firma dell'armistizio, il 2 settembre 1945, si concludeva così il secondo conflitto mondiale.

 

 

LA GUERRA FREDDA (1945-73)

 

 

La nascita dell'ONU

[ Introduzione audio ]

La lezione della guerra

La seconda guerra mondiale si concludeva con un bilancio di perdite umane che non aveva precedenti nella storia dell'umanità: circa cinquanta milioni furono i morti (sei volte più che nella Grande Guerra), per due terzi civili, vittime dei bombardamenti, delle carestie, delle deportazioni e dei massacri indiscriminati.
L'entità dello sterminio, ma anche la sua inedita e sconvolgente "qualità", colpirono profondamente la coscienza collettiva e conferirono una nuova dimensione all'orrore per la guerra.
A ciò contribuì, alla fine del conflitto, un duplice trauma morale: da un lato quello derivante dalle agghiaccianti rivelazioni sui crimini nazisti e sul genocidio degli ebrei; dall'altro quello provocato dall'apparizione della bomba atomica, cioè di un'arma non solo dotata di capacità distruttive senza precedenti, ma addirittura capace di minacciare la sopravvivenza dell'umanità.

La conferenza di San Francisco

Questa terribile lezione produsse allora, come in parte era già accaduto all'indomani della prima guerra mondiale, un generale desiderio di rifondare su basi più stabili il sistema delle relazioni internazionali.
Il risultato più importante fu la nascita dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU).
Fondata, soprattutto per iniziativa americana, in una Conferenza tenuta a San Francisco fra l'aprile e il giugno del 1945, dunque quando la guerra non era ancora finita, l'ONU si presentava all'inizio come un prolungamento in tempo di pace di quel "Patto delle nazioni unite" che, dalla fine del 1941, aveva legato gli Stati in lotta contro le potenze dell'Asse.
L'obiettivo era però quello di dar vita a una organizzazione permanente e a carattere tendenzialmente universale, che sostituisse la vecchia e screditata Società delle Nazioni nel compito di «salvare le generazioni future dal flagello della guerra» e di «promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli».

Lo statuto dell'ONU

Ispirato ai princìpi della Carta atlantica, lo statuto dell'ONU portava l'impronta di due diverse concezioni: da un lato l'utopia democratica wilsoniana, di cui era ancora imbevuta una parte dell'opinione pubblica americana; dall'altro l'approccio realistico tipico di Roosevelt, convinto della necessità di un "direttorio" delle grandi potenze come unico efficace strumento di governo degli affari mondiali.
I principi dell'universalità dell'organizzazione e dell'uguaglianza fra le nazioni sono rispecchiati nell'Assemblea generale degli Stati membri, che si riunisce annualmente e può adottare solo risoluzioni non vincolanti.
Il meccanismo del «direttorio» è riflesso invece nel Consiglio di sicurezza, organo permanente che, in caso di crisi internazionale, ha il potere di prendere decisioni vincolanti per gli Stati membri e di adottare misure che possono giungere fino all'intervento armato.
Altri organi dell'ONU sono il Consiglio economico e sociale, da cui dipendono le «agenzie specializzate» per la cooperazione nei vari campi (come l'UNESCO per l'istruzione e la cultura, la FAO per l'alimentazione e l'agricoltura, l'UNICEF per la tutela dell'infanzia), e la Corte internazionale di giustizia, cui spetta di dirimere le controversie fra gli Stati che vi si rimettono volontariamente.
Malgrado l'aspirazione a costituire un embrione di governo mondiale, l'ONU è stata fin dall'inizio lo specchio del carattere conflittuale della comunità internazionale. Egemonizzata, ma anche esautorata, dalle maggiori potenze, paralizzata dai loro contrasti sulle questioni più importanti, si è rivelata spesso inadempiente al suo compito principale: quello di prevenire e contenere le crisi.

I processi di Norimberga e di Tokyo

Parallelo, e complementare, al progetto di rifondazione dei rapporti fra gli Stati fu il tentativo, già avviato senza grandi risultati all'indomani della Grande Guerra, di aggiornare e codificare il diritto internazionale, includendovi un settore penale, con i suoi reati e le sue sanzioni, in modo da colpire sia gli Stati sia i singoli individui.
Per questo, gli alleati costituirono, a guerra conclusa, tribunali militari per giudicare i colpevoli dei crimini più odiosi fra i responsabili delle principali potenze sconfitte (l'uccisione di Mussolini giustificò l'esclusione dell'Italia).
I processi che ne seguirono – quello di Norimberga (1945-46) contro i capi nazisti e quello di Tokyo (1946-48) contro i dirigenti giapponesi – si conclusero con numerose condanne a morte e destarono grande scalpore in tutto il mondo. Si trattò di un precedente (e quindi di un deterrente) di notevole rilievo, nonostante i problemi politici e morali suscitati da un procedimento intentato e condotto dai vincitori nei confronti dei vinti.

Le istituzioni economiche internazionali

Sotto l'impulso degli Stati Uniti, la rifondazione dei rapporti si estese anche al campo economico.
L'opera di internazionali riforma fu improntata alla filosofia di fondo e agli interessi del capitalismo americano, che andavano nel senso di dar vita a un vasto e vitale mercato mondiale in regime di libera concorrenza. Vennero così ridimensionati i vincoli protezionistici e le aree preferenziali di commercio, a cominciare da quella legata al sistema imperiale britannico.
A guerra ancora in corso, con gli accordi di Bretton Woods del luglio 1944, fu creato il Fondo monetario internazionale, con lo scopo di costituire un adeguato ammontare di riserve valutarie mondiali, cui gli Stati membri potessero attingere in caso di necessità, e di assicurare la stabilità dei cambi fra le monete, ancorandoli non soltanto all'oro, ma anche al dollaro (di cui gli Stati Uniti si impegnavano a garantire la convertibilità in oro).
Si venne così a consolidare il primato della moneta americana come valuta internazionale per gli scambi e come valuta di riserva per le banche centrali di tutto il mondo.
Al Fondo monetario fu affiancata, sempre a Bretton Woods, la Banca mondiale, col compito di concedere prestiti a medio e lungo termine ai singoli Stati per favorirne la ricostruzione e lo sviluppo.
Sul piano commerciale, un sistema fondato sul libero scambio fu instaurato dall'Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (Gatt), stipulato a Ginevra nell'ottobre '47, che prevedeva un generale abbassamento dei dazi doganali.
Concepiti all'inizio come strumenti di governo dell'economia mondiale, questi organismi videro in parte compromessa la loro rappresentatività dalla mancata adesione dell'Urss (che pure aveva partecipato alla Conferenza di Bretton Woods) e poi degli altri regimi comunisti che, come si vedrà, si affermarono nei paesi dell'Europa orientale: un effetto non secondario della divisione del mondo in blocchi che si era cominciata a profilare già nella fase finale della guerra.

 

I nuovi equilibri mondiali

[ Introduzione audio ]

Le nuove superpotenze

Il verdetto del secondo conflitto mondiale non si esaurì nella sconfitta della Germania hitleriana e dei suoi alleati e nella liquidazione del nazifascismo. La guerra segnò anche un mutamento irreversibile degli equilibri internazionali.
Le antiche grandi potenze – compresa la Gran Bretagna che aveva combattuto contro Hitler dal primo all'ultimo giorno di guerra, e compresa anche la Francia che era stata subito sconfitta e poi generosamente riammessa al tavolo dei vincitori – dovettero presto rendersi conto di non poter più mantenere le proprie posizioni di dominio.
L'Europa, già esaurita dallo scontro fratricida della guerra '14-'18, perse definitivamente la sua centralità e il suo ruolo mondiale. A quel ruolo, infatti, potevano ormai aspirare due soli Stati, due superpotenze continentali e multietniche, molto diverse dai vecchi Stati-nazione: gli Stati Uniti, che vantavano una schiacciante superiorità economica (nel 1945 la loro produzione industriale risultava raddoppiata rispetto al 1939) e una netta supremazia militare, esaltata dal possesso dell'arma atomica; e l'Unione Sovietica, che disponeva di un imponente apparato industriale e militare e occupava con le sue truppe la metà orientale del continente europeo.

La crisi della "grande alleanza" Usa-Urss

A partire dal 1941, Usa e Urss avevano combattuto assieme contro le potenze fasciste, offrendo il contributo più consistente alla "grande alleanza" anti-hitleriana. E, nell'ultimo anno di guerra, avevano provato insieme a gettare le basi di un nuovo ordine internazionale centrato sulla creazione dell'ONU.
Ma, proprio in quella fase, erano emerse tra i futuri vincitori divergenze profonde sul futuro del mondo e in particolare dell'Europa.
Gli Stati Uniti puntavano a una ricostruzione nel segno dell'economia di mercato e della libertà degli scambi internazionali, come contesto ideale per far valere la loro egemonia.
L'Unione Sovietica, che aveva pagato un prezzo altissimo in distruzioni materiali e perdite umane, pretendeva la punizione degli Stati aggressori, adeguate riparazioni economiche e soprattutto garanzie territoriali contro ogni possibile attacco lanciato da Occidente, sulle orme di Napoleone, di Guglielmo II e di Hitler. Questa esigenza di sicurezza, che in Stalin assunse tratti quasi ossessivi, si traduceva per l'Urss nella richiesta di spingere le proprie frontiere il più possibile a Ovest e di non avere regimi ostili negli Stati confinanti.
Gli alleati occidentali erano in parte disposti ad accogliere queste richieste, vuoi per realismo politico, come nel caso di Churchill, vuoi perché convinti, come Roosevelt, che una Unione Sovietica appagata nelle sue legittime aspirazioni (e magari gradualmente democratizzata) potesse rappresentare un fattore di stabilizzazione nell'irrequieto scacchiere dell'Europa orientale.
Ma nell'aprile del 1945 Roosevelt mori, pochi mesi dopo essere stato eletto per la quarta volta (caso unico nella storia degli Stati Uniti); e con lui tramontò il "grande disegno" di cooperazione fra Occidente e Urss.
Il successore di Roosevelt, Harry Truman, si mostrò subito meno aperto alle istanze di Stalin, che era portato già di suo – soprattutto dopo il lancio dell'atomica americana sul Giappone – a una diffidenza quasi paranoica nei confronti degli alleati occidentali.

L'Urss e il controllo dell'Europa orientale

Il primo e fondamentale banco di prova del contrasto fra le potenze vincitrici fu l'Europa orientale. Nei paesi occupati dall'Armata rossa – Germania Est, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria – le possibilità che l'influenza sovietica si affermasse nel rispetto della volontà popolare erano praticamente nulle. Per imporsi in un contesto ostile, l'Urss non trovò così altro mezzo, come vedremo meglio, che puntare sui partiti comunisti locali, per lo più privi di larghe basi di consenso, e portarli al potere in spregio a qualsiasi principio democratico.
I contrasti emersero chiaramente già nella conferenza interalleata che si tenne a Potsdam, presso Berlino, fra luglio e agosto del 1945.
Sei mesi dopo, nel marzo 1946, Churchill (che aveva perso pochi mesi prima la guida del governo, ma conservava intatto il suo prestigio personale) pronunciò a Fulton, negli Stati Uniti, un discorso che ebbe un'enorme risonanza, in cui denunciava il comportamento dei sovietici in Europa orientale: «Da Stettino, sul Baltico, a Trieste, sull'Adriatico, una cortina di ferro è calata sul continente. [ ... ] Questa non è certo l'Europa liberata per costruire la quale abbiamo combattuto».
Stalin replicò dando a Churchill del guerrafondaio e paragonandolo a Hitler.
La «grande alleanza» era ormai in frantumi e il processo negoziale sui trattati di pace ne subì le conseguenze.

La conferenza di Pace

Infatti, i lavori della conferenza della pace, che si aprirono a Parigi nel luglio 1946, si interruppero tre mesi dopo senza che su molti punti fossero state raggiunte conclusioni definitive.
Nonostante l'assenza di un accordo generale, furono fissati i nuovi confini fra Urss, Polonia e Germania: l'Unione Sovietica incamerava le ex repubbliche baltiche (Estonia, Lituania e Lettonia), parte della Polonia dell'Est e della Prussia orientale; la Polonia, a sua volta, si rifaceva a ovest a spese della Germania, portando il suo confine alla linea segnata dai fiumi Oder e Neisse.

La Polonia alla fine del secondo conflitto

La "dottrina Truman"

La conferenza di Parigi fu l'ultimo atto della cooperazione postbellica fra Urss e potenze occidentali.
Fra il 1946 e il 1947 i contrasti si approfondirono.
Gli Stati Uniti – i soli a poterlo fare, dopo la rinuncia della Gran Bretagna alle sue ambizioni imperiali – si dichiararono, allora, pronti a intervenire militarmente in sostegno di quei paesi che si sentissero minacciati da nuove mire espansioniste dell'Urss o da tentativi rivoluzionari da essa ispirati.
Esposta in un discorso presidenziale nel marzo 1947, la "dottrina Truman" – che da allora avrebbe costituito la base della politica estera Usa – non metteva in discussione gli assetti raggiunti alla fine della guerra, ma mirava a impedire che l'Urss li modificasse a proprio vantaggio, in Europa e nel resto del mondo (si parlò per questo di «teoria del contenimento»).

La guerra fredda

L'equilibrio Usa-Urss prodotto dal conflitto mondiale si trasformava così stabilmente in un rapporto conflittuale tra le due superpotenze, che avrebbe dato origine a un nuovo sistema mondiale "bipolare" imperniato su due blocchi contrapposti: un blocco "occidentale", che riconosceva l'egemonia politica e culturale degli Usa e si ispirava agli ideali della democrazia rappresentativa e del libero scambio, e uno "orientale" guidato dall'Urss e organizzato secondo i principi del comunismo e dell'economia pianificata.
Cominciava quella che, con una formula destinata a grande fortuna, il giornalista americano Walter Lippmann definì «guerra fredda»: una guerra non guerreggiata fra i due blocchi che non solo erano portatori di interessi divergenti e di strategie contrapposte, ma rappresentavano anche due diversi modelli di governo, due sistemi ideologici, due messaggi fra loro incompatibili.

Il deterrente nucleare

Nella lunga stagione della guerra fredda, le due superpotenze non si combatterono mai direttamente: anche perché, dal momento in cui, nel 1949, anche l'Urss si dotò dell'arma nucleare, fu chiaro a tutti che un conflitto atomico avrebbe avuto conseguenze terrificanti e minacciato la stessa sopravvivenza dell'umanità.
Ma non mancarono le occasioni di scontro e le guerre per interposta persona, per lo più in aree periferiche del pianeta.
Risorse immense vennero profuse dalle due superpotenze nella corsa agli armamenti e nella ricerca a fini militari. E l'incubo dello sterminio nucleare, magari frutto di un errore o di un calcolo azzardato, pesò a lungo, e in parte continua a pesare, nella coscienza dei contemporanei.

La sfida globale Usa-Urss

La contrapposizione globale fra Usa e Urss non si limitò a tracciare un confine invalicabile fra i due blocchi, ma ebbe effetti di lungo periodo sulla vita dei singoli Stati: soprattutto in Europa, dove la linea divisoria fra area "socialista" e area "capitalista" rispecchiava in larga misura le posizioni raggiunte alla fine delle ostilità dai due maggiori eserciti occupanti.
Dall'una e dall'altra parte – anche se in misura e con modalità molto diverse – il vincolo di politica estera, ossia la subordinazione di ogni altra istanza alla compattezza dei rispettivi blocchi, divenne prioritario e strutturale.
Ovunque, anche la lotta politica interna fu largamente condizionata dalle logiche della guerra fredda e lo stesso dibattito culturale restò a lungo bloccato nella gabbia delle opposte ortodossie.
Mentre nei paesi occupati dall'Armata rossa le forze non comuniste erano ridotte al silenzio, in Europa occidentale i partiti legati all'Urss venivano esclusi dalle coalizioni di governo ed erano nel contempo costretti ad accantonare i progetti rivoluzionari. Unica eccezione la i Grecia, dove, fra il 1946 e il 1949, si combatté una sanguinosa guerra civile tra comunisti e forze di governo filo-occidentali conclusasi con la vittoria delle seconde.

 

Ricostruzione e riforme nell'Europa occidentale

[ Introduzione audio ]

Il mito americano

Fra la situazione dell'Europa occidentale e quella dei paesi dell'Est c'era però una differenza sostanziale.
Mentre il controllo sovietico si esercitava per lo più con mezzi coercitivi, l'influenza degli Stati Uniti, sostenuta da grandi risorse economiche e da un imponente apparato propagandistico, assumeva anche le forme di una egemonia culturale. In questi anni, l'imitazione dei modelli di vita d'oltreoceano – già incarnati dalle truppe di occupazione e poi veicolati attraverso la musica, la letteratura e soprattutto il cinema – diede corpo a un rapporto complesso e ambivalente, ma comunque intenso, fra le due sponde dell'Atlantico: all'indomani della più terribile delle guerre, il mito americano parve incarnare le speranze e le aspettative di benessere di molti europei costretti a confrontarsi con i problemi di una difficile ricostruzione.

Gli aiuti economici del piano Marshall

Su un piano più concreto, gli Stati Uniti si impegnarono massicciamente per rilanciare le economie dei paesi europei.
Nel giugno 1947 fu lanciato un vasto programma di aiuti economici all'Europa, che prese il nome di European Recovery Program (Erp) o, più comunemente, di piano Marshall, dal nome del segretario di Stato americano che ne assunse l'iniziativa.

Il Piano Marshall

Fra il 1948 e il 1951, il piano Marshall riversò sulle economie dell'Europa occidentale ben 13 miliardi di dollari fra prestiti a condizioni di favore e aiuti materiali d'ogni genere, soprattutto macchinari e grano. L'effetto fu non solo di permettere la ricostruzione, ma anche di avviare una forte ripresa delle economie dell'Europa occidentale, che già tra la fine degli anni '40 e l'inizio dei '50, raggiunsero e superarono largamente i livelli produttivi dell'anteguerra.

La spinta riformatrice

Pur realizzandosi complessivamente in un quadro economico liberista, il processo di ricostruzione si accompagnò, almeno in una prima fase, a una forte spinta verso le riforme sociali e a un diffuso ricorso all'intervento statale che riprendeva e ampliava pratiche già sperimentate nel corso degli anni '30.
In Francia, ad esempio, nazionalizzazioni e politiche sociali furono varati dal governo provvisorio presieduto da De Gaulle fra il 1944 e il 1945 e dai successivi governi di coalizione basati sull'accordo fra i partiti di massa.
Il caso più emblematico fu però quello della Gran Bretagna, dove, nelle elezioni del luglio 1945, Churchill fu inaspettatamente battuto dai laburisti di Clement Attlee. Il nuovo governo nazionalizzò le industrie elettriche e carbonifere, la siderurgia e i trasporti; introdusse il salario minimo e il Servizio sanitario nazionale, che prevedeva la completa gratuità delle prestazioni mediche; riformò in senso progressivo la fiscalità ed estese il sistema di sicurezza sociale.
Complessivamente furono gettate le basi di uno Stato sociale o Welfare State (letteralmente 'Stato del benessere') che aveva l'ambizione di assistere il cittadino «dalla culla alla tomba».
Ispirato in parte alle riforme attuate dai socialdemocratici in Svezia, e poi negli altri paesi scandinavi, fin dagli anni '30, il Welfare State si basava sul presupposto che la collettività dovesse farsi carico dei rischi ai quali l'individuo è esposto nel corso della sua esistenza, a partire dalle fasi della vita più difficili (infanzia, anzianità), dalle condizioni di maggiore disagio (malattia, invalidità, disoccupazione) e dai settori sociali potenzialmente più svantaggiati.
Le riforme inglesi avrebbero costituito da allora un modello per molti paesi industrializzati dell'Occidente.

 

L'Urss e l'Europa orientale

[ Introduzione audio ]

L'Urss e il rifiuto del Piano Marshall

Il lancio del piano Marshall, se da un lato facilitò la ripresa economica europea, dall'altro ebbe l'effetto immediato di irrigidire le contrapposizioni dell'incipiente guerra fredda. Nella sua originaria formulazione, il piano aveva infatti come destinatari tutti i paesi europei, compresi quelli dell'Est. Ma i sovietici, convinti che l'aiuto promesso fosse un cavallo di Troia per affermare l'egemonia americana all'interno della propria area di influenza, respinsero il progetto e imposero di fare altrettanto ai paesi dell'Europa orientale.
Anche i comunisti dell'Occidente si mobilitarono contro il piano, il che provocò fra l'altro, in Francia e in Italia, la rottura delle coalizioni di governo di cui ancora facevano parte. Per coordinare l'azione dei partiti "fratelli", Stalin decise, nel settembre 1947, la formazione del Cominform (Ufficio d'informazione dei partiti comunisti): una sorta di riedizione su scala ridotta (ne facevano parte i partiti comunisti italiano e francese, oltre a quelli dell'Europa orientale) della Terza Internazionale che era stata sciolta nel '43 in omaggio all'alleanza con le potenze democratiche.

La sovietizzazione dell'Europa dell'Est

Procedeva frattanto a tappe forzate l'imposizione del modello politico ed economico sovietico ai paesi occupati dall'Armata rossa. L'operazione fu realizzata attraverso una serie di crescenti forzature delle istituzioni democratiche, che formalmente sopravvivevano (tant'è che i nuovi regimi si definivano «democrazie popolari»), ma venivano di fatto svuotate dall'attribuzione ai comunisti di tutte le posizioni-chiave (ministero degli Interni, vertici della polizia e dell'esercito).
Gli altri partiti (socialisti, liberaldemocratici, partiti dei contadini), presenti in una prima fase nei governi di coalizione antifascista, furono gradualmente emarginati, perseguitati e infine sciolti o ridotti a una funzione puramente decorativa. Le stesse elezioni furono condizionate e manipolate, fino a trasformarsi in plebisciti dall'esito scontato.
Il meccanismo, sperimentato dapprima in Polonia e in Germania orientale, fu successivamente applicato in Ungheria, Romania, Bulgaria e Albania.

La Cecoslovacchia e il colpo di Stato del '48

Un caso a parte fu quello della Cecoslovacchia, paese economicamente e socialmente sviluppato, di solida tradizione democratica, che in politica estera seguiva una linea non ostile all'Urss e in cui i comunisti avevano ottenuto la maggioranza relativa nelle libere elezioni del maggio '46.
Il governo formatosi a seguito delle elezioni era guidato dal leader comunista Klement Gottwald e si fondava sull'alleanza fra i partiti di sinistra. La coalizione si ruppe però all'inizio del '48, quando si trattò di decidere circa l'accettazione degli aiuti del piano Marshall, sostenuta dalla maggioranza dei socialisti e dalle forze borghesi e osteggiata dai comunisti.
Per imporre il loro punto di vista i comunisti lanciarono una violenta campagna contro le altre forze politiche, costringendo, sotto la minaccia della guerra civile, il presidente della Repubblica Eduard Beneš ad affidare il potere a un nuovo governo da loro completamente controllato.
In marzo, il ministro degli Esteri socialista Jan Masaryk, l'unica personalità non comunista del nuovo ministero, mori cadendo dalla finestra in circostanze mai chiarite.
Nel maggio 1948, le elezioni si tennero col sistema della lista unica e il presidente Beneš si dimise per non dover firmare la nuova costituzione che trasformava definitivamente il paese in una «democrazia popolare».

La Jugoslavia di Tito

Ancora diverso fu il caso della Jugoslavia.
Qui i comunisti, sotto la guida di Tito (divenuto nel '45 presidente della nuova Repubblica jugoslava), si imposero da soli al potere con ampio uso della forza, ma anche grazie all'autorità e al prestigio guadagnati durante la Resistenza, che aveva liberato il paese dall'occupazione nazista senza l'ausilio dell'Armata rossa.
Fu proprio la forza della leadership jugoslava, che aveva consentito al paese di superare o soffocare i tradizionali conflitti etnici e religiosi, a porre un ostacolo al pieno dispiegarsi del dominio dell'Urss. La rottura si consumò nel giugno 1948, quando si manifestarono le ambizioni jugoslave di svolgere un ruolo-guida fra i paesi balcanici e di perseguire una via autonoma allo sviluppo industriale: accusati da Stalin di «deviazionismo» e di collusione con l'imperialismo, i comunisti iugoslavi furono espulsi dal Cominform.
Completamente isolata dal mondo comunista (che si schierò compatto con Stalin), la dirigenza jugoslava resistette alle pressioni sovietiche e cominciò a sperimentare una linea autonoma in politica estera, basata sull'equidistanza fra i due blocchi, e un nuovo corso in politica economica, volto alla ricerca di un difficile equilibrio fra statizzazione e autonomia gestionale delle imprese.
In realtà, sul piano dell'organizzazione politica, il modello jugoslavo non si differenziava da quello delle altre democrazie popolari, basato com'era sulla ferrea dittatura del Partito comunista. Eppure l'esperienza jugoslava suscitò interesse in Occidente, perché rappresentò in quegli anni l'unica seria ribellione al dominio sovietico in Europa orientale, proprio nel momento in cui le tensioni della guerra fredda conoscevano la loro fase più acuta con il riproporsi della questione tedesca.

Il blocco di Berlino e le due Germanie

Dalla fine della guerra, la Germania era divisa in quattro zone di occupazione (americana, britannica, francese e sovietica). La capitale Berlino, che si trovava all'interno dell'area sovietica, era a sua volta divisa in quattro zone.
Saltata ogni possibilità di intesa con i sovietici sul futuro del paese, Stati Uniti e Gran Bretagna avviarono, nel 1947, l'integrazione delle loro zone, introducendo una nuova moneta, liberalizzando l'economia e rivitalizzandola poi con gli aiuti del piano Marshall.
Di fronte a quella che ormai si profilava chiaramente come la rinascita di un forte Stato tedesco integrato nel blocco occidentale, Stalin reagì con la prova di forza del blocco di Berlino. Nel giugno 1948, l'Urss chiuse gli accessi alla città impedendone il rifornimento, nella speranza di indurre gli occidentali ad abbandonare la zona ovest da loro occupata.
L'Europa sembrò nuovamente sull'orlo del conflitto.
La crisi si risolse tuttavia senza uno scontro militare. Gli americani organizzarono un gigantesco ponte aereo per rifornire la città, finché, nel maggio '49, i sovietici si risolsero a togliere il blocco, rivelatosi inefficace.
Nello stesso mese furono unificate tutte e tre le zone occidentali della Germania e fu proclamata la Repubblica federale tedesca (Bundesrepublik Deutschland, Brd) con capitale Bonn.
La risposta sovietica fu la creazione, nella parte orientale del paese, di una Repubblica democratica tedesca (Deutsche Demokratik Republik, Ddr), che aveva la sua capitale a Pankow, un sobborgo di Berlino.

La Germania e Berlino, 1946-48

Il Patto atlantico e il Patto di Varsavia

A questo punto la divisione dell'Europa in due blocchi contrapposti era compiuta.
Nell'aprile 1949, mentre era ancora aperta la crisi di Berlino, fu firmato a Washington il Patto atlantico, alleanza difensiva fra i paesi dell'Europa occidentale (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo e Italia), gli Stati Uniti e il Canada.
Il patto, che si fondava su una comune professione di fede nella «civiltà occidentale», prevedeva un dispositivo militare integrato composto da contingenti dei singoli paesi membri: la Nato (Organizzazione del trattato del Nord Atlantico).
Nel 1951 aderirono al patto la Grecia e la Turchia, nel 1955 anche la Germania federale, fulcro della difesa avanzata contro un possibile attacco sovietico. Sempre nel '55, proprio a seguito dell'adesione tedesca, l'Urss rispose stringendo con i paesi satelliti un'alleanza, il Patto di Varsavia, basata anch'essa su un'organizzazione militare integrata.

 

Rivoluzione in Cina, guerra in Corea

[ Introduzione audio ]

Mentre in Europa il confine fra i due blocchi si andava stabilizzando, il teatro del confronto fra mondo socialista e mondo capitalistico si allargava al continente asiatico, intrecciandosi con le vicende della lunga e sanguinosa guerra civile che da decenni si stava combattendo in Cina.

La guerra civile

Dopo la sconfitta del Giappone e la fine del conflitto mondiale, la Repubblica cinese era diventata formalmente una potenza vincitrice; ma era sempre più lacerata dallo scontro fra il governo "nazionalista" di Chang Kai-shek e i comunisti di Mao Zedong, che occupavano e amministravano ampie zone dell'ex impero.
Fallito ogni tentativo di accordo fra i contendenti, il governo lanciò, fra il 1946 e il 1947, una violenta offensiva militare, contando sul sostegno degli Stati Uniti.
I comunisti, dopo un primo arretramento, riuscirono ancora una volta a riorganizzarsi e a contrattaccare, puntando sull'appoggio delle masse contadine, attratte dalla promessa di una radicale riforma agraria. Il fronte nazionalista, sempre più identificato con la causa dei proprietari terrieri e screditato dalla diffusa corruzione, si andò invece sfaldando di fronte all'efficace guerriglia condotta dalle forze maoiste.

La vittoria dei comunisti

Nel febbraio 1949, i comunisti entrarono a Pechino. Due mesi dopo cadeva Nanchino, capitale della Cina nazionalista.
Chang Kai-shek, con quanto restava del governo e dell'esercito, riparò, sotto la protezione della flotta americana, nell'isola di Taiwan (Formosa), da dove non cessò mai di sognare la riconquista.
Il 1° ottobre 1949 fu proclamata a Pechino la nascita della Repubblica popolare cinese, subito riconosciuta dall'Urss e dalla Gran Bretagna, ma non dagli Stati Uniti, che continuarono a considerare come legittimo governo cinese quello di Taiwan (che occupò, fino al 1971, il seggio della Cina all'Onu).
La nuova Repubblica a guida comunista procedette subito a misure radicali: le banche e le grandi e medie industrie furono nazionalizzate, così come il commercio con l'estero, mentre la terra fu distribuita fra i contadini.

Una nuova potenza comunista

L'Urss, che durante la guerra civile aveva fornito ai comunisti cinesi solo aiuti limitati, continuando fino all'ultimo a riconoscere il regime di Chang Kai-shek, stipulò subito col nuovo regime un trattato di amicizia e di mutua assistenza. Ma la dirigenza sovietica guardò con qualche preoccupazione all'emergere di una nuova potenza (comprendente da sola un quarto della popolazione mondiale) capace di contestare all'Urss il suo ruolo di Stato-guida e di proporsi come modello di società comunista distinto da quello sovietico e destinato a esercitare una certa attrazione sui paesi ex coloniali.
Il contrasto sarebbe emerso da lì a pochi anni. Sul momento, però, il successo della rivoluzione nello Stato più popoloso del mondo, fu visto come un allargamento del "campo socialista" e dunque come una nuova e radicale sfida lanciata al blocco occidentale e in particolare agli Stati Uniti.

Le due Coree in guerra

La prova più drammatica delle nuove dimensioni mondiali del confronto fra i due blocchi si ebbe nel 1950 in Corea.
Alla fine del secondo conflitto mondiale, la Corea (a lungo contesa fra Cina e Giappone e annessa all'impero giapponese dal 1910), in base agli accordi tra gli alleati, era stata divisa in due zone, delimitate dal 38° parallelo.
Analogamente a quanto era accaduto in Germania, una delle due zone – la Corea del Nord – era governata da un regime comunista guidato da Kim Il Sung, mentre nell'altra – la Corea del Sud – si era insediato un governo nazionalista appoggiato dagli americani.
Dopo una serie di incidenti di frontiera, nel giugno 1950 le forze nordcoreane, armate dall'Urss, invasero il Sud.
Di fronte a quella che appariva come una clamorosa conferma delle mire espansionistiche del blocco comunista, gli Stati Uniti reagirono inviando in Corea un forte contingente, che agiva sotto la bandiera dell'Onu, in quanto il Consiglio di sicurezza, assente il delegato sovietico (che intendeva così protestare contro la mancata assegnazione del seggio alla Cina comunista), aveva condannato la Corea del Nord e autorizzato l'invio di truppe.
I nordcoreani furono respinti e in ottobre gli americani oltrepassarono il 38° parallelo. A questo punto, però, fu la Cina di Mao a intervenire in difesa dei comunisti, con un massiccio invio di «volontari», che in poche settimane respinsero gli americani sulle posizioni di partenza.

Le due Coree

Nell'aprile 1951 Truman accettò di aprire trattative con la Corea del Nord. I negoziati — e con essi la guerra — si trascinarono per altri due anni, per concludersi infine nel 1953 con il ritorno alla situazione precedente, con la Corea divisa in due e il confine sul 38° parallelo.
Gli effetti della crisi coreana furono di ampia portata. Anche in assenza di un coinvolgimento diretto dell'Urss, l'eventualità di uno scontro fra le superpotenze era apparsa vicina e lo spettro di una guerra nucleare concreto come non mai.
Da qui presero corpo un vasto riarmo americano, un'accresciuta sensibilità degli Stati Uniti alla minaccia comunista nel Pacifico, un rafforzamento dei loro legami militari con gli alleati asiatici ed europei.

 

Il Giappone da nemico ad alleato

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La tutela americana

La vittoria dei comunisti in Cina e la guerra in Corea resero sempre più essenziale, nel sistema di alleanze degli Stati Uniti, il ruolo del Giappone: nemico irriducibile fino all'agosto 1945, sottoposto dopo la sconfitta a un duro regime di occupazione affidato al generale Mac Arthur, il paese dovette non solo rinunciare alle sue ambizioni espansionistiche, ma anche adeguare le sue istituzioni ai modelli occidentali.
La nuova costituzione approvata nel 1946, in realtà scritta da funzionari americani, trasformava l'autocrazia imperiale in una monarchia parlamentare (a questo patto l'imperatore Hirohito poté conservare il trono). Sempre nel '46 fu inoltre varata una vasta riforma agraria.
L'azione di rinnovamento imposta dagli Stati Uniti ebbe un effetto durevole nel rimodellare su nuove basi la realtà del paese. Tuttavia essa incontrò un freno nella necessità di non indebolire troppo quei ceti conservatori su cui gli occupanti contavano per legare a sé il paese e per farne un bastione del "mondo capitalistico" in Asia.

La ripresa economica

Questo orientamento si accentuò quando, con la guerra di Corea, il Giappone divenne base logistica e fornitore dell'esercito americano.
A partire dagli anni '50 le grandi imprese sarebbero diventate il motore principale di una rapidissima ripresa economica, favorita dall'assistenza degli Stati Uniti, oltre che da una stabilità politica che si fondava sull'egemonia dei gruppi moderati, raccolti nel Partito liberal-democratico.

La premesse del "miracolo"

La quasi completa assenza di spese militari imposta dal trattato di pace, assieme a una politica economica fondata sul contenimento dei consumi, consentì negli anni '50 un tasso di investimento elevatissimo, pari a un terzo del prodotto nazionale. Inoltre il sistema delle imprese – basato sulla compresenza di pochi grandissimi complessi industrial-finanziari (come la Honda, la Mitsubishi, la Sony e la Panasonic) e di una miriade di piccole e medie aziende – si rivelò particolarmente adatto a cogliere le occasioni di sviluppo.
Merito della classe imprenditoriale fu quello di puntare sui settori in crescita – la siderurgia, la cantieristica, l'automobile, la meccanica di precisione e poi soprattutto l'elettronica – e sulle tecnologie d'avanguardia.
Tutto ciò permise al Giappone di mantenere per tutto il ventennio '50-70 un tasso di sviluppo medio del 15% annuo (il triplo di quello dell'Occidente industrializzato), di invadere il mondo con i prodotti della sua industria, compensando ampiamente le importazioni di materie prime e mantenendo in perenne attivo la bilancia commerciale, e di diventare, già nel corso degli anni '60, la terza potenza economica mondiale dopo Usa e Urss.
Come la Germania, il Giappone trovava così nell'alleanza con l'ex nemico la base per uno spettacoloso rilancio che gli avrebbe consentito di ottenere con mezzi pacifici gli obiettivi egemonici prima perseguiti attraverso la guerra.

 

Guerra fredda e coesistenza pacifica

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Gli anni della massima tensione

Il quinquennio che va dalla crisi di Berlino del 1948 alla fine del conflitto in Corea fu il periodo più buio della guerra fredda.
La minaccia di un conflitto nucleare imminente non solo gettò un'ombra di ansia e di pessimismo sul clima psicologico dei paesi che faticosamente si stavano riprendendo dai traumi della guerra appena conclusa, ma condizionò negativamente la politica interna delle maggiori potenze coinvolte.
In Urss Stalin rispose alle necessità della ricostruzione e alle sfide poste dal confronto con l'Occidente accentuando i connotati autocratici e repressivi del suo regime. Le purghe tornarono a colpire quadri del partito e comuni cittadini, mentre i condizionamenti sulla vita intellettuale e artistica si fecero ancora più soffocanti.
Negli Stati Uniti, soprattutto a partire dal '49 – in coincidenza con l'esplosione dell'atomica sovietica – , si scatenò una campagna anticomunista che prese a tratti la forma di una "caccia alle streghe" e che ebbe il suo principale ispiratore nel senatore repubblicano Joseph McCarthy (donde l'espressione «maccartismo»), presidente di una commissione parlamentare istituita per reprimere le «attività antiamericane».
Nel 1950, il Congresso adottò l'Internal Security Act ('legge per la sicurezza interna'), che costituì lo strumento giuridico per emarginare o epurare quanti, nella pubblica amministrazione o nel mondo della cultura e dello spettacolo, fossero sospettati di filocomunismo o di simpatie di sinistra.

Una nuova fase

Nelle elezioni presidenziali del novembre 1952, Truman non si ripresentò e la vittoria andò al candidato repubblicano, il generale Eisenhower. Nel marzo 1953 Stalin morì all'improvviso, celebrato e pianto dai comunisti di tutto il mondo.
L'uscita di scena dei principali protagonisti della guerra fredda non portò, in un primo tempo, mutamenti significativi nei due blocchi. Eppure, proprio in questi anni di tensione, venne maturando un atteggiamento di accettazione reciproca, che, pur non comportando alcuna tregua nel confronto ideologico o alcuna pausa nella corsa agli armamenti, costituiva almeno la premessa per una coesistenza pacifica.
Se i sovietici avevano di fronte lo spettacolo di crescente prosperità offerto dal blocco occidentale, gli Stati Uniti erano costretti a prendere atto del consolidamento dell'Urss e del continuo rafforzamento del suo apparato militare: nell'agosto 1953 l'esplosione della bomba all'idrogeno (o bomba H) sovietica, un anno dopo il primo analogo esperimento americano, mostrava che in questo campo il divario tecnologico fra le due superpotenze andava scomparendo.
In questa nuova fase, Usa e Urss rinunciarono ad agire militarmente fuori delle rispettive aree di influenza. E addirittura arrivarono a collaborare per il mantenimento dello status quo: accadde durante la "crisi di Suez" dell'estate 1956, quando le due potenze, dopo una breve fase di tensione, si trovarono sostanzialmente d'accordo nel bloccare l'azione anglo-francese contro l'Egitto. Ma proprio gli eventi di quel cruciale 1956 mostrarono come il prezzo da pagare per la stabilità e la pace fosse per l'Occidente la rinuncia a mettere in discussione le forme del controllo sovietico sull'Europa dell'Est.

L'ascesa di Kruscëv

Infatti, la «direzione collegiale» succeduta a Stalin alla guida dell'Urss non aveva allentato la presa sui paesi satelliti: quando, nel giugno 1953, gli operai di Berlino Est scesero in piazza per protestare contro le dure condizioni di vita imposte dal regime comunista, la rivolta fu sanguinosamente repressa dalle truppe sovietiche.
Qualcosa parve cambiare quando il segretario del Pcus, Nikita Kruscëv, si impose come leader indiscusso dell'Unione Sovietica.
Personaggio vivace ed estroverso (molto diverso in questo da Stalin), dotato di una forte carica di comunicativa popolaresca, Kruscëv si fece promotore di alcune significative aperture in politica interna: la svolta non comportò mutamenti sostanziali nella struttura del potere sovietico e nella gestione centralizzata dell'economia, ma segnò la fine delle "grandi purghe", un rilancio dell'agricoltura e una maggiore attenzione alle condizioni di vita dei cittadini.

La denuncia dei crimini di Stalin

Per rendere irreversibile la svolta, Kruscëv non esitò a compiere un'operazione traumatica: la demolizione della figura di Stalin attraverso una sistematica denuncia degli orrori e dei crimini commessi in Unione Sovietica a partire dagli anni '30.
Nel febbraio 1956, in un rapporto al XX congresso del Pcus, Kruscëv pronunciò una durissima requisitoria contro il leader scomparso, rievocando senza reticenze gli arresti in massa e le deportazioni, le torture e i processi-farsa e riabilitando implicitamente le vittime del terrore staliniano (con l'eccezione di Trotzkij).
Il rapporto Kruscëv – che fu letto ai soli dirigenti e non fu mai pubblicato in Urss, ma fu presto conosciuto in tutto il mondo occidentale – non metteva in discussione la validità del modello sovietico e della dottrina leniniana. Gli errori e le deviazioni erano attribuiti alle scelte di Stalin, al «culto della personalità» che lo aveva circondato, all'eccessivo potere della burocrazia e alle troppo frequenti violazioni della «legalità socialista».

Le ripercussioni nell'Europa dell'Est

La denuncia ebbe ugualmente effetti traumatizzanti.
I partiti comunisti occidentali si allinearono al nuovo corso non senza imbarazzi e riserve.
Ma le conseguenze più esplosive della destalinizzazione si ebbero nell'Europa dell'Est, in particolare in Polonia e in Ungheria. In questi paesi, il rapporto Kruscëv fece nascere l'illusione che l'egemonia dell'Urss sui suoi satelliti potesse assumere forme più blande o essere cancellata del tutto.
In Polonia, dopo una serie di agitazioni operaie iniziate in giugno e culminate in autunno in un generale moto di protesta, i sovietici favorirono il ritorno al potere del leader comunista Wladyslaw Gomulka, vittima delle epurazioni staliniste. Gomulka promosse una politica di cauta liberalizzazione e di parziale riconciliazione con la Chiesa, impegnandosi per contro a non mettere in discussione l'alleanza con l'Urss.

L'insurrezione ungherese

In Ungheria gli avvenimenti del '56 seguirono all'inizio un corso analogo.
Vi furono, per tutta l'estate, agitazioni e proteste animate soprattutto da intellettuali e studenti. In ottobre le proteste sfociarono in una vera e propria insurrezione, con ampia partecipazione dei lavoratori. In tutte le fabbriche si formarono consigli operai, autonomi dalle organizzazioni ufficiali. A capo del governo fu chiamato Imre Nagy, comunista dell'ala "liberale", già espulso dal partito. Alla fine del mese le truppe sovietiche si ritirarono dall'Ungheria.
A questo punto, però, il regime di piena libertà instauratosi nel paese aprì larghi spazi alle forze antisovietiche e i comunisti persero il controllo della situazione. Quando, il 1° novembre, Nagy annunciò l'uscita dell'Ungheria dal Patto di Varsavia, il segretario del Partito comunista Janos Kadar invocò l'intervento sovietico. Reparti dell'Armata rossa occuparono Budapest e, con i carri armati, stroncarono in pochi giorni la resistenza delle milizie popolari.
Pochi mesi dopo, Nagy fu fucilato, mentre Kadar assumeva la guida del paese. L'intervento sovietico – che suonava come una brutale smentita alle speranze suscitate dalla destalinizzazione – provocò sdegno e proteste in Occidente e suscitò non poche crisi di coscienza fra i comunisti di tutto il mondo, già colpiti dal trauma del rapporto Kruscëv.
Ma, sul piano dei rapporti di forza, la "rioccupazione" dell'Ungheria rappresentò una conferma del controllo sovietico sui paesi satelliti e dell'immutabilità dell'assetto europeo uscito dalla seconda guerra mondiale.

 

Le democrazie europee e l'avvio dell'integrazione economica

[ Introduzione audio ]

Mentre l'Europa orientale vedeva riaffermata la sua subordinazione all'Urss, mentre la Gran Bretagna si dedicava alla costruzione di un sistema di sicurezza sociale che la avvicinava alle democrazie scandinave, e nella Penisola iberica sopravvivevano i regimi autoritari di Spagna e Portogallo (rimasti neutrali nel conflitto mondiale), nella parte centro-occidentale del continente che aveva sofferto i traumi e le distruzioni della guerra ma aveva mantenuto o recuperato le istituzioni democratiche, la ricostruzione e il rilancio produttivo si accompagnavano al primo avvio di un processo di integrazione economica tra gli Stati.

Il «miracolo tedesco»

La ripresa più spettacolare, soprattutto se si tiene conto delle condizioni di partenza, fu quella della Germania federale, dove i governi postbellici applicarono un modello di economia sociale di mercato che combinava un sistema avanzato di protezione sociale con un'ispirazione di fondo liberistica e produttivistica.
Il prodotto nazionale tedesco crebbe negli anni '50 al ritmo del 6% annuo; la disoccupazione fu quasi completamente riassorbita, il marco divenne la più forte fra le monete europee e la bilancia commerciale rimase sempre in attivo.
Diversi furono i fattori alla base del «miracolo tedesco»: fra gli altri la disponibilità di una numerosa manodopera fornita dai profughi (a quelli provenienti dai territori perduti se ne aggiunsero, nel decennio '50-60, altri 3 milioni fuggiti dalla Germania orientale) e la notevole stabilità politica: quest'ultima dovuta anche alla Costituzione varata nel '49 sotto la tutela delle autorità di occupazione alleate, che prevedeva meccanismi atti a penalizzare i piccoli partiti e a evitare le troppo frequenti crisi parlamentari che avevano indebolito la Repubblica di Weimar.
L'Unione cristiano-democratica (che aveva raccolto l'eredità del vecchio Centro cattolico) mantenne ininterrottamente fino al '63 la guida del governo con Konrad Adenauer, per lo più in coalizione con il Partito liberale. Il Partito socialdemocratico svolse il ruolo di opposizione costituzionale, abbandonando ufficialmente, nel congresso di Bad Godesberg del 1959, l'antica base teorica marxista, in favore di una piattaforma democratico-riformista.
La Germania federale si ricandidava così a svolgere un ruolo di rilievo nello scacchiere europeo, puntando però questa volta su una prospettiva di collaborazione e di integrazione.

La spinta all'integrazione

Del resto, gli Stati-nazione dell'Europa occidentale, per il fatto stesso di aver perduto la posizione centrale a suo tempo occupata nel mondo, di essere inseriti nella stessa alleanza e retti da regimi parlamentari molto simili fra loro, vedevano svanire i vecchi motivi di rivalità e crescere gli elementi di affinità reciproca (diverso era il caso della Gran Bretagna che continuava a privilegiare i legami col Commonwealth).
L'ideale di un'Europa unita nel segno della pace, della democrazia e della cooperazione economica fu fatto proprio, nell'immediato dopoguerra, da autorevoli uomini politici di diversi paesi: soprattutto, cattolici come De Gasperi, Adenauer e il francese Robert Schuman.
Favorevoli al processo di integrazione erano anche gli Stati Uniti, interessati soprattutto a inserire la Germania occidentale nel dispositivo militare atlantico.

La Ceca e la Ced

La prima realizzazione concreta sul cammino dell'unità si ebbe nel 1951 con la creazione della Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca), che aveva il compito di coordinare produzione e prezzi in quelli che erano ancora i settori chiave della grande industria continentale.
Il successo della Ceca incoraggiò i governi dei paesi membri (Francia, Germania federale, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo) a proseguire sulla strada dell'integrazione. Ma il progetto di una Comunità europea di difesa (Ced), ovvero di un'organizzazione militare integrata che avrebbe dovuto porre le premesse per una vera e propria comunità politica, fallì nel 1954 per il voto contrario del Parlamento francese.

La Cee

A questo punto, i governanti europei ripiegarono su un obiettivo più realistico: un accordo che consentisse la creazione di un'area di libero scambio e il coordinamento delle politiche economiche, predisponendo almeno le strutture di base per una futura integrazione politica.
Nel marzo 1957 i sei paesi membri della Ceca giunsero così alla firma del trattato di Roma, che istituiva la Comunità economica europea (Cee). Lo scopo primario era quello di creare un Mercato comune (Mec), mediante il graduale abbassamento delle tariffe doganali e la libera circolazione della forza-lavoro e dei capitali, ma anche attraverso il coordinamento delle politiche industriali e agricole e l'intervento delle autorità comunitarie in favore delle aree depresse e dei settori in crisi.
Organi principali della Cee erano:
 - la Commissione, organismo tecnico che aveva il compito di proporre i piani di intervento e di disporne l'attuazione;
 - il Consiglio, formato da delegati dei governi dei paesi membri;
 - la Corte di giustizia, incaricata di dirimere le controversie fra Stato e Stato;
 - il Parlamento europeo, con funzioni puramente consultive, composto inizialmente da rappresentanti dei parlamenti nazionali, poi (dal '79) eletto direttamente dai cittadini.
Sul piano economico, il Mercato comune ottenne buoni risultati, dando un forte stimolo alle economie dei paesi associati. Sul piano politico, però, la spinta all'integrazione si esaurì nel giro di pochi anni. E le scelte più importanti continuarono a essere prerogativa dei governi e dei parlamenti nazionali.

La quarta Repubblica in Francia

Nel complesso, le democrazie europee mantennero in questo periodo una notevole stabilità delle istituzioni, nonostante le tensioni della guerra fredda.
Fece eccezione la Francia, che già nell'immediato dopoguerra aveva vissuto una difficile fase costituente, conclusasi nel 1946 col varo di una nuova Costituzione voluta dai tre partiti di massa allora insieme al governo – comunisti, socialisti e cattolici del Movimento repubblicano popolare (Mrp) – e avversata dal generale De Gaulle, che si ritirò dalla politica attiva.
Il sistema politico della "Quarta Repubblica" non si differenziava molto da quello della terza (abbattuta dall'invasione tedesca e cancellata dal regime di Pétain), anzi ne accentuava i difetti, a cominciare dalla frammentazione politica e dalla conseguente instabilità dei governi di coalizione.

La crisi algerina e la nascita della V Repubblica

Già fragile di per sé, la Quarta Repubblica non resse alle tensioni provocate dalla smobilitazione dell'Impero coloniale francese, la cui conservazione si rivelava sempre più insostenibile, ma il cui abbandono era osteggiato da forti correnti dell'opinione pubblica.
Nel maggio '58 giunse al culmine la crisi legata al problema algerino, con la minaccia di un colpo di Stato da parte dei coloni e dei militari di stanza ad Algeri, contrari a ogni ipotesi di trattativa con il movimento indipendentista.
Nel pieno della crisi, con una procedura del tutto anomala, il generale De Gaulle, che da anni si era ritirato in orgoglioso isolamento, fu chiamato a formare un nuovo governo di coalizione. Il Parlamento concesse al governo poteri straordinari e avviò un processo di revisione costituzionale, come richiesto dal generale.
La nuova costituzione – con cui nasceva la Quinta Repubblica – si distingueva dalla precedente soprattutto per il rafforzamento delle prerogative del presidente della Repubblica, che diventava il vero capo dell'esecutivo. Il presidente – in un primo tempo eletto dal Parlamento, poi, dal '62, direttamente dal popolo – aveva il potere di nominare il primo ministro (che doveva però ottenere anche la fiducia del Parlamento), di sciogliere le Camere quando lo ritenesse opportuno e di sottoporre a referendum le questioni da lui considerate più importanti.
La costituzione stessa fu sottoposta a referendum e approvata, nel settembre '58, dall'80% dei francesi.

La politica di De Gaulle

Eletto alla presidenza della Repubblica nel dicembre dello stesso anno, De Gaulle deluse le aspettative della destra colonialista che pure ne aveva accolto con favore l'avvento al potere: avviò alla sua logica soluzione l'affare algerino, riconoscendo l'indipendenza all'ex colonia (con gli accordi di Evian del 1962), e stroncò i tentativi di sedizione da parte degli oppositori più radicali, che diedero vita a un gruppo clandestino armato (l'Oas, Organisation de l'Armée secrète).
D'altra parte, obbedendo alla sua vocazione nazionalista, De Gaulle cercò di risollevare il prestigio internazionale del paese, facendosi promotore di una politica estera che tendeva a svincolare la Francia da legami troppo stretti con gli Stati Uniti e a proporla come guida di una futura Europa indipendente dai due blocchi.
Il presidente volle dunque che la Francia si dotasse di una propria «forza d'urto» nucleare; ritirò nel '66 le truppe francesi dall'organizzazione militare della Nato, pur senza mettere in discussione l'alleanza atlantica; e si oppose ai progetti di integrazione politica fra i paesi della Cee, ponendo il veto all'ingresso della Gran Bretagna nel mercato comune.

 

Distensione e confronto: gli anni di Kennedy e Kruscëv

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Gli anni dell'ottimismo

La pace armata che seguì la fase più acuta della guerra fredda coincise, per le democrazie occidentali, con una stagione di crescita demografica, di innovazione tecnologica e di intenso sviluppo produttivo.
Soprattutto nei primi anni '60, questo quadro positivo contribuì ad alimentare un clima di diffuso ottimismo, fondato sulla speranza che il progresso economico potesse rendere meno aspro il confronto ideologico e militare e che la stessa contrapposizione fra i blocchi si trasferisse sul terreno della pacifica competizione economica.
In realtà, al di là delle rappresentazioni convenzionali, il clima dei rapporti internazionali fu in questi anni piuttosto agitato. Non mancarono le crisi locali e la coesistenza si consolidò solo attraverso momenti di scontro, a tratti anche drammatico.

Kennedy e la «nuova frontiera»

Le speranze e le contraddizioni di questa stagione furono ben incarnate dalle figure dei due leader che si trovarono allora alla testa delle due superpotenze. Il segretario del Pcus Nikita Kruscëv e il presidente degli Stati Uniti, il democratico John Fitzgerald Kennedy, eletto nel novembre 1960, a 44 anni, e primo cattolico a entrare alla Casa Bianca.
Assistito da un nutrito gruppo di intellettuali, Kennedy suscitò immediatamente ampi consensi attorno alla sua persona, riallacciandosi alla tradizione progressista di Wilson e Roosevelt e aggiornandola col riferimento a una «nuova frontiera»: una frontiera non più materiale come quella dei pionieri dell'800, ma spirituale, culturale e scientifica.
In politica interna lo slancio riformatore kennediano si tradusse in un forte incremento della spesa pubblica, assorbito in parte dai programmi sociali e in parte dalle esplorazioni spaziali, ma anche nel tentativo di imporre l'integrazione razziale in quegli Stati del Sud che ancora praticavano forme di discriminazione nei confronti dei neri.

Il problema di Berlino

In politica estera, la presidenza Kennedy seguì una linea ambivalente, in cui l'enfasi sui temi della pace e della distensione con l'Est si univa a una sostanziale intransigenza sulle questioni ritenute essenziali.
Il primo incontro fra Kennedy e Kruscëv, avvenuto a Vienna nel giugno '61 e dedicato al problema di Berlino Ovest (che gli americani consideravano parte della Germania federale, mentre i sovietici avrebbero voluto trasformarla in «città libera»), si risolse in un fallimento.
I sovietici risposero innalzando un muro che separava le due parti della città, chiudendo l'unico varco praticabile attraverso la cortina di ferro e rendendo pressoché impossibili le fughe, fin allora molto frequenti, dal settore orientale a quello occidentale. Il muro di Berlino sarebbe diventato da allora il simbolo più visibile della divisione della Germania – e dell'Europa e del mondo – secondo le linee già segnate dalla guerra fredda.

Cuba e la crisi dei missili

Ma in questo periodo il confronto più drammatico fra le due superpotenze ebbe per teatro l'isola di Cuba, dove si era affermato il regime socialista di Fidel Castro.
La presenza di un regime ostile a meno di duecento chilometri dalle coste della Florida fu sentita negli Stati Uniti come una seria minaccia alla sicurezza del paese. Per questo, all'inizio della sua presidenza, Kennedy tentò di soffocare il regime castrista, sia boicottandolo economicamente, sia appoggiando i gruppi di esuli anticastristi che tentarono, nell'aprile 1961, una spedizione armata nell'isola. Lo sbarco, che ebbe luogo in una località chiamata Baia dei porci e che, nei progetti americani, avrebbe dovuto suscitare un'insurrezione contro Castro, si risolse però in un totale fallimento e in un gravissimo scacco per l'amministrazione Kennedy.
Nella tensione così creatasi si inserì l'Unione Sovietica, che non solo offrì ai cubani assistenza economica e militare, ma iniziò l'installazione nell'isola di alcune basi di lancio per missili nucleari.
Quando, nell'ottobre 1962, le basi furono scoperte da aerei-spia americani, Kennedy ordinò un blocco navale attorno a Cuba per impedire alle navi sovietiche di raggiungere l'isola. Per sette drammatici giorni (22-28 ottobre) il mondo fu vicino a un conflitto generale: mai l'incubo della guerra nucleare era apparso così concreto e vicino. Ma alla fine Kruscëv cedette e acconsentì a smantellare le basi missilistiche. In cambio gli Stati Uniti si impegnavano ad astenersi da azioni militari contro Cuba e a ritirare i loro missili nucleari dalle basi Nato in Turchia.

Il dialogo Usa-Urss

Lo scontro mancato dell'ottobre 1962 riaprì la strada del dialogo fra le superpotenze. Nell'agosto del 1963 Usa e Urss firmarono un trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell'atmosfera (continuarono invece quelli sotterranei, meno pericolosi per l'equilibrio ambientale). Nello stesso periodo entrò in funzione una linea diretta di telescriventi (la linea rossa) fra la Casa Bianca e il Cremlino, che serviva a scongiurare il pericolo di una guerra «per errore».

La caduta di Kruscëv e la morte di Kennedy

Nell'ottobre del 1964, Kruscëv fu estromesso da tutte le sue cariche e sostituito da una nuova "direzione collegiale".
Pesarono nel suo siluramento le rivalità interne al gruppo dirigente. Ma pesò soprattutto il fallimento dell'incauta sfida lanciata al mondo occidentale dal leader sovietico, che era giunto a promettere al suo popolo il raggiungimento, nel giro di un decennio, di un livello di vita superiore a quello dei paesi capitalistici più sviluppati.
Un anno prima era scomparso tragicamente l'altro protagonista della scena internazionale dei primi anni '60. Il 22 novembre 1963 Kennedy fu ucciso a Dallas, nel Texas, in un attentato di cui non si giunse mai a scoprire i mandanti: fu il primo di una serie di misteriosi omicidi politici (nel '68 furono uccisi Robert Kennedy, fratello di John e probabile candidato democratico alla presidenza, e il pastore nero Martin Luther King, leader del movimento antisegregazionista) che contribuirono a imprimere un segno di inquietante violenza su tutta una fase della storia degli Stati Uniti.
A Kennedy subentrò - e fu poi rieletto nel '64 - il vicepresidente Lyndon Johnson, che ebbe il merito di tradurre in atto e di ampliare molti progetti di legislazione sociale avviati in epoca kennediana. Johnson finì però, come vedremo, col legare il suo nome soprattutto all'impegno americano nella guerra del Vietnam.

 

Nuove tensioni nei due blocchi: guerra del Vietnam e crisi cecoslovacca

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L'intervento militare americano in Vietnam

Per oltre dieci anni – fra il 1964 e il 1975 – gli Stati Uniti furono coinvolti in una guerra, questa volta guerreggiata, nel lontano Vietnam. Un conflitto combattuto sempre nel nome della lotta contro il comunismo, che logorò la superpotenza americana economicamente e militarmente, ne sfigurò l'immagine e ne spaccò profondamente l'opinione pubblica.
Dopo il ritiro della Francia dalla Penisola indocinese, gli accordi di Ginevra del '54 avevano diviso il Vietnam in due repubbliche: quella del Nord, retta dai comunisti di Ho Chi-minh; e quella del Sud, governata da un regime semidittatoriale appoggiato dagli americani che cercavano di sostituire la loro influenza a quella francese.
Contro il governo del Sud, inviso alla maggioranza buddista della popolazione, si sviluppò un movimento di guerriglia (il Vietcong) guidato dai comunisti e sostenuto dallo Stato nordvietnamita. Preoccupati dalla prospettiva di un'Indocina comunista, gli Stati Uniti inviarono nel Vietnam del Sud un contingente di «consiglieri militari» che, durante la presidenza Kennedy, si ingrossò fino a raggiungere la consistenza di 30 mila uomini.
Sotto la presidenza Johnson la presenza Usa in Vietnam compì un salto qualitativo, trasformandosi in aperto intervento bellico. Nell'estate del 1964, in risposta a un attacco subito da due navi da guerra statunitensi nel golfo del Tonchino, il presidente, con l'autorizzazione del Congresso, ordinò il bombardamento di alcuni obiettivi militari nel Vietnam del Nord. In seguito i bombardamenti divennero sistematici, mentre crescevano continuamente le dimensioni del corpo di spedizione impegnato nel Sud, che giunse a contare, nel 1967, oltre mezzo milione di uomini.
La continua dilatazione dell'impegno militare americano (l'escalation, ossia graduale intensificazione, come fu definita negli Stati Uniti) non fu però sufficiente a domare la lotta dei vietcong, che godevano di vasti appoggi fra le masse contadine, né a piegare la resistenza della Repubblica nordvietnamita che, aiutata da Russia e Cina, continuò ad alimentare la guerriglia con armi e uomini. Di fronte a un nemico inafferrabile, l'esercito statunitense entrò in una profonda crisi, originata non solo da fattori tecnici (le difficoltà di un esercito moderno, addestrato alla guerra meccanizzata, nell'affrontare una guerriglia partigiana), ma anche da un crescente disagio morale.

La protesta contro la guerra

Negli Stati Uniti, infatti, il conflitto vietnamita – le cui immagini venivano quotidianamente diffuse dalla televisione e le cui vicende erano oggetto di un acceso dibattito – apparve ai settori più progressisti dell'opinione pubblica come una guerra fondamentalmente ingiusta (una «sporca guerra»), contraria alle tradizioni della democrazia americana.
Vi furono imponenti manifestazioni di protesta (che spesso si intrecciavano con la mobilitazione dei neri sulla questione razziale) e molti giovani in età di leva rifiutarono di indossare la divisa.
Anche fuori dagli Usa le ripercussioni furono vastissime. Per i movimenti rivoluzionari di tutto il mondo le vicende vietnamite dimostravano che la più grande macchina militare poteva essere tenuta in scacco da una guerra di popolo.

I successi dei vietcong

All'inizio del '68, i vietcong lanciarono contro le principali città del Sud una grande offensiva che, pur non ottenendo risultati decisivi, mostrò tutta la vitalità della guerriglia.
In marzo Johnson decise la sospensione dei bombardamenti sul Nord e annunciò contemporaneamente la sua intenzione di non ripresentarsi alle elezioni di quell'anno. Il suo successore, il repubblicano Richard Nixon, avviò negoziati ufficiali con il Vietnam del Nord e con i rappresentanti del Vietcong, e ridusse progressivamente l'impegno militare americano. Ma nel contempo allargò le operazioni belliche agli Stati confinanti, il Laos e la Cambogia, dove pure erano attivi movimenti di guerriglia comunisti, nel tentativo di tagliare ai vietcong le vie di rifornimento.

La sconfitta degli Usa e l'Indocina comunista

Solo nel gennaio 1973, americani e nordvietnamiti firmarono a Parigi un armistizio che prevedeva il graduale ritiro delle forze statunitensi.
Dopo l'inizio del ritiro americano, la guerra continuò per oltre due anni: fino a che, il 30 aprile 1975, i vietcong e le truppe nordvietnamite entrarono a Saigon, capitale del Sud, mentre i membri del governo, assieme agli ultimi consiglieri e al personale dell'ambasciata Usa, abbandonavano precipitosamente la città.

L'Indocina dal 1972 al 1975

Pochi giorni prima, i guerriglieri comunisti (khmer rossi) avevano conquistato Phnom Penh, capitale della Cambogia, cacciandone il governo filoamericano.
Tre mesi dopo (agosto '75) era il Laos a cadere nella mani dei partigiani del Pathet Lao. Tutta l'Indocina era così diventata comunista. Gli Stati Uniti, che avevano combattuto proprio per impedire questo esito, dovettero registrare la prima grave sconfitta di tutta la loro storia.

L'Urss di Breznev

Mentre la superpotenza americana era coinvolta nell'avventura vietnamita, l'Unione Sovietica doveva ancora una volta confrontarsi con le inquietudini dei paesi satelliti dell'Europa orientale. Il gruppo dirigente salito al potere dopo l'allontanamento di Kruscëv, guidato dal nuovo segretario del Pcus Leonid Breznev, accentuò, pur senza mai raggiungere i livelli di brutalità dell'era staliniana, la repressione di ogni forma di dissenso, che colpì in particolare gli intellettuali. Ma soprattutto ribadì con i fatti il vincolo di subordinazione che doveva legare allo Stato-guida i paesi satelliti dell'Europa orientale. Il banco di prova fu questa volta la Cecoslovacchia.

La «primavera di Praga»

Nel gennaio 1968 salì alla segreteria del Partito comunista cecoslovacco Aleksander Dubček, leader dell'ala innovatrice. Premuto da un'opinione pubblica in fermento, appoggiato con entusiasmo dagli intellettuali, dagli studenti e dagli stessi operai, Dubček varò un programma che cercava di conciliare il mantenimento del sistema economico socialista con l'introduzione di elementi di pluralismo economico e soprattutto politico (compresa la presenza di diversi partiti) e con la più ampia libertà di stampa e di opinione.
Fra la primavera e l'estate del '68, la Cecoslovacchia visse una stagione di radicale rinnovamento politico e di grande fermento intellettuale. A differenza del moto ungherese del '56, l'esperienza cecoslovacca del '68 fu sempre controllata dai comunisti e non mise mai in discussione la collocazione del paese nel sistema di alleanze sovietico. E tuttavia fu sentita come una minaccia intollerabile per l'Urss, preoccupata dagli effetti di contagio che quel processo avrebbe potuto avere sugli altri Stati del blocco orientale.

L'intervento sovietico e la "normalizzazione"

Il 21 agosto 1968, reparti corazzati dell'Urss e di altri paesi del Patto di Varsavia occuparono Praga e il resto del paese.
Non vi fu in questo caso una reazione armata, ma solo una efficace resistenza passiva contro gli occupanti, mentre un congresso clandestino del partito tenuto in una fabbrica di Praga confermava nel loro ruolo i dirigenti riformisti, vanificando il tentativo sovietico di insediare un nuovo gruppo dirigente.
Ma fu un successo apparente: costretti in un primo tempo a mantenere i loro incarichi sotto il controllo delle forze di occupazione, gli uomini della «primavera di Praga» furono progressivamente emarginati, costretti a emigrare o a cercarsi un lavoro manuale, e sostituiti con elementi fidati. Con questa opera di "normalizzazione", si chiuse ogni residuo spazio di libertà.

 

La Cina maoista

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La sfida cinese

Mentre la superpotenza americana sembrava affondare nella palude vietnamita e quella sovietica doveva tenere insieme con la forza (e con grave danno di immagine) il suo "impero" europeo, la seconda potenza comunista, la Cina di Mao Zedong, accentuava i tratti radicali del suo regime e si proponeva, in concorrenza con l'Urss, come guida e modello per i movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, in particolare per quelli dei paesi che si stavano emancipando dal dominio coloniale.
L'esperimento si sarebbe risolto in una colossale tragedia umana, economica e politica. Ma, come era avvenuto per quello sovietico degli anni '30, il "modello cinese" esercitò un notevole fascino su molti intellettuali e sui gruppi di estrema sinistra che si andavano formando in Occidente.

Industrializzazione e collettivizzazione

Nel corso degli anni '50 il regime comunista aveva nazionalizzato i settori industriale e commerciale e aveva compiuto uno sforzo notevole per dotarsi di una propria industria pesante, giovandosi dell'aiuto di tecnici sovietici.
Nel settore agricolo (dove erano occupati oltre tre quarti della popolazione) aveva dapprima, con la riforma agraria del 1950, distribuito le terre fra i contadini, creando così una miriade di piccole aziende agricole. Quindi aveva obbligato le aziende familiari a riunirsi in cooperative, controllate dalle autorità statali.
Mentre nel settore industriale si era ottenuta, partendo quasi da zero, una crescita molto rapida (con ritmi di poco inferiori al 20% annuo), molto meno soddisfacenti erano stati i risultati nel settore agricolo, sul quale incombeva l'onere di sfamare una popolazione in continuo aumento (oltre mezzo miliardo nel '49, quasi 600 milioni cinque anni dopo).

Le comuni popolari

Per accelerare il rilancio della produzione agricola, la dirigenza comunista varò, nel maggio 1958, una nuova strategia che fu definita del «grande balzo in avanti». Le cooperative furono riunite in unità più grandi, le comuni popolari, ciascuna delle quali doveva tendere all'autosufficienza economica, producendo in proprio quanto le era necessario (dunque anche le macchine e, in qualche caso, persino l'acciaio).
L'intera popolazione fu sottoposta a un controllo sempre più stretto e mobilitata con una martellante campagna propagandistica. I risultati furono però fallimentari: la produzione agricola crollò, provocando una spaventosa carestia (stime recenti parlano di 30 milioni di morti) e costringendo la Cina a massicce importazioni di cereali. Un'altra conseguenza fu quella di far precipitare i rapporti con l'Urss.

La rottura con l'Urss

I sovietici criticarono aspramente la linea del «grande balzo in avanti» e, fra il '59 e il '60, richiamarono i loro tecnici, infliggendo un duro colpo alla già provata economia cinese.
Contemporaneamente, l'Urss rifiutò di fornire qualsiasi assistenza nel campo nucleare (il che non avrebbe impedito alla Cina di far esplodere, nel '64, la sua prima bomba atomica), motivando il rifiuto con accuse di «avventurismo». I cinesi replicarono con accuse di «revisionismo» e di acquiescenza all'imperialismo (giudicato invece da Mao come una «tigre di carta», ossia uno spauracchio da cui non bisognava farsi intimidire); e, in un crescendo di scambi polemici, giunsero a rimettere in discussione i confini fra Cina e Russia definiti nel '600.
Nel 1969 la tensione sarebbe sfociata addirittura in episodici scontri armati lungo il fiume Ussuri, ai confini fra la Siberia e la Manciuria.

La rivoluzione culturale

Il fallimento del «grande balzo in avanti» diede spazio alle componenti meno antisovietiche del gruppo dirigente comunista (rappresentate soprattutto dal presidente della Repubblica Liu Shao-chi).
Non disponendo di un controllo dell'apparato tale da consentirgli una rapida epurazione dei suoi avversari, Mao ricorse a una forma di lotta inedita in un regime comunista: avvalendosi del sostegno dell'esercito, controllato dal ministro della Difesa Lin Piao, si appellò ai giovani, esortandoli a ribellarsi contro i dirigenti sospettati di percorrere la «via capitalistica».
Si scatenò così una rivolta generazionale apparentemente spontanea, ma in realtà orchestrata dall'alto, che, richiamandosi all'«autentico» pensiero di Mao, contestava ogni potere burocratico e ogni autorità basata sulla competenza tecnica. Nelle scuole e nei luoghi di lavoro, nel partito e negli organi di governo locale, gruppi di giovani guardie rosse, in maggioranza studenti, mettevano sotto accusa insegnanti e dirigenti politici, intellettuali e funzionari: molti di questi furono internati in «campi di rieducazione» e sottoposti a torture fisiche e psicologiche, alle quali spesso non sopravvissero. L'intento era quello di promuovere un radicale mutamento nella cultura e nella mentalità collettiva (da qui il nome di «rivoluzione culturale») e di superare in questo modo tutti gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione del comunismo.
Anche in paesi molto lontani dalla Cina, soprattutto in Europa occidentale, si formarono gruppi e movimenti giovanili ispirati all'esempio delle guardie rosse e al pensiero di Mao.

Il ritorno all'ordine

La rivoluzione culturale si esaurì nel giro di due o tre anni: quanti furono necessari per eliminare i dirigenti contrari alla linea maoista.
A partire dal '68, lo stesso Mao Zedong cominciò a porre un freno al movimento da lui suscitato, che – al di là dei suoi pesantissimi costi umani (almeno un milione di morti) – stava provocando profonde spaccature nella base comunista e rischiava di gettare nel caos l'economia.
Le guardie rosse furono allontanate dalle città. I leader più radicali furono emarginati, mentre riacquistarono peso tecnici ed esperti. Un ruolo importante in questa fase fu svolto da Chou En-lai, il più autorevole dopo Mao fra i capi comunisti cinesi, che ricoprì ininterrottamente dal 1949 la carica di primo ministro e che rappresentò, anche negli anni più agitati, la continuità del potere istituzionale.

La svolta in politica estera

Fu Chou En-lai ad avviare, all'inizio degli anni '70, una linea di normalizzazione anche in campo internazionale, resa necessaria dall'isolamento economico e diplomatico in cui il paese si trovava.
Dal momento che i rapporti con l'Urss restavano pessimi, la nuova linea si tradusse in una clamorosa apertura agli Stati Uniti, sancita, nell'estate '72, da un viaggio del presidente americano Richard Nixon a Pechino e dall'ammissione all'Onu della Cina comunista (che prese il posto occupato fin allora dalla Repubblica «nazionalista» di Chang Kai-shek).
Nell'autunno 1971 il maresciallo Lin Piao, protagonista della rivoluzione culturale e delfino designato di Mao, scomparve in un incidente aereo e fu successivamente accusato di aver tentato di fuggire in Urss dopo un fallito complotto antimaoista. Con questo misterioso episodio, il periodo della rivoluzione culturale si chiudeva definitivamente.
Cominciava una fase di transizione destinata a sfociare, dopo la morte di Mao e di Chou En-lai (scomparsi entrambi nel 1976), in un radicale mutamento di rotta anche sul piano interno.

 

 

LA DECOLONIZZAZIONE

 

 

Il crollo degli imperi

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Una trasformazione epocale

Per oltre quarant'anni, dalla conclusione della seconda guerra mondiale fino agli anni '80 del '900, la scena internazionale fu dominata dal confronto "bipolare" fra i due grandi blocchi a guida americana e sovietica.
Negli stessi anni, però, a questa realtà tendenzialmente statica si aggiunse e si sovrappose un processo di rapida e profonda trasformazione che ebbe per protagonisti i paesi asiatici e africani sin allora rimasti, con poche eccezioni, fuori dai circuiti del potere mondiale, vuoi perché oggetto del dominio coloniale, vuoi perché, anche se formalmente indipendenti, sotto l'influenza delle potenze maggiori.
Per avere un'idea delle dimensioni di questo processo, basta guardare una carta politica del mondo nel 1945: si vedrà come vaste zone dell'Asia e buona parte dell'Africa fossero ancora possedimenti della Gran Bretagna e della Francia.

Le colonie nel 1945

Una trentina di anni dopo gli imperi coloniali erano scomparsi e il numero degli Stati indipendenti era cresciuto vertiginosamente (oggi sono circa duecento).

Decolonizzazione e guerre mondiali

Preparato già negli anni fra le due guerre con lo sviluppo di movimenti indipendentisti, il processo di decolonizzazione – cioè lo smantellamento del sistema coloniale e l'accesso all'indipendenza dei popoli euroasiatici – ricevette la spinta decisiva dal secondo conflitto mondiale: nei fronti extraeuropei i gruppi nazionalisti si impegnarono a fianco dell'uno o dell'altro schieramento e, a guerra finita, rimasero mobilitati politicamente e militarmente per battersi contro il dominio coloniale.
Un fenomeno analogo si era in parte verificato già durante il primo conflitto mondiale, ma, in sede di conferenza della pace, le promesse di emancipazione implicite nel messaggio wilsoniano erano state largamente disattese dalle grandi potenze europee, ancora titolari di immensi imperi d'oltremare.

Il principio di autodeterminazione

Nel secondo dopoguerra la situazione era molto diversa.
Le due superpotenze vincitrici – gli Usa, nati da una rivoluzione anticoloniale e l'Urss da sempre impegnata contro l'imperialismo – erano divise su quasi tutto, ma trovavano un terreno di oggettiva convergenza nell'opporsi alla perpetuazione del vecchio sistema di dominio.
Per volontà soprattutto degli Stati Uniti, gli alleati avevano proclamato, ancora in piena guerra mondiale, con la Carta atlantica del 1941, il «diritto di tutti i popoli a scegliere la forma di governo da cui intendono essere retti». Il principio di autodeterminazione dei popoli, che avrebbe ispirato l'intera attività dell'Onu, si impose così come base di un nuovo codice etico-politico internazionale, a cui le potenze coloniali, uscite esauste dalla guerra, non potevano certo sottrarsi: tanto più che i benefici del colonialismo compensavano sempre meno i costi politici, militari e finanziari del mantenimento degli imperi.

L'Asia nel 1975

Due vie alla decolonizzazione

Se la linea di tendenza era già chiara alla fine della guerra, non mancarono tuttavia le resistenze nella fase di attuazione.
Il processo di decolonizzazione si compì attraverso vicende alterne, che risentirono sia della natura dei nazionalismi locali, sia della consistenza numerica della colonizzazione bianca, sia delle politiche dei paesi europei.
La Gran Bretagna, che aveva sempre praticato forme di dominio "indiretto", avviò nella maggior parte dei casi un ritiro graduale, preparando i popoli soggetti all'indipendenza (mediante la concessione di costituzioni e di organismi rappresentativi) e cercando di trasformare l'Impero in una comunità di nazioni sovrane, liberamente associate nel Commonwealth (un vincolo che peraltro sarebbe diventato puramente simbolico).
La Francia, invece, oppose una tenace resistenza ai movimenti indipendentisti e praticò fino all'ultimo una politica «assimilatrice», che pretendeva di riunire la madrepatria e le colonie in un'unica compagine politica e concedeva ai popoli soggetti una formale parità di diritti.
Sia nel caso dei domini britannici sia in quello dei possedimenti francesi (e delle potenze coloniali minori), lo sbocco obbligato fu l'indipendenza.

L'eredità coloniale

Il rapporto con l'Europa, che nel bene e nel male era stato per i popoli afroasiatici un fattore decisivo di modernizzazione, rimase comunque importante, soprattutto per le nuove classi dirigenti che si erano formate nelle scuole, nelle università o nelle accademie militari dei paesi colonizzatori.
Nonostante la polemica ricorrente contro alcuni aspetti della cultura occidentale, l'eredità coloniale lasciò tracce durevoli non solo sul piano materiale, ma anche su quello delle abitudini, della cultura, della lingua (si pensi al caso dell'India, dove l'inglese continuò a svolgere la funzione di lingua nazionale). Sul piano delle istituzioni politiche, però, la democrazia parlamentare di tipo europeo si affermò solo in pochi paesi.
Le ragioni furono molteplici: il peso di una tradizione diversa; il fatto che l'Europa aveva mostrato in Africa e in Asia non il suo volto liberale, ma quello autoritario del governo coloniale; il carattere delle dirigenze locali, espressione di clan o di élites numericamente esigue e spesso corrotte; la difficoltà di avviare un processo di sviluppo partendo da condizioni di grave arretratezza economica.
Il risultato fu quasi ovunque la prevalenza di regimi autoritari.

 

L'indipendenza dell'India

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Il percorso di emancipazione dei popoli colonizzati ebbe la sua prima e fondamentale tappa nel 1947, quando la Gran Bretagna accettò di privarsi del pezzo più importante del suo impero: il sub-continente indiano, sede di antiche e raffinate civiltà e di religioni millenarie (induismo, buddismo, islamismo), ma anche terminale di scambi commerciali che avevano svolto un ruolo decisivo nell'affermazione della Gran Bretagna come potenza industriale.

II movimento indipendentista

Negli anni fra le due guerre era cresciuto in India un forte movimento indipendentista, organizzato nel Partito del Congresso, sotto la guida carismatica del mahatma Gandhi. Durante il secondo conflitto mondiale, la maggioranza degli indiani aveva contribuito lealmente allo sforzo bellico britannico, mettendo in campo un esercito volontario che fu impegnato su tutti i fronti di guerra e giunse a contare due milioni e mezzo di uomini.
Nel contempo, il Partito del Congresso – guidato, dal 1941, da Jawaharlal Nehru, uno dei più stretti collaboratori di Gandhi – aveva continuato a promuovere il movimento di resistenza non violenta alla dominazione britannica, strappando la promessa di concedere all'India la condizione di dominion (quella di cui godevano Canada, Australia e Sudafrica), che equivaleva a una indipendenza di fatto.

La nascita di India e Pakistan

A guerra finita si aprirono i negoziati per il trasferimento della sovranità, che si conclusero nell'agosto del 1947. Ma l'esito fu diverso da quello auspicato da Gandhi, che si era battuto per uno Stato unitario laico dove potessero convivere i diversi gruppi religiosi.
La componente musulmana reclamò la creazione di un proprio Stato, che fu infine accordata dagli inglesi dopo gravi conflitti tra le due comunità. Così, nell'agosto 1947, nacquero due Stati: l'Unione Indiana, a maggioranza indù, e il Pakistan musulmano, geograficamente diviso in due tronconi situati alle opposte estremità della Penisola indiana.

Una separazione cruenta

La creazione dei due Stati non impedì, soprattutto nelle zone miste, il moltiplicarsi degli scontri fra le due comunità, che assunsero a tratti le proporzioni di una vera e propria guerra.

India e Pakistan nel 1947

Così le vicende di un movimento di liberazione nazionale affermatosi con mezzi pacifici si conclusero con oltre 200 mila morti e con il trasferimento da uno Stato all'altro di 17 milioni di persone, senza contare le conseguenze delle due guerre che India e Pakistan combatterono successivamente (nel 1948 e nel 1965) per il controllo della regione del Kashmir, musulmano ma assegnato all'Unione Indiana.
Lo stesso Gandhi fu vittima di quel clima di violenza e di odio religioso che tanto aveva combattuto: giudicato troppo arrendevole verso i musulmani, fu assassinato da un estremista indù nel gennaio 1948.

L'India democratica

Primo capo del governo dell'India indipendente, Nehru rimase fino alla sua morte (1964) alla guida di un paese sempre gravato da immensi problemi interni: la povertà cronica delle campagne; l'eccezionale sovraccarico demografico (fra il 1951 e il 1981 la popolazione quasi raddoppiò, passando da 362 a 683 milioni); le tensioni fra i diversi gruppi etnici e religiosi che convivevano nell'Unione (tendenze separatiste si manifestarono soprattutto nella setta dei sikh, concentrata nella regione del Punjab); la permanenza di abiti mentali arcaici e di divisioni legate al vecchio sistema delle caste.
Tuttavia, malgrado alcuni aspetti autoritari e personalistici del potere esercitato prima da Nehru, poi da sua figlia Indira Gandhi – primo ministro dal 1966 al 1977 e dal 1981 al 1984, quando fu uccisa da due militanti sikh –, le istituzioni democratico-parlamentari lasciate in eredità dalla dominazione britannica riuscirono progressivamente a consolidarsi.

Pakistan e Bangladesh

Assai più travagliata fu la vicenda politica del Pakistan, dove la vita democratica fu prima a lungo interrotta da dittature militari e, in anni più recenti, minacciata dalla crescita delle correnti islamiche integraliste. Nel 1971, inoltre, lo Stato nato nel '47 dovette subire la secessione della sua parte orientale che, dopo un nuovo sanguinoso conflitto, diede vita alla repubblica del Bangladesh.

 

Le guerre d'Indocina

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Nazionalisti e comunisti nel Sud-est asiatico

In tutto il Sud-est asiatico il processo di emancipazione si intrecciò con lo scontro fra le forze "nazionaliste", alleate con l'Occidente, e i movimenti comunisti che avevano, come in Cina, la loro base principale nelle campagne.
Il confronto ebbe esiti diversi. In Birmania (oggi Myanmar) e in Malesia (Malaysia), entrambe colonie britanniche, indipendenti rispettivamente nel 1948 e nel 1957, prevalsero le forze nazionaliste e la guerriglia comunista fu sconfitta.
In Indonesia il movimento nazionalista guidato da Ahmed Sukarno ottenne l'indipendenza dall'Olanda nel 1949 e cercò di seguire una politica autonoma rispetto ai due blocchi, resistendo alle pressioni contrapposte della destra militare e dei comunisti. Nel 1965, a seguito di un fallito tentativo rivoluzionario dei comunisti risoltosi con un massacro di militanti del partito, Sukarno fu costretto a cedere il potere ai militari del generale Suharto.
Nel Regno di Thailandia – l'ex Siam, unico fra gli Stati della regione ad aver sempre mantenuto l'indipendenza – le forze moderate mantennero il potere in un alternarsi di regimi militari e governi civili.
Nelle Filippine, cui gli Stati Uniti concessero l'indipendenza nel 1946 conservando tuttavia ampi privilegi economici e basi militari, governi di carattere spesso autoritario – come quello di Ferdinand Marcos, al potere dal '65 all'86 – dovettero fronteggiare la guerriglia condotta dai comunisti e dalle forze separatiste musulmane.

L'indipendenza del Vietnam

Una netta prevalenza dei comunisti si ebbe invece negli Stati sorti dalla dissoluzione dell'impero francese in Indocina.

L'Indocina nel 1954

Nel Vietnam i comunisti, sotto la guida di Ho Chi-minh, avevano assunto un ruolo preminente nella Lega per l'indipendenza (Vietminh), che era stata costituita nel 1941 per combattere la dominazione francese.
Nel 1945, Ho Chi-minh proclamò nella capitale Hanoi l'indipendenza dalla Francia e la nascita della Repubblica democratica del Vietnam. Ma i francesi non riconobbero il nuovo Stato e occuparono la parte meridionale del paese. Nel 1946 cominciò un lungo scontro tra i francesi e le forze del Vietminh, che riuscirono a logorare gli avversari con una sanguinosa guerriglia: il conflitto si concluse nel maggio 1954, quando la piazzaforte di Dien Bien Phu, dove era concentrato il grosso delle forze francesi, fu costretta a capitolare dopo tre mesi di assedio.
Gli accordi di Ginevra del luglio dello stesso anno sancirono il ritiro dei francesi da tutta la Penisola indocinese — dunque anche dal Laos e dalla Cambogia — e la divisione provvisoria del Vietnam in due Stati: uno comunista al Nord, l'altro filo-occidentale al Sud.
Ma a questo punto, come già era accaduto in Corea, la crisi indocinese veniva a inserirsi nel contrasto Est-Ovest, portando i germi di quel conflitto che si sarebbe concluso con la storica sconfitta degli Stati Uniti.

 

Il mondo arabo e la nascita di Israele

[ Introduzione audio ]

Il nazionalismo arabo

Dall'inizio del '900, in tutti paesi del Medio Oriente e della sponda Sud del Mediterraneo, si era sviluppato un movimento nazionale arabo, in lotta prima contro la dominazione turca, poi contro l'influenza europea.
Già nel corso della Grande Guerra, come si è visto, le vicende di questo movimento si erano intrecciate con quelle delle potenze coloniali e col loro tentativo di subentrare nel controllo dell'area al moribondo Impero ottomano.
Durante il secondo conflitto mondiale l'intreccio divenne più stretto: anche perché la regione mediorientale aveva visto crescere la sua importanza strategica, a causa delle sue ingenti risorse petrolifere. I tedeschi, in particolare, tentarono di giocare la carta dell'appoggio ai movimenti nazionali arabi contro Gran Bretagna e Francia, che controllavano la regione in virtù del mandato coloniale ricevuto all'indomani della Grande Guerra.

I nuovi Stati indipendenti

A guerra finita, le potenze "mandatarie" decisero di rinunciare ai loro possessi mediorientale, tentando però di mantenere su di essi qualche forma di controllo e appoggiandosi ai regimi monarchici e conservatori che loro stessi avevano contribuito a insediare. Così, nel 1946 la Gran Bretagna riconobbe l'indipendenza della Transgiordania e la Francia ritirò le sue truppe dalla Siria e dal Libano. L'Iraq aveva ottenuto l'indipendenza dagli inglesi già nel '32. Insieme all'Egitto, all'Arabia Saudita e allo Yemen, questi paesi formarono, nel 1945, la Lega degli Stati arabi (o Lega araba), con scopi di cooperazione politica ed economica e con ambizioni di integrazione federale che sarebbero peraltro rimaste sulla carta.

L'immigrazione ebraica

Restava da sciogliere il nodo della Palestina, contesa fra arabi ed ebrei. Negli anni della guerra, la pressione del movimento sionista per la creazione di uno Stato ebraico si fece sempre più forte, alimentata dall'immigrazione degli ebrei europei che fuggivano dal terrore nazista (nel 1945 c'erano in Palestina 550 mila ebrei, contro 1 milione e 250 mila arabi); e l'aspirazione a un «focolare nazionale» ricevette una nuova, potente legittimazione presso l'opinione pubblica democratica dopo le rivelazioni sugli orrori dei campi di sterminio.
La causa sionista fu sostenuta dagli Stati Uniti, dove la comunità ebraica era numerosa e influente, ma fu ostacolata dalle autorità inglesi, preoccupate di inimicarsi gli Stati arabi.
Mentre i leader sionisti chiedevano la libertà di immigrazione, le organizzazioni militari ebraiche in Palestina passavano alla lotta armata non più solo contro gli arabi, ma contro gli stessi inglesi.

La prima guerra arabo-israeliana

Trovatasi di fronte a una situazione incontrollabile, e avendo constatato l'impossibilità di formare uno Stato binazionale, la Gran Bretagna si tirò fuori dal conflitto: nel 1947 il governo inglese annunciò che avrebbe ritirato le sue truppe dalla Palestina alla mezzanotte del 15 maggio 1948 e rimise alle Nazioni Unite il compito di trovare una soluzione al problema.
L'Onu approvò un piano di spartizione in due Stati, che venne però respinto dagli arabi.
Nel maggio '48, all'atto della partenza degli inglesi, gli ebrei proclamarono la nascita dello Stato di Israele e gli Stati della Lega araba reagirono subito attaccandolo militarmente. L'esito dello scontro sembrava scontato, vista la sproporzione delle forze in campo. Invece la prima guerra arabo-israeliana (maggio '48-gennaio '49) si risolse in una catastrofe per le forze arabe, mal equipaggiate e mal coordinate fra loro, e segnò la definitiva affermazione del nuovo Stato ebraico, mostrandone la determinazione e la combattività.

Lo Stato d'israele

Il piano ONU di divisione della Palestina

Stato moderno, ispirato ai modelli delle democrazie occidentali, dotato di strutture sociali e civili molto avanzate – che contrastavano con la complessiva arretratezza dell'area mediorientale – e di un'organizzazione economica in cui il capitalismo industriale conviveva con l'esperimento cooperativistico delle comunità agricole (kibbutzim) create dai pionieri sionisti fin dall'inizio del secolo, Israele rivelò fin dai primi anni una forza insospettata rispetto alle sue piccole dimensioni: una forza che gli derivava non solo dalle risorse provenienti dall'esterno (le comunità ebraiche europee e soprattutto americane), ma anche dalla preparazione e dall'intraprendenza dei suoi dirigenti – in particolare dei leader laburisti, come David Ben Gurion e Golda Meir –, che guidarono il paese dopo l'indipendenza) e dalla forte motivazione patriottica dei suoi cittadini.

Il dramma palestinese

Con la guerra del '48, lo Stato ebraico si ingrandì rispetto al piano di spartizione dell'Onu, occupando anche la parte occidentale di Gerusalemme, che nei piani dell'Onu sarebbe dovuta restare sotto controllo internazionale e che invece restò divisa in due fino al 1967.
La Transgiordania, che mutò il suo nome in quello di Giordania, incamerò i territori occupati dalle sue truppe durante il conflitto (la West Bank, ovvero la riva occidentale del Giordano), sottraendoli all'ipotizzato Stato arabo di Palestina che non vide mai la luce.
Circa 750 mila arabi abbandonarono, per scelta o per costrizione, le terre che abitavano e ripararono nei paesi vicini, per lo più in Giordania, dove furono ammassati in campi-profughi, vivendo grazie agli aiuti dell'Onu e delle organizzazioni umanitarie, senza alcuna possibilità di integrarsi, e coltivando il sogno di un rapido ritorno alle loro case. Cominciò così il dramma palestinese, sul quale si sarebbe da allora incentrato il conflitto arabo-israeliano.

 

L'Egitto di Nasser e la crisi di Suez

[ Introduzione audio ]

Tradizionalismo e nazionalismo

La disastrosa sconfitta subita nella guerra contro Israele (che sarebbe stata ricordata come la nakbah, "la catastrofe") contribuì a radicalizzare le correnti nazionaliste e a far crescere nel mondo arabo il risentimento verso l'Occidente.
In questo processo confluivano due diverse componenti: quella tradizionalista, rappresentata dal movimento dei Fratelli musulmani (fondato alla fine degli anni '20 da un intellettuale egiziano, Hassan al-Banna, e poi diffusosi in tutta l'area mediorientale), puntava a una «reislamizzazione» della società mediante l'applicazione integrale dei precetti coranici; quella laica e nazionalista era incarnata soprattutto dai militari, più attenti alle istanze di modernizzazione e di sviluppo economico. Questa seconda tendenza, che traeva ispirazione dalle esperienze occidentali, mescolando spunti socialisti con temi presi a prestito dai regimi autoritari di destra, si affermò negli anni '50, trovando il suo centro e la sua guida nell'Egitto, il più importante degli Stati arabi per popolazione e per storia.

La rivoluzione nasseriana in Egitto

Formalmente indipendente dal 1922, l'Egitto era retto da un regime monarchico strettamente legato alla Gran Bretagna, che manteneva sul paese una sorta di protettorato e conservava, assieme alla Francia, il controllo della Compagnia del Canale di Suez.
Nel luglio 1952, la monarchia fu rovesciata da un colpo di Stato militare e il potere fu assunto da un "Comitato di ufficiali liberi" guidato da Mohammed Neguib e da Gamal Abdel Nasser.
Nel 1954, Nasser allontanò il più moderato Neguib e si impose come unico leader del paese, instaurando di fatto una dittatura personale.
Il nuovo regime avviò subito una serie di riforme in senso socialista (redistribuzione della terra, nazionalizzazione delle principali attività economiche) e tentò di promuovere un processo di industrializzazione. In politica estera, Nasser si propose come guida nella lotta dei paesi arabi contro Israele e si mosse con decisione per liberare il paese da ogni condizionamento da parte delle potenze ex coloniali: ottenne così lo sgombero delle truppe inglesi dalla zona del Canale e stipulò accordi con l'Urss per aiuti economici e militari.

La crisi di Suez

Reagendo a quello che appariva come uno scivolamento verso posizioni filosovietiche, gli Stati Uniti bloccarono il finanziamento da parte della Banca mondiale della grande diga di Assuan, sull'alto Nilo, necessaria per l'elettrificazione del paese. Nasser rispose nazionalizzando la Compagnia del Canale di Suez. Si apri a questo punto una crisi internazionale di vasta portata. Nell'ottobre 1956, d'intesa con i governi di Londra e Parigi, Israele attaccò l'Egitto e lo sconfisse, penetrando in profondità nella Penisola del Sinai, mentre truppe paracadutate francesi e inglesi occupavano la zona del Canale.
A far fallire l'operazione fu soprattutto l'atteggiamento delle due superpotenze: gli Stati Uniti non diedero alcun appoggio all'impresa, anzi la condannarono apertamente; l'Urss inviò addirittura un ultimatum a Francia, Gran Bretagna e Israele. Prive dell'appoggio americano, le due potenze coloniali dovettero cedere. Mentre Israele si ritirava dal Sinai, le truppe franco-inglesi abbandonavano la zona del Canale.

La diffusione dei nasserismo in Medio Oriente

Molte e importanti furono le conseguenze di questa crisi.
Innanzitutto essa sancì simbolicamente la fine dell'era coloniale e la perdita di peso delle potenze che ne erano state protagoniste, Gran Bretagna e Francia. L'effetto più immediato fu però quello di rafforzare la posizione dell'Egitto, che pure era stato nuovamente sconfitto sul campo, e quella personale di Nasser.
Rilanciando la causa del panarabismo (ossia dell'unità fra tutti i popoli arabi) e legandola a un progetto di modernizzazione fortemente osteggiato dai tradizionalisti, il leader egiziano acquistò un immenso prestigio presso le masse popolari e la borghesia intellettuale di tutto il mondo islamico.
Ideali e programmi simili a quelli del dittatore egiziano furono fatti propri, in Siria e in Iraq, dal partito socialista arabo Baath (in arabo 'Resurrezione'), che trovò consensi soprattutto fra i militari.
Già nel '54 in Siria si era affermato un regime militare di ispirazione panaraba. Nel '58, militari legati al Baath presero il potere in Iraq, rovesciando la monarchia Hashemita.
Ma i sogni di unità panaraba si scontrarono ben presto con la realtà delle gelosie nazionali e delle divisioni ideologiche. E il progetto di un socialismo islamico capace di conciliare tradizione e modernità si risolse in una sequenza di colpi di Stato e di dittature militari. Tuttavia il richiamo del nasserismo rimase molto forte ed ebbe un'influenza decisiva anche sulle vicende dei paesi del Maghreb (ossia la parte occidentale del Nord Africa), in lotta contro il dominio coloniale francese.

 

L'indipendenza del Maghreb

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Marocco eTunisia

Sia il Marocco sia la Tunisia, dove la Francia esercitava il suo dominio in forma di protettorato e dove sussistevano forme di limitato autogoverno, avevano visto nascere, già all'inizio del secolo, forti movimenti indipendentisti. Nel dopoguerra la guida di questi movimenti fu assunta da forze di ispirazione nazionalista e laica: nel primo paese l'Istiqlal, appoggiato dal sultano Ben Youssef, nel secondo il Neo-Destur, guidato da Habib Burghiba. Nel 1956 i francesi, dopo aver cercato di reprimere l'agitazione indipendentista, furono costretti a concedere la piena indipendenza a entrambi i paesi, che negli anni successivi avrebbero mantenuto una posizione moderata e filo-occidentale in politica estera.

La guerra di Algeria

Ben più drammatica e cruenta fu la lotta di liberazione in Algeria, dove la presenza francese aveva radici più profonde (la conquista risaliva al 1830) e maggiore consistenza.
I coloni residenti erano oltre un milione all'inizio degli anni '50 e si consideravano parte integrante della nazione francese, del cui territorio l'Algeria faceva parte a tutti gli effetti: il che rendeva particolarmente rigida la posizione delle autorità e della stessa opinione pubblica in Francia. Gli otto milioni di algerini musulmani erano anch'essi cittadini francesi dal 1945, ma non godevano di pieni diritti politici e non erano rappresentati nel Parlamento di Parigi né avevano voce nel governo locale.
A partire dal 1954, il movimento nazionalista algerino, già attivo negli anni fra le due guerre, si organizzò nel Fronte di liberazione nazionale (Fln) guidato da Mohammed Ben Bella, un'organizzazione clandestina radicata soprattutto nelle città. Cominciava così uno scontro che avrebbe assunto il valore di un modello per i movimenti rivoluzionari delle ex colonie.
Lo scontro culminò nel 1957 con la battaglia di Algeri, che durò quasi nove mesi e vide la parte araba della città mobilitata a sostegno dei combattenti del Fln. I francesi riuscirono a piegare l'insurrezione con un massiccio invio di reparti speciali e con una repressione particolarmente brutale, suscitando proteste anche in una parte dell'opinione pubblica nazionale.

La vittoria degli indipendentisti

Nel maggio 1958, la minaccia di un colpo di Stato da parte dei militari e dei coloni più oltranzisti provocò la crisi della Quarta Repubblica e favori il ritorno al potere di De Gaulle.
Il generale, inizialmente favorevole al mantenimento di una presenza nella colonia, capì ben presto che la causa dell'«Algeria francese» era ormai perduta e agì con determinazione per far uscire il paese da una guerra sempre più difficile e costosa. Si apriva così la strada all'indipendenza algerina che fu sancita dagli accordi di Evian del marzo 1962.
Prima sotto la guida di Ben Bella, poi (dal '65 al '79) sotto quella del più moderato Huari Bumedien, l'Algeria si diede un ordinamento interno fortemente autoritario e centralizzato, con un'economia in buona parte statalizzata, e assunse una posizione di punta nello schieramento dei paesi arabi.

Gheddafi al potere in Libia

Di ispirazione nazionalista, anche se con connotati particolari di ortodossia islamica, fu la rivoluzione che, nel 1969, depose la monarchia in Libia – l'ex colonia italiana, indipendente dal 1951 – e portò al potere i militari guidati dal giovane colonnello Muhammar Gheddafi.
Il regime di Gheddafi – che fra i suoi primi atti nazionalizzò le compagnie petrolifere straniere ed espulse la numerosa comunità italiana ancora residente nel paese – si sarebbe in seguito caratterizzato per il tentativo di realizzare una sua speciale versione del socialismo islamico e soprattutto per il dinamismo a tratti avventuroso della sua politica estera: una politica che lo avrebbe portato ad appoggiare i movimenti di guerriglia anti-occidentali e a inserirsi nei conflitti interni di vari paesi africani, creando uno stato di permanente tensione con i regimi arabi moderati e soprattutto con gli Stati Uniti.

 

Le guerre arabo-israeliane

[ Introduzione audio ]

La «guerra dei sei giorni»

Dopo la crisi di Suez del 1956, il Medio Oriente continuò a rappresentare non solo un pericoloso focolaio di tensione locale, a causa della permanente ostilità fra Israele e i paesi arabi – che rifiutavano di riconoscere lo Stato ebraico –, ma anche un terreno di scontro fra l'Unione Sovietica, divenuta grande protettrice dell'Egitto, e gli Stati Uniti, che sostenevano con decisione Israele.
Nel 1967 Nasser proclamò la chiusura del golfo di Aqaba, vitale per gli approvvigionamenti israeliani, e strinse un patto militare con la Giordania. Gli israeliani risposero sferrando, il 5 giugno, un attacco preventivo contro Egitto, Giordania e Siria.
La guerra durò appena sei giorni, ma il suo esito venne deciso fin dalle prime ore, con la distruzione dell'intera aviazione egiziana prima ancora che decollasse, e fu disastroso per gli arabi. L'Egitto perse la Penisola del Sinai, la Giordania perse tutti i territori della riva occidentale del Giordano, inclusa la parte orientale di Gerusalemme (la città venne successivamente annessa dallo Stato ebraico e proclamata sua capitale), la Siria perse le alture del Golan.

 

Gli arabi contarono più di 30 mila morti, gli israeliani poche centinaia. Altri 400 mila palestinesi ripararono in Giordania e negli altri paesi arabi, dove andarono a ingrossare le file dei rifugiati nei campi profughi.

Arafat e l'olp

La disfatta della «guerra dei sei giorni» ebbe per gli arabi conseguenze di vasta portata: segnò il declino di Nasser e della sua politica di oltranzismo panarabo; indusse a un atteggiamento più prudente la Giordania e gli altri Stati moderati della zona; determinò il distacco dei movimenti di resistenza palestinese, riuniti nell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), dalla tutela dei regimi arabi.
Guidata, a partire dal 1969, da Yasser Arafat, già leader del gruppo principale, quello di Al Fatah, l'Olp pose le sue basi in Giordania, creandovi una specie di Stato nello Stato.
Il re di Giordania Hussein, esposto alle rappresaglie israeliane a causa degli attentati terroristici dei feddayn ('combattenti') palestinesi, reagì con una sanguinosa prova di forza. Nel settembre 1970 – il cosiddetto «settembre nero» – mobilitò le sue truppe contro i feddayn e i profughi palestinesi, che, dopo aver contato migliaia di morti, furono costretti a riparare nel vicino Libano.
Da allora l'Olp avrebbe esteso la lotta terroristica sul piano internazionale, con una serie di dirottamenti aerei e di attentati clamorosi, come quello attuato a Monaco contro gli atleti israeliani, durante le Olimpiadi del 1972.

La «guerra del Kippur»

Nel 1970 Nasser morì. Il suo successore, Anwar Sadat, cercò di dare alla politica egiziana un'impronta più realistica e meno condizionata dall'ideologia.
Deciso a recuperare il Sinai, preparò accuratamente il confronto con Israele. Il 6 ottobre 1973, giorno della festa ebraica dello Yom Kippur, le truppe egiziane investirono di sorpresa le linee israeliane sul canale di Suez e dilagarono nel Sinai, mentre i siriani attaccavano nel Golan. Ma Israele riuscì a respingere gli attaccanti e a passare all'offensiva, penetrando in territorio egiziano.
Quando, con la mediazione degli Stati Uniti, si giunse a un "cessate il fuoco", la guerra si chiuse senza vincitori né vinti. Gravi furono invece le conseguenze a livello internazionale: la chiusura per due anni del Canale di Suez e il blocco petrolifero, decretato dagli Stati arabi (fra i quali si annoveravano alcuni fra i maggiori produttori mondiali, come l'Arabia Saudita, l'Iraq, il Kuwait) contro i paesi occidentali amici di Israele, diedero alla crisi una dimensione globale, con conseguenze di vasta portata sulle economie di tutto il mondo.
Sul piano degli equilibri locali, i successi iniziali ottenuti con l'attacco nel Sinai, per quanto vanificati dalla controffensiva israeliana, diedero agli egiziani la sensazione di aver lavato l'onta del 1967 e scossero il mito dell'invincibilità dello Stato ebraico.

La pace fra Egitto e Israele

Sadat si era comunque convinto della necessità di trovare una soluzione pacifica al conflitto con Israele.
La premessa della svolta fu il riavvicinamento agli Stati Uniti: nel 1974-75, l'Egitto attuò un clamoroso rovesciamento di alleanze, espellendo i tecnici sovietici, congelando i rapporti con l'Urss e imprimendo alla sua politica estera un segno filo-occidentale.
Nel novembre 1977 il presidente egiziano si recò in visita a Gerusalemme e formulò personalmente, in un discorso al Parlamento israeliano, la sua offerta di pace. Il governo israeliano, allora guidato dal leader della destra nazionalista, Menachem Begin, accolse la proposta.
Si giunse così, con la mediazione del presidente americano Carter, agli accordi di Camp David del settembre 1978, grazie ai quali l'Egitto ottenne la restituzione della Penisola del Sinai, occupata da Israele nel '67, e stipulò, nel marzo del '79, un trattato di pace con lo Stato ebraico: una svolta storica, che rompeva per la prima volta l'isolamento di Israele dai suoi vicini arabi e sembrava porre le premesse per una soluzione generale basata sulla formula «pace in cambio di territori».

La questione palestinese

Gli accordi di Camp David prevedevano infatti ulteriori negoziati per la soluzione del problema palestinese. Ma le cose andarono diversamente: la scelta di Sadat fu condannata dagli altri paesi arabi e il presidente egiziano, nell'ottobre 1981, fu ucciso al Cairo in un attentato organizzato da un gruppo integralista islamico.
Successivamente, gli Stati arabi «moderati» (in particolare Giordania e Arabia Saudita) e la stessa dirigenza dell'Olp assunsero una posizione più morbida e, sfidando la condanna del cosiddetto «fronte del rifiuto» (Siria, Iraq, Libia e l'ala radicale delle organizzazioni palestinesi), si dissero disposti a trattare con Israele e a riconoscerne l'esistenza in cambio del suo ritiro dai territori occupati (Cisgiordania e striscia di Gaza), dove sarebbe dovuto sorgere uno Stato palestinese. A questo punto, però, furono i dirigenti dello Stato ebraico – che aveva frattanto avviato una parziale «colonizzazione» dei territori occupati – a rifiutare la trattativa con l'Olp di Arafat, considerata un'organizzazione terroristica. A partire dal 1987 si sviluppò nei territori occupati una lunga e diffusa rivolta popolare, detta intifada (in arabo 'sussulto' o `risveglio'), che creò non pochi problemi alle autorità israeliane.

 

 

LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI (1973-89)

 

 

Crisi delle ideologie, riflusso, terrorismo

Nell'ultimo decennio del secolo XX si ruppero, in tempi inaspettatamente brevi, gli assetti internazionali che, dalla fine della seconda guerra mondiale, erano rimasti bloccati nell'equilibrio bipolare della guerra fredda. Questa rottura fu però preceduta, e in qualche modo annunciata, già a partire dagli anni '70, da una serie di mutamenti politici, sociali e prima ancora culturali: mutamenti che si collegavano al trauma della crisi petrolifera e alla caduta delle illusioni dell'«età dell'oro».

I mutamenti culturali

Negli anni '60 e nei primi anni '70 la cultura politica di sinistra aveva goduto, soprattutto fra i giovani, di larga influenza, se non di una vera egemonia: sia nella versione riformista, che accettava la "società del benessere" e cercava di guidarla verso traguardi di maggiore giustizia sociale; sia nella versione rivoluzionaria, che rifiutava in blocco quella società e contestava il gradualismo dei riformisti. Entrambe le versioni, tuttavia, si basavano sul presupposto di un'illimitata capacità espansiva del sistema economico e sulla possibilità di controllare i processi sociali con gli strumenti della politica.
A partire dagli anni dello "shock petrolifero", queste certezze cominciarono a venir meno. La crisi energetica metteva in discussione la prospettiva di uno sviluppo industriale continuo. Le trasformazioni economiche e le nuove tecnologie ridimensionavano il peso numerico e politico della classe operaia. Nei paesi democratici, i costi del Welfare crescevano e i governi facevano fatica a coprirli con le tasse.
Tutto questo suscitava, in vasti settori dell'opinione pubblica e del mondo economico, un crescendo di critiche contro lo Stato assistenziale e contro l'intervento pubblico in economia e un parallelo ritorno in auge delle teorie liberiste e del monetarismo.
L'avvento al potere dei conservatori in Gran Bretagna, con Margaret Thatcher (1979) e l'elezione alla presidenza Usa del repubblicano Ronald Reagan (1980) – l'una e l'altro presentatisi agli elettori con la promessa di tagli delle spese e delle tasse – furono anche il prodotto di questo mutamento di clima.

Il declino dei regimi comunisti

Intanto le vicende dei paesi comunisti mostravano l'incapacità dei regimi ispirati al modello leninista e collettivista di offrire soluzioni accettabili ai problemi della società contemporanea. L'Unione Sovietica, in particolare, vide la sua immagine – già incrinata dai fatti di Praga del '68 – deteriorarsi progressivamente: sia per le continue denunce degli esuli e dei dissidenti riguardo alla repressione interna praticata dal regime, sia per gli insuccessi in campo economico. Gli stessi partiti comunisti dell'Europa occidentale accentuarono in questo periodo le prese di distanza dall'Urss.
Delusioni non meno gravi vennero ai militanti di sinistra da quei regimi comunisti che erano sembrati offrire, negli anni '60, esempi più attraenti e più dinamici rispetto all'Unione Sovietica, dalla Cina a Cuba, dal Vietnam alla Cambogia: quei regimi che in precedenza erano stati dipinti come modelli di impegno rivoluzionario e come tappe di avvicinamento alla costruzione della società comunista mostravano, se osservati senza le lenti dell'ideologia, i loro caratteri dispotici e spesso sanguinari e si rivelavano simili a immense prigioni da cui moltissimi cercavano di fuggire.

La crisi delle ideologie

Il «grande riflusso» – questo il termine usato In Italia per indicare la caduta dei più ambiziosi progetti di trasformazione politica e sociale e il ripiegamento nel privato, dopo una stagione caratterizzata da un diffuso impegno politico attivo – era un fenomeno vasto. Ciò che veniva messo in discussione non era solo la validità di questo o quel progetto politico, ma la stessa capacità dei grandi sistemi ideologici, in particolare di quelli orientati alla trasformazione rivoluzionaria della società, di fornire risposte valide alle esigenze reali dei cittadini.

I gruppi terroristi

La generale caduta della tensione politica finì col lasciare isolate e scoperte – ma proprio per questo più esasperate e incontrollabili – le componenti estremiste e violente dei movimenti di contestazione giovanile attivi alla fine degli anni '60. Si assisté così, in alcuni paesi dell'Europa occidentale, a una drammatica esplosione di terrorismo politico. Un terrorismo attuato da piccoli gruppi clandestini fortemente militarizzati (le Brigate rosse in Italia, la Raf, ossia Frazione dell'Armata rossa, attiva in Germania, il gruppo di Action directe in Francia) che agivano per lo più sulla base di parole d'ordine ispirate a una versione estremizzata del marxismo-leninismo e colpivano con gesti "esemplari" (omicidi, ferimenti, sequestri) quei personaggi o quelle istituzioni che ai loro occhi più si identificavano col sistema da abbattere.
Un terrorismo ispirato – e in qualche caso anche collegato – ai movimenti rivoluzionari del Terzo Mondo o a quelli nati dalle lotte delle minoranze etniche nella stessa Europa (come l'Ira in Irlanda del Nord o i separatisti baschi dell'Eta in Spagna), però privo della base di consenso di cui quei movimenti si giovavano.
Poco seguiti dalle masse lavoratrici in nome delle quali affermavano di agire, i gruppi terroristici furono sconfitti prima politicamente, per il fallimento del loro tentativo di mobilitare la classe operaia, poi sul piano dell'azione repressiva, con l'arresto di buona parte dei loro componenti, tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80.
Ma il terrorismo come fenomeno internazionale – ispirato a ideologie diverse e spesso finanziato e strumentalizzato da Stati contro altri Stati – non scomparve, e si espresse attraverso una serie di azioni sanguinose.
La più grave e clamorosa ebbe luogo il 13 maggio 1981, quando il papa Giovanni Paolo II fu gravemente ferito in piazza San Pietro da un terrorista turco, Ali Agca, affiliato a un gruppo nazionalista di estrema destra, ma sospettato anche di legami con i servizi segreti dell'Europa dell'Est.

 

Gli Stati Uniti: da Nixon a Reagan

Negli anni '70 del '900, gli Stati Uniti attraversarono una delle fasi più difficili della loro storia.
All'instabilità economica evidenziata dalla crisi del dollaro nel 1971 si unirono le delusioni e le proteste suscitate dallo sfortunato impegno militare nella guerra del Vietnam. A tutto questo si aggiunse la crisi di credibilità vissuta in quegli anni dalla massima istituzione nazionale, la presidenza degli Stati Uniti.

Il caso Watergate

Come già accennato, il repubblicano Richard Nixon, eletto per la seconda volta con largo margine nel 1972, firmò nel 1973 l'armistizio che sanciva il ritiro delle truppe americane in Vietnam, ma fu travolto, l'anno successivo, da uno scandalo legato proprio alla campagna elettorale: il caso Watergate, così chiamato dal nome dell'albergo di Washington dove alcuni collaboratori del presidente avevano messo in atto un'operazione di spionaggio ai danni del Partito democratico.
Messo sotto accusa da un'efficace campagna di stampa, Nixon fu costretto a dimettersi e a lasciare il posto al suo vicepresidente Gerald Ford.

Da Carter a Reagan

Nelle elezioni del 1976, i democratici riconquistarono la presidenza con Jimmy Carter.
Uomo del Sud, profondamente religioso, Carter cercò di promuovere una politica di tipo "wilsoniano", fondata sulla difesa dei diritti umani in ogni parte del mondo.
Questa linea – opposta a quella tutta improntata al realismo praticata da Nixon e dal suo segretario di Stato (ossia il ministro degli Esteri) Henry Kissinger – fu però portata avanti in modo incerto e velleitario: se da un lato essa contribuì a rendere tesi i rapporti con l'Urss, che vedeva nelle campagne in favore del diritto al dissenso un'intromissione nei suoi affari interni, dall'altro fu criticata perché lasciava spazio all'affermazione di regimi ostili agli Stati Uniti in Africa, in America Latina e in Medio Oriente, nel caso specifico in Iran.
Furono proprio le vicende della rivoluzione iraniana – culminate nel fallito tentativo di liberare un gruppo di diplomatici e funzionari americani tenuti in ostaggio dal nuovo regime a dare il colpo definitivo alla popolarità del presidente.
Nelle elezioni del 1980, Carter fu nettamente sconfitto da Ronald Reagan, anziano ex attore esponente dell'ala destra del Partito repubblicano e già governatore della California. Reagan si presentò con un programma economico liberista, fondato sulla riduzione delle tasse e sul contenimento della spesa pubblica (in particolare di quella sociale); in politica estera promise di adottare una linea più dura nei confronti dell'Urss (da lui definita «l'impero del male») e di tutti i nemici dell'America, incarnando l'orgoglio patriottico e il desiderio di rivincita di larghi strati dell'opinione pubblica.
Un messaggio sostanzialmente conservatore, capace però di toccare le corde profonde del sentimento nazionale, anche perché sostenuto da un efficiente apparato di comunicazione.

La "rivoluzione reaganiana"

Il successo della presidenza Reagan, che fu confermato con ampio margine nelle elezioni dell'84, si dovette anche al buon andamento dell'economia che, fra l'83 e l'86, riprese a marciare a pieno ritmo grazie soprattutto allo sviluppo dei settori di punta, in particolare quelli legati all'elettronica e alle produzioni militari.
La crescita economica degli anni '80 non fu priva di ombre: alcuni settori industriali – quelli tecnologicamente più "maturi", legati cioè alle precedenti fasi dello sviluppo industriale, come la siderurgia e la meccanica – conobbero un netto declino e numerose imprese agricole entrarono in crisi perché private di qualsiasi sussidio pubblico. Le disuguaglianze sociali – e le stesse fratture fra i gruppi etnici nelle grandi metropoli – si accentuarono in seguito al taglio delle spese per l'assistenza e per le pensioni. In compenso, però, l'inflazione fu contenuta, la disoccupazione in parte riassorbita, il dollaro tornò a essere la moneta forte dell'economia mondiale nonostante il permanere di un vistoso deficit nel bilancio dello Stato, dovuto alla continua crescita della spesa militare.

Le iniziative internazionali

Il mantenimento di un alto livello di armamenti costituì del resto un elemento essenziale nella strategia di Reagan, tesa a far valere il peso militare degli Stati Uniti sia per mantenere una posizione di forza nel confronto con l'Unione Sovietica, sia per far sentire la presenza americana in tutti i punti caldi del pianeta.
Sotto il primo aspetto, va ricordato l'appoggio di Reagan all'Iniziativa di difesa strategica (Sdi), un avveniristico quanto costoso progetto mirante a creare una sorta di scudo elettronico spaziale capace di neutralizzare, mediante raggi laser, qualsiasi minaccia missilistica (e, in prospettiva, rendere obsoleti gli stessi ordigni nucleari): un progetto criticato sia per la sua problematica realizzabilità, sia perché rischiava di mettere in moto una nuova spirale di spese militari in entrambe le superpotenze.
Nel contempo gli Stati Uniti intensificarono la fornitura di armi e materiali ai gruppi armati che combattevano contro i regimi filocomunisti (in Nicaragua come in Afghanistan) e promossero azioni spettacolari nei confronti dei paesi accusati di favorire il terrorismo internazionale: così gli attacchi aerei lanciati nel marzo-aprile 1986 contro la Libia di Gheddafi, in risposta a un attentato in cui erano rimasti vittima alcuni militari americani a Berlino.

Il dialogo con l'Urss

La linea interventista e ostentatamente aggressiva seguita da Reagan – e, dopo la fine del suo secondo mandato nel 1988, dal suo vicepresidente e successore, George Bush – non impedì però che, proprio durante la sua presidenza, si avviasse un fruttuoso dialogo con l'avversario di sempre: l'Unione Sovietica, dove, a metà degli anni '80, si stava profilando una nuova e radicale svolta politica.

 

L'Unione Sovietica: da Breznev a Gorbačëv

Stagnazione e repressione

Tra la fine degli anni '60 e la prima metà degli anni '80, gli anni del potere incontrastato del segretario del Pcus Leonid Breznev, l'Unione Sovietica vide accentuarsi il declino economico e politico in atto ormai da tempo: un settore agricolo inefficiente, incapace di sopperire al fabbisogno alimentare del paese (e costretto per questo a importare ingenti quantitativi di cereali dall'Occidente); un apparato industriale mastodontico e invecchiato, orientato principalmente a obiettivi militari e inadeguato a tenere il passo con la domanda di beni di consumo; una burocrazia invasiva e soffocante, che tentava di controllare ogni aspetto della vita sociale e non consentiva alcun reale spazio di dibattito.
Si inasprì, in questo periodo, l'attività repressiva nei confronti degli intellettuali dissidenti, molti dei quali furono confinati in luoghi sperduti o condannati a pene detentive o addirittura internati in cliniche psichiatriche. Alcuni, fra cui il celebre scrittore Aleksandr Solíenitsyn, poterono emigrare in Occidente da dove alimentarono una vivace polemica contro il regime comunista.

La seconda «guerra fredda»

Eppure, proprio in questi anni, l'Urss riuscì a profittare della relativa debolezza degli Stati Uniti per avvantaggiarsi nella corsa agli armamenti e per ampliare la sua sfera di influenza in tutti i continenti: dall'America Latina (Nicaragua) all'Africa (Etiopia, Angola, Mozambico) al Medio Oriente. Col risultato di riacutizzare le tensioni internazionali, in quella che allora fu chiamata «seconda guerra fredda» e che culminò, alla fine degli anni '70, nella decisione sovietica di istallare nuovi missili a media gittata (gli SS 20) puntati verso l'Europa: decisione a cui i membri europei della Nato risposero con lo spiegamento di armi analoghe (gli «euromissili») nel loro territorio.

L'invasione dell'Afghanistan

Un intervento militare pagato a caro prezzo fu quello attuato dall'Urss in Afghanistan, paese situato in posizione strategica nel cuore dell'Asia musulmana fra l'Iran, il Pakistan e la stessa Unione Sovietica.
Per imporre nel paese, fin allora schierato su posizioni di non allineamento, un governo fedele alle loro direttive, i sovietici inviarono in Afghanistan, alla fine del 1979, un forte contingente di truppe che si dovette scontrare, per quasi dieci anni, contro l'accanita resistenza dei gruppi guerriglieri islamici (sostenuti dal Pakistan, dall'Iran e dagli Stati Uniti, che si trovarono così ad armare e a finanziare i propri futuri nemici).
Per l'Urss fu un'impresa controproducente che – per il suo altissimo costo in vite umane, per le sue ripercussioni psicologiche, e anche per le sue conseguenze di lungo periodo – può essere paragonata all'intervento americano in Vietnam.

Gorbačëv

La svolta, per l'Unione Sovietica e per l'intero mondo comunista, arrivò, inaspettata, a metà degli anni '80.
Nel 1985, dopo la morte di Breznev (1982) e dopo un breve interregno che vide salire alla guida del partito e dello Stato gli anziani Yuri Andropov e Kostantin Cernenko – entrambi deceduti per malattia poco dopo la loro ascesa al vertice –, la segreteria del Pcus fu assunta da Michail Gorbačëv.
Più giovane (54 anni) e più dinamico dei suoi predecessori, rappresentante di una generazione che non era stata direttamente coinvolta nello stalinismo, Gorbačëv si mostrò subito deciso a introdurre una serie di radicali novità nella politica sovietica, sia sul piano interno sia su quello internazionale.

Riforme e trasparenza

In politica economica il nuovo segretario legò il suo nome alla parola d'ordine della perestroika (ossia 'riforma'), proponendo una serie di interventi volti a introdurre nel sistema socialista elementi di economia di mercato.
Sul terreno delle istituzioni Gorbačëv si fece promotore, nel 1988, di una nuova Costituzione che, senza intaccare il sistema del partito unico, lasciava spazio a un limitato pluralismo distinguendo più chiaramente le strutture dello Stato da quelle del partito, comunque unite al vertice nella persona del segretario-presidente.
Le elezioni del Congresso dei soviet tenutesi nel marzo '89 inaugurarono un sistema di candidature plurime – ma sempre su lista unica – e consentirono l'ingresso nel massimo organo rappresentativo di alcuni esponenti del dissenso, fra i quali il fisico Andrej Sacharov, già perseguitato nel periodo brezneviano.
Nel maggio '90 il Congresso elesse a larghissima maggioranza Gorbačëv presidente dell'Urss.
Ancora più importante delle singole riforme – che per lo più si dimostrarono inadeguate e furono regolarmente scavalcate dall'incalzare della crisi dell'intero sistema – fu l'avvio di un processo di liberalizzazione interna condotto all'insegna della glasnost ('pubblicità', 'trasparenza', in senso più ampio Iibertà d'espressione'): un processo che consentì lo svilupparsi di un dibattito politico-culturale impensabile fino a pochi anni prima.

Contraddizioni e difficoltà

Le riforme economiche e la liberalizzazione interna giovarono indubbiamente all'immagine dell'Urss e del suo nuovo leader, ma evidenziarono e acutizzarono alcune contraddizioni che erano rimaste fin allora nascoste nella stagnazione dell'età di Breznev.
I tentativi di riforma dell'economia, innestandosi su una realtà poco preparata ad accoglierli, perché ormai non più abituata alla logica della competizione e dell'efficienza, finirono per suscitare non pochi malumori e per accentuare il dissesto di un sistema tradizionalmente inefficiente.
L'apertura di nuovi spazi di dibattito politico mise in moto tensioni non facilmente controllabili, anche per l'emergere di movimenti autonomisti e indipendentisti fra le popolazioni non russe già inglobate a forza nell'Urss.Tali contraddizioni sarebbero esplose nel giro di pochi anni, determinando il fallimento del progetto riformista di Gorbačëv.

 

I negoziati sul disarmo

Il dialogo Usa-Urss

Conseguenza – e insieme presupposto – delle aperture riformiste di Gorbačëv fu il rilancio del dialogo con l'Occidente, rimasto pressoché congelato negli anni della «seconda guerra fredda»: un rilancio imposto anche dall'incapacità del sistema sovietico di rispondere alla sfida globale lanciata da Reagan e dalla necessità di frenare la corsa agli armamenti per poter destinare maggiori risorse ai consumi individuali.
La disponibilità di Gorbačëv al negoziato trovò un interlocutore interessato in un Reagan desideroso di concludere in bellezza il suo secondo mandato presidenziale e di dimostrare al mondo che l'ostentazione di forza di cui era stato protagonista – soprattutto in materia di armamenti – non portava necessariamente allo scontro, ma al contrario poteva costituire la miglior base per una nuova trattativa globale con l'Urss.
Due successivi incontri fra Reagan e Gorbačëv (a Ginevra nel novembre '85 e a Reykjavik nell'ottobre '86), pur non raggiungendo risultati conclusivi, segnarono la fine di una lunga stagione di incomunicabilità e inaugurarono un clima più disteso nei rapporti Usa-Urss. Un terzo vertice (a Washington nel dicembre '87) portò a uno storico accordo sulla riduzione degli armamenti missilistici in Europa: un'intesa che, al di là della sua limitata portata pratica, ebbe un alto valore simbolico, perché per la prima volta prevedeva la distruzione concordata di armi nucleari.

Verso un nuove ordine mondiale

Nell'aprile 1988 l'Urss si impegnò a ritirare le sue truppe dall'Afghanistan: nel gennaio 1989 gli ultimi soldati lasciarono il paese.
Nel clima determinato dai rivolgimenti politici dell'Europa orientale, nuovi incontri al vertice fra Gorbačëv e il nuovo presidente Usa Bush consentirono di porre le basi per ulteriori accordi sulla riduzione degli armamenti strategici. La rinnovata collaborazione fra le due superpotenze fece nascere molte speranze sulle prospettive di un nuovo ordine internazionale basato non soltanto sull'«equilibrio del terrore».
Questo nuovo ordine ebbe un inizio di attuazione quando a Parigi, nel novembre 1990, nell'ambito di una riunione della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, i paesi della Nato e del Patto di Varsavia firmarono un trattato di non aggressione e di riduzione degli armamenti convenzionali. A questo punto era però la stessa idea di un ordine internazionale basato sul condominio fra Usa e Urss a entrare in crisi per l'improvviso collasso di uno dei due partner, l'Urss.

 

Mutamenti politici in Europa occidentale

Negli anni '60 e '70, i paesi dell'Europa occidentale conobbero importanti mutamenti politici.
Se in Francia i gruppi legati a De Gaulle mantennero la guida del governo anche dopo l'uscita di scena del generale (che si ritirò nel '69 e morì l'anno seguente), in Germania occidentale, in Gran Bretagna e in Italia, questa fase coincise con l'entrata al governo dei socialisti, da soli o in coalizione con altri partiti.

La Germania federale: grande coalizione e Ostpolitik

Nella Repubblica federale tedesca il quasi-monopolio governativo dei cristiano-democratici si interruppe nel 1966, quando il partito di maggioranza, non trovando un accordo coi liberali, formò una grande coalizione insieme ai socialdemocratici guidati dall'ex borgomastro (sindaco) di Berlino Ovest Willy Brandt.
Nel 1969, i socialdemocratici ruppero la grande coalizione e formarono un governo assieme ai liberali.
La stagione dei governi socialdemocratico-liberali — che si sarebbe prolungata per un quindicennio — si caratterizzò soprattutto per una nuova e coraggiosa linea di politica estera, volta alla normalizzazione nei rapporti fra la Germania federale e i paesi del blocco comunista, compresa la Germania Est.
Veniva così riproposta implicitamente, pur senza mettere in discussione la fedeltà all'alleanza atlantica, la prospettiva di una futura riunificazione fra le due Germanie attraverso un graduale superamento dei blocchi.
Questa 'politica orientale' (Ostpolitik) si concretizzò nell'instaurazione di rapporti diplomatici coi paesi comunisti, nel riconoscimento, sancito da trattati con la Polonia e con l'Urss, dei confini fissati dopo la seconda guerra mondiale e in un primo scambio ufficiale di contatti con i tedeschi dell'Est.

La Gran Bretagna: la questione irlandese e l'adesione alla Cee

Più breve e sfortunata fu l'esperienza di governo dei laburisti inglesi, tornati al potere con Harold Wilson nel novembre 1964.
Trovatosi a gestire una congiuntura economica difficile e costretto quindi ad attuare un'impopolare politica di austerità, il governo Wilson dovette anche fronteggiare il riacutizzarsi della mai risolta questione irlandese.
Nell'Ulster, la minoranza cattolica, la parte più povera della popolazione, diede vita, alla fine degli anni '60, a una serie di violente agitazioni, in cui la rivendicazione dell'unità irlandese si mescolava alla protesta sociale.
Le difficoltà economiche e politiche, che si accompagnarono all'abbandono degli ultimi resti dell'Impero (Malta, Singapore, Aden), ebbero l'effetto di attenuare la riluttanza della classe dirigente e dell'opinione pubblica, soprattutto di parte laburista, nei confronti dell'adesione britannica alla Comunità europea.
Nel '67 il governo Wilson — sotto la pressione degli ambienti imprenditoriali — apri un difficile negoziato che si concluse solo nel 1972 (dopo che i conservatori erano tornati al potere) con l'ingresso della Gran Bretagna (insieme a Irlanda e Danimarca) nella Cee.

La crisi in Europa

Gli anni che seguirono la crisi petrolifera del 1973 furono, anche per l'Europa occidentale, anni di serie difficoltà economiche.
Tutti i paesi della Cee (con la parziale eccezione della Gran Bretagna che cominciava a sfruttare i giacimenti appena scoperti nel Mare del Nord) furono duramente colpiti dal rincaro del petrolio. E tutti dovettero affrontare i problemi legati al declino di alcuni settori industriali (il minerario e soprattutto il siderurgico) un tempo centrali nell'economia del vecchio continente.
Ne risultarono inasprite le tensioni sociali e accentuate le tentazioni protezionistiche e le spinte centrifughe nei confronti di un processo di integrazione che già stentava a decollare.

Gli anni '80 in Gran Bretagna: il governoThatcher

La crisi di metà anni '70 mise in difficoltà soprattutto le socialdemocrazie dell'Europa settentrionale.
La partita decisiva si giocò in Gran Bretagna, dove i laburisti furono duramente sconfitti dai conservatori nelle elezioni del 1979. Il governo di Margaret Thatcher, presentatosi su una piattaforma di intransigente liberismo, lanciò un duro attacco contro il potere dei sindacati; mise in discussione i fondamenti e la stessa filosofia del Welfare State (senza però toccarne le prestazioni fondamentali in materia di pensioni e di assistenza medica) e privatizzò settori importanti dell'industria pubblica, dalle ferrovie e dai trasporti locali, dall'elettricità alle telecomunicazioni.
Questa linea fu premiata dagli elettori, che per due volte confermarono la maggioranza ai conservatori: sia nell'83 – grazie anche alla vittoria nella guerra delle Falkland – sia nelle successive elezioni dell'87.
Nel 1990, però, dopo ben undici anni di ininterrotta presenza al governo, la «lady di ferro» (così venne chiamata Margaret Thatcher) dovette lasciare la guida dell'esecutivo in seguito alla ribellione del suo stesso partito, che non approvava alcune impopolari misure fiscali decise dal primo ministro e non condivideva la sua ostinata opposizione ai progetti di integrazione europea.

Le difficoltà delle socialdemocrazie

Negli anni '80, anche nei paesi scandinavi (Svezia, Danimarca, Norvegia), le socialdemocrazie videro minacciato o interrotto un dominio che durava incontrastato da oltre un trentennio. In Germania federale, infine, l'era dei governi socialdemocratici, guidati prima da Willy Brandt poi da Helmut Schmidt, si concluse nel 1983, con la rottura dell'alleanza coi liberali e con l'ascesa al governo del cristiano-democratico Helmut Kohl, futuro protagonista della riunificazione tedesca.

La vittoria di Mitterrand

Mentre perdevano terreno nelle tradizionali roccheforti dell'Europa del Nord, i partiti socialisti si affermavano largamente nell'area mediterranea.
In Francia l'Unione delle sinistre, che già aveva sfiorato il successo nel '74, si impose nelle elezioni dell'81, portando alla presidenza il socialista François Mitterrand.
Partita fra grandi entusiasmi, con ambiziosi programmi di nazionalizzazioni, riforme sociali e aumenti salariali, l'esperienza dell'Unione delle sinistre fini in parte col deludere le attese dei suoi sostenitori. Le difficoltà dell'economia indussero i socialisti ad accantonare i progetti di riforma più ambiziosi e ad adottare una serie di misure restrittive: il che contribuì a provocare la rottura con un Partito comunista schierato su posizioni di intransigenza (ma in forte calo elettorale).
La rottura non impedì a Mitterrand di ottenere nell'88 il suo secondo mandato presidenziale, né al Partito socialista di governare per oltre un decennio.

 

Integrazione europea e nuove democrazie

La fine dei salazarismo in Portogallo

All'inizio degli anni '80, governi a guida socialista si affermarono nelle nuove democrazie dell'Europa meridionale (Portogallo, Grecia, Spagna), protagoniste, a metà del decennio precedente, di rapidi e quasi simultanei processi di fuoriuscita da regimi autoritari.
La prima a cadere fra le superstiti dittature del vecchio continente fu la più antica di tutte, quella portoghese, sopravvissuta per pochi anni alla morte del suo fondatore Salazar (1970).
L'uscita dalla dittatura, accelerata dall'insofferenza dell'opinione pubblica e degli stessi militari nei confronti di una costosa guerra coloniale contro i movimenti indipendentisti dell'Angola e del Mozambico, seguì un copione inedito. Furono i militari, nella primavera del '74, ad abbattere il vecchio regime con un incruento colpo di Stato. Il potere fu assunto dapprima dall'ala moderata delle forze armate, poi da un gruppo di ufficiali di sinistra appoggiati dal Partito comunista.
Ma dall'autunno del '75 – dopo la concessione dell'indipendenza alle colonie – i militari più radicali vennero emarginati e il paese fu restituito a un normale regime parlamentare e pluripartitico, che vide da allora i socialisti di Mario Soares alternarsi al potere con i gruppi moderati di centro-destra.

La caduta dei colonnelli in Grecia

Molto diversa fu la vicenda della Grecia.
Qui erano stati i militari, nel 1967, a rovesciare con un colpo di Stato il regime liberale vigente dalla fine della guerra, attuando poi una durissima repressione ai danni dell'opposizione democratica.
A porre fine alla dittatura dei colonnelli fu, nel 1974, l'esito disastroso di un colpo di mano mirante a ottenere l'annessione alla Grecia dell'isola di Cipro, da sempre divisa fra una comunità greca e una turca. La Turchia, militarmente più forte, reagì occupando una parte dell'isola (che da allora sarebbe rimasta politicamente divisa in due).
Travolti dall'insuccesso, i militari dovettero lasciare il potere ai partiti democratici: la Nuova democrazia di Costantin Karamanlis, espressione della destra moderata, e il Partito socialista di Andreas Papandreu, da allora alternatisi al governo.
Sempre nel 1974 un referendum popolare aveva sancito la fine della monarchia, peraltro già estromessa di fatto dalla dittatura dei colonnelli.

II ritorno alla democrazia in Spagna

Un ruolo importante nella transizione alla democrazia fu invece svolto dalla monarchia in Spagna.
Il re Juan Carlos di Borbone, insediato su un trono vacante dal 1931, dopo la morte, nel 1975, del generale Franco, come erede designato dal dittatore, seppe pilotare con abilità il passaggio alla democrazia di un paese che, fin dagli anni '60, aveva conosciuto un rapido sviluppo economico e che non si riconosceva più nelle strutture del regime clerical-autoritario.
Il re chiamò alla guida del governo Adolfo Suarez, un giovane uomo politico cresciuto nelle file del franchismo ma convinto della necessità di un radicale rinnovamento, legalizzò i partiti (compreso quello comunista) e i sindacati liberi e fece approvare per referendum, nel '78, una costituzione democratica.
Nonostante l'intensificarsi delle azioni terroristiche dei separatisti baschi la democrazia spagnola si consolidò rapidamente e sopportò senza scosse il cambio di potere verificatosi nell'82 con la vittoria elettorale dei socialisti di Felipe Gonzáles.

L'allargamento della Cee

Il ritorno alla democrazia di Spagna, Portogallo e Grecia rappresentò certamente una delle novità più positive nell'Europa di fine '900. E consenti un ulteriore allargamento della Cee, cui aderirono tutti e tre i paesi: la Grecia nell'81, la Spagna e il Portogallo nell'86. Nei due decenni successivi, il crollo dell'Urss e del sistema di potere sovietico in Europa orientale avrebbe aperto le porte dell'integrazione anche alle ex "democrazie popolari" dell'Est, cancellando definitivamente la «cortina di ferro» che per quasi mezzo secolo aveva diviso in due il vecchio continente.

I progressi dell'integrazione

Nelle intenzioni dei suoi fondatori, la Comunità europea nata dai trattati di Roma del 1957, pur avendo come principale ragion d'essere l'integrazione economica, avrebbe dovuto costituire la premessa per una graduale integrazione politica. Ma i progressi in questa direzione furono lenti e faticosi.
Nel 1974, in un vertice tenutosi a Parigi, si decise che i capi di governo dei paesi membri si sarebbero incontrati non occasionalmente, ma a scadenze regolari, dando vita di fatto a un nuovo organismo, il Consiglio europeo, che avrebbe da allora avuto la responsabilità di tracciare le linee-guida del processo di integrazione (mentre alla Commissione europea restavano affidati i compiti operativi, come l'attuazione dei singoli provvedimenti e la gestione delle risorse finanziarie).
Contemporaneamente si stabilì che il Parlamento europeo, anziché essere composto, come era stato sin allora, da rappresentanze dei Parlamenti nazionali, sarebbe stato eletto direttamente dai cittadini, con scadenza quinquennale, in base alle leggi elettorali vigenti nei singoli paesi. I poteri del Parlamento, con sede a Strasburgo e a Bruxelles, non mutarono significativamente, ma l'elezione popolare e la stessa organizzazione per correnti politiche (socialisti, popolari, liberali, ambientalisti), anziché per gruppi nazionali, conferirono all'organismo un maggiore peso, avvicinandolo ai cittadini.
Le prime elezioni per il Parlamento europeo si tennero nel 1979. In quello stesso anno, al fine di rilanciare il processo di integrazione economica in parte compromesso dalla crisi petrolifera, e di proteggere le economie nazionali dall'instabilità valutaria, entrò in funzione il Sistema monetario europeo (Sme): un sistema di cambi fissi (o oscillanti entro margini prestabiliti) fra le monete dei paesi membri, cui aderirono otto degli allora nove partner della Cee, compresa l'Italia, mentre restava fuori la Gran Bretagna.

 

I conflitti nell'Asia comunista

Nell'età della decolonizzazione, la vittoriosa guerriglia dei popoli dell'Indocina, prima per l'indipendenza dalla Francia, poi contro la presenza americana nel Sud-Est asiatico, aveva rappresentato un punto di riferimento, quasi un mito positivo, per i rivoluzionari di tutto il mondo e per buona parte della sinistra occidentale. Tanto più amara fu la delusione dell'opinione pubblica progressista di fronte alle vicende che seguirono la presa del potere da parte dei comunisti in Vietnam, Cambogia e Laos.

La dittatura comunista in Vietnam

Infatti, dopo la conquista, nel 1975, di Saigon, ribattezzata «città Ho Chi-minh», i nordvietnamiti ignorarono tutte le promesse di autodeterminazione e di riconciliazione fra le due metà del paese, attuando una politica di puro e semplice assorbimento del Sud nel Nord e di sistematica emarginazione, non solo dei sostenitori del vecchio regime, ma anche dei capi della lotta di liberazione nel Sud.
L'economia fu interamente collettivizzata. Nella primavera del 1978, la numerosa comunità di origine cinese – formata in gran parte da commercianti – fu improvvisamente espropriata dei suoi averi. Centinaia di migliaia di persone abbandonarono il paese, per lo più su piccole imbarcazioni, e molti persero la vita durante la fuga.

La Cambogia di Pol Pot

Ancora più tragiche furono le vicende della vicina Cambogia, dove i guerriglieri comunisti (i khmer rossi), sotto la guida del loro capo, Pol Pot, misero in atto, fra il '76 e il '78, uno dei più radicali e sanguinari esperimenti di rivoluzione sociale mai tentati nella storia.
Nell'intento di cancellare ogni traccia della vecchia società e di costruirne una nuova partendo da zero, i comunisti cambogiani consumarono uno spaventoso massacro, non solo eliminando fisicamente coloro che avevano servito sotto il regime precedente, ma provocando anche la morte per fame e per stenti di circa un milione e mezzo di comuni cittadini (su una popolazione di nemmeno sette milioni), costretti da un giorno all'altro a evacuare le città e a trasferirsi nelle campagne in omaggio all'utopia di uno spietato comunismo agrario.
Il denaro fu abolito. Templi buddisti, biblioteche e istituzioni d'ogni genere furono materialmente distrutti in quanto testimonianza di un passato da cancellare.

L'invasione vietnamita e l'intervento cinese

Geloso della propria indipendenza, e appoggiato dalla Cina, il regime di Pol Pot costituiva un ostacolo per i piani del Vietnam, che intendeva ridurre l'intera Indocina sotto la sua influenza (e lo stava già facendo col Laos). Nel dicembre 1978, 200 mila soldati vietnamiti, assieme a gruppi di esuli cambogiani, invadevano il paese e vi installavano un governo "amico" rovesciando quello dei khmer rossi (i quali, col sostegno della Cina, avrebbero continuato per parecchi anni a dar vita a un'ostinata guerriglia).
Nel febbraio '79 i cinesi effettuarono una spedizione punitiva nel Vietnam del Nord, infliggendo notevoli danni al paese, senza però raggiungere lo scopo di costringere il governo vietnamita a ritirare le truppe di occupazione dalla Cambogia.
Solo nel 1988, grazie alla mediazione dell'Onu, le forze vietnamite cominciarono a ritirarsi dalla Cambogia. E solo nel '91 si giunse a un accordo fra tutte le fazioni in lotta, che avrebbe portato, due anni dopo, alla restaurazione della monarchia e alla convocazione di libere elezioni.

 

La Cina post-maoista

L'ascesa di Deng Xiaoping

Dopo la morte di Mao Zedong, nel 1976, si aprì nella Cina comunista un processo di revisione interna – ideologica, economica e politica – simile per alcuni aspetti a quello avviato in Urss dopo la morte di Stalin, ma con esiti assai più radicali. Artefice principale della "demaoizzazione" fu Deng Xiaoping, anziano esponente del gruppo dirigente storico del comunismo cinese, emarginato ai tempi della rivoluzione culturale perché fautore di una linea moderata.
Riabilitato e reinserito nei vertici del partito per iniziativa del primo ministro Chou En-lai, Deng emerse progressivamente come il vero leader del paese e condusse la lotta contro gli ultimi eredi politici della rivoluzione culturale, prima di assumere ufficialmente, nel 1981, la guida del partito e dello Stato.

Le riforme economiche

Nel giro di pochi anni, Deng Xiaoping capovolse la linea rigorosamente collettivista ed egualitaria di Mao Zedong e promosse una serie di profonde modifiche nella gestione dell'economia: furono reintrodotte le differenze salariali e aumentati gli incentivi per i lavoratori; la direzione delle aziende fu ricondotta a criteri di efficienza; fu incoraggiata l'importazione di tecnologia dai paesi più sviluppati; i contadini ebbero la possibilità di coltivare i propri fondi e di venderne i prodotti sul mercato libero; in generale, furono introdotti nel sistema elementi di economia di mercato.
Una trasformazione profonda, che provocò notevoli mutamenti nella stratificazione sociale — si formarono, come nell'Urss ai tempi della Nep, nuovi strati privilegiati di manager, piccoli imprenditori agricoli, tecnici e commercianti — e anche nella mentalità e nel costume, con la penetrazione di modelli di tipo "consumistico" soprattutto fra le generazioni più giovani.

Contestazione e repressione

Proprio il contrasto fra una modernizzazione economica per molti aspetti traumatica (e non priva di costi sociali, in termini di disoccupazione e di migrazioni interne) e il mantenimento della struttura burocratico-autoritaria del potere fu all'origine, alla fine degli anni '80, di un vasto e spontaneo fenomeno di contestazione.
Protagonisti della protesta — cui certo non era estranea l'eco dei processi riformatori in atto nell'Urss di Gorbačëv — furono gli studenti dell'Università di Pechino, che diedero vita, nella primavera dell'89, a una serie di imponenti e pacifiche manifestazioni di piazza per chiedere più libertà e più democrazia.
Dopo qualche vano tentativo di dialogo, il gruppo dirigente comunista, preoccupato anche per l'estendersi delle manifestazioni ad altre città della Cina, rispose con una brutale repressione militare e con l'epurazione degli elementi riformisti dai vertici del partito. Nel giugno 1989, l'intervento dell'esercito contro i manifestanti riuniti nella più grande piazza della capitale (Piazza Tienanmen, ossia 'Della pace celeste') si risolse in un massacro, che suscitò reazioni sdegnate in tutto il mondo democratico.

Autoritarismo e mercato

La protesta, però, influì solo marginalmente nei rapporti commerciali fra la Cina e l'Occidente: troppo forte era l'interesse dei paesi industrializzati nei confronti di un mercato potenzialmente enorme e di un'economia che, già nel decennio '80-90, conobbe una fase di intenso sviluppo. Il regime cinese sarebbe riuscito così a sopravvivere al grande ciclone che avrebbe investito l'intero mondo comunista alla fine degli anni '80. E il paese più popoloso del mondo sarebbe diventato il teatro di un inedito esperimento di rilancio dell'economia di mercato all'interno di un regime autoritario che si continuava a proclamare comunista e in cui il partito unico deteneva il monopolio del potere politico.

 

La rivoluzione khomeinista in Iran

La rinascita del fondamentalismo

Alla fine del secolo XX, quando la crisi dei regimi comunisti sembrava aprire nuove prospettive di pace e offrire nuove possibilità di espansione alle istituzioni liberali e all'economia di mercato, le democrazie occidentali, ma anche i regimi post-comunisti, si trovarono a fronteggiare una nuova sfida globale: quella dell'Islam radicale e fondamentalista: un fenomeno fin allora minoritario e fortemente osteggiato dai governi degli stessi paesi musulmani.
La rinascita del fondamentalismo prese le mosse da due eventi verificatisi entrambi nel 1979: l'intervento sovietico in Afghanistan, che provocò per reazione una mobilitazione internazionale di combattenti islamici, appoggiata dagli Stati Uniti ma destinata a rivolgersi contro l'Occidente; e la rivoluzione scoppiata in Iran, che, dopo aver deposto lo scià, portò al potere l'ala più intransigente del clero musulmano di osservanza sciita.

Il regime dello scià

Governato con metodi autoritari dallo scià (imperatore) Reza Pahlavi, dopo la fine dell'esperimento riformatore del primo ministro Mossadeq, l'Iran era stato sin allora un pilastro fondamentale della presenza occidentale in Medio Oriente e un importante fornitore di petrolio.
A partire dagli anni '60 lo scià aveva avviato una politica di modernizzazione accelerata, e per molti aspetti traumatica, che mirava a trasformare il paese in una grande potenza militare, senza però riuscire ad assicurare significativi progressi nella condizione di vita delle masse.
Questa politica suscitò una crescente opposizione sia da parte dei gruppi di sinistra che agivano per lo più in clandestinità, sia da parte del clero islamico tradizionalista che assunse, nel 1978, la guida di un vasto movimento di protesta popolare.

La Repubblica islamica

Lo scià tentò di fermare la rivolta prima con sanguinose repressioni, poi chiamando al governo esponenti dell'opposizione moderata. Ma, nel gennaio 1979, abbandonato anche dagli Stati Uniti, dovette lasciare il paese. Sempre in gennaio, rientrava nella capitale Teheran l'ayatollah Ruhollah Khomeini, massima autorità spirituale dei musulmani sciiti, che aveva ispirato dal suo esilio di Parigi l'opposizione religiosa al regime dello scià.
Le componenti laiche e di sinistra, che avevano partecipato alla rivoluzione e avevano espresso i primi governi del dopo-scià, furono subito emarginate. In Iran si instaurò così una Repubblica islamica di stampo teocratico, ispirata a un vago riformismo sociale basato sui dettami del Corano e guidata di fatto dal clero sciita, anche dopo la morte, nel 1989, della «guida suprema» Khomeini.
Rigidamente tradizionalista e oscurantista in materia di costumi e di controllo sulla vita privata, violentemente antioccidentale e antiamericano, il nuovo regime entrò subito in contrasto con gli Stati Uniti, accusati di aver sostenuto lo scià e di avergli offerto ospitalità dopo la sua fuga. Per oltre un anno (dal novembre '79 al gennaio '81) il personale dell'ambasciata Usa a Teheran fu tenuto prigioniero da un gruppo di militanti islamici che agivano col pieno appoggio delle autorità. Gli ostaggi furono liberati solo dopo una lunga trattativa e dopo il fallimento, nell'aprile '80, di una azione di forza ordinata dal presidente statunitense Carter.
Ma gli Stati Uniti dovevano registrare l'affermazione di un altro regime ostile in un'area per molti aspetti strategica (per il Golfo Persico passava il 30% della produzione petrolifera mondiale).

La Guerra con l'Iraq

Isolato internazionalmente e gravemente dissestato nell'economia, l'Iran fu attaccato, nel settembre 1980, dal vicino Iraq, che, appoggiato in questa circostanza dagli Stati Uniti, cercò di profittare della situazione per impadronirsi di alcuni territori da tempo contesi fra i due paesi.
La guerra si protrasse con fasi alterne per ben otto anni e si risolse in una spaventosa quanto inutile carneficina (circa un milione di morti): il cessate il fuoco stabilito, grazie alla mediazione dell'Onu, nel luglio 1988, trovò infatti i contendenti sulle stesse posizioni dell'inizio del conflitto.
Ma intanto le vicende della rivoluzione e della guerra avevano dato un forte contributo alla destabilizzazione dell'intera area mediorientale, approfondendo sia la frattura con l'Occidente sia le divisioni interne al mondo islamico.

 

 

L'ITALIA DELLA PRIMA REPUBBLICA (1945-89)

 

 

L'Italia nel 1945

Nel giro di pochi anni, fra il 1945 e il 1949, l'Italia si lasciò alle spalle l'esperienza della dittatura fascista ed entrò in una nuova fase della sua storia unitaria. Guidata dai partiti che si erano opposti al regime mussoliniano, si diede un nuovo ordinamento repubblicano, una nuova Costituzione democratica e un nuovo sistema politico destinato a durare per quasi mezzo secolo e a dar forma a quella che, a partire dalle trasformazioni di fine '900, è stata definita «Prima Repubblica».
Una vicenda lunga e complessa, segnata da forti elementi di continuità, nella quale però possiamo distinguere cinque fasi, scandite da importanti mutamenti politici:
 - 1945-1948: la nascita della Repubblica, la Costituente e il trattato di pace;
 - 1948-1963: l'egemonia democristiana, il centrismo, il «miracolo economico»;
 - 1963-1975: il centro-sinistra, le riforme, i movimenti;
 - 1975-1979: la solidarietà nazionale e il terrorismo;
 - 1979-1989: l'inizio della crisi.
Prima di ripercorrere le tappe principali di questa vicenda, sarà utile vedere quali fossero le condizioni del paese a guerra appena terminata e quali le forze che si candidavano a governarlo.

Le distruzioni materiali

Con la fine del secondo conflitto mondiale, l'Italia aveva recuperato libertà e unità territoriale, anche se sotto la stretta tutela delle autorità di occupazione alleate. Ma la sua situazione era quella di un paese materialmente devastato.
La produzione industriale era scesa a meno di un terzo di quella dell'anteguerra, quella agricola era più che dimezzata e il patrimonio zootecnico distrutto per tre quarti. La quantità media giornaliera di calorie a disposizione di ogni cittadino era meno della metà di quella del '38. I prezzi al consumo erano cresciuti di 18 volte in sei anni, polverizzando i risparmi e ridimensionando drasticamente i salari reali. Il sistema dei trasporti era in buona parte disarticolato. Circa tre milioni di vani di abitazioni erano stati distrutti dai bombardamenti; i molti italiani rimasti senza casa erano costretti a coabitazioni forzate o cercavano rifugio nelle scuole e in altri edifici pubblici, trasformati in dormitori per gli "sfollati".

I problemi dell'ordine pubblico

La fame, la mancanza di alloggi e l'elevata disoccupazione contribuivano a rendere precaria la situazione dell'ordine pubblico.
La fine della guerra aveva ridato slancio a una conflittualità sociale che gli stessi leader della sinistra faticavano a tenere a freno. Un serio problema era poi costituito dagli ex partigiani, spesso inclini ad adottare misure di giustizia sommaria nei confronti dei fascisti.
Nelle regioni del Centro-sud, fin dalla primavera del '44, contadini e braccianti avevano ripreso, come nel primo dopoguerra, a occupare terre incolte e latifondi.
Ma la minaccia più grave, nel Mezzogiorno e nelle isole, veniva dalla malavita comune, in buona parte legata al contrabbando e alla borsa nera (ossia al commercio clandestino di generi razionati).

La frattura Nord-Sud

Le vicende seguite all'armistizio avevano fortemente appannato l'immagine del potere statale e avevano scavato nella compagine nazionale una profonda frattura che ricalcava le tradizionali spaccature fra Nord e Sud. A partire dal settembre '43, le due metà del paese avevano infatti vissuto due esperienze diverse.
Da una parte, al Sud, l'occupazione alleata, la continuità istituzionale sotto il segno della monarchia, la sostanziale tenuta dei vecchi equilibri sociali. Dall'altra, nel Centro-nord, l'occupazione tedesca, la guerra civile, un'insurrezione popolare in cui la lotta di liberazione nazionale si intrecciava alle istanze rivoluzionarie.
Queste spinte al cambiamento si scontravano, inoltre, con la situazione obiettiva del paese nel contesto internazionale. L'Italia era una nazione sconfitta e occupata militarmente, dipendeva dagli aiuti alleati e non poteva dunque considerarsi completamente arbitra del proprio destino.

I partiti di sinistra

Il compito di affrontare questi problemi spettava in primo luogo ai partiti che si erano raccolti nel Comitato di liberazione nazionale e che già esercitavano di fatto un ruolo di governo.
Il ritorno alla vita democratica si era accompagnato a un'impetuosa crescita della partecipazione politica, che di per sé favoriva le forze organizzate su basi di massa. I più attrezzati da questo punto di vista erano i due partiti della Sinistra operaia.
Il Partito socialista, che portava allora il nome di Psiup, assunto nel '43, ed era guidato da Pietro Nenni, era però diviso ancora una volta fra la tradizione riformista e le spinte rivoluzionarie, che portavano a mantenere uno stretto legame coi comunisti. Giocava inoltre a sfavore del Psiup il ruolo non di primo piano svolto nella Resistenza.
Il Partito comunista, al contrario, traeva forza e credibilità proprio dal contributo offerto alla lotta antifascista. Il partito nuovo che Palmiro Togliatti aveva cercato di costruire dopo la «svolta di Salerno» era un autentico partito di massa e aspirava a mantenere un ruolo di governo, senza però rinnegare il suo legame con l'Urss e senza cessare di incarnare le aspettative rivoluzionarie della classe operaia.

La Dc

Fra gli altri partiti, l'unico in grado di competere con le sinistre sul piano dell'organizzazione di massa era la Democrazia cristiana.
La Dc si richiamava all'esperienza del Partito popolare di Sturzo e ne ricalcava il programma, ispirato alla dottrina sociale cattolica. Anche il gruppo dirigente, a cominciare dal segretario Alcide De Gasperi, veniva in buona parte da quel partito, ma era stato rafforzato dall'afflusso delle nuove leve cresciute politicamente durante il ventennio nelle file dell'Azione cattolica. La Dc godeva inoltre dell'appoggio della Chiesa, che aveva visto crescere il suo ruolo negli anni della guerra e poi della dissoluzione del potere statale; e anche per questo si presentava come il principale perno del fronte moderato.

Liberali e democratici

Il Partito liberale, che raccoglieva nelle sue file gran parte della classe dirigente prefascista, poteva contare su una serie di adesioni illustri (come quelle di Luigi Einaudi e Benedetto Croce), oltre che sul sostegno della grande industria e dei proprietari terrieri. Ma il rapporto personale e clientelare fra i leader e la loro base elettorale era ormai definitivamente compromesso.
Fra i partiti laici, il Partito repubblicano si distingueva per l'intransigenza sulla questione istituzionale (aveva infatti respinto ogni compromesso con la monarchia, rifiutando persino di partecipare al Cln).
In una posizione particolare, al confine fra l'area liberal-democratica e quella socialista, si collocava il Partito d'azione. Forte del prestigio che gli veniva dal notevole contributo dato alla lotta partigiana, il Pda si faceva promotore di ampie riforme sociali, ma era privo di una base massa e faticava a trovare una sua identità, diviso com'era fra un'ala socialista un'ala liberal-democratica.

Le destre

Quanto alla destra vera e propria, essa appariva politicamente fuori gioco nel clima del dopo-liberazione.
Assente ancora un movimento neofascista organizzato (solo nel dicembre '46 si sarebbe costituito Msi, Movimento sociale italiano), i gruppi di destra si raccolsero in parte sotto bandiere monarchiche e in parte contribuirono all'affermazione di un nuovo movimento: l'Uomo qualunque. Fondato nel '45 dal commediografo Guglielmo Giannini il movimento qualunquista rifiutava qualsiasi caratterizzazione ideologica e si limitava ad assumere le difese del cittadino medio (dell'«uomo qualunque», appunto) oppresso dalle tasse e dalla nuova "dittatura" dei partiti del Cln. Il movimento riscosse notevoli consensi, soprattutto presso la piccola e media borghesia del Centro-sud. Ma presto sarebbe entrato in crisi, soprattutto per la confluenza dell'opinione pubblica moderata attorno alla Democrazia cristiana.

Da Parri a De Gasperi

La prima occasione di confronto fra i partiti del Cln all'indomani della liberazione si presentò al momento di scegliere il nuovo capo del governo. L'accordo fu trovato sul nome di Ferruccio Parri, leader del Partito d'azione e già capo militare della Resistenza. Parri cercò promuovere la normalizzazione del paese e mise all'ordine del giorno lo spinoso problema dell'epurazione dei funzionari statali più compromessi col fascismo. Enunciò inoltre una serie di provvedimenti volti a colpire con forti tasse le grandi imprese e a favorire le piccole e medie aziende.
Ma in questo modo si attirò l'opposizione delle forze moderate, in particolare del Pli, che nel novembre '45 tolse la fiducia al governo, determinandone la caduta. La Dc riuscì allora a imporre la candidatura del suo leader Alcide De Gasperi.
Il nuovo governo si reggeva sempre sulla partecipazione di tutti i partiti del Cln, ma inaugurava una svolta di segno moderato destinata a rivelarsi irreversibile.

 

La Repubblica e la Costituente

Elezioni e referendum

All'inizio del 1946, dopo molti rinvii dovuti alla difficile situazione del paese (collegamenti precari, mancato ritorno di molti militari dai campi di prigionia), il governo fissò al 2 giugno la data per le elezioni dell'Assemblea costituente, che sarebbe stata incaricata di scrivere la nuova costituzione italiana. Erano le prime consultazioni politiche libere dopo venticinque anni, e le prime in cui avevano diritto a votare anche le donne.
Si stabilì inoltre che in quello stesso giorno gli italiani e le italiane sarebbero stati chiamati a decidere direttamente, mediante referendum, se mantenere in vita l'istituto monarchico o fare dell'Italia una repubblica.
Il 9 maggio, quando mancavano poche settimane al voto, Vittorio Emanuele III tentò di risollevare le sorti della dinastia sabauda, screditata dalla sua lunga collaborazione col regime fascista, e abdicò in favore del figlio Umberto II. Ma la mossa non ottenne gli effetti sperati. Nelle votazioni del 2 giugno, caratterizzate da un'affluenza senza precedenti nella storia delle elezioni libere in Italia (circa il 90% degli aventi diritto), la repubblica prevalse con un margine abbastanza netto: 12.700.000 voti circa contro 10.700.000 per la monarchia.
Il 13 giugno, dopo un vano tentativo dei monarchici di contestare la regolarità formale del voto, Umberto II partì per l'esilio in Portogallo.
Si spezzava così definitivamente il legame fra l'Italia e la monarchia sabauda, che tanta parte aveva avuto nel processo di unificazione. Nelle elezioni per la Costituente, la Dc si affermò come il primo partito col 35,2% dei voti, seguita a notevole distanza dal Psiup (20,7) e subito dopo dal Pci (19). L'Unione democratica nazionale, che raccoglieva i maggiori esponenti della classe dirigente liberale, ebbe un risultato modesto, come i qualunquisti e i monarchici. Il Partito d'azione raccolse solo 1'1,5% dei voti.

Nuovi equilibri e vecchie divisioni

Rispetto alle ultime elezioni prefasciste, era evidente la crisi dei vecchi gruppi liberal-democratici, ormai sostituiti dalla Dc nella rappresentanza dell'Italia moderata.
La sinistra risultava complessivamente rafforzata, ma non tanto da diventare maggioritaria; e vedeva mutati i rapporti di forza al suo interno, col Psiup insidiato da vicino dal Pci.
Nel complesso, i risultati mostravano che gli elettori italiani avevano voltato pagina rispetto all'esperienza fascista. Quegli stessi risultati, però, se analizzati regione per regione, rivelavano che la vittoria della Repubblica nel referendum si reggeva tutta sul voto del Centro-nord e che anche il voto politico vedeva la sinistra in vantaggio nel Nord, ma debolissima nel Mezzogiorno.

La crisi dell'unità antifascista e la scissione socialista

Dopo le elezioni per la Costituente, democristiani, socialisti e comunisti continuarono a governare insieme, accordandosi sull'elezione del primo, e provvisorio, presidente della Repubblica, il liberale Enrico De Nicola. Ma la coabitazione al governo non eliminava i contrasti, originati, da un lato, dall'inasprirsi dello scontro sociale, dall'altro dal profilarsi della guerra fredda.
A fare le spese di questa radicalizzazione fu soprattutto il Partito socialista. Nel gennaio 1947, in un congresso a Roma, l'ala guidata da Giuseppe Saragat, contraria a una stretta collaborazione con i comunisti, abbandonò il Psiup (che riassunse il vecchio nome di Psi) e diede vita al Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli) che, qualche anno più tardi, avrebbe assunto il nome di Partito socialdemocratico italiano (Psdi).
In maggio, traendo spunto dai contrasti in seno alla coalizione, De Gasperi diede le dimissioni e formò un nuovo governo di soli democristiani, rafforzato dall'apporto di "tecnici" di area liberal-democratica (come Luigi Einaudi al Bilancio e Carlo Sforza agli Esteri).
Si chiudeva così, con i cattolici al potere e le sinistre all'opposizione, la fase della collaborazione governativa fra i tre partiti di massa.

 

La Costituzione e il trattato di pace

Genesi e caratteri della Costituzione

I contrasti politici culminati con l'esclusione delle sinistre dal governo non impedirono ai partiti antifascisti di mantenere quel minimo di solidarietà che era necessaria alla Repubblica per il varo della Costituzione repubblicana.
L'Assemblea incaricata di dare al paese una nuova legge fondamentale, dopo lo Statuto albertino di cento anni prima, cominciò i suoi lavori il 24 giugno 1946 e li concluse il 22 dicembre 1947 con l'approvazione a larghissima maggioranza del testo costituzionale, che entrò in vigore dal 1° gennaio 1948.
La Costituzione repubblicana si ispirava ai modelli democratici ottocenteschi per la parte riguardante le istituzioni e i diritti politici: essa dava vita a un sistema parlamentare, col governo responsabile di fronte alle due Camere (la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica), titolari del potere legislativo (senza apprezzabili differenze di funzioni).
Alle Camere, elette a suffragio universale, spettava il compito di scegliere, in seduta congiunta, un presidente della Repubblica con mandato settennale e con funzioni di garanzia e di rappresentanza dell'unità nazionale.
Era inoltre previsto che un Consiglio superiore della magistratura assicurasse l'autonomia dell'ordine giudiziario, che una Corte costituzionale vigilasse sulla conformità delle leggi alla Costituzione, che le leggi potessero essere sottoposte a referendum abrogativo – diretto cioè all'annullamento di una legge o di alcune sue disposizioni – dietro richiesta di almeno 500 mila cittadini, che la vecchia struttura centralistica dello Stato fosse spezzata grazie al nuovo istituto della regione, dotato di ampi poteri (anche legislativi).
Le norme relative al Consiglio superiore della magistratura, alla Corte costituzionale, al referendum e alle regioni erano però destinate a restare inattuate per molti anni.
Non sempre, inoltre, avrebbero trovato riscontro nella realtà alcune affermazioni di principio in materia di diritti sociali, che erano il risultato della convergenza fra la Dc e i partiti di sinistra e che rappresentavano la maggiore novità rispetto ai modelli costituzionali ottocenteschi: fra l'altro, era sancito il «diritto al lavoro» ed era stabilito che il diritto di proprietà potesse essere limitato a vantaggio del benessere collettivo.

Il compromesso costituente

Nel complesso, i costituenti – preoccupati di allontanarsi il più possibile dall'esempio negativo dell'autoritarismo fascista – sentirono più l'esigenza di garantire spazi di rappresentanza a tutte le forze politiche, grandi e piccole, che non quella di assicurare stabilità al potere esecutivo. La scelta in favore di un modello parlamentare – unita a un sistema elettorale proporzionale (in cui ad ogni partito viene assegnato un numero di seggi proporzionale ai voti raccolti) – faceva infatti dei partiti i primi destinatari del consenso e dunque gli arbitri della politica italiana.
Nel complesso, tuttavia, la Costituzione rappresentò un compromesso equilibrato fra le istanze delle diverse forze che avevano contribuito a realizzarla. Fu merito dei costituenti l'aver raggiunto questo risultato nonostante l'asprezza dei contrasti che si aprirono su singole questioni.
Lo scontro più clamoroso si verificò nel marzo '47, quando si discusse la proposta democristiana di inserire nella Costituzione un articolo (l'articolo 7) in cui si stabiliva che i rapporti fra Stato e Chiesa erano regolati dal concordato stipulato nel 1929 fra Santa Sede e regime fascista. La proposta sembrava destinata a essere respinta. Ma all'ultimo momento, con una decisione che destò scalpore, Togliatti annunciò il voto favorevole del Pci, motivando la sua scelta con la volontà di rispettare il sentimento religioso della popolazione italiana e di non creare fratture in seno alle masse.
L'articolo 7 fu così approvato, nonostante l'opposizione dei socialisti e degli altri partiti laici.

Il trattato di pace

Nel luglio di quello stesso 1947, l'Assemblea Costituente fu chiamata ad affrontare un'altra importante scadenza: la ratifica del trattato di pace che il governo aveva firmato in febbraio a Parigi con gli Stati vincitori della guerra mondiale. Non fu una decisione facile.
L'Italia, nonostante gli sforzi del governo per veder riconosciuto il contributo fornito agli alleati fra il '43 e il '45, fu trattata a tutti gli effetti come una nazione sconfitta: si impegnò a pagare riparazioni agli Stati che aveva attaccato (Russia, Grecia, Jugoslavia, Albania, Etiopia), dovette ridurre la consistenza delle sue forze armate e perse tutte le sue colonie (anche se, nel 1950, avrebbe ottenuto per un decennio l'amministrazione fiduciaria della Somalia).

Il dramma del confine orientale

Più dolorose furono le mutilazioni territoriali: se a ovest l'Italia non subì perdite di rilievo, salvo alcune rettifiche secondarie a favore della Francia, se a Nord poté avvantaggiarsi della posizione di inferiorità dell'Austria per mantenere l'Alto Adige (impegnandosi però a concedere ampie autonomie amministrative e linguistiche alla provincia di Bolzano), sul confine orientale la situazione era già largamente compromessa alla fine della guerra.
L'esercito di liberazione jugoslavo comandato dal maresciallo Tito aveva infatti occupato l'Istria e rivendicava il possesso di Trieste. L'occupazione fece riesplodere il conflitto fra italiani e slavi (sloveni e croati), esasperato durante il fascismo dalla dura repressione condotta dal regime contro le minoranze etniche.
Nella primavera-estate del 1945 migliaia di italiani, a Trieste, a Gorizia e in molti centri dell'Istria furono uccisi o deportati, con la generica accusa di complicità col fascismo. Molti di loro furono gettati, vivi o morti, nelle foibe, profonde cavità naturali dell'altopiano carsico comunemente usate come discariche. Anche a seguito di queste violenze, un gran numero di italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia (fra i due e i trecentomila) lasciarono le loro terre e ripararono in Italia, contribuendo a tener desta la polemica contro il trattato di pace.
Il dramma del confine orientale divenne così un fattore di mobilitazione per l'opinione pubblica di destra, intrecciandosi con le divisioni create dalla guerra fredda.

La questione di Trieste

Alla fine del '46 fu attuata una sistemazione provvisoria, che lasciava alla Jugoslavia la Penisola istriana, eccettuata una striscia comprendente Trieste e Capodistria, che avrebbe dovuto costituire il Territorio libero di Trieste.
Il Territorio fu a sua volta diviso in una zona A (Trieste e dintorni) occupata dagli alleati e in una zona B tenuta dagli jugoslavi.

La situazione dell'Istria tra il 1945 e il 1954

Solo nell'ottobre 1954, dopo momenti di forte tensione fra Italia e Jugoslavia, si giunse a una spartizione di fatto, che sanciva il controllo jugoslavo sulla zona B e il passaggio dall'amministrazione alleata a quella italiana della zona A, ossia di Trieste, che veniva così riunita all'Italia.

 

Il tempo delle scelte

Il varo della Costituzione repubblicana fu l'ultima manifestazione significativa della collaborazione tra le forze antifasciste.
Dall'inizio del '48, i partiti si impegnarono in una gara sempre più accanita in vista delle elezioni politiche, convocate per il 18 aprile di quell'anno, che avrebbero dato alla Repubblica il suo primo Parlamento.
Caratteristica di questa campagna elettorale fu la polarizzazione fra due schieramenti contrapposti: quello governativo, guidato dalla Dc e comprendente anche i partiti laici minori (liberali, socialdemocratici e repubblicani); e quello di opposizione, in cui Psi e Pci si presentavano uniti sotto l'insegna del Fronte popolare.

La campagna elettorale

Nella sua campagna elettorale il partito di De Gasperi poté giovarsi dell'aiuto di due potenti alleati. La Chiesa, a cominciare dal pontefice Pio XII, si impegnò in una vera crociata anticomunista e mobilitò tutte le sue organizzazioni in una propaganda spesso grossolana, ma indubbiamente efficace, a sostegno della Dc. Decisivo fu anche l'appoggio degli Stati Uniti, che consentì ai democristiani di presentarsi come i più accreditati rappresentanti della massima potenza mondiale e di agitare la concreta minaccia di una sospensione degli aiuti del piano Marshall in caso di vittoria delle sinistre.
Socialisti e comunisti risposero facendo appello ai lavoratori e insistendo sui toni democratici e populisti (il ritratto di Garibaldi fu scelto come contrassegno delle liste del Fronte) rispetto a quelli classisti e rivoluzionari. Ma la loro propaganda fu fortemente danneggiata da una stretta adesione alla causa dell'Urss e alla politica estera di Stalin, in un momento in cui l'immagine del comunismo sovietico era inevitabilmente associata a quanto stava accadendo nell'Europa dell'Est, in particolare in Cecoslovacchia.
Giocavano invece a favore della Dc le prospettive di sviluppo e di benessere, associate nella stessa mentalità popolare al legame cogli Stati Uniti, la paura di mutamenti radicali, il tradizionale ossequio alla Chiesa di Roma.

La vittoria della Dc

Le elezioni si risolsero così in un travolgente successo del partito cattolico, che ottenne il 48,5% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, attirando sulle sue liste i suffragi dell'elettorato moderato.
Bruciante fu la sconfitta di socialisti e comunisti, che uniti ottennero il 31% contro il 40% del 1946. Il peso della sconfitta ricadeva per intero sul Psi, che vedeva più che dimezzata la sua rappresentanza parlamentare e pagava così l'allineamento sulle posizioni del Pci.
Cadevano le speranze della sinistra di guidare la trasformazione della società, mentre si rafforzava l'egemonia del partito cattolico, già delineatasi con l'avvento al governo di De Gasperi e ora sancita in modo inequivocabile dal responso delle urne.

L'attentato a Togliatti

La delusione dei militanti di sinistra per questo risultato si espresse tre mesi dopo le elezioni, quando uno studente di destra sparò al segretario comunista Togliatti e lo ferì gravemente. Alla notizia dell'attentato, in tutte le principali città, militanti dei partiti di sinistra scesero in piazza, scontrandosi con le forze dell'ordine. L'agitazione si esaurì in pochi giorni, anche per il comportamento prudente dei dirigenti comunisti. Ma le tensioni nel paese risultarono ulteriormente esasperate.
Un'altra conseguenza delle giornate del luglio '48 fu la rottura all'interno della Cgil (Confederazione generale italiana del lavoro), che era stata ricostituita nel 1944 su basi unitarie. La decisione della maggioranza social-comunista del sindacato di proclamare uno sciopero generale per protesta contro l'attentato a Togliatti fornì infatti alla componente cattolica l'occasione per dar vita a una nuova confederazione, la Cisl (Confederazione italiana sindacati lavoratori).
Pochi mesi dopo anche i sindacalisti repubblicani e socialdemocratici abbandonarono la Cgil, fondando una terza organizzazione, la Uil (Unioni italiana del lavoro).

Le scelte di politica economica

Con le elezioni del 18 aprile '48, gli elettori italiani non solo scelsero il partito che avrebbe governato il paese negli anni a venire, ma si espressero anche in favore di un sistema economico e di una collocazione internazionale.
Sul terreno della politica economica, i governi dell'immediato dopoguerra non introdussero riforme strutturali di rilievo: anche perché la corrente di pensiero dominante vedeva nella pianificazione economica un prodotto dei regimi autoritari. I partiti di sinistra, finché restarono al governo, si limitarono sostanzialmente a un'azione di difesa dei salari e dell'occupazione. Anche questa linea di resistenza cadde però con l'estromissione delle sinistre dal governo e la formazione del nuovo gabinetto De Gasperi, in cui il ministero del Bilancio era tenuto dall'economista liberale Luigi Einaudi.
Mentre le sinistre si impegnavano in un'impopolare battaglia contro il piano Marshall, Einaudi attuò una manovra economica che aveva come scopi principali la fine dell'inflazione, il ritorno alla stabilità monetaria e il risanamento del bilancio statale. Nel complesso, la "linea Einaudi" ottenne i risultati che si era prefissa: la lira recuperò potere d'acquisto, i capitali esportati rientrarono in Italia (soprattutto dopo le elezioni del '48), i ceti medi risparmiatori riacquistarono fiducia, gli stessi salariati si giovarono del calo dei prezzi.
L'operazione ebbe forti costi sociali, soprattutto sul versante della disoccupazione. Ma la durezza dello scontro che segnò questi anni non impedì al paese di trovare lo slancio necessario per una ricostruzione più rapida del previsto: nel 1950 furono infatti raggiunti i livelli produttivi dell'anteguerra.

L'adesione alla Nato

L'adozione di un modello di sviluppo fondato sull'iniziativa privata, sia pur corretta dall'intervento pubblico, era anche il risultato di una crescente integrazione con le economie dell'Occidente capitalistico. E questa scelta non poteva non riflettersi sulla collocazione internazionale del paese.
Per una nazione sconfitta, priva di adeguata forza militare, il problema capitale era infatti quello della scelta di campo fra i due blocchi che si fronteggiavano in Europa. Così, quando, alla fine del '48, furono gettate le basi per il Patto atlantico, il governo italiano, per volontà soprattutto di De Gasperi e del ministro degli Esteri Sforza, decise di accettare la proposta di adesione che era stata rivolta all'Italia, nonostante l'opposizione di socialisti e comunisti e le perplessità di una parte del mondo cattolico.
L'adesione al Patto atlantico fu approvata dal Parlamento, dopo un acceso dibattito, nel marzo 1949. Col passare degli anni, la scelta sarebbe stata accettata anche da molte delle forze che l'avevano inizialmente contestata e sarebbe rimasta un punto fermo della politica estera italiana.

 

De Gasperi e il centrismo

I governi De Gasperi

I cinque anni della prima legislatura repubblicana (1948-53) segnarono il periodo di massima egemonia della Democrazia cristiana sulla vita politica nazionale.
Nonostante potesse contare sulla maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, la Dc mantenne l'alleanza coi partiti laici minori; appoggiò la candidatura alla presidenza della Repubblica del liberale Luigi Einaudi, eletto nel maggio 1948; associò ai suoi governi, sempre presieduti da De Gasperi, rappresentanti del Pli, del Pri e del Psdi.
Fu questa la formula del centrismo, che vedeva una Dc molto forte occupare il centro dello schieramento politico, lasciando fuori della maggioranza sia la sinistra social-comunista, sia la destra monarchica e neofascista. Componente essenziale della politica centrista era una moderata dose di riformismo che conservasse al governo una rilevante quota di consenso popolare.

La riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno

Da questo punto di vista, l'iniziativa più importante fu la riforma agraria del 1950, che prevedeva l'esproprio e il frazionamento di parte delle grandi proprietà terriere in ampie aree geografiche del Mezzogiorno e delle isole e anche del Centro-nord (il delta del Po e la Maremma). La riforma costituiva il primo tentativo di profonda modifica dell'assetto fondiario mai attuato nella storia dell'Italia unita e andava incontro alle attese delle masse rurali del Centro-sud, protagoniste, ancora alla fine degli anni '40, di alcuni drammatici episodi di lotta per la terra.
Gli obiettivi a più lungo termine erano l'incremento della piccola impresa agricola e il rafforzamento del ceto dei contadini indipendenti, tradizionalmente considerato un fattore di stabilità sociale. Questi obiettivi si sarebbero però rivelati illusori. E la riforma non servì a contenere quel fenomeno di migrazione dalle campagne che, cominciato all'inizio degli anni '50, avrebbe assunto proporzioni imponenti alla fine del decennio.
Nell'agosto 1950, contemporaneamente alla riforma agraria, fu varata un'altra legge importante: quella che istituiva la Cassa per il Mezzogiorno, un nuovo ente pubblico che aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo economico e civile delle regioni meridionali attraverso il finanziamento statale per le infrastrutture (strade, acquedotti, centrali elettriche) e il credito agevolato alle industrie localizzate nelle aree depresse. Un intervento che ebbe indubbi effetti positivi sull'economia meridionale e sul tenore di vita della popolazione, anche se non bastò a mettere in moto un autonomo processo di modernizzazione al livello della società civile.

Le resistenze della destra e l'opposizione delle sinistre

Le riforme varate dai governi centristi – accanto a quelle già citate si devono ricordare la legge Fanfani sul finanziamento alle case popolari e la riforma tributaria Vanoni, che introduceva per la prima volta l'obbligo della dichiarazione annuale dei redditi – furono fortemente avversate dalla destra: gli stessi liberali si ritirarono dal governo nel '50 in quanto contrari alla riforma agraria.
D'altro canto le sinistre continuarono a condurre contro i governi De Gasperi un'opposizione dura, motivata anche dallo stato di disagio in cui ancora versavano le classi lavoratrici.
Nonostante la forte ripresa produttiva iniziata nei primi anni '50, la disoccupazione si mantenne su livelli elevati e i salari restarono bassi. I partiti di sinistra e la Cgil reagirono mobilitando le masse operaie in una serie di scioperi e manifestazioni, che spesso si concludevano in scontri con le forze dell'ordine. A sua volta, il governo intensificò l'uso dei mezzi repressivi.

La «Legge truffa»

Costretti a fronteggiare la pressione della sinistra e minacciati dalla crescita della destra, De Gasperi e i suoi alleati tentarono, nell'imminenza delle elezioni del '53, di rendere inattaccabile la coalizione centrista attraverso una modifica dei meccanismi elettorali.
Il sistema scelto fu quello di assegnare il 65% dei seggi alla Camera a quel gruppo di partiti "apparentati" (ossia uniti da una preventiva dichiarazione di alleanza) che ottenesse almeno la metà più uno dei voti. Dal momento che né l'opposizione di sinistra né quella di destra potevano aspirare a raggiungere un simile risultato, il sistema sembrava costruito su misura per la maggioranza. Da qui le violente polemiche che accompagnarono la discussione in Parlamento della riforma elettorale, ribattezzata dalle sinistre «legge truffa».
La legge fu approvata nel marzo '53, dopo una durissima battaglia parlamentare.
Nelle elezioni che si tennero in giugno, però, la coalizione di governo fu sorprendentemente sconfitta: sia la Dc sia i suoi alleati persero voti rispetto al '48, mancando per poche decine di migliaia di voti l'obiettivo del 50%. Il premio di maggioranza non scattò e dopo le elezioni la legge fu abrogata.

Sviluppo e riforme

Uscito di scena De Gasperi, che si dimise nel '53 e morì un anno dopo, i successivi governi a guida democristiana continuarono ad appoggiarsi sulla ormai esigua maggioranza centrista, rafforzata in qualche caso dall'apporto di voti monarchici e neofascisti.
Frattanto, però, significative novità andavano maturando nelle istituzioni e nel governo dell'economia. La crescita economica si consolidava. E si rafforzavano di pari passo i legami con l'Europa più avanzata, che sarebbero poi stati ribaditi, nel marzo 1957, dall'adesione italiana alla Comunità europea. Nell'estate 1955 fu presentato in Parlamento il cosiddetto piano Vanoni (dal nome dell'allora ministro del Bilancio), che indicava fra gli obiettivi prioritari della politica economica l'assorbimento della disoccupazione e la cancellazione del divario fra Nord e Sud.
Un'altra novità importante di questi anni, sul piano delle istituzioni, fu l'insediamento, nell'aprile '56, della Corte costituzionale.
Composta in parte da magistrati e in parte da membri nominati dal Parlamento e dal presidente della Repubblica, la Corte avrebbe svolto una funzione importante nell'adeguare la vecchia legislazione ai principi costituzionali e nel far cadere alcune fra le norme più autoritarie varate in periodo fascista.
Due anni dopo si sarebbe insediato anche il Consiglio superiore della magistratura, anch'esso previsto dalla Costituzione.

Verso nuovi equilibri

Cambiamenti importanti si registrarono anche nei principali partiti. Nella Democrazia cristiana emergeva la nuova generazione cresciuta nell'Azione cattolica degli anni '20 e '30, legata alle problematiche del cattolicesimo sociale e favorevole all'intervento statale nell'economia.
Il principale esponente di questa generazione, Amintore Fanfani, divenuto segretario nel 1954, cercò di rafforzare la struttura organizzativa del partito e di svincolarlo dai condizionamenti dell'industria privata, collegandolo più strettamente all'industria di Stato: in particolare all'Eni (Ente nazionale idrocarburi, azienda pubblica attiva nel settore del petrolio e dei gas naturali) di Enrico Mattei, un abile e dinamico manager che esercitò in questi anni una notevole influenza sul mondo politico.
Soprattutto dopo le elezioni presidenziali del 1955 – che videro la vittoria di Giovanni Gronchi, democristiano di sinistra, votato anche da socialisti e comunisti – si manifestò nel partito una nuova attenzione a quanto stava cambiando nella sinistra.
Un passaggio importante verso nuovi equilibri fu rappresentato dalle ripercussioni dei fatti d'Ungheria del 1956. Mentre il Pci approvò l'intervento sovietico, il Psi lo condannò. Fu Pietro Nenni a guidare la svolta autonomista, con cui il Psi si rendeva disponibile a una collaborazione con la Dc e i partiti laici.
Si creavano così le premesse politiche per una apertura a sinistra. Né mancavano i margini economici per una politica di riforme, dato che il paese stava cominciando a vivere il più rapido boom industriale della sua storia.

 

Il miracolo economico

Il boom industriale

Già dall'inizio degli anni '50, una volta esaurite le urgenze della ricostruzione, l'economia italiana aveva cominciato a crescere a ritmi mai conosciuti in passato.
Questo processo giunse al culmine fra il 1958 e il 1963: gli anni del «miracolo economico», in cui l'Italia, con un tasso di sviluppo inferiore in Europa solo a quello tedesco, ridusse significativamente il divario che la separava dalla maggior parte dei paesi industrializzati. Il prodotto interno lordo, che fra il '51 e il '58 era cresciuto a un tasso medio annuo del 5,3%, nel quinquennio successivo progredì ulteriormente a un ritmo del 6,5%. Fra il '51 e il '63, il prodotto pro capite crebbe mediamente del 5,8% all'anno.
Lo sviluppo interessò soprattutto l'industria manifatturiera, che nel '61 giunse a triplicare la sua produzione rispetto al periodo prebellico: un incremento particolarmente significativo si verificò nei settori siderurgico, meccanico e chimico, dove più ampio fu il rinnovamento degli impianti e delle tecnologie.
La crescita industriale fu alimentata dallo sviluppo delle esportazioni, soprattutto nei settori degli elettrodomestici e dell'abbigliamento.
La diffusione dei prodotti italiani, la solidità della lira, la stabilità dei prezzi, ma anche alcuni eventi extraeconomici, come il successo organizzativo delle Olimpiadi di Roma nel 1960 o le celebrazioni del centenario dell'unità nel 1961, improntati a un generale ottimismo circa l'avvenire del paese: tutto contribuiva a rafforzare l'immagine di un'Italia ormai avviata verso nuove prospettive di benessere.

I fattori del miracolo

Molti furono i fattori all'origine del miracolo: innanzitutto l'Italia poté inserirsi nella fase di crescita delle economie occidentali; contarono poi la politica di libero scambio avviata negli anni '50, la modesta entità del prelievo fiscale e, soprattutto, lo scarto fra l'aumento della produttività e il basso livello dei salari che consentì alti profitti e tassi di investimento molto elevati.
La compressione salariale era il risultato di una larga disponibilità di manodopera a basso costo, dovuta, a sua volta, al costante flusso migratorio dalle zone depresse a quelle più progredite. L'agricoltura, che nel '51 assorbiva ancora quasi il 45% degli occupati, passava dieci anni dopo al 30% (e la percentuale sarebbe scesa ulteriormente negli anni successivi). Nello stesso periodo l'industria saliva dal 29 al 37% e i servizi dal 27 al 32%. Fu allora che, anche sotto questo aspetto, l'Italia divenne un paese industriale.

Una battuta d'arresto

La crescita economica, favorita all'inizio dal basso livello delle retribuzioni, si accompagnò, nella sua fase più intensa, a un netto miglioramento delle condizioni dei lavoratori.
Il calo della disoccupazione, conseguenza dello stesso sviluppo industriale, accrebbe la capacità contrattuale dei sindacati, che riuscirono a ottenere notevoli miglioramenti salariali. Questi aumenti, necessari anche per sviluppare il mercato interno, ebbero però l'effetto di ridurre i margini di profitto e di mettere in moto un processo inflazionistico. Così, nel 1963-64, il miracolo italiano conobbe una battuta d'arresto.
La crescita riprese a partire dal '66, anche se a ritmi più lenti.

Migrazioni e urbanizzazione

Negli anni del boom, la società italiana subì una serie di profonde trasformazioni, che cambiarono il volto del paese e le abitudini dei suoi cittadini forse più di quanto non fosse avvenuto nei precedenti cent'anni di storia unitaria. Col «miracolo economico» l'Italia si lasciò alle spalle le strutture e i valori della società contadina ed entrò nella civiltà dei consumi. Vi entrò disordinatamente, senza aver superato i suoi storici squilibri territoriali, che anzi nell'immediato apparvero aggravati.
Il fenomeno più importante e più vistoso di questi anni fu il massiccio esodo dal Sud verso il Nord e dalle campagne verso le città. Fra il '51 e il '61, circa 2 milioni di persone abbandonarono il Mezzogiorno.
In tutto il paese il ceto dei coltivatori diretti subì una drastica riduzione, mentre aumentavano la piccola borghesia urbana e la classe operaia. Sempre fra il '51 e il '61, la popolazione residente in città con più di 300 mila abitanti passò da 6.847.000 a 9.190.000. La popolazione di Milano crebbe del 22%, quella di Roma del 27%, quella di Torino (sede della maggior industria nazionale, la Fiat) di circa il 40%. La crescita delle città, anche di quelle non industriali, si accompagnò fra il '51 e il '63 a un fortissimo incremento dell'occupazione nei settori del commercio (+100%) e dell'edilizia (+84%). Nello stesso periodo l'occupazione nell'industria manifatturiera aumentò del 40%.

I costi della modernizzazione

Le grandi migrazioni interne e la rapida urbanizzazione erano indubbiamente il segno di un progresso economico del paese: l'emigrazione verso l'estero, ancora molto elevata per tutti gli anni '50, si ridusse fino a scomparire, i livelli di istruzione migliorarono significativamente e la dieta degli italiani divenne più ricca, soprattutto per quanto riguardava il consumo di carne.
Ma i costi umani e sociali furono pesanti. L'espansione delle città avvenne spesso in forme caotiche, senza un adeguato intervento dei poteri pubblici. Il difficile inserimento degli immigrati meridionali nelle grandi città industriali mise in evidenza il divario – che investiva anche i modi di vita e i modelli culturali – fra il Nord e il Sud del paese.
Tuttavia, in quegli stessi anni, le differenze nei comportamenti sociali cominciarono ad attenuarsi: ebbe inizio un processo di integrazione legato alle comuni esperienze lavorative, ma favorito anche, per le generazioni più giovani, dalla scolarizzazione e, per l'insieme della popolazione, dalla diffusione di alcuni consumi di massa.

Televisione e automobile

La televisione e l'automobile furono gli strumenti e i simboli principali di questo cambiamento. I primi apparecchi televisivi entrarono nelle case degli italiani a partire dal 1954, con l'inizio di regolari trasmissioni da parte della Rai, l'ente di Stato che già deteneva il monopolio dell'emittenza radiofonica. Ma il boom della televisione cominciò alla fine del decennio, in coincidenza col «miracolo economico»: nel 1955 c'erano 4 apparecchi ogni 1000 abitanti, nel '60 43, nel '65 117.
La televisione non era solo un nuovo e pervasivo mezzo di svago: era anche un veicolo attraverso cui passavano una lingua comune (la lingua nazionale, che solo in questi anni si affermò nell'uso parlato, a scapito dei dialetti) e nuovi modelli culturali di massa.
Anche il boom della motorizzazione privata cominciò nella seconda metà degli anni '50; e coincise col grande successo delle nuove utilitarie prodotte dalla Fiat: la Seicento e la Cinquecento. Dalle 18 automobili ogni 1000 abitanti del 1955 si passò alle 105 di dieci anni dopo.
L'espansione dell'industria automobilistica nazionale fu incoraggiata anche dallo Stato, attraverso la costruzione di una grande rete autostradale che sarebbe stata completata a metà degli anni '70.

 

Il centro-sinistra

La crisi Tambroni

Nella primavera 1960 il democristiano Fernando Tambroni formò un governo "monocolore" formato solo da ministri Dc, con l'appoggio determinante del Movimento sociale.
Quando, alla fine di giugno, il governo autorizzò il Msi a tenere il suo congresso nazionale a Genova, città di tradizioni antifasciste, la decisione fu interpretata come un prezzo pagato per l'appoggio parlamentare dei neofascisti e suscitò un'autentica rivolta cittadina: per tre giorni (30 giugno-2 luglio 1960) operai e militanti di sinistra si scontrarono con la polizia. Alla fine il governo cedette e il congresso fu rinviato. Ma altre manifestazioni in molte città, fra cui Roma, furono represse duramente, provocando una decina di morti (cinque nella sola Reggio Emilia).
In un clima di sollevazione dell'opinione pubblica di sinistra, Tambroni fu sconfessato dalla stessa Dc e costretto a dimettersi. Con lui cadde ogni ipotesi di governo appoggiato dall'estrema destra.

I governi Fanfani e le riforme

Per superare la crisi, fu formato, nell'agosto '60, un nuovo governo monocolore presieduto da Fanfani, che ottenne l'astensione dei socialisti nel voto di fiducia in Parlamento, aprendo così la stagione politica del centro-sinistra. La svolta fu sancita dal congresso della Dc, nel gennaio '62, grazie alla regia del segretario Aldo Moro, che riuscì a far accettare la scelta al grosso del suo partito.
Un nuovo governo Fanfani, formatosi nel marzo '62 e composto da Dc, Pri e Psdi, si presentò con un programma concordato col Psi.
Fu proprio in questa fase (in cui i socialisti non facevano ancora parte del governo) che la politica di centro-sinistra conseguì i risultati più avanzati.
Il programma prevedeva infatti la realizzazione della scuola media unificata (con l'abolizione degli istituti di avviamento professionale, destinati a coloro che non avevano la possibilità di proseguire gli studi), l'attuazione dell'ordinamento regionale previsto dalla Costituzione e la nazionalizzazione dell'industria elettrica.
Queste due ultime riforme si inquadravano nel tentativo di dare avvio a una programmazione economica: un disegno che mirava a potenziare gli strumenti dell'intervento statale sull'economia, al fine di ridurre gli squilibri della società italiana.
La nazionalizzazione dell'industria elettrica fu portata a compimento, nel novembre 1962, con la creazione dell'Ente nazionale per l'energia elettrica (Enel).
Nel dicembre 1962 fu approvata la legge che istituiva la scuola media unica.
L'attuazione delle regioni, temuta dalla Dc perché avrebbe rafforzato le sinistre al livello del potere locale, fu rinviata. Quanto alla politica di programmazione, essa non riuscì mai a tradursi compiutamente in pratica e rimase il simbolo più evidente dell'utopia riformatrice del primo centro-sinistra.

Moro e il centro-sinistra «organico»

I contrasti nella maggioranza furono esasperati dall'esito delle elezioni dell'aprile '63. La perdita di voti della Dc e del Psi, il successo dei liberali, che si erano opposti all'apertura a sinistra, e il rafforzamento dei comunisti accentuarono le divisioni interne e le resistenze nella Dc e nel Psi.
Un governo "organico" di centro-sinistra (cioè con la partecipazione di ministri socialisti accanto a quelli democristiani, socialdemocratici e repubblicani) si formò solo nel dicembre 1963 sotto la presidenza di Moro e nacque su basi più moderate rispetto al precedente governo Fanfani.
Da allora il processo riformatore rimase bloccato per diversi anni, anche per il manifestarsi dei primi segni di rallentamento dello sviluppo. Inoltre, si faceva sentire il peso delle forze ostili al centro-sinistra, che annoveravano tra le loro file, oltre alla destra economica, anche le alte gerarchie militari e lo stesso presidente della Repubblica, il democristiano Antonio Segni. Ma gli ostacoli venivano anche dall'interno della coalizione governativa, in particolare dall'esigenza della Dc di tranquillizzare la sua base moderata.

Le divisioni nella sinistra

Se la Dc riuscì in questo modo a mantenere la sua unità, il Psi pagò la partecipazione al governo con una nuova scissione: nel gennaio 1964 la minoranza di sinistra, che si opponeva alla scelta governativa, diede vita al Partito socialista di unità proletaria (Psiup). Una perdita solo in parte compensata dalla riunificazione col Psdi (ottobre 1966), che peraltro durò poco: i due partiti si sarebbero nuovamente separati tre anni dopo, in seguito all'esito deludente delle elezioni del 1968.
All'indebolimento dei socialisti faceva riscontro la lenta ma regolare crescita del Pci. Nell'agosto 1964 Togliatti morì durante un soggiorno in Urss. I suoi funerali, che si tennero a Roma, furono un esempio emblematico del largo seguito di un partito che, con oltre il 25% dei voti, restava tuttavia in una posizione di marcato isolamento. Un isolamento non attenuato dal contributo determinante dei voti comunisti all'elezione alla presidenza della Repubblica del leader socialdemocratico Giuseppe Saragat, nel dicembre '64.
Nonostante le difficoltà incontrate fin dai suoi esordi, la formula di centro-sinistra sarebbe durata, con fasi alterne e interruzioni, per oltre un decennio. Progressivamente, però, si sarebbe esaurita, rivelandosi inadeguata a fronteggiare i problemi di una società sempre più articolata e percorsa da un'elevata conflittualità politica e sindacale.

Il movimento studentesco

La fine degli anni '60 fu infatti caratterizzata da una radicalizzazione dello scontro sociale che ebbe come protagonisti prima gli studenti, poi la classe operaia.
La mobilitazione degli studenti universitari, iniziata nel '67 e cresciuta nei primi mesi del '68, portò all'occupazione di numerose facoltà universitarie, a grandi manifestazioni di piazza e a frequenti scontri con le forze dell'ordine.
La contestazione giovanile, mentre riprendeva temi e obiettivi già presenti negli altri movimenti studenteschi dei paesi occidentali (l'anti-imperialismo e la protesta contro la guerra del Vietnam, l'antiautoritarismo e l'avversione alla civiltà dei consumi), si caratterizzò in Italia per una forte ideologizzazione in senso marxista. E, a partire dall'autunno '68, individuò il suo interlocutore privilegiato nella classe operaia.
L'operaismo fu anche il tratto distintivo di alcuni fra i nuovi gruppi politici (tutti destinati a vita breve) che nacquero fra il '68 e il '70 sull'onda del movimento studentesco e che, per sottolineare il distacco dai partiti tradizionali rappresentati in Parlamento, furono chiamati «extraparlamentari»: Potere operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia.
Caratteristiche ideologiche diverse ebbe invece l'Unione dei marxisti-leninisti, che si ispirava all'esperienza della Cina di Mao e della rivoluzione culturale.

L'«autunno caldo» e i sindacati

La riscoperta della centralità operaia da parte del movimento degli studenti coincise con un'intensa stagione di lotte dei lavoratori dell'industria, iniziata nei primi mesi del '69 e culminata, alla fine di quell'anno, nel cosiddetto «autunno caldo».
Avviatesi in modo spontaneo in alcune grandi fabbriche del Nord, le lotte si caratterizzarono per l'elevato grado di partecipazione e per la radicalità delle richieste, incentrate sull'egualitarismo (contro le disparità salariali legate alle differenti tipologie e qualifiche degli operai e alla diversa collocazione geografica delle imprese) e sulla messa in discussione dell'organizzazione e dei ritmi del lavoro in fabbrica.
Per quanto colte di sorpresa dal movimento, le tre maggiori organizzazioni sindacali (Cgil, Cisl, Uil) riuscirono a prendere in mano la direzione delle lotte e a pilotarle verso la conclusione di una serie di contratti nazionali che assicurarono ai lavoratori dell'industria cospicui vantaggi salariali.
Cominciò allora una fase in cui i sindacati assunsero un peso crescente nella vita del paese, trattando direttamente col governo anche questioni non strettamente attinenti ai rapporti di lavoro (fisco, pensioni, sanità, tariffe pubbliche).
Il nuovo peso delle organizzazioni sindacali fu sancito dal varo, nella primavera del 1970, dello Statuto dei lavoratori: una serie di norme che garantivano le libertà sindacali e i diritti dei lavoratori all'interno delle aziende.

Le regioni e il divorzio

Di fronte alle lotte degli studenti e degli operai, la classe dirigente non riuscì a esprimere un coerente disegno riformatore. Furono tuttavia varate in questo periodo alcune leggi importanti, destinate a incidere profondamente nelle istituzioni e nella società.
Oltre allo Statuto dei lavoratori, furono approvati i provvedimenti relativi all'istituzione delle regioni e, nel giugno 1970, si tennero le prime elezioni regionali.
Nel dicembre dello stesso anno, con l'appoggio delle sinistre e dei partiti laici e nonostante l'opposizione della Dc, fu approvata in Parlamento la legge Fortuna-Baslini che introduceva in Italia l'istituto del divorzio.

 

Violenza politica e crisi economica

La strage di piazza Fontana

Il 12 dicembre 1969, in pieno «autunno caldo», una bomba esplosa a Milano, in Piazza Fontana, nella sede della Banca nazionale dell'agricoltura, provocò 17 morti e oltre 100 feriti. Un evento traumatico e inatteso che aprì per l'Italia una lunga stagione di violenze e di attentati, dalla dinamica spesso oscura.
L'opinione pubblica e la stampa di sinistra individuarono nell'estrema destra fascista la matrice politica della strage e denunciarono le responsabilità dei servizi di sicurezza nel deviare le indagini verso un'improbabile «pista anarchica».
Si parlò allora di una «strategia della tensione» messa in atto dalla destra eversiva per incrinare le basi dello Stato democratico e favorire soluzioni autoritarie. La conferma dei pericoli corsi dalle istituzioni venne, nell'estate 1970, dalla rivolta di Reggio Calabria, che vide un'intera città, esasperata per non essere stata designata come capoluogo dell'appena istituita regione, esplodere in una serie di violente dimostrazioni guidate da esponenti del Movimento sociale.

Difficoltà politiche e scandali

L'impotenza dimostrata, in questa come in altre occasioni, dai poteri pubblici rifletteva anche profonde divisioni all'interno dello schieramento di governo. Mentre ampi settori della Dc e del Psdi tendevano a farsi interpreti di un'opinione pubblica moderata (la cosiddetta "maggioranza silenziosa") spaventata dalle agitazioni operaie e studentesche e a spostare dunque verso destra l'asse politico della maggioranza, il Psi mirava apertamente al coinvolgimento del Pci nelle responsabilità di governo.
Dopo le elezioni politiche anticipate del maggio 1972, si tentò il ritorno alla formula centrista (Dc, Psdi e Pli), con il governo guidato da Giulio Andreotti. Ma l'esperimento ebbe breve durata.
Intanto, la situazione economica tornava preoccupante, soprattutto per le conseguenze della crisi petrolifera, che provocò, in Italia come altrove, un calo della produzione industriale e l'avvio di un processo inflazionistico.
A tutto questo si aggiungeva un crescente disagio morale, provocato da una serie di scandali in cui furono coinvolti numerosi esponenti dei partiti di governo, messi sotto accusa per aver riscosso tangenti destinate a finanziare i rispettivi partiti. La rapida adozione, nell'aprile 1974, di una legge sul finanziamento pubblico dei partiti non servì a sanare la frattura che si andava allargando tra società politica e società civile.

Il referendum sul divorzio

Mentre cresceva la sfiducia nella classe politica, si accentuava l'impegno dei cittadini sul terreno dei diritti civili. Quando, nel 1974, la nuova legge sul divorzio fu sottoposta a referendum abrogativo per iniziativa di gruppi cattolici appoggiati dalla Dc e dal Msi, si assistette a una grande mobilitazione che era appoggiata dalle forze laiche (in particolare dal piccolo Partito radicale di Marco Pannella), ma che non sempre seguiva i canali partitici.
Il netto successo dei divorzisti – nel referendum, che si tenne in maggio, i no all'abrogazione della legge furono quasi il 60% – mostrò chiaramente che la società italiana era cambiata e che il peso della Chiesa come guida della vita privata dell'individuo era fortemente ridimensionato.
Questi mutamenti trovarono ulteriore riscontro in due leggi del 1975: la riforma del diritto di famiglia, che sanciva la parità giuridica fra i coniugi; e l'abbassamento della maggiore età (cui era legato il diritto di voto) da ventuno a diciotto anni.
Tre anni più tardi (giugno '78), dopo un lungo e acceso dibattito che vide ancora una volta la Dc opporsi alle sinistre e ai partiti laici, il Parlamento approvò una nuova legge sull'aborto, che legalizzava e disciplinava l'interruzione volontaria della gravidanza.

Berlinguer e il «compromesso storico»

A cogliere i frutti politici di questa stagione fu soprattutto il Pci, che già nel '68 aveva dato di sé un'immagine diversa da quella tradizionale con la condanna dell'intervento sovietico in Cecoslovacchia. Nel 1973, il segretario, Enrico Berlinguer, sostenne la necessità di giungere a un «compromesso storico», ossia a un accordo di lungo periodo tra le forze comuniste, socialiste e cattoliche (compresa dunque la Dc), come unica via per scongiurare i rischi nel paese di soluzioni autoritarie e per allargare le basi dell'azione riformatrice.
In seguito il Pci stabilì contatti con i comunisti francesi e spagnoli per avviare una politica comune in Europa occidentale, con connotati diversi da quelli del comunismo sovietico (si parlò allora di eurocomunismo). Il carattere moderato e rassicurante della proposta di Berlinguer, unito alla persistente "diversità" che derivava dalle origini rivoluzionarie del partito (e che fin allora aveva rappresentato un limite alla sua espansione), fecero del Pci, in questa fase, il punto di convergenza delle istanze di trasformazione della società italiana. Lo si vide nelle elezioni regionali e locali del giugno 1975 (le prime cui parteciparono i diciottenni) e poi nelle politiche del 1976, dove il Pci toccò il suo massimo storico (34,4%), avvicinandosi alle percentuali della Dc (38,7), mentre il Psi restò sotto il 10%.
La sconfitta dei socialisti portò alla crisi del vecchio gruppo dirigente e all'ascesa alla segreteria di Bettino Craxi, leader della corrente autonomista.

 

Terrorismo e «solidarietà nazionale»

L'emergenza-terrorismo

L'esito delle elezioni del giugno 1976 lasciava aperto il problema di una nuova formula di governo. Visto che i socialisti non erano disponibili a una riedizione del centro-sinistra, l'unica soluzione praticabile stava in un coinvolgimento del Pci nella maggioranza. Si giunse così, in agosto, alla costituzione di un governo monocolore democristiano guidato da Andreotti, che ottenne l'astensione in Parlamento di tutti gli altri partiti, esclusi il Msi e i radicali. Cominciava così la breve stagione dei governi di «solidarietà nazionale», basati cioè su maggioranze allargate anche al Pci: una risposta unitaria della classe politica a una situazione resa sempre più preoccupante dalla crisi economica e soprattutto dal dilatarsi del fenomeno terrorista, ora anche di sinistra.
Opposti nella loro matrice ideologica, i due terrorismi, quello nero (di destra) e quello rosso (di sinistra), erano diversi anche nel modo di operare.

Il terrorismo di destra

Il tratto distintivo del terrorismo di destra fu il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi pubblici, che provocavano stragi indiscriminate, col probabile scopo di diffondere il panico nel paese e di favorire una svolta autoritaria. Dopo la strage di Piazza Fontana, vi furono le bombe in Piazza della Loggia a Brescia nel maggio '74. Sei anni dopo, l'attentato più terribile e per molti aspetti inspiegabile: quello del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, con oltre 80 morti.
La convinzione di larga parte dell'opinione pubblica, che attribuì le stragi a esponenti della destra eversiva, con la complicità di elementi dei servizi segreti, pur confortata da molti riscontri investigativi, non trovò, nella maggior parte dei casi, la conferma della magistratura giudicante.
Restava la responsabilità del potere politico per non aver saputo indirizzare l'azione dei servizi di sicurezza e di non aver posto rimedio alle loro inefficienza o alle loro deviazioni dai compiti istituzionali.

Il terrorismo di sinistra

L'immagine di uno Stato debole e minato dalla corruzione politica, la presenza di un terrorismo di destra e la psicosi di un colpo di Stato (che alimentava in alcuni settori la giustificazione di una risposta violenta) furono tra i fattori che contribuirono alla nascita del terrorismo di sinistra.
In realtà, il principio della "lotta armata" come strumento per conquistare il potere era da tempo un elemento portante di tutte le ideologie rivoluzionarie che il movimento del '68 aveva contribuito a mitizzare e a divulgare. Ma allora per la prima volta – anche per la suggestione dei modelli della guerriglia latino-americana e del terrorismo palestinese – si formarono nuclei organizzati pronti a passare dalle parole ai fatti.
Per i terroristi – in gran parte giovani o giovanissimi provenienti per lo più dalla militanza nelle file del movimento studentesco, dei gruppi extraparlamentari e degli stessi partiti della sinistra storica – l'azione armata si presentava come un atto esemplare, destinato essenzialmente alla classe operaia, al fine di mobilitarla per il rovesciamento del sistema capitalistico e dello Stato borghese.
Ai primi isolati attentati incendiari contro fabbriche o sedi di partito, seguirono, fra il '72 e il '75, sequestri di dirigenti industriali e di magistrati. Nel 1976, con l'uccisione del procuratore generale di Genova Francesco Coco e dei due uomini della sua scorta, si giunse all'assassinio programmato. Gli autori di queste azioni appartenevano alle Brigate rosse, il primo e il più pericoloso gruppo terrorista di sinistra. A esso si affiancarono, fra il '75 e il '76, i Nuclei armati proletari e Prima linea.

Crisi e inflazione

Negli stessi anni in cui doveva fronteggiare il salto di qualità compiuto dal terrorismo di sinistra, il governo si confrontò con la crisi economica. Nel 1975 il prodotto interno si ridusse del 3,6%. A partire dall'anno successivo si ebbe una limitata ripresa, ma il tasso di inflazione rimase molto elevato, oscillando fra il 17 e il 19% (tra i più alti dei paesi industrializzati). L'inflazione era dovuta all'aumento del prezzo del petrolio, ma anche alla dilatazione dei consumi e alla crescita della spesa pubblica.

Il movimento del '77

Nei primi mesi del 1977, un nuovo movimento di studenti universitari e medi diede luogo a occupazioni di università e a violenti scontri di piazza, che videro per la prima volta l'uso frequente di armi da fuoco da parte dei dimostranti. Protagonisti degli scontri furono i gruppi di Autonomia operaia, che raccoglievano in forme estremizzate l'eredità dell'operaismo sessantottesco.
Bersaglio principale della contestazione fu la sinistra tradizionale, soprattutto il Pci e i sindacati: clamorosa fu l'aggressione di un gruppo di autonomi a un comizio del segretario della Cgil Luciano Lama, avvenuta in febbraio all'Università di Roma. L'inevitabile riflusso del movimento spinse non pochi giovani verso la scelta terrorista e fu probabilmente all'origine di una brusca impennata del numero degli attentati (circa 800 nel solo 1979).

Il sequestro e l'assassinio di Moro

Nel 1978 le Brigate rosse, consapevoli di disporre di una più diffusa rete di consensi, misero in atto il loro progetto più ambizioso. Il 16 marzo – il giorno stesso della presentazione in Parlamento di un nuovo governo, un monocolore democristiano sempre presieduto da Andreotti, ma questa volta sostenuto anche dal voto favorevole del Pci – un commando brigatista rapì Aldo Moro, presidente della Dc e principale artefice della politica di «solidarietà nazionale», uccidendo i cinque uomini della sua scorta.
A quella giornata, vissuta dal paese con sorpresa e sgomento, seguirono 55 giorni di attesa e di polemiche di fronte alla sofferta decisione del governo di non trattare con i terroristi per il rilascio di Moro: decisione appoggiata dal Pci e contrastata, per motivi politici e umanitari, dal Psi e da altri gruppi minori della sinistra.
Il 9 maggio Moro fu ucciso e il suo cadavere abbandonato in una strada del centro di Roma. Questo delitto evidenziò come nessun altro la gravità del fenomeno terroristico, ma contemporaneamente avviò una progressiva presa di distanza dall'area eversiva da parte di quanti avevano coltivato fin allora ambigue solidarietà.

Austerità e riforme

Nel non facile clima politico creatosi dopo l'assassinio di Moro, il governo cercò di avviare il risanamento dell'economia, aiutato in questo dall'atteggiamento dei comunisti, che si fecero sostenitori di una linea di austerità, e da una relativa moderazione delle richieste sindacali.
Nel '78 l'inflazione scese di qualche punto. La situazione finanziaria diede segni di miglioramento, grazie all'adozione di nuove imposte. Ma, sul fronte delle riforme, la difficoltà di conciliare tutti gli interessi rappresentati nella coalizione portò a risultati discutibili.
La legge del '78 sull'equo canone, che aveva lo scopo di regolare il livello degli affitti, avrebbe prodotto risultati disastrosi, creando un doppio mercato degli alloggi, soprattutto nelle grandi città.
La riforma sanitaria varata nello stesso anno – che creava un Servizio sanitario nazionale e sanciva la gratuità delle cure per tutti – si sarebbe rivelata, nell'applicazione concreta, fonte di inefficienza e di sprechi.

La fine della «solidarietà nazionale»

Nel complesso la politica di solidarietà nazionale non produsse risultati adeguati all'ampiezza delle forze impegnate e alle attese dell'opinione pubblica di sinistra. In questi anni continuarono a verificarsi, soprattutto negli enti locali e nelle imprese a partecipazione statale, episodi di cattiva gestione o di vera e propria corruzione politica. Gli scandali giunsero a toccare la presidenza della Repubblica, costringendo alle dimissioni, nel giugno 1978, il capo dello Stato, il democristiano Giovanni Leone (eletto nel '71 da una maggioranza di centro-destra), accusato ingiustamente di connivenze con gruppi affaristici. Al suo posto fu eletto, col voto di tutti i partiti dell'arco costituzionale, il socialista Sandro Pertini, ottantaduenne, figura di indiscusso prestigio morale, che seppe conquistarsi in breve tempo una vastissima popolarità.
Si andava frattanto esaurendo l'esperienza della «solidarietà nazionale». Il nuovo corso impresso da Craxi alla politica socialista — centrato sul recupero della tradizione riformista in aperta polemica col Pci — creava le condizioni per una ripresa dell'alleanza fra il Psi e i partiti di centro.
Nel gennaio '79 il Pci, in contrasto con gli altri partiti anche su problemi di politica estera ed economica, abbandonò la maggioranza.

 

Gli anni '80

Il declino dei partiti maggiori

I risultati delle elezioni del '79, e quelli delle successive consultazioni del giugno'83, segnarono alcuni significativi mutamenti nel panorama politico.
Il Pci registrò una forte perdita di consensi. La Dc, stabile nel '79, subì una netta sconfitta nelle elezioni dell'83. Il Psi, nonostante il dinamismo di Craxi e del nuovo gruppo dirigente, raccolse risultati deludenti, comunque non adeguati all'aspirazione a diventare il centro propulsore del sistema politico.
Chiusa la parentesi della solidarietà nazionale, l'unica strada praticabile fu il ritorno alla coalizione di centro-sinistra (Dc, Psi, Pri, Psdi), allargata, a partire dall'81, anche al Partito liberale. Ma la novità più importante non fu tanto la formula di governo (definita «pentapartito»), quanto il fatto che, per la prima volta dopo il 1945, la Dc cedette la guida del governo, affidata nell'81-82 al segretario repubblicano Giovanni Spadolini e, dopo le elezioni dell'83, al leader socialista Bettino Craxi. Una presidenza, quella di Craxi, che si sarebbe caratterizzata per il tentativo di potenziare il ruolo dell'esecutivo e di affermare una più incisiva presenza dell'Italia nella politica internazionale.
Fra gli atti più significativi del governo Craxi, va ricordata la firma, nel febbraio 1984, di un nuovo concordato con la Santa Sede, che ritoccava gli accordi del '29 lasciandone cadere le clausole più anacronistiche.
Per la Dc la perdita della presidenza del Consiglio fu lo sbocco di una fase di debolezza e di disorientamento seguita all'uccisione di Moro.
Anche per il Pci i primi anni '80 furono segnati dall'emergere di gravi problemi, legati alla difficoltà di spingere a fondo il processo di revisione ideologica e di elaborare una piattaforma programmatica più vicina a quella delle socialdemocrazie europee.

Il ridimensionamento dei sindacati

All'inizio degli anni '80 si registrò un'altra profonda trasformazione degli assetti politico-sociali, anch'essa legata al generale riflusso della spinta a sinistra che aveva caratterizzato buona parte degli anni '70. Nell'autunno 1980 i sindacati subirono la loro prima grave sconfitta, dopo l'«autunno caldo» del '69, nella vertenza apertasi con la Fiat sul problema della riduzione della manodopera.
Mentre il Pci appoggiò gli operai in sciopero, l'azienda torinese riuscì a imporre le proprie scelte di razionalizzazione produttiva, e l'allontanamento dei responsabili di violenze in fabbrica, con l'imprevisto aiuto di una mobilitazione di piazza dei quadri aziendali intermedi (la cosiddetta «marcia dei quarantamila» dell'ottobre 1980) che sfilarono in corteo a Torino chiedendo il ritorno all'ordine.
Da quell'episodio ebbe inizio un progressivo ridimensionamento del ruolo del sindacato, che di lì a pochi anni avrebbe registrato una nuova sconfitta.
Il contrasto riguardò il costo del lavoro, in particolare il meccanismo di "scala mobile" introdotto nel '75 da un accordo fra sindacati e Confindustria, che adeguava automaticamente i salari al costo della vita alimentando così l'inflazione. Nel 1984, quando il governo Craxi varò un decreto-legge che modificava il meccanismo in senso sfavorevole ai lavoratori, che fu approvato dopo una lunga battaglia parlamentare, i comunisti promossero un referendum abrogativo, che si tenne nel giugno '85, ma ne uscirono sconfitti, seppur di misura.

Spesa pubblica e ripresa produttiva

Restava irrisolta la questione del controllo della spesa pubblica e delle forme dell'intervento statale, ampliatosi notevolmente, negli anni '70, nei settori della sanità, della previdenza e dell'istruzione, ma ancora caratterizzato da inefficienza e costi elevati. Anche in Italia, come in tutto il mondo occidentale, gli anni '80 videro svilupparsi una polemica che, partendo dalla denuncia degli eccessi di "assistenzialismo", giungeva a mettere in discussione alcune strutture portanti del Welfare State (come la gratuità delle cure mediche o la semigratuità dell'istruzione).
Queste difficoltà vennero in parte compensate da una certa ripresa dell'economia che, a partire dall'84, superava la fase recessiva grazie all'aumento delle esportazioni e al profondo rinnovamento tecnologico di alcuni settori industriali sia privati (a cominciare da quello automobilistico) sia pubblici (come il siderurgico).
Gran parte delle trasformazioni operate nell'industria pubblica e privata finirono però col gravare sulla collettività, sia in termini di accresciuta disoccupazione, sia in termini di spesa dello Stato per la Cassa integrazione guadagni (l'istituzione che garantisce un salario provvisorio ai lavoratori privati del posto).

L'economia sommersa e il terziario

Nel complesso il sistema economico italiano manifestava nel decennio '80-90 – anche nei momenti di crisi più acuta – una vitalità notevole, al di là di quanto non apparisse dai dati ufficiali sull'andamento della produzione e del reddito.
Il fenomeno si spiegava soprattutto con la crescita della cosiddetta «economia sommersa». Un'espansione molto articolata. dal punto di vista della varietà delle forme di impiego, caratterizzò anche il settore terziario, ormai al primo posto anche in Italia per numero di addetti (54,2%, rispetto al 33,7 dell'industria e all'11,7 dell'agricoltura nel 1985).
Lo sviluppo del terziario, il dinamismo di alcuni settori produttivi e la rinnovata competitività dei prodotti italiani sui mercati internazionali erano indubbiamente sintomi di vitalità del tessuto sociale. Essi furono però accompagnati da gravi fattori degenerativi.

Corruzione e criminalità

Il fenomeno della corruzione politica rivelò un nuovo inquietante volto all'inizio degli anni '80 con lo scandalo della Loggia P2: una specie di branca segreta della Massoneria, ben inserita nel mondo politico, nella burocrazia e nei vertici militari e sospettata di perseguire – oltre a scopi di lucro e di carriera per i suoi associati – anche il fine di una ristrutturazione autoritaria dello Stato. Lo scioglimento della Loggia, decretato nell'81 dal governo Spadolini, non cancellò l'immagine di una connessione, sia pur indiretta, fra alcuni settori della classe politica e la malavita comune.
Il dilagare delle organizzazioni criminali – soprattutto la diffusione della mafia e della camorra anche al di là delle tradizionali aree meridionali di insediamento – si configurava come la minaccia più grave alla convivenza civile. Il fenomeno mafioso, in particolare, conosceva sviluppi abnormi, in aperta sfida ai poteri dello Stato. L'episodio più drammatico in questo senso fu, nel settembre 1982, l'assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, già protagonista della lotta al terrorismo, inviato come prefetto a Palermo per coordinare il contrasto alla mafia.

La sconfitta del terrorismo di sinistra

Esiti ben più positivi ottenne la lotta contro il terrorismo di sinistra.
La svolta in questo senso si delineò nel 1980, quando alcuni terroristi arrestati decisero di abiurare la lotta armata e di denunciare i compagni in libertà. Il numero dei pentiti – così furono impropriamente chiamati coloro che accettavano di collaborare con la giustizia – andò da allora sempre aumentando, grazie anche a una legge dell'80 che concedeva forti sconti di pena come compenso per il contributo fornito dagli imputati allo svolgimento delle indagini. Il numero degli attentati, ancora molto alto nell'81, calò rapidamente negli anni successivi e i principali gruppi clandestini cessarono praticamente di esistere.

 

La crisi dei sistema politico

La polemica contro ì partiti

L'esaurirsi delle ideologie e dei sistemi di valori fondati sul primato dell'impegno politico, se da un lato toglieva spazio alle ipotesi eversive, dall'altro contribuiva ad approfondire il distacco fra classe politica e società civile, a rafforzare la diffidenza nei confronti dei partiti, veri detentori del potere nell'Italia repubblicana, e ad accentuare la polemica contro le disfunzioni del sistema: la lentezza delle procedure parlamentari e l'instabilità di una maggioranza troppo composita e logorata da continue polemiche interne.
L'accordo che, nel luglio '85, consentì l'elezione alla presidenza della Repubblica del democristiano Francesco Cossiga non evitò il riproporsi dei contrasti fra socialisti e democristiani, questi ultimi decisi a rivendicare, in quanto partito di maggioranza relativa, la guida del governo.

Le nuove forze politiche

Si giunse così, nella primavera del 1987, alla crisi del governo Craxi.
Le elezioni (giugno '87) segnarono una discreta affermazione del Psi e un nuovo calo dei comunisti, cui fece riscontro una lieve ripresa della Dc. Ma la maggiore novità fu l'apparizione di nuovi gruppi, estranei ai partiti tradizionali: gli ambientalisti (i Verdi) e le Leghe regionali (presenti soprattutto in Veneto e in Lombardia). Queste ultime, impostando la loro propaganda sulla polemica contro il centralismo statale e la pressione fiscale e sulla rivendicazione di una identità separata per le regioni del Nord – ma facendo anche leva su pregiudizi antimeridionalisti e sulle preoccupazioni suscitate dal fenomeno immigratorio – avrebbero ottenuto notevoli successi nelle consultazioni amministrative dell'anno successivo.

La domanda di riforme

Dopo le elezioni, la maggioranza di pentapartito si ricostituì faticosamente, consentendo la formazione di nuovi governi a guida democristiana. Ma né quello formato nell'88 dallo stesso segretario della Dc, Ciriaco De Mita (poi sostituito alla guida del partito e costretto a lasciare anche quella del governo), né quello costituito un anno dopo dall'esperto Giulio Andreotti, fondato su un difficile equilibrio fra i socialisti e l'ala più moderata della Dc, riuscirono a condurre in porto quelle significative riforme politiche che ormai erano reclamate da gran parte dell'opinione pubblica.
Al di là della tradizionale denuncia del malcostume, era il sistema nel suo insieme a essere messo sotto accusa.
Le radici della crisi furono individuate, più che nelle manchevolezze di singoli leader o di singoli partiti, nel meccanismo elettorale proporzionale, nella debolezza dell'esecutivo, nell'impossibile alternanza al governo di schieramenti contrapposti. Sarebbero stati tuttavia elementi esterni al sistema il mutamento del quadro internazionale, le sollecitazioni indotte da nuove forze politiche, unitamente a una serie di imprevedibili iniziative giudiziarie ad accelerare una crisi da tempo latente e alla quale i partiti di governo, in primo luogo Dc e Psi, non avevano saputo porre rimedio.

 

 

LA FINE DEL BIPOLARISMO

 

 

Un impero in crisi

Le cause del collasso

Nell'ultimo decennio del '900, l'equilibrio internazionale basato sul condominio, e sulla competizione, fra le due superpotenze mondiali, Usa e Urss, si ruppe definitivamente, causa il cedimento repentino di uno dei pilastri su cui si fondava.
Già a partire dagli anni '70, l'immagine dell'Unione Sovietica – e in generale del sistema comunista come alternativa globale al capitalismo – aveva subìto un inesorabile declino. Eppure, in Occidente pochi immaginavano che il declino potesse in tempi brevi trasformarsi in collasso. Se il collasso si verificò, ciò fu dovuto all'oggettiva irriformabilità di un sistema che si era sin allora tenuto in piedi grazie al suo carattere "chiuso" e soprattutto al potere deterrente dell'apparato repressivo e della forza militare sovietica.
Nel momento in cui il riformismo di Gorbačëv aprì le prime brecce nel sistema, cercando di introdurvi dosi controllate di pluralismo e rinunciando all'uso della forza nei confronti dei paesi satelliti, l'intera costruzione crollò. E crollarono nel contempo gli equilibri internazionali nati dalla seconda guerra mondiale.

La Polonia e il sindacato indipendente

Gli effetti del nuovo atteggiamento dell'Urss si fecero sentire in tutta l'Europa orientale. Ma a profittarne per prima, e in misura più rilevante, fu la Polonia, che quei mutamenti aveva in parte anticipato.
Già fra il 1980 e il 1981 era infatti nato e si era sviluppato con grande rapidità un sindacato indipendente a forte base operaia, e di dichiarata ispirazione cattolica, chiamato Solidarnosc ('solidarietà'), guidato da un leader diventato subito popolarissimo, Lech Walesa. Paese compattamente cattolico, la Polonia era sempre stata, fra le "democrazie popolari" dell'Est, la più refrattaria all'imposizione del modello comunista. E il clero aveva svolto, pur fra molte difficoltà, una funzione di salvaguardia dell'identità nazionale e di riferimento per le correnti di opposizione.
Questa funzione risultò rafforzata con l'ascesa del polacco Karol Wojtyla al soglio pontificio (1978), e ciò spiega l'iniziale tolleranza manifestata dalle autorità comuniste nei confronti del sindacato indipendente e degli imponenti scioperi da esso organizzati nelle principali aree industriali, in particolare nei cantieri di Danzica.

La Polonia: dal golpe alle elezioni libere

La tolleranza aveva tuttavia dei limiti invalicabili. Nell'estate del 1981 un generale, Wojciek Jaruzelski, assunse la guida del governo e del Poup, il Partito operaio polacco (l'equivalente del Partito comunista).
Di fronte al ruolo politico crescente di Solidarnosc, nel dicembre dello stesso anno, anche per prevenire la concreta minaccia di un intervento dell'Urss, Jaruzelski assunse i pieni poteri in base alla legge marziale (si parlò di «autogolpe») e mise fuori legge Solidarnosc, i cui maggiori dirigenti furono arrestati.
In seguito, tuttavia, lo stesso Jaruzelski allentò le misure repressive e cercò di riallacciare il dialogo con la Chiesa e con lo stesso sindacato indipendente, che continuava a operare in semiclandestinità e il cui ruolo fu ulteriormente rafforzato da due successive visite del papa in Polonia (1983 e 1987).
Dopo la svolta di Gorbačëv in Unione Sovietica, il dialogo si intensificò, fino all'apertura, all'inizio dell'89, di un tavolo ufficiale di negoziato.
Ne uscì, nell'aprile, un accordo su una riforma costituzionale che prevedeva lo svolgimento di libere elezioni, le prime in un paese comunista. Le elezioni si tennero nel giugno dell'89 e videro la schiacciante vittoria di Solidarnosc, aprendo la strada alla nascita di un governo di coalizione (con i comunisti agli Interni e alla Difesa) presieduto da un uomo vicino al sindacato indipendente, l'economista cattolico Tadeusz Mazowiecki.
Jaruzelski restò alla presidenza della Repubblica, da cui si dimise un anno dopo, quando ormai il fragile compromesso dell'89 era stato travolto dalla generale ondata di democratizzazione che aveva investito l'Europa dell'Est.

Le riforme in Ungheria

Gli avvenimenti polacchi diedero avvio a una reazione a catena che, nel giro di pochi mesi, fra il 1989 e il 1990, avrebbe messo in crisi l'intero sistema delle «democrazie popolari».
Il primo paese a seguire la Polonia sulla via delle riforme fu l'Ungheria dove, all'inizio dell'89, era stato deposto il vecchio Kadar, protagonista della repressione del '56, ma anche del successivo trentennio di relativo benessere e di timida liberalizzazione.
Sempre nell'89, i nuovi dirigenti comunisti, decisi a spingere il processo riformatore fino alle ultime conseguenze, riabilitarono solennemente i protagonisti della rivolta del '56, legalizzarono i partiti e indissero libere elezioni per l'anno successivo. Ma la decisione più importante e più gravida di conseguenze fu la rimozione dei controlli polizieschi e delle barriere di filo spinato al confine con l'Austria: per la prima volta si apriva una breccia nella «cortina di ferro» che da quasi mezzo secolo impediva la libera circolazione delle persone fra le due Europe.

 

Il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca

La caduta del Muro

Naturalmente non furono solo gli ungheresi a profittare dell'opportunità offerta dall'apertura dei loro confini. A partire dall'estate dell'89, decine di migliaia di cittadini della Germania orientale abbandonarono il loro paese per raggiungere la Repubblica federale tedesca attraverso l'Ungheria e l'Austria.
La fuga in massa, accompagnata da imponenti manifestazioni nelle principali città tedesco-orientali, mise in crisi il regime comunista, costringendo alle dimissioni il vecchio segretario del partito Erich Honecker.
I nuovi dirigenti, con l'avallo di Gorbačëv, avviarono un processo di riforme interne e quindi liberalizzarono la concessione dei visti d'uscita dal paese e dei permessi di espatrio. Anche in questo caso il processo, una volta messo in moto, si rivelò incontrollabile.
La sera del 9 novembre 1989, dopo che un portavoce del governo tedesco-orientale aveva annunciato il ripristino della libera circolazione fra le due metà di Berlino, divise a partire dal 1961 da un muro di separazione, un numero crescente di berlinesi si riversò nei varchi aperti, li oltrepassò e infine, in un'atmosfera di festa e di riconciliazione, cominciò a smantellare materialmente il Muro (che di lì a poco sarebbe stato completamente abbattuto) e a portarsene i pezzi a casa come ricordo.

Le elezioni in Germania Est

Il crollo del Muro, che coincise con l'apertura dei confini fra le due Germanie, non solo rappresentò il simbolo della fine della guerra fredda e della divisione in due dell'Europa, ma rilanciò implicitamente il tema dell'unità tedesca, impossibile da affrontare nell'epoca della guerra fredda. Ancora una volta gli eventi si consumarono in tempi più rapidi del previsto.
Nel marzo 1990 si tennero libere elezioni nella Germania dell'Est: risultarono puniti non solo gli ex comunisti, ma anche i socialdemocratici e gli altri gruppi di sinistra, mostratisi troppo timidi di fronte alla prospettiva di un'immediata unificazione nel segno dell'economia di mercato e della democrazia liberale.
La vittoria andò così ai cristiano-democratici che, in pieno accordo coi loro omologhi dell'Ovest, accelerarono i tempi per la liquidazione di una entità statale, la Repubblica democratica tedesca, ormai privata di ogni legittimità e svuotata di qualsiasi funzione storica.

La riunificazione

In questa situazione si inserì con grande efficacia l'azione del governo Kohl, che riuscì a preparare in pochi mesi un'operazione tecnicamente e politicamente complessa come la riunificazione del paese e a fare accettare anche all'Urss la nuova realtà di una Germania unita e integrata nell'Alleanza atlantica.
In maggio i due governi tedeschi firmarono un trattato per l'unificazione economica e monetaria.
Il 3 ottobre 1990, dopo che il leader sovietico Gorbačëv aveva dato il suo assenso all'operazione e dopo che la Polonia era stata tranquillizzata da una solenne dichiarazione dei due Parlamenti tedeschi circa l'inviolabilità delle frontiere uscite dal secondo conflitto mondiale, entrò in vigore il vero e proprio trattato di unificazione politica, accettato dalle quattro ex potenze occupanti (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Urss).
Si trattava in realtà di un assorbimento dell'ormai dissolta Repubblica democratica nelle strutture istituzionali della Repubblica federale.
Non fu varata una nuova costituzione e non vi fu bisogno di una nuova moneta: ai tedeschi orientali fu consentito di convertire la loro valuta in marchi a un tasso di cambio molto favorevole. Fu una decisione costosa per la Repubblica federale, come faticosa fu l'integrazione delle aree orientali e delle loro industrie tecnologicamente arretrate nella ben più dinamica economia dell'Ovest. L'operazione comunque riuscì: nei due decenni successivi alla riunificazione, il divario fra le due parti del paese si sarebbe progressivamente ridotto.
Dopo oltre un quarantennio di divisione, la Germania tornava a essere uno Stato unitario, il più forte economicamente e politicamente dell'intero continente europeo.

 

La fine delle "democrazie popolari"

La caduta dei regimi comunisti

Com'era prevedibile, l'abbattimento della cortina di ferro provocò la caduta, quasi in contemporanea, di tutti i regimi comunisti dell'Europa orientale.
In Cecoslovacchia, nel novembre 1989, una serie di imponenti manifestazioni popolari, che videro tornare sulla scena Dubček e gli altri protagonisti della «primavera di Praga», costrinse alle dimissioni il gruppo dirigente comunista legato alla «normalizzazione» del dopo '68. In dicembre il Parlamento elesse alla presidenza della Repubblica lo scrittore Václav Havel, un democratico già perseguitato dal regime comunista.
Il passaggio di potere si realizzò senza spargimento di sangue (si parlò di «rivoluzione di velluto»). Così come complessivamente pacifico fu il processo di democratizzazione nella maggior parte delle ex democrazie popolari: oltre alla Polonia, l'Ungheria, la Bulgaria e, poco più tardi, l'Albania, ultima roccaforte dell'ortodossia marxista-leninista in Europa.
Fece eccezione in questo quadro la Romania, dove la dittatura personale di Nicolae Ceauşescu fu travolta, nel dicembre '89, da un'insurrezione popolare. Dopo un sanguinoso tentativo di repressione, Ceauşescu fu catturato e messo a morte insieme con la moglie Elena il 25 dicembre.
Un caso ancora diverso fu quello della Jugoslavia, dove, già dal 1980 (data della morte di Tito), si era aperta una grave crisi economica e istituzionale e si erano fatti più difficili i rapporti fra i diversi gruppi etnici.

Una difficile transizione

Passata l'euforia per la libertà riconquistata, i paesi ex satelliti dell'Urss dovettero affrontare i problemi legati alla riconversione dell'apparato produttivo in funzione del mercato (con la chiusura di molte imprese di Stato e la conseguente crescita della disoccupazione) e, in generale, al venir meno delle certezze assicurate dai vecchi regimi sul piano della stabilità e della sicurezza sociale, pur nel quadro di economie arretrate e stagnanti.
Sul piano politico, il ritorno alla democrazia portò con sé l'immediata proliferazione di forze politiche, vecchie e più spesso nuove (come il Forum democratico in Ungheria e il Forum civico in Cecoslovacchia). I gruppi dirigenti di formazione comunista, che quasi ovunque avevano gestito la fuoriuscita dal vecchio sistema, furono per lo più sconfitti nelle prime elezioni libere, ma in molti casi (Polonia, Romania, Ungheria) ritornarono successivamente al potere sotto nuove denominazioni.
Le istituzioni democratiche non furono comunque rimesse in discussione, nonostante le asprezze e le turbolenze che spesso caratterizzarono la lotta politica.

 

La dissoluzione dell'Urss

Le spinte centrifughe

Nel giro di nemmeno due anni, l'Unione Sovietica perse così il suo "impero esterno", ossia quella cintura protettiva di paesi satelliti che Stalin aveva imposto all'Europa orientale dopo la vittoria in guerra. Ma l'Urss non era solo lo Stato-guida del mondo comunista: era essa stessa un impero, anzi la più grande compagine multietnica mai apparsa sulla faccia della Terra.
Le riforme di Gorbačëv avevano prodotto una serie di spinte centrifughe, aprendo spazi, oltre che alla manifestazione del dissenso politico, anche alle rivendicazioni nazionali dei territori non russi dell'ex Impero zarista.
Le prime a muoversi in questo senso, rivendicando la piena indipendenza, furono le repubbliche baltiche (Lettonia, Estonia, Lituania), che erano state inglobate nell'Urss nel 1939. Ma movimenti analoghi si svilupparono anche nelle repubbliche caucasiche (Armenia, Georgia, Azerbaigian) e in quelle musulmane dell'Asia centrale.
Nel 1990 la stessa Repubblica russa – la più grande e la più popolosa dell'Unione, guida e centro motore dell'intero sistema sovietico – rivendicò la propria autonomia dal potere federale ed elesse alla propria presidenza il riformista radicale Boris Eltsin, confermato, nel giugno dell'anno seguente, da un'elezione popolare a suffragio diretto.
La crisi si acutizzò fra il '90 e il '91, in concomitanza con l'aggravarsi della situazione economica. Gorbačëv cercò di mediare fra le spinte liberalizzatrici e le pressioni dell'ala intransigente del partito, alternando concessioni e interventi repressivi e proponendo un nuovo patto federativo che allargasse gli spazi di autonomia delle repubbliche sovietiche.

Il colpo di Stato del 1991

Questo fragile equilibrio, però, si ruppe nell'agosto 1991, quando un gruppo di esponenti di primo piano della dirigenza sovietica (fra questi il primo ministro, i ministri degli Interni e della Difesa, il vicepresidente dell'Urss e il capo dei servizi segreti) tentò la carta del colpo di Stato per bloccare il processo di rinnovamento.
I congiurati, che contavano di sfruttare il malcontento diffuso nel paese a causa delle difficoltà economiche, sequestrarono lo stesso Gorbačëv nella sua casa di vacanza in Crimea, forse sperando di strappargli un'adesione al progetto di restaurazione del vecchio regime. Ma i calcoli si rivelarono errati e il colpo, organizzato senza adeguata preparazione, falli clamorosamente di fronte a un'inattesa protesta popolare e al mancato sostegno delle forze armate: a Mosca, fra il 19 e il 20 agosto, una grande folla si raccolse a presidio delle libere istituzioni appena conquistate, ponendo i golpisti di fronte alla scelta fra una sanguinosa repressione e un'ingloriosa ritirata. Decisivo fu, in questa occasione, il ruolo del presidente della Repubblica russa Eltsin che, dopo aver capeggiato la resistenza popolare e aver imposto la liberazione di Gorbačëv, si propose come il vero detentore del potere, relegando in secondo piano lo stesso presidente sovietico.

Lo smembramento dell'Unione Sovietica

Il fallimento del golpe di agosto da un lato valse a spazzare via quanto restava del potere comunista (il Pcus, un tempo onnipotente, vide sospese le sue attività e requisiti i suoi averi), dall'altro accelerò ulteriormente la crisi dell'autorità centrale.
La riforma economica non riusciva a decollare, mentre il sistema degli scambi all'interno dell'Unione entrava in crisi aggravando i problemi di distribuzione delle merci (soprattutto delle derrate alimentari). Frattanto le spinte separatiste si accentuavano: dopo le tre repubbliche baltiche – la cui indipendenza era ormai fuori discussione – anche la Georgia, l'Armenia, l'Azerbaigian e la Moldavia (strappata alla Romania dopo il secondo conflitto mondiale), oltre alle cinque repubbliche asiatiche, proclamarono unilateralmente la loro secessione dall'Unione Sovietica; e lo stesso fecero l'Ucraina e la Bielorussia, pur legate alla Russia da antichi vincoli storico-culturali oltre che da stretti rapporti di interdipendenza economica.
Gorbačëv tentò di bloccare questo processo rilanciando l'idea di un nuovo trattato di unione che assicurasse almeno l'esistenza dell'Urss come entità militare e come soggetto di politica internazionale. La sua iniziativa fu però scavalcata da quella dei presidenti delle tre repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia), che si accordarono sull'ipotesi di una comunità di Stati sovrani ottenendo il consenso delle altre repubbliche ex sovietiche.
Il 21 dicembre 1991, ad Alma Ata, capitale del Kazakistan, i rappresentanti di undici repubbliche (sulle quindici già facenti parte dell'Urss) diedero vita a una Comunità degli Stati indipendenti (Csi) e sancirono la morte dell'Unione Sovietica.

La dissoluzione dell'URSS

Il 25 dicembre Gorbačëv trasse le logiche conseguenze da quanto era accaduto e annunciò in un discorso televisivo le sue dimissioni. Il giorno stesso, la bandiera sovietica fu ammainata dal Cremlino di Mosca (storica sede del governo) e sostituita da quella russa.

 

La crisi jugoslava

Il risorgere dei nazionalismi

La fine del sistema di potere sovietico non portò all'Europa orientale solo libertà e democrazia. Dal vuoto politico e ideologico creatosi con la scomparsa dell'Urss emersero, con forza insospettata, vecchi e nuovi nazionalismi rimasti a lungo soffocati e ora pronti a scontrarsi fra loro.
Nei territori dell'ex Unione Sovietica nacquero, o risorsero, movimenti indipendentisti (come quello dei ceceni), si accesero conflitti per il possesso di territori contesi (per esempio fra Armenia e Azerbaigian nel 1988, e fra Russia e Georgia venti anni dopo).
Anche nelle ex "democrazie popolari" si manifestarono irredentismi e i contrasti a sfondo etnico, che ebbero esiti dirompenti in due fra gli Stati nati alla fine della prima guerra mondiale dalla dissoluzione dell'Impero austro-ungarico. In Cecoslovacchia, le aspirazioni separatiste della minoranza slovacca portarono nel 1992 a una sorta di separazione consensuale e alla creazione di due repubbliche: una ceca, comprendente Boemia e Moravia e governata dai partiti di ispirazione liberale, e una slovacca, egemonizzata dai gruppi ex comunisti.

I conflitti etnici in Jugoslavia

Drammatico e cruento fu invece il processo di disgregazione della Jugoslavia, dove la crisi del regime a partito unico fece saltare gli equilibri fra le nazionalità su cui il paese si reggeva dalla fine della seconda guerra mondiale.
L'esito delle prime elezioni libere, che si tennero nel 1990, accentuò le spinte centrifughe già operanti all'interno dello Stato federativo: mentre infatti le repubbliche di Slovenia e Croazia, le più sviluppate economicamente e le più vicine al Centro Europa per tradizioni e per collocazione geografica, davano la vittoria ai partiti autonomisti, in Serbia prevaleva il neo-comunismo nazionalista di Slobodan Milošević, deciso a riaffermare il ruolo egemone dei serbi in una Jugoslavia unita.

La dissoluzione della Jugoslavia

Nel 1991, prima la Slovenia poi la Croazia proclamarono la propria indipendenza, facendola sanzionare da plebisciti. Lo stesso fece la Repubblica di Macedonia, che occupava la parte meridionale, e più arretrata, della Jugoslavia.
Il governo federale, controllato dalla componente serba, accettò il fatto compiuto dell'indipendenza slovena e macedone, ma reagì duramente all'analoga iniziativa della Repubblica croata (che ospitava nei suoi confini consistenti minoranze serbe) mobilitando forze armate e milizie irregolari. Ne nacque una guerra che non risparmiava le popolazioni civili ed era alimentata dai due contrapposti nazionalismi, serbo e croato. Sistematico fu il ricorso a operazioni di "pulizia etnica", ossia a persecuzioni e violenze rivolte contro le minoranze per costringerle ad abbandonare le aree contese.

La guerra in Bosnia

A partire dalla primavera del 1992 il centro del conflitto si spostò nella Bosnia, una delle ex repubbliche jugoslave, che in marzo si era anch'essa dichiarata indipendente. La secessione della Bosnia – abitata da una popolazione mista, composta da musulmani (la componente più numerosa), croati cattolici e serbi ortodossi – provocò ancora una volta la reazione della componente serba, attivamente appoggiata dal regime di Milošević.
Una guerra nella guerra, costellata di massacri (il più terribile fu quello di Srebrenica, dove circa 8000 civili musulmani furono sterminati dalle milizie serbe), di deportazioni e di altri orrori che l'Europa non aveva più conosciuto dai tempi del secondo conflitto mondiale.
La stessa capitale bosniaca, Sarajevo, fu sottoposta dai serbi a un lunghissimo assedio.
Fallite le iniziative della Comunità europea e dell'Onu – che impose l'embargo alla Serbia e inviò in Bosnia contingenti di pace –, per porre fine al conflitto fu necessario l'impegno diretto degli Stati Uniti, che agirono sotto la copertura dell'Alleanza atlantica. Fra maggio e settembre del 1995 la Nato attuò una serie di attacchi aerei contro le posizioni dei serbi di Bosnia (alle azioni parteciparono anche piloti italiani). In ottobre, grazie agli sforzi della diplomazia statunitense, fu imposto il "cessate il fuoco" e vennero infine avviate trattative dirette fra i governanti della Serbia, della Croazia e della Bosnia musulmana. In novembre fu siglato a Dayton, negli Stati Uniti, un accordo di pace che prevedeva il mantenimento di uno Stato bosniaco, diviso però in una repubblica serba e in una federazione croato-musulmana.
Anche la guerra con la Croazia si chiudeva intanto con la sconfitta della Serbia: nell'estate del '95 l'esercito croato lanciò un'offensiva nelle zone contese ed espulse con la forza circa 200 mila serbi che vi abitavano.

La crisi del Kosovo e la sconfitta della Serbia

Nel 1998, un altro focolaio di tensione si sviluppò nel Kosovo, una regione autonoma all'interno della Serbia, abitata da una popolazione albanese, dove si era sviluppato un movimento di guerriglia indipendentista. Ancora una volta la repressione serba provocò l'intervento militare dei paesi della Nato, fra cui l'Italia. Per oltre due mesi, fra marzo e giugno del 1999, il territorio della Serbia fu sistematicamente bombardato. L'intervento, giustificato con l'esigenza di proteggere i diritti della popolazione del Kosovo (si parlò a questo proposito di «ingerenza umanitaria»), fu apertamente criticato dalla Russia, tradizionale alleata dei serbi, e suscitò forti discussioni nell'opinione pubblica dei paesi occidentali. Ma alla fine lo scopo fu raggiunto: ai primi di giugno, Milošević ritirò le sue truppe dal Kosovo.
Indebolito dalla sconfitta, il dittatore serbo, oggetto di una pesante contestazione in patria, resistette per poco più di un anno. Nel settembre 2000 fu sconfitto nelle elezioni presidenziali e fu costretto ad abbandonare il potere. Milošević venne successivamente arrestato, consegnato al Tribunale internazionale dell'Aja e processato per crimini contro l'umanità: sarebbe morto in carcere nel 2006, prima della conclusione del processo.
In quello stesso anno lo Stato serbo dovette subire una nuova amputazione, in seguito alla dichiarazione di indipendenza della Repubblica del Montenegro, proclamata in maggio sulla base di un referendum.
Nel 2008, anche l'indipendenza del Kosovo fu riconosciuta dai principali Stati occidentali. La Serbia pagava così duramente il tentativo di conservare con la forza la sua posizione egemonica nell'area jugoslava: un'area ora occupata da una pluralità di piccoli Stati indipendenti, per lo più instabili all'interno e divisi da conflitti territoriali irrisolti.

Crisi e stabilizzazione in Albania

Vicende agitate furono in questo periodo anche quelle vissute dalla vicina Albania.
Il passaggio alla democrazia si accompagnò in una prima fase a una grave crisi economica e finanziaria, che fu all'origine di un imponente flusso migratorio, soprattutto verso l'Italia. Ne segui, all'inizio del '97, una fase di semi-anarchia, interrotta dall'intervento dell'Onu che, in marzo, inviò nel paese un contingente di pace (in cui la parte più importante fu assunta dall'Italia) col compito di favorire il ritorno all'ordine e alla normalità politica.
Da allora fu avviato un percorso di ripresa e di stabilizzazione, che, se non risolse tutti i problemi del paese, consentì almeno il consolidamento dello Stato e l'avvicendamento al potere di forze moderate e progressiste.

 

La Russia post-comunista

I conflitti interni

Dopo la fine dell'impero sovietico, la Russia di Eltsin cercò di accreditarsi come l'erede del ruolo di grande potenza già svolto dall'Urss. In questo, venne appoggiata dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale che le riconobbero il diritto di occupare il seggio dell'Unione Sovietica in seno al Consiglio di sicurezza dell'Onu.
Questa aspirazione – non più sostenuta dalla forza di penetrazione dell'ideologia comunista – era però contraddetta dall'oggettiva debolezza della Russia, che non riusciva nemmeno a imporre la sua egemonia sulle altre repubbliche ex sovietiche, spesso in lotta fra loro e lacerate da conflitti interni. La stessa Repubblica russa, che era ordinata anch'essa in forma di federazione e comprendeva nei suoi confini etnie e culture diverse, era minacciata da movimenti separatisti e stentava a trovare uno stabile equilibrio istituzionale.
Il risultato fu l'emergere di forti opposizioni al nuovo corso, che si esprimevano ora nella richiesta di maggior democrazia, ora nella nostalgia del regime comunista, ora nel tradizionalismo antioccidentale, e spesso antisemita, ora in una curiosa miscela fra le diverse tendenze.
Il fronte degli avversari delle riforme trovò un luogo di aggregazione nel Congresso del popolo, il Parlamento russo, eletto secondo la Costituzione voluta da Gorbačëv nel 1988.
Il conflitto esplose nel settembre-ottobre 1993 quando Eltsin, non riuscendo a superare l'ostruzionismo della maggioranza, sciolse l'assemblea elettiva e indisse nuove elezioni. Il Parlamento rispose destituendo il presidente, che reagì decretando lo stato di emergenza e facendo occupare il Parlamento da reparti speciali delle forze armate. Ristabilito l'ordine a prezzo di largo spargimento di sangue, Eltsin varò, in dicembre, una nuova Costituzione che rafforzava i poteri del presidente.

La guerra in Cecenia

Alla fine del 1994, per consolidare la sua posizione e per non lasciare spazio ai movimenti nazionalisti, Eltsin decise un intervento militare in Cecenia, una repubblica musulmana situata nella regione del Caucaso, che aveva proclamato l'indipendenza dalla Federazione russa di cui faceva parte. Fortemente contrastata dalla resistenza degli indipendentisti, l'operazione si trasformò in un lungo e logorante conflitto, costellato di cruente azioni di guerriglia e di crudeli rappresaglie sulla popolazione civile. L'esito disastroso dell'intervento era il risultato non solo della scarsa efficienza della macchina militare russa, ma, più in generale, di una profonda crisi dell'intero apparato statale e di una crescente disgregazione della società civile, cui i governanti non riuscivano a trovare risposte efficaci.

La crisi economica

Alle turbolenze politiche si sommava frattanto una drammatica crisi economica e sociale.
All'origine della crisi, il tentativo di Eltsin – sostenuto e incoraggiato dai governi occidentali – di accelerare il processo di transizione verso il capitalismo e l'economia di mercato. Un processo che però non riusciva a decollare anche per l'assenza di un vero ceto imprenditoriale, e in genere di un tessuto sociale adatto a sostenere il cambiamento. Il passaggio ai privati di grandi concentrazioni industriali e finanziarie (spesso gestite da ex funzionari del periodo sovietico trasformatisi in imprenditori) e la nascita di un capitalismo dai tratti fortemente speculativi finirono coll'avvantaggiare solo gruppi ristretti, spesso legati alla malavita, mentre le condizioni di vita della maggioranza della popolazione peggioravano sensibilmente, sia a causa dell'inflazione, sia perché lo Stato non disponeva di un efficiente apparato fiscale e non era quindi in grado di pagare puntualmente gli stipendi ai dipendenti pubblici.
La crisi giunse al suo culmine nell'estate del 1998, travolgendo il rublo, che fu svalutato del 60% rispetto alle altre valute, e costringendo il governo a una dichiarazione di insolvenza sul debito della Russia con l'estero.

Da Eltsin a Putin

Nell'agosto del 1999, Eltsin, malato da tempo oltre che politicamente logorato, scelse come primo ministro uno sconosciuto dirigente dei servizi segreti, Vladimir Putin, e lo indicò come suo possibile successore alla presidenza della Repubblica. Grazie al suo piglio giovanile ed efficientistico, e soprattutto alla spietata energia con cui affrontò la ribellione cecena, il nuovo premier guadagnò una notevole popolarità.
Eltsin si dimise alla fine dell'anno e, nelle elezioni presidenziali del marzo 2000, Putin si impose con largo margine. La sua presidenza si sarebbe caratterizzata per il tentativo di restituire efficienza alla macchina dello Stato e di ridare slancio all'economia che, pur frenata dai problemi ormai cronici (corruzione diffusa, incertezza delle norme, disordine del sistema bancario), cominciò a manifestare segni evidenti di stabilizzazione finanziaria e di ripresa produttiva, grazie anche all'aumento dei prezzi delle materie prime di cui la Russia era esportatrice.
Al recupero di efficienza del sistema economico e della macchina statale faceva però riscontro un crescente autoritarismo, a mala pena mascherato dal formale rispetto delle regole democratiche: arresti di oppositori, scomparsa in circostanze mai chiarite di giornalisti e dissidenti, dubbi sulla regolarità delle elezioni, uso eccessivo della forza nella lotta, alla fine vincente, contro la guerriglia dei ceceni, di cui peraltro erano evidenti i legami col fondamentalismo islamico e la propensione al terrorismo indiscriminato: una guerra che costò moltissime vittime, soprattutto fra i civili e anche fuori dal territorio ceceno.

Le ambizioni internazionali

Sul fronte della politica estera si assisteva frattanto a una ripresa di iniziativa della diplomazia russa, in due direzioni diverse e spesso contraddittorie.
Da un lato il tentativo di presentarsi all'Occidente come interlocutore affidabile (oltre che prezioso fornitore di gas e petrolio), e anche come alleato nella lotta contro l'integralismo islamico che minacciava la stessa Russia. Dall'altro, l'ambizione di raccogliere l'eredità dell'Urss in quanto unica potenza capace di controbilanciare e limitare l'egemonia degli Stati Uniti. Da qui una serie di contrasti con l'Occidente sui temi più diversi: il dispiegamento di nuovi sistemi d'arma da parte della Nato, l'allargamento dell'Alleanza atlantica ai paesi dell'Europa dell'Est, l'appoggio russo alla Serbia nelle guerre jugoslave e agli Stati arabi sulla questione palestinese, e soprattutto le "ingerenze" occidentali sul tema del rispetto dei diritti umani in Russia.
Il dialogo con gli Stati Uniti non fu interrotto, ma era ugualmente evidente il ritorno a formule e modalità di azione tipiche degli anni della guerra fredda.

 

Gli Stati Uniti: la difficile gestione di una vittoria

Le difficoltà economiche

La scomparsa dell'Unione Sovietica – e le difficoltà della Russia post-comunista – proiettarono gli Stati Uniti nel ruolo di unica superpotenza mondiale. Un ruolo non previsto e forse non desiderato, che accresceva le responsabilità internazionali degli Usa in un momento in cui l'economia americana, e quella dell'intero Occidente industrializzato, mostravano evidenti segni di difficoltà.
Anche per questo, la storica vittoria ottenuta nel confronto con l'Urss – cui si era aggiunta nel '91 quella nella guerra contro l'Iraq – non si tradusse in un rafforzamento della presidenza di George Bush, che subì, al contrario, un calo di popolarità, dovuto essenzialmente ai problemi economico-sociali lasciati aperti dalle precedenti amministrazioni repubblicane: crescita della disoccupazione, servizi sociali insufficienti, aumento delle distanze fra ricchi e poveri, abbassamento generalizzato del tenore di vita.
Il deficit del bilancio statale costrinse inoltre il presidente ad aumentare la pressione fiscale, invertendo il corso inaugurato da Reagan e smentendo le promesse formulate in campagna elettorale.

La presidenza Clinton

Nelle elezioni del novembre 1992, Bush fu seccamente sconfitto dal candidato democratico Bill Clinton: un politico poco più che quarantenne, privo di esperienza internazionale, ma abile nello sfruttare le debolezze dell'avversario e nell'interpretare il diffuso desiderio di cambiamento.
Il nuovo presidente cercò di imprimere alla politica estera americana un segno più "progressista", in linea con la tradizione del suo partito, e di rilanciare l'immagine degli Stati Uniti non solo come garanti degli equilibri mondiali, ma anche come difensori della democrazia in ogni parte del pianeta. Questa vocazione interventista si scontrava però con la riluttanza dell'opinione pubblica americana ad accettare gli oneri e i sacrifici derivanti da un impegno militare troppo esteso.
I maggiori successi diplomatici della presidenza Clinton (l'accordo israelo-palestinese del '93 e la pacificazione imposta in Bosnia) produssero così risultati precari.

La ripresa economica

Nel 1996, alla fine del suo primo mandato, Clinton poteva comunque vantare un bilancio internazionale non del tutto negativo. Ma soprattutto poteva giovarsi – e questo fu il fattore principale della sua trionfale rielezione – del netto miglioramento della situazione economica.
A partire dal '96 il sistema americano, alleggerito (sia pure a costi sociali pesanti) dalla cura liberista degli anni di Reagan e Bush, riacquistò flessibilità e competitività e si sviluppò con un tasso annuo superiore al 4%, rafforzando il suo primato, sia nei settori produttivi della "nuova economia" (quelli legati al boom dell'informatica), sia nei mercati finanziari, dove la moltiplicazione degli strumenti per far circolare il danaro creò nuove occasioni di arricchimento (e anche di speculazione).
Nel '97 la disoccupazione scese, secondo i dati ufficiali, sotto il 5%, mentre il deficit di bilancio si riduceva. Clinton, dal canto suo, riuscì a presentarsi come il garante di questo corso positivo, accantonando alcuni suoi originari progetti di riforme sociali (in particolare nel settore della sanità) e spostando così verso il centro l'asse della sua politica.

L'elezione di George W. Bush

Nel novembre 2000, scaduto il secondo mandato di Clinton, le elezioni presidenziali si risolsero però in un incredibile "pareggio" fra il vicepresidente democratico Al Gore e il candidato repubblicano George W. Bush, figlio del predecessore di Clinton: il risultato finale, a lungo contestato, vide Bush prevalere per poche centinaia di voti ottenuti nel decisivo Stato della Florida (di cui era governatore il fratello).
I primi atti della nuova presidenza si ispirarono a una linea tendenzialmente conservatrice in politica interna (ulteriori tagli alle tasse, contenimento della spesa pubblica), e orientata, in politica estera, a una più esclusiva tutela degli interessi nazionali, anche a scapito dell'impegno diretto degli Stati Uniti nelle zone calde del globo La strategia «neo-isolazionista» di Bush junior non poté comunque attuarsi appieno: il traumatico attentato alle Twin Towers di New York dell'11 settembre 2001 avrebbe infatti costretto gli Stati Uniti a un impegno su scala mondiale, in nome della lotta contro il terrorismo.

 

Dalla Cee all'Unione europea

L'atto unico europeo

Le grandi trasformazioni degli equilibri di potenza e degli assetti economici mondiali maturate alla fine del secolo XX posero l'Europa occidentale di fronte a nuove e difficili sfide. Fu anche per rispondere a queste sfide che i dodici paesi membri della Comunità europea (sarebbero diventati quindici nel 1995, in seguito all'adesione di Austria, Svezia e Finlandia) decisero di dare nuovo impulso al processo di integrazione.
Il primo passo importante in questo senso era stato, nel 1985, la firma degli accordi di Schengen (in Lussemburgo) che impegnavano gli Stati membri ad abolire entro dieci anni i controlli alle frontiere sul transito delle persone.
Nel febbraio 1986, sempre in Lussemburgo, fu sottoscritto l'Atto unico europeo, così chiamato perché affrontava in un unico testo gli aspetti riguardanti l'economia e quelli relativi al rafforzamento della cooperazione politica. Si stabiliva fra l'altro che entro il 1992 sarebbero state rimosse le residue barriere alla circolazione delle merci e dei capitali e si introduceva il voto a maggioranza qualificata nel Consiglio dei ministri europeo, le cui decisioni sin allora potevano essere bloccate dal veto di ogni singolo membro.

Il trattato di Maastricht

Le direttive dell'Atto unico divennero esecutive con la firma, nel febbraio 1992, nella città olandese di Maastricht, di un nuovo trattato che istituiva l'Unione europea. Il trattato sanciva la completa unificazione dei mercati dall'inizio dell'anno successivo e allargava l'area di competenza delle istituzioni europee a campi nuovi, fra cui la ricerca e l'istruzione, la sanità pubblica e la tutela dei consumatori. Si prevedeva inoltre una politica estera e di sicurezza comune (Pesc), che però non riuscì a decollare, anche perché qualsiasi decisione doveva raccogliere l'unanimità fra gli Stati membri.

La moneta unica

La decisione più significativa, fra quelle assunte a Maastricht, fu però l'impegno a realizzare entro il 1999 il progetto di una moneta comune (cui sarebbe stato dato il nome di euro) e di una Banca centrale europea.
Si stabiliva, infine, come condizione per l'adesione all'Unione monetaria, l'adeguamento a una serie di parametri comuni (criteri di convergenza) che avrebbero dovuto garantire la solidità della nuova moneta e la credibilità finanziaria dell'Unione: tassi di inflazione contenuti, cambi stabili per un periodo di almeno due anni prima dell'entrata in vigore della moneta unica, deficit statale annuo non superiore al 3% del prodotto interno lordo e debito pubblico globale non superiore al 60%.

Le politiche di austerità

All'inizio il cammino così impostato si rivelò irto di difficoltà, anche perché non era facile coordinare le decisioni dei singoli governi nazionali, mentre la libertà di circolazione dei capitali favoriva le operazioni speculative contro le valute deboli. Inoltre gli sforzi dei governi per adeguarsi ai parametri di Maastricht mediante tagli alla spesa pubblica (soprattutto nei settori in cui questa tendeva naturalmente a espandersi: assistenza sanitaria, pensioni, trasferimenti agli enti locali) provocarono proteste diffuse. Le politiche restrittive aggravavano infatti la crisi dei sistemi di Welfare e impedivano l'uso della spesa pubblica per combattere la disoccupazione che, per l'intero decennio, si mantenne su livelli molto elevati: nel 1997 la media nei paesi dell'Unione arrivava all'11,3%.
In realtà, la cura di austerità finanziaria imposta dal trattato di Maastricht non fece che mettere a nudo alcuni caratteri distorsivi che da tempo affliggevano le economie del vecchio continente e le rendevano poco competitive nel confronto con le più dinamiche realtà del Nord America o dell'Oriente: l'eccesso di spesa pubblica, che distoglieva risorse dagli impieghi produttivi; l'insostenibilità finanziaria, sui tempi lunghi, dei sistemi di sicurezza sociale (che per altri versi costituivano un vanto per la civiltà europea); la rigidità del mercato del lavoro, orientato più alla tutela dei "garantiti" che alla creazione di nuove opportunità per giovani e disoccupati.

Il varo dell'euro

Nel maggio 1998, a sei anni dalla firma del trattato di Maastricht, venne ufficialmente inaugurata l'Unione monetaria europea (Ume) con la partecipazione di undici Stati: restarono fuori la Grecia, che non aveva raggiunto i parametri (sarebbe stata ammessa solo nel 2001), e la Gran Bretagna, la Danimarca e la Svezia, che rinviarono l'adesione per loro scelta.
Contemporaneamente venne istituita la Banca centrale europea (Bce), che assorbiva alcune delle funzioni principali prima spettanti alle banche centrali dei singoli Stati membri (come la stampa di carta moneta e il controllo del tasso di interesse); e si fissò al 1° gennaio 1999 l'entrata in vigore negli scambi finanziari della moneta unica, destinata tre anni dopo (1° gennaio 2002) a sostituire interamente le monete nazionali.

La prevalenza dei moderati

Il dibattito sui modi e sui tempi di realizzazione del progetto europeo finì inevitabilmente col dominare la scena politica dei singoli paesi e col condizionare le scelte di governi e forze politiche.
In un primo tempo, parve che a fare le spese delle difficoltà inerenti al processo di integrazione fossero soprattutto i partiti di matrice socialista, costretti a confrontarsi con problemi e rimedi poco congeniali ai loro orientamenti di fondo. In Germania la coalizione fra cristiano-democratici e liberali guidata da Helmut Kohl prevalse (per la quarta volta consecutiva) nelle elezioni dell'ottobre '94. In Francia, scaduto il secondo mandato di Mitterrand, la coalizione di centro-destra (già vincitrice nelle politiche del '93) portò alla presidenza della Repubblica, nel '95, il gaullista Jacques Chirac. In Spagna, nel marzo '96, i socialisti di González, al potere da quindici anni, furono sconfitti dai conservatori di José María Aznar.

I successi dei socialisti

Successivamente la tendenza si invertì: le forze di ispirazione progressista si affermarono in Italia (aprile '96), in Francia (maggio '97) e in Gran Bretagna, dove, sempre nel maggio '97, i laburisti di Tony Blair prevalsero con largo margine sui conservatori, al potere da diciotto anni: un successo favorito dalla grande popolarità di Blair, abile, come Clinton negli Stati Uniti, nel conquistare l'elettorato moderato conciliando la vocazione sociale del suo partito con la sostanziale accettazione delle logiche del mercato.
La conferma del mutamento di tendenza veniva, nel settembre '98, dalla Germania, dove la netta vittoria dei socialdemocratici di Gerhard Schröder sulla coalizione fra cristiano-democratici e liberali pose fine alla lunga stagione politica del cancelliere Kohl.

Conservatori e progressisti

Nel decennio successivo, conservatori e progressisti continuarono ad alternarsi alla guida dei governi europei.
In Francia le elezioni parlamentari del 2002 videro il ritorno al potere dei gaullisti, che nel 2007 portarono alla presidenza Nicolas Sarkozy. In Spagna, le elezioni del 2004 riconsegnarono il governo ai socialisti, guidati da José Luis Rodríguez Zapatero, promotore di radicali riforme laiche nel campo dei diritti civili. In Germania, nel 2005, il sostanziale equilibrio fra i due partiti principali portò a un accordo programmatico sulle misure necessarie per il rilancio dell'economia e alla nascita di un governo di grande coalizione presieduto dalla cristiano-democratica Angela Merkel. In Gran Bretagna, nel 2007, si concludeva, dopo dieci anni e senza una sconfitta elettorale, l'esperienza governativa di Tony Blair, che, logorato anche dalla scelta di schierare la Gran Bretagna a fianco degli Usa nell'impopolare guerra all'Iraq, si dimise lasciando la carica al suo collega di partito Gordon Brown.

I problemi comuni

È facile notare come, pur nella diversità delle risposte, i governi e gli stessi cittadini europei si trovassero in questo periodo ad affrontare questioni in larga misura comuni: non solo quelle relative all'economia, alla moneta e alla finanza pubblica, o quelle di ordine sociale, come la disoccupazione e il ridimensionamento del Wellare, ma anche quelle in apparenza più attinenti alla sfera delle sovranità nazionali. Primo fra tutti il problema dell'immigrazione (principalmente dall'Europa orientale e dal Nord Africa), diventato un problema europeo da quando l'area dell'Unione era diventata uno spazio aperto.

 

Il difficile cammino dell'Unione allargata

All'inizio del nuovo secolo, lo slancio che aveva portato i governi europei allo storico traguardo dell'euro parve esaurirsi. E il cammino verso l'integrazione politica tornò a farsi più lento. Nel contempo però, a riprova di una persistente vitalità del progetto unitario, o quanto meno della sua capacità di fungere da polo di attrazione per i paesi vicini, si accelerava il processo di allargamento che, nel giro di pochi anni, avrebbe portato l'Unione a coincidere di fatto con l'Europa geografica (Russia esclusa), cancellando definitivamente, almeno sul piano dell'organizzazione politica, la grande frattura creatasi mezzo secolo prima con l'inizio della guerra fredda.

Le nuove adesioni

Richieste di associazione furono avanzate nel corso degli anni '90 da tutti gli Stati dell'Europa ex comunista e anche da alcuni paesi della sponda sud del Mediterraneo, tra cui la Turchia.
Con dodici di questi paesi (Bulgaria, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Romania, Slovacchia, Slovenia, oltre a Polonia, Ungheria e Repubblica ceca, già membri della Nato) i negoziati per l'adesione ebbero inizio nel luglio 1997 e, dopo una lunga valutazione dei requisiti, fu deciso l'ingresso di dieci Stati (i dodici appena citati, meno Bulgaria e Romania) dal maggio 2004, portando così a 25 il numero degli Stati membri. Nel gennaio 2007, furono ammesse Bulgaria e Romania. Con l'ammissione della Croazia nel 2103 il numero degli stati membri salì a 28.

L'Europa nel 2013

La Convenzione europea

Questo allargamento pose una serie di questioni sull'organizzazione e sul funzionamento delle istituzioni comunitarie, sulla gestione delle politiche economiche e sociali, sul ruolo e sul funzionamento di un organismo politico destinato a unire e rappresentare quasi tutto il continente.
Nel 2001, proprio allo scopo di riformare l'Unione, i paesi membri decisero di dar vita a una Convenzione, composta da parlamentari e da rappresentanti dei governi, con il compito di redigere una carta costituzionale della Ue. La convenzione, che tenne i suoi lavori a Nizza, presentò nel giugno 2003 un progetto di costituzione con un elenco dei principi generali dell'Unione e uno schema di riforma delle istituzioni comunitarie. Nelle intenzioni degli europeisti, l'approvazione di una Costituzione europea avrebbe dovuto rappresentare il primo passo verso una piena integrazione politica del continente.

Le difficoltà del processo di integrazione

Il traguardo tuttavia appariva ancora lontano. Se per un verso l'ingresso dei nuovi membri dava corpo per la prima volta all'ideale di un'Europa capace di superare antiche e recenti divisioni ideologiche e politiche e di accogliere nuove energie e nuove aspirazioni al benessere, per altro verso il progetto comunitario appariva a molti calato dall'alto e non riusciva a trovare un adeguato consenso popolare: ne fu testimonianza il basso livello di partecipazione alle elezioni europee del giugno 2004 registrato in molti paesi.
Un duro colpo per le aspirazioni degli europeisti venne un anno dopo, quando, tra la fine di maggio e l'inizio di giugno del 2005, gli elettori della Francia e dell'Olanda (entrambi paesi fondatori della Comunità europea), chiamati a decidere mediante referendum sulla ratifica della Costituzione, si pronunciarono per il no con margini piuttosto netti (57% in Francia, 63% in Olanda). Giocarono, nell'esito del voto, la protesta contro i vincoli di politica economica imposti dall'appartenenza all'Unione e il timore di un'eccessiva liberalizzazione intereuropea del mercato del lavoro.

Le resistenze nazionaliste

Altre difficoltà vennero poi dagli stessi paesi dell'Est Europa, a volte riluttanti ad adeguarsi alle regole imposte dall'Unione e comunque desiderosi di esercitarvi un peso maggiore.
Fu il caso della Polonia, governata, fra il 2005 e il 2007, da una coalizione nazionalista e cattolico-conservatrice. L'esperienza si interruppe nell'ottobre 2007, quando le elezioni furono vinte dalle forze di orientamento liberale e filo-occidentale, che si affermò anche nelle elezioni del 2011.
Il problema si ripropose, in forme ancora più preoccupanti, in Ungheria, dove le elezioni del 2010 furono vinte dal partito di destra Fidesz (un acronimo che sta per 'alleanza dei giovani democratici'), sulla base di un programma fortemente nazionalista, che prevedeva fra l'altro una riforma della Costituzione in senso autoritario e una serie di misure limitative della libertà di stampa.

Il nuovo trattato

Nell'ottobre del 2007, in coincidenza con la sconfitta delle forze nazionaliste in Polonia, una nuova spinta al processo di integrazione venne da un vertice europeo tenuto a Lisbona. In questo vertice i capi di Stato e di governo dei paesi membri si accordarono sul testo di un nuovo trattato di riforma, che correggeva in parte, limitandone le ambizioni, la Convenzione di Nizza, ma allargava le competenze delle autorità europee in materia di energia e di sviluppo, di immigrazione e di lotta contro la criminalità.
Questa volta però furono gli elettori irlandesi a bocciare di stretta misura il trattato in un referendum del giugno 2008. Una battuta d'arresto in sé non grave, ma rivelatrice di un diffuso disagio, di una persistente diffidenza nei confronti di procedure che apparivano viziate da eccessivo tecnicismo e di istituzioni non sufficientemente legittimate dal consenso popolare.

 

 

ISLAM E OCCIDENTE

 

 

Uno scontro di civiltà?

 

Dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della contrapposizione bipolare tra Est e Ovest, il principale fattore di instabilità del sistema internazionale fu rappresentato dalla crescente tensione tra i paesi dell'Occidente e il mondo islamico. Una vasta area, che andava dal Nord Africa fino all'Asia centrale ed era abitata da popolazioni di religione musulmana, vide crescere il protagonismo di movimenti radicali a carattere religioso. L'epicentro della tensione fu in particolare la zona del Medio Oriente e del Golfo Persico, profondamente segnata dalle conseguenze della rivoluzione iraniana del 1979, dalle due "guerre del Golfo" e dal perdurante conflitto israelo-palestinese.

Il rilancio dell'islam

Già negli anni precedenti, nei paesi islamici, si era andato raf- forzando il sentimento di appartenenza religiosa, soprattutto nei settori meno alfabetizzati e più svantaggiati della società. Un'importante azione di proselitismo era svolta, oltre che dalle tradizionali autorità religiose, da nuovi gruppi che rivendicavano la riscoperta della cultura islamica quale elemento fondante della vita sociale e dell'identità collettiva. Si trattava di un fenomeno molto complesso, in cui confluivano movimenti eterogenei negli obiettivi e nelle modalità d'azione, e tuttavia accomunati dall'opposizione agli orientamenti laici e dal rifiuto della cultura occidentale. Appariva perciò evidente la distanza con il trentennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale, che aveva visto quei paesi vivere un difficile processo di secolarizzazione e contraddittorie aperture a una modernizzazione influenzata dall'Occidente.

Tradizionalismo e fondamentalismo

La divisione fra tradizionalismo religioso e nazionalismo laico era presente nei paesi arabi fin dagli anni fra le due guerre mondiali. A partire dagli anni '50, i movimenti nazionalisti, per lo più guidati dai militari (come nell'Egitto di Nasser), si erano imposti quasi ovunque sull'onda delle lotte contro il dominio europeo e avevano represso, o comunque tenuto sotto controllo, l'attività dei gruppi religiosi tradizionalisti, come i Fratelli musulmani. Furono gli insuccessi dei regimi laici, spesso autoritari e corrotti, a restituire spazio ai gruppi più radicali, che si proclamavano rappresentanti delle masse islamiche e innalzavano la bandiera della "guerra santa" (jihad contro gli eretici, gli infedeli e l'intera civiltà occidentale. Il rilancio dell'Islam prese così, in molti casi, le forme del fondamentalismo.

Scenari di guerra

La diffusione del fondamentalismo, con la sua carica aggressiva nei confronti delle altre religioni, e più ancora delle società laiche e secolarizzate, suscitò non poche preoccupazioni in Occidente: tanto da suggerire ai pessimisti lo scenario di un mondo futuro tutto percorso dalle guerre di religione o diviso da nuovi e catastrofici scontri tra le diverse culture. Alla metà degli anni '90 alcuni osservatori, preoccupati della crescente tensione che animava le relazioni tra paesi occidentali e mondo islamico, cominciarono apertamente a sostenere l'ineluttabilità di uno «scontro di civiltà», in un mondo segnato non più dalle tradizionali contrapposizioni ideologiche, ma da conflitti a base identitaria e culturale.
Con l'attentato terroristico alle Torri Gemelle di New York dell'11 settembre 2001, l'idea dello scontro di civiltà uscì dall'ambito ristretto del dibattito tra esperti di teoria politica e di relazioni internazionali e divenne oggetto di discussione presso l'opinione pubblica americana ed europea. Anche in quel difficile frangente, tuttavia, molti criticarono quella prospettiva, sottolineando come il fondamentalismo fosse una presenza minoritaria e ricordando che l'Islam incarnava una lunga storia, non riducibile a un'immagine di arretratezza e intolleranza.

Segnali di dialogo

Gli eventi più recenti sembrano suggerire un quadro articolato e ancora carico di incertezze: da un lato, dopo la «guerra al terrorismo», concretizzatasi in particolare nel conflitto in Afghanistan (2001) e nella seconda guerra del Golfo (2003), i maggiori leader politici americani ed europei hanno privilegiato la linea del dialogo; dall'altro lato, nel mondo islamico l'espansione dei gruppi fondamentalisti ha conosciuto un rallentamento, e si sono potute osservare altre forme di mobilitazione e di espressione del malcontento, diverse dalle rivendicazioni identitarie a carattere religioso.

 

La prima guerra del Golfo

L'invasione dei Kuwait e la risposta americana

Nell'agosto del 1990, il dittatore dell'Iraq Saddam Hussein, già protagonista della guerra di aggressione contro l'Iran (e per questo a lungo armato e rifornito sia dall'Urss sia da molti paesi occidentali), invase il piccolo e confinante Emirato del Kuwait, affacciato sul Golfo Persico, uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio, tradizionalmente filo-occidentale, e ne proclamò l'annessione alla Repubblica irachena.
L'invasione – che mirava al controllo dell'intera Penisola arabica, ossia del 40% delle risorse petrolifere mondiali – fu subito condannata dalle Nazioni Unite. Contemporaneamente, gli Stati Uniti inviavano in Arabia Saudita un corpo di spedizione, al doppio scopo di difendere gli Stati arabi minacciati e di premere sull'Iraq per costringerlo al ritiro. Alla spedizione si univano anche alcuni Stati europei (Gran Bretagna, Francia e, in misura assai più limitata, l'Italia) e una parte dei paesi arabi fra cui Egitto e Siria. Decisivo fu l'atteggiamento dell'Urss di Gorbačëv, che non si oppose all'intervento armato e consentì così alla forza multinazionale di agire sotto la copertura delle Nazioni Unite.

Il Medio Oriente nel 1990

L'offensiva contro l'Iraq

Alla fine di novembre il Consiglio di sicurezza dell'Onu approvò una risoluzione che imponeva all'Iraq di ritirarsi dal Kuwait entro il 15 gennaio, autorizzando in caso contrario l'impiego della forza. Nella notte fra il 16 e il 17 gennaio 1991, la forza multinazionale scatenava un violento attacco aereo contro obiettivi militari in Iraq e nel Kuwait occupato. Saddam rispondeva lanciando missili con testate esplosive sulle città dell'Arabia Saudita e di Israele (che pure era rimasto estraneo al conflitto). Alla fine di febbraio, scattava l'offensiva di terra contro le forze irachene. Inferiore quanto a tecnologia bellica e privo della copertura aerea indispensabile in una guerra nel deserto, l'esercito iracheno cedette di schianto abbandonando precipitosamente il Kuwait occupato (non prima, però, di averne incendiato gli impianti petroliferi, con conseguenze gravissime sull'economia e sugli equilibri ecologici della regione).
Ottenuto lo scopo principale, e ufficiale, dell'intervento (la liberazione del Kuwait), il presidente George Bush decideva di arrestare l'offensiva della forza multinazionale, per non coinvolgere gli Usa in un conflitto di lunga durata. Saddam Hussein, contro tutte le previsioni, sopravviveva politicamente alla sconfitta, rimanendo saldamente al potere. Ma gli Stati Uniti risultavano ugualmente trionfatori, essendo riusciti a riscattare il proprio prestigio militare, ancora appannato dalla vicenda del Vietnam, e a imporsi come primo garante degli equilibri mondiali.

 

La questione palestinese

Forte del successo ottenuto, il presidente americano Bush cercò di profittare della situazione favorevole creatasi in seguito alla sconfitta irachena (e al conseguente indebolimento del fronte arabo radicale) per rilanciare il processo di pace in tutta l'area mediorientale e per affrontare il problema ancora irrisolto del conflitto fra Israele e i palestinesi.

La stagione delle trattative

Nell'ottobre 1991, fu convocata a Madrid la prima sessione di una conferenza di pace sul Medio Oriente, in cui rappresentan- ti del governo israeliano incontrarono delegazioni dei paesi confinanti (che ancora, con l'eccezione dell'Egitto, non riconoscevano lo Stato ebraico) ed esponenti palestinesi dei territori occupati. Il primo ministro laburista, l'ex generale Itzhak Rabin, si mostrò più propenso dei suoi predecessori a concessioni territoriali in cambio della pace con i paesi confinanti.
Nel 1993, Rabin e il ministro degli Esteri Shimon Peres presero la sofferta decisione di trattare direttamente con l'Olp, profittando della disponibilità di un Arafat indebolito per l'appoggio fornito a Saddam Hussein durante la guerra del Golfo e isolato all'interno dello stesso mondo arabo. Un lungo negoziato segreto portò a un primo accordo che fu firmato a Oslo in agosto e prevedeva, oltre al reciproco riconoscimento, un avvio graduale dell'autogoverno palestinese nei territori occupati. Nel settembre 1993 l'accordo fu solennemente sottoscritto a Washington da Rabin e Arafat, sotto gli auspici del nuovo presidente americano Bill Clinton.

Gli ostacoli alla pace

Sulle prospettive di pace gravavano però molti problemi irrisol- ti: le forme, i tempi e l'ulteriore estensione dell'autogoverno che i palestinesi consideravano come la prima tappa per uno Stato indipendente; il destino degli insediamenti ebraici nei territori; la sorte di Gerusalemme, proclamata «capitale eterna e indivisibile» di Israele e rivendicata come città santa anche dai musulmani; l'atteggiamento ostile della Siria e dell'Iran, e soprattutto dell'ala intransigente dell'Olp.
L'attività terroristica dei gruppi estremisti palestinesi si intensificò, col frequente ricorso ad attentati suicidi che fecero numerosissime vittime tra le forze armate e la popolazione civile di Israele. I continui attacchi suscitarono nella società israeliana un diffuso senso di insicurezza, tradottosi anche nella crescita di gruppi estremistici a sfondo nazionalistico e religioso. Questa nuova spirale di violenza e di fanatismo ebbe il suo culmine nell'uccisione del premier Rabin, avvenuta a Tel Aviv nel novembre 1995 per mano di un giovane estremista israeliano. Privato della sua guida più autorevole, il Partito laburista fu sconfitto nelle elezioni politiche del maggio 1996 da una coalizione di destra guidata da Benjamin Netanyahu (leader del partito del Likud).

Il fallimento dei negoziati

La vittoria della destra rallentò il processo di pace, ma non ne interruppe il cammino. Nell'ottobre 1998, ancora una volta sot- to la pressione americana, Netanyahu e Arafat firmarono negli Stati Uniti un nuovo accordo che fissava i tempi di un graduale ritiro israeliano dai territori occupati. Nell'estate del 2000, dopo che i laburisti erano tornati al potere in Israele, il presidente americano Clinton, desideroso di concludere il suo secondo mandato con uno storico successo diplomatico, convocò le parti per una nuova tornata di colloqui di pace a Camp David. Questa volta il premier israeliano Ehud Barale si mostrò disposto a trattare anche su problemi fin allora mai affrontati, come quello di Gerusalemme e quello del ritorno dei profughi palestinesi nelle loro terre d'origine. Ma l'accordo per una pace globale saltò ancora una volta, soprattutto per i contrasti relativi alla sovranità sui luoghi santi, ebraici e musulmani, di Gerusalemme. E da una pace mancata per poco si passò in brevissimo tempo a una nuova situazione di scontro generalizzato.

La «seconda intifada»

A innescare lo scontro, alla fine di settembre del 2000, fu una visita compiuta da Ariel Sharon, leader della destra israeliana, alla spianata delle Moschee di Gerusalemme: una provocazione agli occhi dei palestinesi, che reagirono scatenando una nuova rivolta. La «seconda intifada» fu assai più cruenta della prima, sia per la violenza delle manifestazioni sia per la durezza della repressione. Il conflitto divenne cronico e coinvolse non solo Gaza e la Cisgiordania, dove il problema era rappresentato dalla presenza di insediamenti ebraici all'interno dei territori controllati dall'Autorità nazionale palestinese, ma le stesse città israeliane che furono teatro di una serie impressionante di attentati, spesso suicidi, condotti contro i civili dalle organizzazioni estremistiche come Hamas (in arabo 'entusiasmo, zelo religioso'): un movimento islamista rapidamente radicatosi negli strati più poveri della società palestinese, affiancando la pratica del terrorismo alle attività sociali e assistenziali.

Il ritorno della destra

L'inasprirsi dello scontro e il conseguente diffondersi di un senso di paura e di insicurezza nella società israeliana portarono, nel febbraio 2001, a elezioni anticipate e a una nuova vittoria del centro-destra, guidato questa volta proprio da Sharon. Il nuovo governo alzò ulteriormente il livello della risposta militare. Ma né la repressione né i ripetuti tentativi di mediazione condotti soprattutto dagli Stati Uniti riuscirono a riavviare il dialogo fra le parti. Al contrario, la situazione si andò continuamente deteriorando, in un susseguirsi di attentati e rappresaglie, in concomitanza col radicalizzarsi della sfida portata all'Occidente dal terrorismo fondamentalista. La decisione del governo di Gerusalemme, annunciata nella primavera 2002, di costruire una barriera difensiva – un'alta muraglia di cemento che separava Israele dai territori palestinesi –, se da un lato ebbe l'effetto di far calare il numero degli attentati, dall'altro suscitò accese proteste in tutto il mondo arabo e fu condannata da buona parte della comunità internazionale.

Il ritiro da Gaza e la vittoria di Hamas

Fu però proprio il governo Sharon a riaprire i giochi con un'altra decisione unilaterale: quella di procedere, nell'estate del 2005, al ritiro dell'esercito e allo smantellamento delle colonie nella striscia di Gaza. La decisione, attuata con grande risolutezza, fu aspramente contestata dalle organizzazioni dei coloni e dalla destra del Likud: tanto da indurre Sharon a spaccare il suo partito e a dar vita a una nuova formazione politica di centro. Intanto, nel novembre 2004, era morto Arafat, leader storico dei palestinesi. Poco più di un anno dopo (gennaio 2006), fu Sharon a uscire di scena, per le conseguenze di una gravissima malattia.
Intanto i nuovi spiragli di dialogo che erano sembrati aprirsi con l'autorità palestinese, guidata, dopo la morte di Arafat, dal moderato Abu Mazen, furono vanificati dall'inatteso risultato delle elezioni a Gaza e in Cisgiordania del gennaio 2006, che videro l'affermazione degli estremisti di Hamas, fermi nel rifiuto di riconoscere Israele. Dalla striscia di Gaza, non più occupata, continuarono a partire missili contro lo Stato ebraico, che rispose con pesanti rappresaglie, mentre Gaza passava sotto il completo controllo degli integralisti.

La crisi libanese

Tornava frattanto in primo piano il problema del Libano, sottoposto, dalla fine degli anni '80, a una sorta di protettorato da parte della vicina Siria, che vi aveva inviato un contingente militare col pretesto di pacificare il paese dai conflitti etnico-religiosi che l'avevano sconvolto negli anni precedenti. Anche dopo aver ritirato le sue truppe, nel 2005, la Siria continuò a far sentire la sua influenza soprattutto attraverso il movimento integralista sciita Hezbollah ("Partito di Dio"), appoggiato e armato anche dall'Iran. Nell'estate del 2006 Israele reagì con un attacco su vasta scala ai continui lanci di missili sul suo territorio a opera di Hezbollah. Una tregua fu stabilita grazie all'arrivo di un contingente Onu (con la partecipazione determinante dell'Italia).

L'intervento a Gaza

Alla fine del 2008 il centro delle tensioni si spostò alla striscia di Gaza, dove gli integralisti di Hamas avevano ripreso e intensificato il lancio di missili su alcuni centri abitati del Sud di Israele. La risposta delle forze armate israeliane fu violentissima e il bilancio di perdite umane fra i civili palestinesi molto elevato. Solo nel gennaio 2009, dopo tre settimane di combattimenti, si arrivò a una tregua, grazie alla mediazione dell'Egitto. Ma intanto il processo di pace, mai ufficialmente interrotto, continuava a segnare il passo.

 

La crescita del fondamentalismo

Le tappe dell'offensiva

L'affermazione di Hamas a Gaza fu solo una delle manifestazioni di un fenomeno più generale, che, come abbiamo visto, interes- sò, dalla fine del '900, l'intero mondo islamico, sia sunnita sia sciita: la diffusione delle correnti fondamentaliste. La prima e più importante tappa di questo percorso era stata la rivoluzione khomeinista in Iran. Una ulteriore occasione di rilancio e di visibilità venne dalla vittoriosa resistenza all'occupazione sovietica in Afghanistan, dove erano affluiti volontari da molti paesi musulmani, soprattutto sunniti. Infine, l'intervento delle potenze occidentali contro l'Iraq, nel '91, accrebbe il discredito dei regimi nazionalisti e nel contempo stimolò la protesta contro la presenza militare americana in Arabia Saudita, sede dei principali luoghi santi dell'Islam.

I massacri in Algeria

I fondamentalisti colsero il successo più significativo, perché ottenuto attraverso libere elezioni, in Algeria, dove, già all'inizio degli anni '90, l'egemonia dei gruppi dirigenti di matrice laica e militare, organizzati nell'Fln (Fronte di liberazione nazionale), risultava logorata, soprattutto a causa del diffuso disagio economico. Nel gennaio 1992 le elezioni videro così la vittoria degli integralisti del Fis (Fronte islamico di salvezza). Il governo annullò allora le elezioni, scatenando la reazione dei gruppi islamici. Questa reazione assunse tratti di particolare ferocia, dal momento che le frange estreme del fondamentalismo, sfuggite probabilmente al controllo della stessa dirigenza del Fis, misero in atto una strategia del terrore a base di massacri indiscriminati fra la popolazione civile: strategia che provocò, fra il '92 e il '97, oltre centomila morti (fra cui un gran numero di donne e bambini). I governanti risposero con dure repressioni, cui seguirono proposte di pacificazione; ma le violenze proseguirono, seppur con minore intensità, anche negli anni successivi.

Laici e religiosi in Turchia

Assai meno drammatiche, ma ugualmente indicative di una tendenza, furono le vicende politiche vissute in questi stessi anni dalla Turchia, dove la ripresa delle pratiche religiose tradizionali si scontrava con l'ordinamento laico dello Stato, garantito dai militari. Qui un partito di matrice islamica (il Refah, Partito del benessere) si affermò nelle elezioni del dicembre '95, assumendo la guida del governo. L'esperienza si interruppe nel '97, quando le pressioni dei militari convinsero i partiti laici a formare una nuova maggioranza (e il Refah fu addirittura messo fuori legge). Ma pochi anni dopo (novembre 2002) si affermò nelle elezioni politiche un altro partito di ispirazione islamico-moderata chiamato Giustizia e Sviluppo e guidato da Recep Tayyip Erdogan. In questo caso il passaggio dei poteri si attuò senza particolari traumi e senza ripercussioni sulla collocazione internazionale della Turchia, che faceva parte dell'Alleanza atlantica dal 1952 e, dai primi anni '90, aveva avviato colloqui per un eventuale ingresso nell'Unione europea: ingresso rivelatosi peraltro problematico, sia per le difficoltà di inserimento in Europa di uno Stato geograficamente asiatico e compattamente musulmano, sia per le riserve nutrite da alcuni partner dell'Unione sulle pratiche autoritarie del regime turco (soprattutto nei confronti della minoranza curda).

I talebani in Afghanistan

Fra il '96 e il '97, gruppi fondamentalisti detti talebani (ossia studenti delle scuole coraniche) approfittarono della situazione di anarchia creatasi in Afghanistan dopo il ritiro dei sovietici per di buona parte del paese e imporvi un regime di duro e intollevittime principali furono le donne, cui fu fra l'altro impedito di lavorare e di frequentare le scuole. Intanto il problema del fondamentalismo islamico — o meglio delle sue manifestazioni violente ed estreme — era esploso ben al di là dei confini dei singoli paesi, manifestandosi in Somalia come nel Sudan, in Pakistan come nell'Africa sub-sahariana, interessando lo stesso Occidente attraverso le folte comunità degli immigrati, e profilandosi come un'emergenza internazionale.

 

L'attacco all'Occidente

L'attentato alle Twin Towers

La mattina dell'11 settembre 2001 due aerei di linea americani si schiantarono contro le Twin Towers ('Torri Gemelle'), gli edifici più alti di New York, sede di uffici e banche, a quell'ora affollatissimi, provocandone l'incendio e il crollo. Un altro aereo, anch'esso carico di passeggeri, si abbatté a Washington sul Pentagono, il ministero della Difesa americano. I tre apparecchi erano stati sequestrati da commandos suicidi e guidati sul bersaglio dagli stessi dirottatori, debitamente addestrati. Un quarto aereo, forse diretto verso la Casa Bianca, precipitò in Pennsylvania dopo una violenta colluttazione fra i dirottatori e alcuni passeggeri. I kamikaze erano tutti provenienti da paesi arabi: di alcuni di loro si accertò l'appartenenza a un'organizzazione terroristica internazionale detta Al Qaeda ('la base, la rete'). Quest'ultima, che aveva la sua principale base operativa nell'Afghanistan dei talebani, si ispirava all'integralismo islamico. A guidarla era un miliardario saudita, Osama bin Laden, da tempo assertore di una guerra santa da condurre in ogni luogo e con ogni mezzo contro i nemici dell'Islam, e in particolare contro gli Stati Uniti, oggetto, già in passato, di attacchi terroristici di analoga matrice: nel '93 le stesse Twin Towers erano state colpite con auto imbottite di esplosivo a opera di gruppi dell'estremismo integralista ed era stata la stessa Al Qaeda a rivendicare altri due sanguinosi attentati nel '98 contro le ambasciate americane in Kenya e in Tanzania. Quanto alla tecnica dei commandos suicidi, essa era stata ampiamente sperimentata, anche se in forme assai meno sofisticate, dagli estremisti palestinesi contro Israele.

Il trauma

L'attentato dell'11 settembre – ripreso in diretta e trasmesso dalle televisioni e dai siti d'informazione di tutto il mondo – provocò migliaia di vittime civili (circa 3000, secondo stime attendibili) e destò ovunque enorme impressione. Gli Stati Uniti, prima potenza mondiale, avevano subìto per la prima volta un attacco sul loro stesso territorio. E l'intero Occidente, oggetto delle minacce di bin Laden, scopriva la propria vulnerabilità di fronte all'offensiva di un nemico che risultava tanto più inafferrabile in quanto non si identificava con un singolo Stato, ma agiva all'interno di società aperte e multietniche. Un senso di paura e di incertezza si diffuse in tutto il mondo, colpendo non solo i settori più direttamente interessati dalla catastrofe (le compagnie aeree, che videro bruscamente calare il numero dei viaggiatori, e le società di assicurazione, costrette a far fronte a un'enorme massa di risarcimenti), ma l'intera economia occidentale, di cui le Twin Towers apparivano come il simbolo e il cuore pulsante. La prospettiva dello scontro di civiltà sembrava farsi improvvisamente più concreta: anche perché l'opinione pubblica americana, ferita e spaventata, esigeva risposte all'altezza della sfida lanciata.

La reazione americana

L'amministrazione americana, in carica da pochi mesi dopo un'elezione incerta e contestata, riuscì però, dopo un primo mo- mento di smarrimento, a riprendere il controllo della situazione, contando anche sulla compattezza patriottica del paese e della sua classe politica. Il presidente Bush junior — che, nelle ore successive agli attentati, era stato costretto ad abbandonare la Casa Bianca e a imbarcarsi sull'aereo presidenziale per sfuggire ad altri eventuali attacchi — si preoccupò innanzitutto di predisporre le condizioni politiche per un'azione militare adeguata, così come Bush padre aveva fatto dieci anni prima con la guerra del Golfo. L'obiettivo primario e obbligato era questa volta l'Afghanistan, che ospitava il capo dei terroristi ed era diventato il riferimento di tutti i gruppi integralisti (gli stessi, paradossalmente, che gli statunitensi avevano armato e finanziato negli anni '80 per la lotta contro l'invasione sovietica).

 

Le guerre contro il terrorismo

La coalizione antiterrorisrno

Dopo L'l1 settembre, la diplomazia statunitense, assicuratasi l'appoggio degli alleati della Nato e delle potenze ex avversarie (Russia e Cina), si impegnò soprattutto sul fronte dei paesi musulmani. L'obiettivo era quello di isolare i regimi più estremisti e di rinsaldare i rapporti con gli Stati moderati, compresi quei paesi (Arabia Saudita e Pakistan in primo luogo) che, pur essendo formalmente alleati degli Usa, erano sospettati di intrattenere rapporti ambigui con i gruppi integralisti. L'operazione sostanzialmente riuscì. Gli Stati arabi, eccettuato l'Iraq, manifestarono comprensione, se non solidarietà, alla superpotenza. Persino l'Iran mantenne un atteggiamento di prudente neutralità. Il presumibile obiettivo di Osama bin Laden – sollevare le masse arabe contro i regimi moderati in nome della fede islamica e dell'antiamericanismo – fu sostanzialmente fallito: anche se il messaggio apocalittico del capo terrorista (che si atteggiava a nuovo profeta e si esprimeva periodicamente attraverso videocassette registrate) non mancò di fare proseliti fra le masse più radicalizzate del mondo musulmano.

L'intervento in Afghanistan

Il 7 ottobre 2001, quattro settimane dopo l'attentato alle Torri Gemelle, ebbero inizio le operazioni militari contro l'Afghanistan, che videro coinvolti, oltre ai nordamericani, anche reparti britannici e – con compiti prevalentemente logistici – quelli di altri paesi della Nato, fra cui l'Italia. L'impegno degli Stati Uniti e dei loro alleati si limitò, salvo circoscritte azioni dei reparti speciali, ai bombardamenti aerei. Il grosso dell'offensiva di terra fu affidato ai combattenti delle fazioni afghane avverse ai talebani (i mujaheddin), che da anni si battevano contro il regime integralista. Dopo una stasi iniziale, l'offensiva fu rapida e vittoriosa: Kabul fu occupata il 13 novembre e il 7 dicembre cadde Kandahar, ultima roccaforte del regime, mentre il mullah Omar, capo spirituale dei talebani, e Osama bin Laden riuscivano a far perdere le loro tracce. Frattanto gli esponenti delle diverse fazioni vittoriose (divise fra loro in base a linee etniche e tribali oltre che politiche) si accordavano per la formazione di un nuovo governo, presieduto da Hamid Karzai. La cacciata dei talebani rappresentò certamente un successo per l'alleanza a guida americana. Ma assai più difficile si rivelò il consolidamento del nuovo regime. Negli anni successivi, i talebani, giovandosi delle basi di cui continuavano a disporre nel vicino Pakistan e dei proventi del commercio dell'oppio, ripresero il controllo di vaste zone del paese, dando vita a un'ostinata guerriglia e scatenando una campagna terroristica che fece molte vittime fra la popolazione civile. Un'offensiva a cui la coalizione anti-terrorismo, che aveva mantenuto nel paese una forte presenza militare, trovava difficoltà a dare risposta, anche a causa del contemporaneo e pesante impegno militare degli Stati Uniti in Iraq.

L'intervento in Iraq

Dopo aver rovesciato il regime dei talebani, gli Stati Uniti volsero la loro attenzione all'Iraq di Saddam Hussein, accusato di fiancheggiare il terrorismo internazionale e di nascondere armi di distruzione di massa (chimiche e batteriologiche). Nel 1998 il governo iracheno aveva espulso gli ispettori dell'Onu incaricati di vigilare sugli armamenti iracheni e aveva respinto tutti i successivi inviti a riaprire il paese alle ispezioni. Dopo un infruttuoso negoziato tra Onu e Iraq, Stati Uniti e Gran Bretagna cominciarono a preparare l'operazione militare. A questo punto, però, la comunità internazionale si divise: Francia, Germania, Russia, Cina e Stati arabi si mostrarono contrari all'uso immediato della forza e propensi a una soluzione diplomatica. Ma gli Stati Uniti e la Gran Bretagna erano decisi a risolvere in modo definitivo la questione irachena. Il 18 marzo 2003 lanciarono un ultimatum a Saddam Hussein: se non avesse lasciato il paese entro 48 ore, avrebbero sferrato un attacco militare.
Il 20 marzo i primi missili statunitensi colpirono Baghdad. Nei giorni seguenti le truppe anglo-americane cominciarono ad avanzare in Iraq dalla frontiera meridionale. Come nel 1991, la resistenza dell'esercito iracheno fu debole e male organizzata: il 9 aprile i marines americani conquistarono la capitale e, pochi giorni dopo, anche le città principali del Nord del paese. Saddam Hussein fuggì e il regime si sfaldò all'istante: bande senza controllo compirono saccheggi e razzie negli edifici pubblici, nei negozi e nei musei. Soltanto alcuni giorni dopo, con molta fatica, le forze di occupazione riuscirono a riportare un minimo di ordine nel paese.

 

La mancata stabilizzazione

I progetti americani

Nelle intenzioni della presidenza Usa e degli altri governi che inviarono contingenti militari in Iraq per contribuire al rista- bilimento dell'ordine (fra gli altri Italia, Spagna e Polonia), l'abbattimento della dittatura doveva costituire la premessa per la rapida creazione di un regime democratico: condizione a sua volta per la diffusione della democrazia nel Medio Oriente e per la costruzione di un nuovo equilibrio più favorevole all'Occidente in un'area che restava cruciale per i rifornimenti petroliferi. Nella visione di alcuni collaboratori e consiglieri della presidenza Usa (i cosiddetti neo-con, ovvero neo-conservatori), questo progetto si inquadrava in un'ambiziosa strategia che coniugava il disegno di esportazione della democrazia su scala planetaria – un disegno sin allora patrimonio della tradizione democratica, da Wilson a Roosevelt, più che di quella repubblicana – con un deciso rilancio della politica di potenza americana, anche a prescindere dal consenso della comunità internazionale e degli stessi alleati europei.

Un difficile dopoquerra

In realtà il processo di stabilizzazione che avrebbe dovuto coro- nare e giustificare gli interventi militari degli Stati Uniti e dei loro alleati trovò ostacoli insormontabili. Non solo in Afghanistan, come abbiamo già visto, ma anche nell'Iraq liberato dalla dittatura di Saddam Hussein e posto all'inizio sotto il diretto controllo degli occupanti. Nonostante l'arresto di molti fra i principali esponenti del vecchio regime e dello stesso Saddam Hussein, catturato nel dicembre 2003 e impiccato tre anni dopo, al termine di un discusso processo, i sostenitori del dittatore deposto e i gruppi integralisti arabi ispirati da Al Qaeda diedero inizio a un lungo stillicidio di sanguinosi attentati, per lo più suicidi, contro le truppe di occupazione (in uno di questi attentati, il 12 novembre 2003, morirono diciannove italiani: dodici carabinieri e cinque soldati del contingente militare nella città di Nassiriya e due civili) e contro gli stessi iracheni che collaboravano alla costruzione del nuovo ordine: un processo reso difficile dai continui contrasti fra i diversi gruppi etnico-religiosi (sciiti, sunniti, curdi) che convivevano nel paese.

Elezioni e guerra civile in Iraq

Nel corso del 2005, sembrò che la democrazia in Iraq potesse consolidarsi: prima le elezioni, in gennaio, per l'Assemblea costituente, che fecero registrare un'ampia partecipazione popolare e videro l'affermazione della componente sciita (numericamente maggioritaria, ma discriminata sotto il regime di Saddam). Quindi, in agosto, il varo, grazie all'accordo fra sciiti e curdi, di una Costituzione federale successivamente approvata con referendum popolare.
Nemmeno questi progressi servirono però a stabilizzare la situazione nel paese, dilaniato da una guerra civile strisciante che mieteva ogni giorno decine di vittime fra la popolazione e metteva a rischio la stessa unità nazionale. Agli attentati di matrice fondamentalista si aggiungeva infatti la protesta, spesso violenta, dei gruppi sunniti, dominanti al tempo di Saddam e ora scontenti per la nuova distribuzione del potere (che vedeva uno sciita a capo del governo e un curdo alla presidenza della Repubblica) e delle stesse risorse petrolifere, collocate per lo più in aree sottratte al loro controllo.

Gli attentati in Europa

Frattanto l'Occidente continuava a dividersi sulla linea da adottare nei confronti della minaccia di un terrorismo islamico sempre più aggressivo e ramificato, presente in molti paesi europei all'interno delle comunità degli immigrati.
L'11 marzo 2004, a due anni e mezzo esatti dall'attacco alle due torri di New York, questa minaccia si concretizzò a Madrid in uno spaventoso attentato che provocò quasi duecento morti fra i passeggeri di diversi treni. Attribuito in un primo tempo ai terroristi baschi, l'attentato fu poi rivendicato dagli integralisti islamici, che dichiaravano di voler punire la Spagna per il suo impegno in Iraq a fianco degli Usa. Poco più di un anno dopo (7 luglio 2005), il terrorismo fondamentalista colpi ancora l'Europa con una serie di attentati suicidi simultanei nella rete dei trasporti urbani di Londra, che provocarono oltre cinquanta morti. In questo caso lo sgomento dell'opinione pubblica fu accresciuto dalla scoperta che alcuni degli attentatori erano cittadini britannici, apparentemente integrati in una società che aveva sempre praticato l'accoglienza e il multiculturalismo. Il governo inglese non cambiò la sua linea politica interventista e non venne meno all'alleanza con gli Stati Uniti; ma le perplessità nell'opinione pubblica si accrebbero.

Gli Usa, l'Iran e il persistere delle tensioni

Anche negli Stati Uniti, dove la guerra continuava a godere del sostegno della maggioranza dei cittadini – lo si vide nelle elezioni presidenziali del novembre 2004, quando Bush fu rieletto, con un margine abbastanza netto sul candidato democratico John Kerry – il prolungarsi del conflitto suscitava critiche crescenti. Le armi di distruzione di massa non erano state trovate, così come restavano da dimostrare i legami fra Saddam Hussein e Al Qaeda. Era invece evidente che il terrorismo fondamentalista di matrice sunnita aveva trovato nell'Iraq un nuovo terreno di azione; e che, d'altra parte, l'affermazione della componente sciita apriva nuovi spazi per l'espansione di un altro fondamentalismo: quello che faceva capo all'Iran, dove, nell'agosto 2005, in una consultazione condizionata dalle pesanti ingerenze delle gerarchie religiose, era stato eletto presidente Mahmoud Ahmadinejad.
Ahmadinejad aveva rilanciato il khomeinismo nella sua versione più intransigente: aveva rivolto pesanti minacce a Israele rilanciando un repertorio di formule antisemite peraltro assai diffuse nel mondo arabo; e aveva annunciato, a dispetto della condanna della comunità internazionale e delle sanzioni votate dall'Onu (dicembre 2006), la sua intenzione di sviluppare un programma nucleare. Dopo due guerre costose e sanguinose, il conflitto fra il mondo islamico e l'Occidente, con epicentro nell'area mediorientale, continuava a rappresentare il principale focolaio di tensione internazionale.

 

 

LA SECONDA REPUBBLICA

 

 

Una difficile transizione

Speranze e delusioni

Nel linguaggio corrente è ormai consuetudine indicare con l'espressione "Seconda Repubblica" l'assetto politico determinatosi in Italia nella prima metà degli anni '90 con il crollo del sistema dei partiti, la nuova legge elettorale maggioritaria, il profondo rinnovamento della classe politica e infine la nascita di un sistema tendenzialmente bipolare. Una svolta storica che, nelle speranze di molti, avrebbe dovuto segnare il passaggio a una democrazia compiuta, più efficiente nei processi decisionali e al tempo stesso più vicina alle istanze dei cittadini.
Queste speranze, però, andarono in gran parte deluse. Fin dai suoi inizi, il nuovo sistema politico si caratterizzò da un lato per l'accesa conflittualità fra i due schieramenti principali che si alternavano al governo, dall'altro per la loro frammentazione interna che rendeva sempre precaria (anche se in media più lunga che nel passato) la vita dei governi. Gli episodi di corruzione e di cattiva gestione delle risorse pubbliche, fenomeni che si sperava di aver sconfitto con le inchieste giudiziarie, si riproposero e si intensificarono. Il tutto in un contesto economico e sociale in cui i segnali di disagio si aggravavano, anche per il venir meno dei margini finanziari che avevano consentito nei due decenni precedenti generose politiche di spesa pubblica.

La stasi economica

Segnali negativi venivano innanzitutto dall'economia reale: la crescita del decennio precedente si interruppe a partire dal 1990. Molte imprese italiane, a cominciare dalle maggiori come Fiat e Olivetti, perdevano competitività sui mercati internazionali, anche perché penalizzate (in termini di oneri previdenziali e di inadeguatezza delle infrastrutture) dall'inefficienza della pubblica amministrazione. Il tutto mentre l'inflazione restava ben al di sopra della media europea e mentre il deficit del bilancio statale non accennava a ridursi, anche per il peso degli interessi sul debito: il che costringeva lo Stato a continue emissioni di titoli che attiravano il risparmio, distogliendolo dagli impieghi produttivi.

Le nuove forze politiche

Sul piano della vita politica, la prima importante novità fu la trasformazione del Pci nel nuovo Partito democratico della sinistra (Pds). La clamorosa decisione – annunciata alla fine del 1989 dal segretario Achille Occhetto e tradotta in atto, dopo lunghe polemiche interne, in un congresso tenutosi a Rimini nel febbraio '91 – avrebbe dovuto "sbloccare" la principale forza di opposizione e porre le premesse per una ricomposizione della sinistra italiana nel segno del riformismo democratico. Ma questo progetto si scontrò con le diffidenze reciproche che permanevano fra il Psi, ancora al governo, e il nuovo Pds, indebolito dalla scissione dell'ala più legata all'eredità del vecchio Pci (che diede vita al partito di Rifondazione comunista).
Sull'opposto versante politico si consolidavano, nel Settentrione, le posizioni della Lega Nord, che intensificava la sua polemica contro lo Stato centralizzatore, il fisco e l'intero sistema dei partiti. In generale, la proliferazione di piccoli movimenti, spesso concentrati su problemi specifici, esasperava la frammentazione dello schieramento parlamentare e rendeva più difficile la governabilità.

Il dibattito sulle riforme istituzionali

Anche per questo le forze politiche cominciarono a prendere in considerazione l'ipotesi di una nuova legge elettorale capace di dare maggiore stabilità all'esecutivo. A tenere aperto il problema contribuì, nel giugno 1991, lo schiacciante successo di un referendum abrogativo di alcune parti della legge elettorale promosso da un comitato composto da esponenti di diversi partiti e presieduto dal democristiano Mario Segni: un risultato importante non tanto per il suo contenuto specifico (la riduzione a una del numero delle preferenze), quanto per il suo significato di protesta nei confronti del sistema vigente. Un'altra inattesa sollecitazione in direzione delle riforme giungeva addirittura dal vertice dello Stato: il presidente della Repubblica Francesco Cossiga si rendeva protagonista di una serie di accese polemiche con le forze politiche e dichiarava apertamente la sua volontà di contribuire a cambiare il sistema di cui egli stesso era il più alto rappresentante.

Le elezioni del 1992 e la presidenza Scalfaro

Le elezioni, che si tennero il 5-6 aprile 1992, registrarono alcune clamorose novità. Seccamente sconfitti la Dc (che passava dal 34,3% al 29,7% dei voti alla Camera) e il Pds (che con il 16,1% perdeva più del 10% rispetto al Pci, in parte a vantaggio di Rifondazione comunista), in leggera flessione il Psi, crescevano le forze politiche nuove, come la Lega e i Verdi. La coalizione di governo conservava una maggioranza parlamentare ridottissima, pur restando, al momento, priva di alternative. All'indomani delle elezioni, il Parlamento elesse alla presidenza della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, democristiano, presidente della Camera, parlamentare dagli anni della Costituente: una figura che per il suo rigore morale era chiamata a rappresentare la tradizione positiva di una classe politica ormai largamente screditata.

«Tangentopoli»

Da alcuni mesi, infatti, un nuovo gravissimo scandalo stava coinvolgendo un numero crescente di uomini politici accusati di aver preteso e ottenuto tangenti per la concessione di appalti pubblici. L'inchiesta «Mani pulite», avviata dalla magistratura milanese, svelava un diffusissimo sistema di finanziamento illegale dei partiti e dei singoli uomini politici che fu denominato «Tangentopoli». Destinatari principali erano i partiti di maggioranza, in primo luogo la Dc e il Psi (ma non mancarono casi di coinvolgimento del Pci-Pds). Fenomeno non nuovo, materia di precedenti scandali ma tacitamente ammesso e tollerato, il sistema delle tangenti rivelava una diffusione capillare che aggravava la crisi dei partiti e testimoniava della loro incapacità di rinnovarsi. Fra il 1992 e il 1993, numerosi esponenti politici di primo piano, a cominciare dal segretario del Psi Bettino Craxi, furono raggiunti da avvisi di garanzia (ossia da notifiche dell'avvio di indagini emesse dai magistrati inquirenti) e costretti ad abbandonare le responsabilità di partito. Indagato per tangenti risultava anche l'ex segretario della Dc Forlani, mentre lo stesso Andreotti fu accusato da alcuni pentiti di collusioni con la mafia (accuse destinate poi a cadere nel processo, in parte perché giudicate infondate, in parte per l'intervenuta prescrizione del reato).

Le stragi di mafia

Il susseguirsi delle iniziative giudiziarie contro la classe politica si inseriva in una situazione resa drammatica dalla recrude- scenza dell'offensiva mafiosa contro i poteri dello Stato. Il 23 maggio 1992, mentre erano in corso alla Camera le votazioni per la presidenza della Repubblica, un attentato al tritolo lungo l'autostrada fra l'aeroporto di Palermo e la città uccise il magistrato Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, la moglie e tre agenti della scorta. Meno di due mesi dopo, il 19 luglio, il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti furono uccisi da un'autobomba in piena Palermo. Falcone e Borsellino erano stati in prima fila nella lotta alla mafia: la loro morte scosse l'opinione pubblica e stimolò un potenziamento dell'azione di magistratura e polizia, che avrebbe portato, nel gennaio 1993, all'arresto del "capo dei capi" dell'organizzazione mafiosa, Salvatore Riina.

Il governo Amato

Il nuovo governo presieduto dal socialista Giuliano Amato, entrato in carica alla fine di giugno del '92 e sostenuto dai partiti della vecchia maggioranza, si trovò dunque ad affrontare un compito difficilissimo. Alla crisi dei partiti e all'allarme per il dilagare della criminalità organizzata si aggiungevano i problemi della crisi produttiva e della gravissima posizione debitoria dello Stato. Il governo affrontò subito il problema finanziario prima con interventi fiscali (compreso un prelievo sui conti correnti), poi con una più incisiva manovra destinata a contenere le spese. Tali interventi, insieme con quelli annunciati relativi alla privatizzazione di alcune grandi imprese pubbliche, si rendevano tanto più necessari dopo che, in settembre, una ondata di vendite sui mercati valutari aveva investito la lira, deprezzandola di oltre il 20% e costringendo l'Italia a uscire dal Sistema monetario europeo.

Il referendum del 1993

Restava aperto il problema della legge elettorale. Il disaccordo tra le forze politiche spianò ancora una volta la strada a una soluzione imposta da un referendum abrogativo. Il 18 aprile 1993 i cittadini approvarono a larghissima maggioranza il quesito che, attraverso la soppressione di alcune parti della legge vigente, introduceva il sistema maggioritario uninominale al Senato. Il successo del referendum elettorale suonava come una secca sconfitta per il sistema dei partiti, nonostante l'affrettato schierarsi di quasi tutte le formazioni politiche a favore del «sì» all'abrograzione.

Il governo Ciampi

All'indomani dei referendum, Amato rassegnò le dimissioni. Il presidente della Repubblica chiamò allora a formare il nuovo governo il governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, che costituì il mi- nistero muovendosi al di fuori delle logiche partitiche. Il nuovo esecutivo, composto in parte da tecnici, si impegnava a favorire il varo di una riforma elettorale che recepisse il principio maggioritario indicato dal referendum per il Senato (estendendolo a entrambe le Camere) e prometteva di proseguire l'opera di risanamento delle finanze pubbliche. Le nuove leggi elettorali per la Camera e il Senato, approvate ai primi di agosto, estendevano a entrambe le camere il sistema maggioritario uninominale, ma prevedevano una quota di seggi, pari al 25%, da assegnare con il sistema proporzionale.

 

La "rivoluzione maggioritaria"

Le trasformazioni nei partiti

Col varo del nuovo sistema elettorale si fecero più forti le pressioni per un ricorso anticipato alle urne che, nelle aspettative di larga parte dell'opinione pubblica, avrebbe liberato il Parlamento dalla vecchia classe dirigente compromessa con gli scandali di Tangentopoli e posto le basi per una nuova repubblica e per un nuovo patto fra cittadini e potere politico. In questa prospettiva i partiti della vecchia maggioranza cercarono di rinnovarsi, cambiando, in qualche caso, il simbolo e il nome del partito. Il Psi, dopo che Craxi era espatriato temendo un arresto, si diede nuovi dirigenti, senza però riuscire a restaurare la sua immagine. La Dc decise di tornare alle origini e alla vecchia denominazione del primo partito cattolico – quello fondato da Sturzo nel 1919 – assumendo, nel gennaio 1994, il nome di Partito popolare italiano (Ppi). Ma un gruppo di dirigenti ostili al predominio delle correnti di sinistra nel nuovo partito diede vita a una nuova formazione, il Centro cristiano democratico (Ccd).
Anche a destra si registrarono significativi mutamenti. Il segretario del Msi Gianfranco Fini, sospinto dai buoni risultati raggiunti nelle elezioni comunali e dalla necessità di ottenere una definitiva legittimazione, avviò la trasformazione del suo partito in Alleanza nazionale: un processo che si sarebbe concluso nel congresso di fondazione di Fiuggi (gennaio 1995), con una netta rottura di continuità col passato neofascista.

Berlusconi e le elezioni del 1994

Ma l'elemento di maggior novità nello scenario italiano fu l'in-gresso in politica dell'imprenditore televisivo Silvio Berlusconi. Proprietario delle tre maggiori reti televisive private e del Milan, la società di calcio più forte del momento, industriale impegnato in molti altri settori, dall'edilizia alle assicurazioni, dalla finanza alla pubblicità, Berlusconi scese direttamente «in campo» con il dichiarato obiettivo di arginare un eventuale successo delle sinistre e di ricompattare uno schieramento moderato ormai disperso. Nel giro di qualche mese, Berlusconi riuscì non solo a fondare un proprio partito, Forza Italia, che si presentava con un programma di ispirazione liberale, ma anche a costituire un cartello elettorale con la Lega Nord nell'Italia settentrionale (Polo delle libertà) e con Alleanza nazionale nel Centro-sud (Polo del buon governo). Confluirono in questo schieramento anche i Radicali di Pannella, il Ccd e altri politici di centro. Sul fronte opposto il Pds coagulò intorno a sé (nel cartello dei Progressisti) tutte le forze di sinistra da Rifondazione comunista ai Socialisti, ai Verdi. Più isolati e più deboli apparivano il Ppi e il gruppo di Mario Segni, che si collocavano al centro. Le elezioni politiche del 27-28 marzo 1994 decretarono il successo delle forze raccolte intorno a Berlusconi, che ottennero la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, mancandola di poco al Senato. La neonata Forza Italia si affermò come primo partito col 21% dei voti, seguita dal Pds (20,3%), dal Msi-Alleanza nazionale (13,5%), dal Ppi (11,1%) e dalla Lega Nord (8,4%).

Il difficile avvio dei bipolarismo

Dalle elezioni usciva così un quadro politico radicalmente trasformato: quasi scomparsi il Psi e i partiti laici minori, drasticamente ridimensionato il partito cattolico erede della Dc, rientrata in gioco l'ex estrema destra con la nascita di Alleanza nazionale, si delineava un confronto fra due schieramenti contrapposti (un centro-destra guidato da Berlusconi e un centro-sinistra imperniato sul Pds), destinati, come è tipico di un sistema politico bipolare, ad alternarsi al governo.
Ma la nascita di una "normale" democrazia dell'alternanza simile a quella dei principali paesi europei si rivelò subito difficile. Troppo aspra era in primo luogo la contrapposizione fra i due schieramenti principali: mentre Berlusconi bollava i suoi avversari come eredi del comunismo, la sinistra accusava Berlusconi di attentare ai fondamenti antifascisti della Repubblica (anche per la sua alleanza con Fini) e denunciava l'anomalia di un presidente del Consiglio che era al tempo stesso grande imprenditore e proprietario delle maggiori reti televisive private. All'esasperata conflittualità fra i due poli del nuovo sistema si aggiungeva poi l'eterogeneità delle coalizioni che si erano formate in gran fretta, in vista della prova elettorale. Nel maggio 1994 Berlusconi formò il nuovo governo con gli alleati della Lega, di Alleanza nazionale, del Ccd e altri esponenti di centro. Ma l'alleanza si rivelò subito fragile, e non solo per i contrasti sui provvedimenti da adottare in una situazione finanziaria sempre difficile. Era soprattutto la Lega – che, grazie alla concentrazione del suo elettorato nelle popolose regioni del Nord, aveva ottenuto un altissimo numero di seggi nei collegi uninominali – a manifestare insofferenza nei confronti di possibili misure di austerità e a voler riprendere la sua libertà d'azione, scontrandosi con le altre componenti della nuova maggioranza.

Il governo Dini

In novembre, Berlusconi fu raggiunto da un avviso di garanzia della magistratura milanese (il primo di una lunga serie) per una vicenda di tangenti da cui sarebbe uscito prosciolto. Un mese dopo, a poco più di sei mesi dal suo insediamento, il governo fu costretto a dimettersi per il ritiro della fiducia da parte della Lega. Nel gennaio 1995, Lamberto Dini, ministro del Tesoro nel ministero uscente, formò un esecutivo di tecnici con l'obiettivo, ormai obbligato per tutti i governi, di arrestare la crescita della spesa pubblica (in agosto fu varata una riforma delle pensioni, destinata però ad avere effetti solo sul lungo periodo) e di portare in tempi brevi il paese a nuove elezioni. I tempi però si prolungarono; e il governo Dini, nato grazie al voto favorevole del Pds, del Ppi e della Lega e all'astensione di Forza Italia, Alleanza nazionale e Ccd, divenne sempre più espressione del centro-sinistra, mentre il centro-destra passava a una netta opposizione reclamando l'immediato ritorno alle urne.

Prodi, l'Ulivo e le elezioni del 1996

Nell'imminenza delle nuove elezioni – Dini si dimise nel dicembre '95 – i due schieramenti principali si riorganizzarono, con alcune significative varianti rispetto a due anni prima. La novità più significativa fu la nascita, già nel febbraio del 1995, di un nuovo contenitore politico di centro-sinistra (l'Ulivo) che raccoglieva il Pds, il Ppi e altri gruppi minori attorno alla candidatura di Romano Prodi, economista di area cattolica ed ex presidente dell'Iri. L'Ulivo avrebbe poi stipulato un accordo elettorale con Rifondazione comunista. Sull'altro fronte, la Lega, staccatasi dal Polo e schieratasi con il centro-sinistra nella maggioranza che sosteneva Dini, decideva di correre da sola, accentuando le sue posizioni separatiste.
L'unità a sinistra e la divisione del centro-destra furono decisive nel determinare l'esito del confronto: nelle elezioni del 21 aprile 1996, l'Ulivo si impose di misura, ottenendo la maggioranza assoluta al Senato e quella relativa alla Camera, dove diventava determinante l'appoggio di Rifondazione. Sempre di stretta misura, il Pds (dove, dopo la sconfitta del '94, Massimo D'Alema aveva sostituito Occhetto alla segreteria) scavalcava Forza Italia affermandosi come primo partito, mentre guadagnavano consensi Alleanza nazionale, Rifondazione comunista e la Lega.

 

Il centro-sinistra e la scelta europea

Il governo Prodi e l'ingresso nell'unione monetaria

Il nuovo governo presieduto da Romano Prodi, entrato in carica nel maggio 1996, schierava nelle sue file esponenti politici e tecnici di peso: Walter Veltroni vicepresidente del Consiglio, Giorgio Napolitano ministro degli Interni, Lamberto Dini ministro degli Esteri, Carlo Azeglio Ciampi ministro delle Finanze. A presiedere il ministero dei Lavori pubblici andava l'ex pubblico ministero Antonio Di Pietro, il più popolare dei magistrati impegnati nelle inchieste di Tangentopoli. Al governo Prodi spettava il compito di equilibrare la necessaria politica di rigore con la tutela dei ceti meno protetti, di rilanciare l'economia e l'occupazione con la maggiore sistematicità consentita a un esecutivo che si proponeva di durare un'intera legislatura, ma con tutte le difficoltà derivanti da una maggioranza eterogenea che si estendeva dal centro all'estrema sinistra.
Il primo obiettivo, perseguito con particolare determinazione dal ministro Ciampi, fu quello di ridurre il deficit del bilancio statale entro il rapporto del 3% con il prodotto interno lordo, il più importante dei parametri fissati a Maastricht per l'ammissione nel sistema della moneta unica europea. Una serie di interventi fiscali e di tagli alla spesa pubblica consentivano all'Italia di rientrare nel Sistema monetario europeo alla fine del '96, di attestarsi, alla fine del '97, al di sotto dell'obiettivo del 3% e di ottenere, nel maggio '98, l'ingresso nell'Unione monetaria europea (cui sarebbe seguita l'introduzione a partire dal 1° gennaio 2002 dell'euro, in sostituzione della lira).

I problemi aperti

Per rendere stabili i risultati raggiunti, occorreva però agire con energia sul fronte del Welfare, in particolare della spesa previdenziale, in continua crescita nonostante le misure adottate dal governo Dini (che legava gradualmente le nuove pensioni non più all'ultima retribuzione percepita, ma alla somma dei contributi versati nella vita lavorativa). I correttivi da introdurre nel sistema apparivano necessari per non caricare sulle generazioni future il costo di un numero elevato di pensionati di cui, a partire dagli anni '70, era stata favorita l'uscita precoce dal mondo del lavoro. I tentativi di intervento del governo, solo parzialmente attuati, determinavano le resistenze dei sindacati e la risoluta opposizione di Rifondazione comunista, il cui apporto era invece indispensabile al governo per ottenere la maggioranza alla Camera.
Problemi non meno delicati erano quelli legati all'amministrazione della giustizia. Le inchieste giudiziarie sul sistema delle tangenti, che avevano avviato il crollo del sistema politico della Prima Repubblica, pur essendosi tradotte in un numero rilevante di processi, erano ben lungi dall'essere concluse, mentre rimaneva aperto un contenzioso spesso assai aspro fra settori dell'ordine giudiziario e una parte della classe politica, che criticava il ruolo protagonistico assunto dopo Tangentopoli dalla magistratura inquirente: il contrasto era ulteriormente alimentato dal coinvolgimento in alcune inchieste del leader dell'opposizione, Berlusconi.

Il governo D'Alema

Nell'ottobre 1998, dopo un ennesimo contrasto sulla politica economica, Rifondazione comunista negò la fiducia al governo Prodi, che fu costretto a dimettersi. Si formò rapidamente un nuovo governo di centro-sinistra presieduto da Massimo D'Alema, leader dei Democratici di sinistra (Ds) – questa la nuova denominazione assunta nel '98 dal Pds – sostenuto dall'Ulivo e dalla convergenza di alcuni gruppi minori. Il cambio alla presidenza del Consiglio senza un'investitura elettorale apparve però come una ripresa delle consuetudini del vecchio sistema dei partiti e perciò fu duramente contestato dal Polo, ma anche da una parte del centro-sinistra. L'ascesa alla guida del governo del leader del maggior partito della coalizione non riuscì a spegnere le microconflittualità interne alla maggioranza dove ogni raggruppamento, indipendentemente dalle dimensioni, cercava di far pesare il suo contributo determinante.
In due occasioni, tuttavia, si manifestò un largo consenso tra le forze politiche: nell'elezione, a larga maggioranza e al primo scrutinio, di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica (maggio 1999) e nel sostegno alla partecipazione italiana alle operazioni militari contro la Jugoslavia per il Kosovo, in piena sintonia con gli Stati Uniti e con gli alleati della Nato: un'ulteriore conferma della scelta europeista dell'Italia.

Il ritorno di Amato e la riforma federalista

In politica interna, il governo D'Alema non resse alla prova delle elezioni regionali dell'aprile 2000. Dopo il successo del centro-destra, che conquistò otto regioni su quindici, D'Alema si dimise e al suo posto fu chiamato Giuliano Amato alla testa di un altro governo di centro-sinistra. La principale realizzazione di quest'ultima fase della legislatura fu l'approvazione (nel marzo 2001 in Parlamento e nell'ottobre successivo con un referendum confermativo) di una legge costituzionale che introduceva alcune importanti modifiche all'ordinamento italiano in materia di poteri degli enti locali, ampliando la potestà legislativa delle regioni (per esempio in materia di sanità, istruzione, lavori pubblici, agricoltura, turismo) e attribuendo ampie autonomie ai comuni, alle province e alle aree metropolitane (le grandi città con i piccoli centri ad esse collegati). La riforma costituzionale mirava a togliere spazio alle rivendicazioni federaliste della Lega (che peraltro si oppose in nome di un federalismo più spinto); ma fu criticata dal centro-destra, che contestava il diritto della maggioranza a modificare unilateralmente la Costituzione.
Fra il 1996 e il 2001 il centro-sinistra aveva guidato l'Italia verso la nuova dimensione europea, ma il paese sembrava mantenere molte caratteristiche legate alle specifiche tradizioni della sua vita pubblica e del suo ordinamento istituzionale: in primo luogo la debolezza dell'esecutivo e la breve durata dei governi. E tuttavia l'insieme delle novità introdotte nel sistema politico a partire dai primi anni '90 confermava il passaggio epocale attraversato dal paese alla fine del secolo.

 

Le trasformazioni sociali

L'Italia che si presentava all'appuntamento europeo era un paese profondamente diverso da quello che nel 1957 aveva sottoscritto il trattato di Roma e partecipato fra i primi al processo di avvio del Mercato comune.

Demografia e modelli familiari

Con quasi 58 milioni di abitanti nel 2000 e oltre 60 nel 2011, l'Italia affiancava Gran Bretagna e Francia nel gruppo dei paesi più popolosi dell'Unione europea dopo la Germania. Ma con un incremento demografico prossimo allo zero, con il più basso numero medio di figli per donna in età feconda (1,3) e una percentuale di popolazione sotto i 15 anni (14,1% nel 2005 e 15% nel 2009) inferiore a ogni altro paese dell'Europa occidentale, l'Italia affidava il proprio sviluppo demografico alla maggiore prolificità degli immigrati, a cui era largamente dovuto l'aumento della natalità degli ultimi anni. I matrimoni e le nascite avevano cominciato a diminuire dalla metà degli anni '60 e verso la fine dei '70 l'Italia era scesa, con meno di due figli per donna, al di sotto del tasso di riproduzione della popolazione. Il binomio matrimonio-figli non sembrava essere più per molti il perno intorno a cui costruire il futuro.
Avevano favorito questa rottura del modello tradizionale il nuovo ruolo della donna, una sessualità svincolata dalla riproduzione, il controllo consapevole delle nascite e in genere una complessiva secolarizzazione dei costumi. La maggiore diffusione di questi fenomeni nelle regioni a più alto reddito e con migliori servizi sociali suggeriva che nella scala dei valori era ormai salita la difesa di un livello di benessere da raggiungere e da conservare per sé e per i figli all'interno di una progettazione razionale e prudente della propria vita. Accanto a questa trasformazione di fondo, anche in Italia si diffondeva il fenomeno dei singles, ossia dei nuclei familiari indipendenti formati da un solo individuo (uomo o donna), mentre si sviluppavano le nuove famiglie "allargate", nate dalla scomposizione e ricomposizione determinate dai divorzi e dai secondi matrimoni.

L'omologazione dei consumi

Il benessere e gli stili di vita un tempo riservati alle élite economiche e culturali si erano intanto diffusi in strati sempre più ampi. Le seconde case per vacanze e week-end, la nuova disponibilità per il tempo libero, la capillare motorizzazione a due e a quattro ruote (nel 2008 si contavano 600 autovetture ogni 1000 abitanti), fino alla più recente esplosione dei telefoni cellulari segnalavano modelli di consumo largamente omologati. Accanto a questa omologazione, che si sommava a quella indotta dalla pervasività del linguaggio e del mezzo televisivo, persistevano profonde differenze culturali e di reddito.

Disuguaglianze e difesa dei privilegi

Nel confronto con altri paesi europei come Francia e Germania, l'Italia, pur in presenza di un'alta scolarizzazione (all'inizio del nuovo secolo il 90% dei ragazzi si iscriveva alle superiori e il 70% dei diplomati entrava all'università), registrava percentuali inferiori di laureati e di diplomati, confermando l'inefficienza e l'improduttività di un sistema formativo che da decenni cercava invano di riformarsi. La stretta correlazione fra titolo di studio e reddito era del resto caratteristica del nostro sistema sociale, in cui, ad esempio, il 10% delle famiglie più ricche deteneva quasi il 45% dell'intera ricchezza delle famiglie italiane.
In una società in cui la coscienza e la solidarietà di classe si erano largamente indebolite in seguito al tramonto delle ideologie del socialismo e del comunismo, in cui la scena appariva dominata dalla articolata configurazione dei ceti medi, le differenze sociali derivavano soprattutto dalle disuguaglianze di reddito. E così la difesa dello status raggiunto e dei privilegi dei gruppi più tutelati era il terreno su cui si manifestava la conflittualità sociale, reale o sommersa. Le forme più svariate di difesa e di tutela dei privilegi ostacolavano la mobilità sociale, che trovava alternative ai canali tradizionali nelle nuove professioni nate dalle tecnologie avanzate e nelle pieghe di un mercato del lavoro sempre più articolato e frammentato. Anche in Italia, dunque, erano forti i segni delle trasformazioni legate all'affermarsi della società postindustriale.

Il deficit di etica pubblica

Contemporaneamente mutavano le forme della partecipazione politica. Gli italiani tendevano in misura sempre maggiore ad allontanarsi dai partiti e ad accentuare la loro diffidenza nei confronti della politica, considerata nel suo insieme come luogo di intrighi e fonte di guadagni illeciti; oppure erano portati a concentrare i loro consensi e le loro speranze su singole personalità più che su programmi e scelte collettive: fenomeni, questi, che erano entrambi alla base del successo elettorale di un personaggio come Berlusconi. Quando i cittadini si mobilitavano, lo facevano per lo più su questioni settoriali, legate non tanto alle grandi ideologie, quanto ai concreti disagi originati dai nuovi assetti della società. Cresceva, in questo clima, anche l'ostilità nei confronti degli immigrati, giunti nel 2010 a 4 milioni cui si aggiungevano 560 mila irregolari: una presenza indispensabile per il funzionamento della macchina produttiva – soprattutto nelle piccole imprese – e per l'assistenza degli anziani, ma responsabile, in alcune frange, di episodi di piccola criminalità. Il rifiuto nei confronti del diverso emergeva in varie aree del paese e soprattutto nel Nord, denunciando non solo il crescere dei pregiudizi, spesso artificiosamente fomentati da alcune forze politiche, ma anche la difficoltà culturale a misurarsi con una realtà che diventava sempre più multietnica.
Lo scambio virtuoso tra politica e società appariva interrotto da tempo, mentre si manifestavano, in Italia e fuori, diagnosi pessimistiche incentrate sulla permanente diversità politico-culturale del nostro paese. In effetti, nel paragone con il resto dell'Europa, emergeva un deficit di etica pubblica che appariva arduo recuperare in tempi brevi: alla diffusa corruzione di ampi settori della politica, dell'amministrazione pubblica e della società, al persistere di forme di criminalità organizzata in grado di controllare interi territori (come la camorra nel Napoletano) si aggiungeva quel diffuso disprezzo delle regole che caratterizzava molti comportamenti pubblici e privati e che nell'opinione comune era a volte giustificato come espressione di una vitale creatività. E la classe politica, che già stentava a definire i contorni delle nuove istituzioni, appariva spesso inadeguata a proporre una nuova «pedagogia nazionale» all'altezza degli obiettivi imposti dal confronto europeo.

 

La stagione del centro-destra

Negli anni '90 del '900, lo schieramento a guida berlusconiana, pur essendosi imposto come protagonista della nuova stagione politica, aveva governato solo per pochi mesi (quelli del primo governo Berlusconi nel 1994). Nel primo decennio del nuovo secolo i rapporti di forza cambiarono; e fu il centro-destra a guidare il paese, col solo intervallo di due anni (2006-2008).

Le elezioni del 2001

Rimasta compatta all'opposizione e riconciliatasi con la Lega, l'alleanza di centro-destra si presentò rafforzata alle elezioni del 2001, contro un centro-sinistra che invece era uscito logorato dall'esperienza di governo e, dopo due cambi alla presidenza del Consiglio, si mostrava ancora incerto sul leader da contrapporre a Berlusconi. Alla fine, la scelta del centro-sinistra cadde su Francesco Rutelli, sindaco di Roma, già militante dei Radicali e poi dei Verdi e ora leader della Margherita (la nuova formazione in cui erano confluiti il Ppi e altri gruppi di centro-sinistra). La coalizione di centro-sinistra riproponeva in sostanza quella dell'Ulivo, con i Ds, la Margherita, i Verdi, i socialisti e il Partito dei comunisti italiani (Pdci). Il gruppo denominato Italia dei valori, che faceva capo all'ex magistrato Di Pietro, si presentava invece da solo, come Rifondazione comunista. La coalizione di centro-destra, ora denominata Casa delle libertà (Cdl), era composta, come nel '94, da Forza Italia, Alleanza nazionale, Lega Nord ed ex democristiani dell'ala moderata (dal 2002 uniti nell'Udc, Unione dei democratici cristiani e di centro). Nelle elezioni del 13 maggio 2001, la vittoria della Casa delle libertà risultò nettissima. Nella quota proporzionale, i partiti dell'Ulivo ottenevano complessivamente il 35%, mentre quelli della Cdl sfioravano il 50%. Forza Italia, con il 29,4%, riconquistava la posizione di primo partito distanziando largamente i Ds scesi al 16,6%. La Lega crollava dal 10 al 4%, mentre un buon successo conseguiva la Margherita con il 14,5.
Il risultato delle elezioni mostrava come la coalizione di centro-destra avesse messo solide radici nel paese, grazie soprattutto alla capacità di Berlusconi di convogliare gran parte del voto moderato, in contrapposizione alla vecchia politica e alle sue inefficienza, presentate come frutto del malgoverno delle sinistre. Si consolidavano inoltre, nonostante l'assenza di una riforma istituzionale, i mutamenti intervenuti nel sistema politico a partire dal 1993-94: dalle urne usciva infatti un premier dotato di un'investitura popolare (il suo nome era presente nel simbolo della coalizione) e solo formalmente designato dal presidente della Repubblica.

Il governo Berlusconi

Il nuovo governo formato in giugno da Berlusconi, con Fini vicepresidente e Bossi ministro delle Riforme, incontrò presto una serie di difficoltà. Fra il 20 e il 22 luglio, in occasione del vertice del G8 a Genova, gravi incidenti, con la morte di un manifestante, sollevarono forti critiche sull'operato della polizia. Successivamente, alcune misure varate dal Parlamento, come l'abolizione delle tasse sulle successioni o l'attenuazione delle pene previste per il falso in bilancio, apparvero a parte dell'opinione pubblica troppo mirate a tutelare le posizioni del presidente del Consiglio, che figurava, per di più, ancora imputato in alcuni procedimenti penali. Il "conflitto di interessi" che investiva Berlusconi come proprietario delle maggiori reti televisive private, e in grado ora, in virtù della sua carica, di influenzare quelle pubbliche, non trovava la rapida soluzione più volte promessa.

Tensioni e proteste

A rendere ancora più tesi i rapporti fra i due schieramenti contribuì il progetto di modifica dello Statuto dei lavoratori presentato nel 2002 dal governo al fine di rendere più flessibile il mercato del lavoro: il progetto incontrò l'aspra opposizione della Cgil e dei partiti di sinistra, che diedero vita a una serie di imponenti dimostrazioni di piazza. Nel tentativo di inserirsi in questi conflitti, una nuova formazione terroristica che riprendeva la sigla delle Brigate rosse – e che aveva già colpito a morte nel maggio 1999, a Roma, il giurista del lavoro Massimo D'Antona – uccise a Bologna, nel marzo 2002, Marco Biagi, uno degli ispiratori della politica governativa nel settore del lavoro.
Un altro fattore di tensione venne dalla politica estera: il governo Berlusconi diede un forte sostegno, anche militare, alle iniziative belliche americane in Afghanistan avviate dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, ottenendo il sostanziale appoggio del centro-sinistra. Ma questo consenso venne meno nella primavera del 2003, quando il governo decise la partecipazione italiana al nuovo intervento militare americano in Iraq, osteggiato duramente dal centro-sinistra. E le polemiche si intensificarono quando (12 novembre 2003) 19 militari italiani morirono in un attentato nella città di Nassiriya.

Riforma costituzionale e legge elettorale

Ritornava intanto d'attualità, in seno alla maggioranza, il probledi una revisione costituzionale, richiesta con forza dalla Lega. Nel novembre del 2005 si giunse quindi a varare una riforma che attribuiva ulteriori competenze alle regioni, istituiva un Senato federale e ampliava i poteri del presidente del Consiglio. Ma la riforma, sottoposta al giudizio degli elettori, sarebbe stata bocciata da un referendum confermativo nel giugno 2006.
Alla fine del 2005, nell'imminenza delle nuove elezioni, la maggioranza di centro-destra impose anche la riforma della legge elettorale, abolendo i collegi uninominali e reintroducendo un criterio proporzionale nella distribuzione dei seggi, bilanciato da un cospicuo premio di maggioranza per la coalizione che avesse raccolto il maggior numero di voti, indipendentemente dalla percentuale ottenuta.

Le elezioni del 2006 e il secondo governo Prodi

Gli schieramenti formatisi in vista delle elezioni dell'aprile 2006 confermavano la logica compiutamente bipolare della competizione politica (nessuna formazione di qualche rilievo si collocò al di fuori dei due poli). Il centro-destra ripresentava l'alleanza del 2001 (Forza Italia, An, Udc e Lega, più qualche gruppo minore di centro e di estrema destra); la coalizione di centro-sinistra, denominata Unione e sempre imperniata sull'alleanza fra Ds e Margherita, si estendeva su tutto il restante arco dello schieramento politico. Il centro-destra era dato perdente dai sondaggi, ma Berlusconi si spese con grande energia riuscendo a mobilitare il suo elettorato. Il centro-sinistra vinse con uno scarto di 24 mila voti alla Camera e ottenne una ristrettissima maggioranza al Senato. Primo partito era ancora Forza Italia (23,7%) seguito dai Ds (17,2%).
Romano Prodi, che si era presentato ancora una volta come candidato premier, formò il nuovo governo in maggio, dopo che il Parlamento aveva eletto alla presidenza della Repubblica Giorgio Napolitano, storico dirigente dell'ala riformista del Pci e poi dei Ds. Ma la frammentazione del centro-sinistra e la limitata maggioranza di cui il governo disponeva al Senato resero il cammino dell'esecutivo ancor più faticoso di quanto non fosse stato nel 1996-2001; e ostacolarono l'attuazione dei soliti ambiziosi progetti di riduzione del deficit di bilancio e di rilancio dell'economia.

Le nuove aggregazioni: Pd e Pdl

La debolezza del governo fu evidenziata anche dalla nascita, nell'autunno del 2007, del Partito democratico (Pd) – risultato della fusione dei Ds, della Margherita e di altre formazioni minori – che mirava a riunificare in un solo partito le componenti storiche del fronte progressista. Il suo leader Walter Veltroni, sindaco di Roma, aveva deciso di presentarsi nelle future consultazioni elettorali rifiutando il sistema delle alleanze dell'Unione e in particolare la difficile convivenza tra le forze radicali e quelle moderate del centro-sinistra: una scelta che oggettivamente indeboliva il governo, fondato proprio su quel sistema di alleanze. Questa scelta accelerava un processo analogo nel centro-destra con la nascita, promossa da Berlusconi nel novembre del 2007, del Popolo della libertà (Pdl) in cui convergevano Forza Italia e Alleanza nazionale.

Il ritorno del centro-destra

Nel febbraio 2008, la defezione di un piccolo gruppo di centro (l'Udeur del ministro della Giustizia Clemente Mastella) portò alla crisi del governo Prodi e, in aprile, alle elezioni anticipate. Di nuovo scattò la regola dell'alternanza; e il successo del Pdl fu nettissimo. Berlusconi formò rapidamente il suo nuovo governo, promettendo ancora una volta il rilancio dell'economia produttiva attraverso il taglio delle tasse. Questi propositi trovavano però un ostacolo insormontabile nelle condizioni della finanza pubblica e nei vincoli imposti dall'Unione europea, che costrinsero il governo a energici tagli della spesa, soprattutto nei settori dell'istruzione e della sanità. L'obiettivo era quello di contenere il deficit e di cominciare ad abbattere l'enorme montagna di un debito pubblico che non cessava di crescere per il peso degli interessi. Ma intanto cominciavano a farsi sentire gli effetti della crisi economica mondiale, che avrebbe finito col compromettere, assieme alle speranze di ripresa, anche le fortune politiche di Berlusconi e del centro-destra.

 

 

 

 

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