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GUERRA E RIVOLUZIONE
La guerra come evento periodizzante: il secolo breve
Scoppiata al termine di una lunga fase di sviluppo e di progresso, nata dalle
vecchie e nuove rivalità le grandi potenze europee, la "Grande Guerra", come
subito fu definita, si trasformò presto in un conflitto mondiale e in una guerra
totale.
Durò infatti più di quattro anni (dal 1914 al 1918) e coinvolse, sia pur in
forme e in tempi diversi, la maggior parte degli Stati indipendenti e delle loro
colonie, estendendosi a tutti i continenti. Inoltre, nei principali paesi
belligeranti (e soprattutto in quelli che la combatterono sul proprio
territorio), produsse una serie di profonde trasformazioni politiche, sociali e
culturali, mobilitando non solo gli eserciti e gli apparati statali, ma anche la
popolazione civile. Funzionò, insomma, come un laboratorio e un acceleratore di
tutti i fenomeni legati alla nascente società di massa.
Non stupisce dunque che, in sede di periodizzazione della storia contemporanea,
si tenda oggi a indicarla come l'evento fondante di un secolo che di fatto
coincide con la contemporaneità: quel '900 che lo storico inglese Eric Hobsbawm
ha definito «il breve XX secolo», caratterizzato dall'intensità dei conflitti
ideologici e chiuso precocemente dal crollo dei regimi comunisti europei fra il
1989 e il 1991.
Come tutte le periodizzazioni, anche quella impostata sul "secolo breve" (che
seguirebbe un "lungo '800" apertosi con la Rivoluzione francese) è opinabile e
provvisoria.
Altre interpretazioni preferiscono collocare il punto di svolta nella seconda
metà dell'800, in coincidenza col compimento dei processi di unificazione
nazionale – in primo luogo di Germania e Italia –, con gli esordi della
cosiddetta "seconda rivoluzione industriale" e col dispiegarsi delle politiche
di conquista e di espansione coloniale da parte di tutte le grandi potenze
europee.
Ciò che difficilmente può essere negato è la portata epocale della Grande
Guerra, la sua incidenza sulle ideologie politiche e sui comportamenti sociali,
sull'economia e sulla cultura dell'Europa e del mondo, e soprattutto sugli
equilibri internazionali.
Perché la guerra: cause e responsabilità
Perché scoppiò la prima guerra mondiale? E quali ne furono i principali
responsabili?
La stessa importanza dell'evento e le sue dimensioni catastrofiche obbligarono
fin da subito a porsi queste domande e aprirono un lungo dibattito storiografico
oltre che politico.
Per quanto riguarda le cause, le interpretazioni più diffuse fanno riferimento
alle rivalità imperiali fra le potenze maggiori (Austria contro Russia, Francia
contro Germania, Gran Bretagna contro Germania) e alla formazione di due blocchi
contrapposti e reciprocamente ostili. Letture di questo genere non ci danno
conto però del perché la guerra scoppiò in quel momento e con quegli
schieramenti, visto che condizioni analoghe sussistevano nel precedente lungo
periodo di pace.
Come vedremo, lo scoppio della guerra – di quella guerra – non può spiegarsi
senza far ricorso a quelle scelte individuali e a quei fattori di casualità che
spesso condizionano la grande storia.
Il richiamo al fattore umano ci porta alla questione della responsabilità. Le
potenze vincitrici la risolsero a modo loro, attribuendo, nel testo stesso del
trattato di pace (firmato a Versailles il 28 giugno del 1919), l'intera colpa
della guerra agli sconfitti, in particolare agli imperatori di Germania e di
Austria-Ungheria.
Oggi, pur senza sottovalutare l'atteggiamento aggressivo della Germania di
Guglielmo II, si tende piuttosto a vedere nella strategia tedesca, più che un
piano consapevolmente preparato al fine di conquistare una solida egemonia
europea e mondiale, un rischio calcolato, una ostentazione di forza che si
sperava sufficiente al raggiungimento degli obiettivi prefissati, ma che
comunque comportava l'eventualità, anzi la probabilità, di una guerra.
Una logica che non era estranea nemmeno agli altri Stati belligeranti, compresi
quelli che si consideravano (e in parte erano) aggrediti: la logica delle grandi
potenze tradizionali, che la guerra stessa avrebbe contribuito a mettere in
crisi.
Una guerra diversa
Quali fattori resero la prima guerra mondiale tanto diversa dalle guerre
ottocentesche sul cui modello era stata iniziata e preparata dai belligeranti?
Sinteticamente si potrebbe rispondere che si trattò del primo grande conflitto
maturato e combattuto nell'epoca della seconda rivoluzione industriale e della
nascente società di massa: eserciti numerosi come non mai, armamenti sempre più
potenti e prodotti in grande serie, vasto coinvolgimento delle popolazioni nello
sforzo bellico.
Un confronto sanguinoso e logorante per tutti i contendenti, che metteva a dura
prova le capacità di tenuta (militare, economica, politica e psicologica) delle
popolazioni coinvolte nel conflitto.
Se agì in profondità sul vissuto di coloro che la combattevano al fronte (su
questi aspetti, anche grazie alla disponibilità di un'enorme massa di memorie e
testimonianze scritte, si è soprattutto soffermata la storiografia degli ultimi
decenni), la guerra ebbe effetti importanti e duraturi anche sulla gran massa di
coloro che non indossarono l'uniforme.
L'intera società civile fu coinvolta nello sforzo bellico, e in qualche misura
militarizzata, per far fronte alle esigenze produttive: non solo le strutture
economiche, non solo le modalità della politica, ma anche i comportamenti
privati, le mentalità, le strutture familiari furono profondamente condizionati
da questa esperienza.
Il ritorno della rivoluzione
Strettamente intrecciate con quelle del primo conflitto mondiale sono le
vicende delle due rivoluzioni scoppiate in Russia nel 1917, anzi ne sono parte
integrante.
Non solo perché il movimento insurrezionale che prima rovesciò la monarchia
zarista e poi portò al potere la componente estrema del fronte rivoluzionario
trasse origine dall'andamento del conflitto, che aveva logorato l'Impero russo
più di ogni altra potenza belligerante. Ma anche perché gli sviluppi di quel
-movimento incisero profondamente sul corso della guerra, oltre che dell'intera
storia mondiale.
Fu la guerra (o meglio il rifiuto della guerra) a favorire trasformazione di
quella che si era in un primo tempo presentata come l'ultima delle rivoluzioni
ottocentesche nel più radicale e sanguinoso esperimento di trasformazione
economica e sociale mai tentato in un grande paese europeo.
Gli artefici di questo esperimento (la frazione "bolscevica" del movimento
operaio russo, guidata da Lenin) riprendevano la denominazione di «comunisti»
dal Manifesto di Marx ed Engels del 1848 e si dichiaravano interpreti di una
rigorosa applicazione dei principi marxisti. In realtà ne contraddicevano un
punto fondamentale: quello che legava l'avvento del socialismo al pieno sviluppo
del sistema capitalistico e all'esplodere delle sue contraddizioni.
Inoltre, la decisione di portare avanti a ogni costo il progetto collettivista
(basato sulla lotta senza quartiere alla borghesia e sull'abolizione della
proprietà privata), pur nelle difficili condizioni in cui versava la Russia,
portò il gruppo dirigente bolscevico a rompere ogni vero contatto con la società
civile e con la sua stessa base sociale e a esasperare i suoi caratteri di
avanguardia rivoluzionaria.
Un'esperienza politica che si era annunciata portatrice di un messaggio di
libertà, oltre che di eguaglianza sociale, si trasformava così in un regime
spietatamente autoritario e oppressivo. Un regime che pure non smise di
rappresentare — proprio per la radicalità della sua proposta e per l'isolamento
a cui era condannato dall'ostilità delle potenze europee — un riferimento e un
modello agli occhi delle componenti rivoluzionarie della classe operaia e anche
di molti intellettuali che in quell'esperienza vedevano un tentativo eroico di
rinnovamento totale della società.
Le contraddizioni di Versailles
Gli statisti che si riunirono a Versailles dopo la fine del primo
conflitto mondiale per stipulare i trattati di pace avevano di fronte un compito
quanto mai impegnativo.
Il crollo contemporaneo quattro imperi (russo, tedesco, austro-ungarico
ottomano) e l'impostazione ideologica data alla guerra soprattutto dopo
l'intervento degli Stati Uniti (l'idea di una "guerra democratica" il cui esito
sarebbe stato un più giusto ordine internazionale) imponevano alle potenze
occidentali di disegnare nuovo stabile ordine europeo e mondiale, che
contemperasse i principi di democrazia e di autodeterminazione nazionale con le
legittime ambizioni dei vincitori.
Il tentativo fallì, sia per il rifiuto degli Stati Uniti di rendersi garanti dei
nuovi squilibri, sia per l'oggettiva difficoltà di applicare principi non sempre
compatibili fra loro.
Ne risultò non soltanto un acuirsi dei conflitti etnici e dei contrasti
territoriali fra vecchie e nuove nazioni, ma anche un complessivo indebolimento
delle ideologie e delle stesse istituzioni democratiche che l'esito della guerra
avrebbe dovuto rafforzare. Questo fallimento diede spazio, fin dall'immediato
dopoguerra, a una forte corrente critica nei confronti delle decisioni prese a
Versailles, alimentata da un lato dalle recriminazioni dei paesi che più si
ritenevano sacrificati (con in testa la Germania), dall'altro dalle analisi di
studiosi e statisti che giudicavano ingiusto e controproducente il trattamento
imposto dai vincitori agli sconfitti.
Queste critiche divennero poi giudizio corrente, fino a suggerire l'idea di un
forte nesso causale fra l'assetto costruito a Versailles e gli eventi
catastrofici che culminarono nel secondo conflitto mondiale.
Oggi si tende a sfumare questo giudizio e a riconsiderare i tentativi di
stabilizzazione che furono avviati negli anni '20, e poi vanificati dallo
scoppio della crisi economica nel 1929.
Il problema tedesco e le difficoltà della democrazia
Negli anni agitati che seguirono la fine del conflitto mondiale, la Germania
sconfitta rappresentò il centro delle tensioni politiche e sociali in Europa e
anche il terreno decisivo su cui si giocarono le sorti della democrazia nel
ventennio fra le due guerre. Il sistema repubblicano, faticosamente costruito in
Germania nel 1919 – la cosiddetta Repubblica di Weimar – dopo che era stato
respinto il tentativo insurrezionale dei comunisti "spartachisti", fu subito
costretto ad addossarsi il peso economico e psicologico delle dure condizioni
imposte a Versailles dai vincitori. Riuscì ugualmente a sopravvivere, anche se
continuamente minacciato da destra e da sinistra, e rappresentò nell'Europa
degli anni '20 un modello di democrazia avanzata fondata sui partiti.
Non è dunque corretto rappresentare la stagione repubblicana, durata quasi un
quindicennio, come un breve intermezzo o una sorta di preludio all'avvento della
dittatura nazista. La Repubblica cadde non tanto a causa delle sue fragilità
interne, che pure esistevano, quanto per le conseguenze politiche e sociali
della grande crisi economica mondiale di inizio anni '30.
La crisi della democrazia tedesca rappresentò anche il momento culminante e
l'episodio decisivo di una crisi più generale. Indebolite dalle convulsioni
sociali del dopoguerra, screditate dalle troppe promesse non mantenute, anche
sul piano della convivenza tra le nazioni, le istituzioni liberaldemocratiche
furono investite da una vasta ondata di sfiducia, soprattutto nei paesi in cui
avevano radici più recenti.
Il fenomeno fascista
Fu un paese vincitore della Grande Guerra, l'Italia, a inventare e a
sperimentare per primo un nuovo regime politico, il fascismo, radicalmente
alternativo alla democrazia liberale e al tempo stesso violentemente ostile al
socialismo e al comunismo.
Nato per difendere i valori della vittoria, coniugandoli con un programma di
audaci riforme, e poi diventato protagonista di una sanguinosa battaglia contro
le organizzazioni socialiste del Nord-Italia, il movimento guidato da Benito
Mussolini riuscì nel 1922 a conquistare il governo alternando la violenza alla
manovra politica; e, una volta salito al potere, agi all'interno delle
istituzioni liberali per trasformarle gradualmente in un regime autoritario.
La vittoria del fascismo maturò nel quadro di una profonda crisi del sistema
liberale italiano, incapace di adattarsi alle nuove dimensioni della lotta
politica tipiche della società di massa. Ma non ne fu il risultato fatale e
scontato. I suoi successi dipesero in larga parte dagli errori dei suoi
avversari e dei suoi competitori, che faticarono a capirne i metodi e la natura
e ne sottovalutarono la novità.
Venti di guerra
Un equilibrio instabile
L'Europa del 1914 offriva di sé un'immagine per molti aspetti
contraddittoria.
Il suo predominio — politico, economico e militare — su buona parte del mondo
era ancora apparentemente indiscusso, nonostante l'emergere di nuove potenze a
Oriente e a Occidente. Un ventennio, o quasi, di sviluppo della produzione
industriale e degli scambi commerciali e di crescente integrazione fra le
economie più sviluppate aveva alimentato l'aspettativa di un benessere diffuso,
anche se inegualmente distribuito.
L'onda lunga della seconda rivoluzione industriale e delle nuove tecnologie
aveva dato corpo all'idea, di matrice positivista, di un progresso indefinito di
cui tutti, prima o poi, avrebbero finito col fruire.
Il consolidamento delle istituzioni rappresentative e l'estensione del diritto
di voto stavano di fatto realizzando una sorta di democratizzazione silenziosa,
senza bisogno di scossoni rivoluzionari.
Conflitti latenti
Evoluzioni politiche e progressi materiali non bastavano però né a spegnere i
conflitti sociali, che tendevano piuttosto ad acutizzarsi, né a dissolvere le
tensioni internazionali che fatalmente evocavano lo spettro della guerra.
Fra le grandi potenze europee, che non si combattevano fra loro da quasi mezzo
secolo, erano vive le rivalità vecchie e nuove (l'Austria contro la Russia per i
Balcani, la Francia contro la Germania per l'Alsazia-Lorena, la Germania contro
la Gran Bretagna per la corsa agli armamenti navali).
Inoltre, la nuova configurazione degli equilibri continentali, basata su due
blocchi contrapposti di potenze (Austria e Germania contro Francia, Russia e
Gran Bretagna), rendeva gli schieramenti più rigidi e più facile la propagazione
di un eventuale incendio.
Infine, la corsa agli armamenti intrapresa dalle potenze maggiori e la forza
distruttiva dei nuovi mezzi bellici rendevano più inquietante che mai lo
scenario di un conflitto.
La guerra come occasione
La guerra era dunque nell'aria. Ma non tutti la temevano come il peggiore dei
flagelli.
Se le minoranze pacifiste si mobilitavano per impedirne lo scoppio, se i
socialisti di tutti i paesi la condannavano in nome degli ideali
internazionalisti (ma la vedevano anche come l'esito fatale delle contraddizioni
del capitalismo), settori non trascurabili delle classi dirigenti e delle
opinioni pubbliche nazionali la valutavano come un'opzione praticabile nella
logica del confronto fra le potenze, o la concepivano come un dovere
patriottico, o addirittura la invocavano come un evento liberatorio.
Per molti giovani, che condividevano con i più autorevoli intellettuali
dell'epoca l'insofferenza nei confronti dell'ottimismo positivista e
progressista, o che erano semplicemente alla ricerca di nuove esperienze e di
nuove emozioni, la guerra si presentava come la grande occasione per uscire
dagli orizzonti angusti di una mediocre realtà quotidiana.
Solo la guerra – si pensava – avrebbe potuto risvegliare una società intorpidita
da troppi anni di pace e di ricerca del benessere materiale, restituire alla
vita una dimensione eroica, rilanciare l'ideale patriottico e l'etica del
sacrificio.
Ma le motivazioni di chi auspicava il conflitto potevano essere anche meno
disinteressate: c'erano, infatti, militari, uomini politici, industriali e
finanzieri pronti a sfruttare le opportunità di carriera, di successo e di
guadagno offerte da una guerra che i più immaginavano breve, sul modello dei
conflitti ottocenteschi, e naturalmente vittoriosa per il proprio paese.
Questa somma di aspirazioni ideali e di calcoli sbagliati non basta certo a spiegare lo scoppio della «Grande Guerra». Aiuta però a capire il clima fra il rassegnato e l'esaltato in cui l'Europa affrontò un evento che le sarebbe costato milioni di morti e avrebbe segnato il declino irreversibile della sua egemonia.
Una reazione a catena
Nell'Europa del 1914 esistevano dunque tutte le premesse che rendevano
possibile, anzi probabile, una guerra.
Questo non significa però che i tempi e le modalità, le dimensioni e la durata
del conflitto fossero predeterminati in partenza. Al contrario, la catena di
cause ed effetti che portò allo scoppio della guerra, e poi ai suoi esiti
catastrofici per l'Europa e il mondo intero, si articolò in una serie di
decisioni individuali e di circostanze accidentali.
L'attentato di Sarajevo
Imprevedibile, e per molti aspetti casuale, fu la dinamica degli eventi da
cui scaturì il casus belli, ovvero l'occasione, o il pretesto, per lo
scatenamento del conflitto.
Il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco di nome Gavrilo Princip uccise con due
colpi di pistola il nipote dell'imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe (e
suo erede al trono), l'arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie, mentre
attraversavano in auto scoperta le vie di Sarajevo, capitale della Bosnia.
Nessuno può dire che cosa sarebbe accaduto se l'attentatore avesse mancato il
bersaglio. Ma Princip non sbagliò la mira. E la morte dell'arciduca divenne
subito un caso internazionale.
L'attentatore e i suoi complici facevano parte, infatti, di un'organizzazione
che si batteva per l'indipendenza della Bosnia dall'Impero asburgico e aveva la
sua base operativa in Serbia, godendo di una certa tolleranza da parte del
governo di quel paese. Tanto bastò per suscitare la reazione del governo
austriaco, orientato a una definitiva resa dei conti con lo scomodo vicino, che
però contava sull'appoggio della Russia.
Ultimatum e dichiarazioni di guerra
Il 23 luglio, tre settimane dopo l'attentato, l'Austria-Ungheria inviò un
durissimo ultimatum alla Serbia.
Il governo serbo lo accettò quasi integralmente, salvo che per la clausola che
prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti
dell'attentato.
Il governo austriaco giudicò la risposta insufficiente e, il 28 luglio, dichiarò
guerra alla Serbia.
Questo passo suscitò una reazione a catena che, in poco più di una settimana,
portò alla deflagrazione del conflitto.
- Il 29 luglio la Russia ordinò la mobilitazione delle forze armate (vale a
dire tutte le operazioni necessarie alla disposizione delle truppe in assetto di
guerra) per schierarle lungo tutto il confine occidentale, compreso quello con
la Germania.
- Il 31 luglio la Germania, dopo un ultimatum senza risposta, dichiarò
guerra alla Russia, e, subito dopo, alla Francia, anch'essa in mobilitazione.
- Il 4 agosto le truppe tedesche invadevano il neutrale Regno del Belgio per
colpire l'area più debole dello schieramento francese e puntare direttamente su
Parigi.
- Lo stesso 4 agosto, in risposta, la Gran Bretagna dichiarò guerra alla
Germania.
Le responsabilità
Fu dunque l'iniziativa del governo tedesco, che già nella prima della
Germania fase della crisi aveva assicurato il proprio appoggio incondizionato
all'Austria, a far precipitare definitivamente la situazione.
Ma come spiegare
un impegno così deciso della Germania in una crisi che in fondo non toccava
direttamente nessuno dei suoi interessi vitali?
Innanzitutto la classe dirigente
tedesca lamentava da tempo una condizione di isolamento del paese e non poteva
tollerare un indebolimento del suo principale alleato, l'Impero asburgico.
C'erano poi le motivazioni di ordine militare. La strategia dei generali
tedeschi si basava infatti sulla rapidità e sulla sorpresa e costituiva dunque
di per sé un fattore di accelerazione della crisi e un ostacolo al negoziato. Il
piano elaborato già ai primi del '900, dando per scontata l'eventualità di una
guerra su due fronti (l'alleanza franco-russa risaliva al 1894), prevedeva in
primo luogo un massiccio attacco contro la Francia. che doveva esser messa fuori
combattimento in poche settimane. Raggiunto questo obiettivo, il grosso delle
forze sarebbe stato impiegato contro la Russia.
L'entusiasmo patriottico
In questa fase iniziale tutti i governi sottovalutarono la gravità dello
scontro che si andava preparando. Fra i politici, del resto, era diffusa la
convinzione che una guerra avrebbe contribuito a spegnere i contrasti sociali e
a rafforzare la posizione di governi e classi dirigenti.
In un primo tempo, i fatti parvero dar loro ragione. Nei primi giorni di agosto
le piazze delle principali capitali europee si riempirono di manifestazioni in
favore della guerra. Intellettuali di prestigio e maestri di scuola si
impegnarono per spiegarne al popolo le buone ragioni.
Nemmeno i partiti socialisti, che avevano fatto del pacifismo e
dell'internazionalismo la loro bandiera, seppero o vollero sottrarsi a questo
clima generale di «unione sacra». In Germania, Austria, Francia, Gran Bretagna
di fatto si schierarono a favore della guerra. La Seconda Internazionale – nata,
nel 1889, come espressione della solidarietà fra i lavoratori di tutti i paesi e
impegnata da sempre nella difesa della pace – cessò praticamente di esistere:
fu, in fondo, la prima vittima della Grande Guerra.
1914-15. Dalla guerra di movimento alla guerra di posizione
Nuovi eserciti e vecchie strategie
Guerra di posizione, guerra di logoramento, guerra di usura, guerra di
trincea: queste alcune definizioni usate per descrivere le caratteristiche di un
conflitto che non aveva precedenti nelle guerre del passato, sia per le
dimensioni delle forze in campo sia per le potenzialità distruttive degli
strumenti bellici.
La pratica ormai generalizzata della coscrizione obbligatoria e le accresciute
possibilità dei mezzi di trasporto consentirono ai belligeranti di schierare
rapidamente milioni di uomini in uniforme e di dotarli di armi moderne.
Nonostante ciò, nessuna fra le potenze in guerra aveva elaborato concezioni
strategiche diverse da quelle della tradizionale guerra di movimento, che si
fondava sullo spostamento di ingenti masse di uomini in vista di pochi e
risolutivi scontri campali. Tutti i piani di guerra erano basati sulla
previsione di un conflitto di pochi mesi o addirittura di poche settimane.
Il fallimento dei piano tedesco
Furono soprattutto i tedeschi a puntare su una strategia offensiva, già
sperimentata con successo nella campagna del 1870 contro la Francia. Anche
questa volta, ottennero una serie di successi attestandosi, ai primi di
settembre, lungo il corso della Marna, a poche decine di chilometri da Parigi.
Nel frattempo, sul fronte orientale, i russi erano sconfitti nelle grandi
battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri.
La minaccia russa si rivelò tuttavia più seria del previsto e indusse i comandi
tedeschi a distogliere una parte delle loro forze dal fronte occidentale.
Il 6 settembre, i francesi riuscirono a lanciare un improvviso contrattacco e,
dopo una settimana di furiosi combattimenti, i tedeschi furono costretti a
ripiegare su una linea più arretrata, in corrispondenza dei fiumi Aisne e Somme.
La guerra di logoramento
Con l'arresto dell'offensiva sulla Marna, il piano tedesco poteva dirsi
sostanzialmente fallito.
Alla fine di novembre gli eserciti si erano ormai attestati in trincee
improvvisate su un fronte lungo 750 chilometri, che andava dal Mare del Nord al
confine svizzero. Cominciava così, sul fronte occidentale, una guerra di tipo
nuovo, che vedeva due schieramenti praticamente immobili affrontarsi in una
serie di sterili quanto sanguinosi attacchi, inframmezzati da lunghi periodi di
stasi.
In una guerra di questo genere, l'iniziale superiorità militare degli Imperi
centrali (Germania e Austria-Ungheria) passava in secondo piano. Diventava
invece essenziale il ruolo della Gran Bretagna, che poteva contare sulle risorse
del suo impero coloniale e sulla sua superiorità navale. Altrettanto importante
si dimostrava l'apporto della Russia col suo enorme potenziale umano.
Un conflitto mondiale
Un problema vitale per entrambi gli schieramenti era poi l'atteggiamento dei
paesi che in un primo momento erano rimasti estranei al conflitto e che temevano
di veder sacrificate le loro ambizioni.
Nell'agosto 1914 il Giappone dichiarava guerra alla Germania per impadronirsi
dei possedimenti tedeschi nel Pacifico.
Nel novembre dello stesso anno la Turchia interveniva a favore degli Imperi
centrali.
Nel maggio 1915 l'Italia entrava in guerra contro l'Austria-Ungheria.
A fianco della Germania e dell'Austria sarebbe poi intervenuta la Bulgaria,
mentre nel campo opposto si sarebbero schierati il Portogallo, la Romania e la
Grecia.
Il sistema delle alleanze tra 1914 e 1917
Decisivo sarebbe risultato, infine, l'intervento degli Stati Uniti (aprile
1917), che si schierarono con Gran Bretagna, Francia e Russia – la cosiddetta
Triplice Intesa; gli Usa si trascinarono dietro, infatti, numerosi paesi
extraeuropei (Cina, Brasile e altre repubbliche latino-americane), il cui
contributo alla guerra fu però poco rilevante.
Se a tutto questo si aggiunge l'estensione del conflitto agli imperi coloniali,
si capirà come la guerra, pur avendo sempre in Europa il suo teatro principale,
assumesse sempre più un carattere mondiale, coinvolgendo per la prima volta
tutti e cinque i continenti.
L'Italia dalla neutralità all'intervento
L'Italia entrò nel primo conflitto mondiale nel maggio del 1915, quando la
guerra era già iniziata da dieci mesi, schierandosi a fianco dell'Intesa contro
l'Impero austro-ungarico fin allora suo alleato.
Fu una scelta contrastata, sulla quale classe politica e opinione pubblica si
spaccarono in due fronti contrapposti, solo in parte coincidenti con gli
schieramenti tradizionali.
La neutralità
Nell'agosto 1914, a guerra appena scoppiata, il governo presieduto da Antonio
Salandra aveva dichiarato la neutralità dell'Italia.
Questa decisione, giustificata col carattere difensivo della Triplice Alleanza
(stipulata nel 1882 da Germania, Austria e Italia), aveva trovato concordi tutte
le principali forze politiche. Ma, una volta scartata l'ipotesi di un intervento
a fianco degli Imperi centrali – ipotesi che cozzava fra l'altro contro i
sentimenti antiaustriaci di buona parte dell'opinione pubblica –, cominciò ad
affacciarsi l'eventualità opposta: quella di una guerra contro l'Austria, che
avrebbe consentito all'Italia di portare a compimento il processo
risorgimentale, riunendo alla patria le terre «irredente», ossia i territori
abitati da italiani ancora soggetti all'Impero asburgico.
Interventisti e neutralisti
Sostenitori della scelta "interventista" furono innanzitutto gruppi e partiti
della sinistra democratica (i repubblicani, i radicali, i socialriformisti di
Leonida Bissolati), convinti che una partecipazione italiana alla guerra contro
gli Imperi centrali avrebbe aiutato la causa di una nuova Europa fondata sulla
democrazia e sul principio di nazionalità.
Con motivazioni molto diverse – l'affermazione dell'Italia come grande potenza,
il rafforzamento del prestigio della monarchia – sostennero l'intervento i
gruppi liberalconservatori che avevano come punti di riferimento politico gli
uomini chiave del governo: il presidente del Consiglio Salandra e il ministro
degli Esteri Sidney Sonnino.
Schierata su una linea "neutralista" era invece l'ala più consistente dei
liberali, che faceva capo a Giovanni Giolitti, protagonista assoluto della vita
politica italiana nel primo quindicennio del '900. Giolitti, infatti, non
riteneva il paese preparato alla guerra ed era inoltre convinto che l'Italia
avrebbe potuto ottenere dagli Imperi centrali, come compenso per la sua
neutralità, buona parte dei territori rivendicati.
In maggioranza ostile all'intervento era anche il mondo cattolico, a cominciare
dal nuovo papa Benedetto XV (eletto nel 1914), mentre il Partito socialista (Psi),
in contrasto con la scelta patriottica dei maggiori partiti socialisti europei,
mantenne una posizione di netta condanna della guerra.
Tra i leader socialisti, solo Benito Mussolini, direttore del quotidiano del partito «Avanti!», si schierò, con un'improvvisa e clamorosa conversione, a favore dell'intervento. Espulso dal partito, Mussolini fondò, nel novembre 1914, un nuovo quotidiano. «Il Popolo d'Italia», che divenne la voce principale dell'interventismo di sinistra.
I rapporti di forza
Minoritarie in termini di forza parlamentare e di peso nella società, nei
momenti decisivi, le forze interventiste seppero impadronirsi delle piazze,
presentandosi come espressione del «paese reale» in contrapposizione a un
Parlamento giudicato imbelle e corrotto.
Il partito della guerra poteva, inoltre, contare sui settori più giovani e
dinamici della società, quelli che più contribuivano a formare l'opinione
pubblica: studenti, insegnanti, impiegati e professionisti, ovvero la piccola e
media borghesia colta.
Erano interventisti, con poche eccezioni, anche gli intellettuali di maggior
prestigio: da Giovanni Gentile a Giuseppe Prezzolini, da Luigi Einaudi a Gaetano
Salvemini.
Un caso a parte fu quello di Gabriele D'Annunzio che, noto fin allora come
scrittore raffinato e come personaggio eccentrico, si improvvisò per l'occasione
capopopolo ed ebbe un ruolo di rilievo nelle manifestazioni a favore
dell'intervento.
Il patto di Londra
Comunque ciò che decise l'esito dello scontro fu l'atteggiamento del capo del
governo, del ministro degli Esteri e del re: cioè degli uomini cui spettava,
secondo lo Statuto del 1848, il potere di decidere i destini del paese in
materia di guerra e di alleanze internazionali.
Fin dall'autunno '14, Salandra e Sonnino allacciarono contatti segretissimi con
Francia, Gran Bretagna e Russia per definire le condizioni di un intervento
italiano, pur continuando nel contempo a trattare con gli Imperi centrali per
strappare qualche compenso territoriale in cambio della neutralità.
Infine decisero di accettare le proposte dell'Intesa, firmando, il 26 aprile
1915, il cosiddetto patto di Londra.
Le clausole principali prevedevano che l'Italia avrebbe ottenuto, in caso di
vittoria, il Trentino, il Sud Tirolo fino al confine "naturale" del Brennero, la
Venezia Giulia, l'intera penisola istriana – con l'esclusione della città di
Fiume – e una parte della Dalmazia con numerose isole adriatiche.
La dichiarazione di guerra all'Austria
La decisione, presa col solo consenso del re, all'insaputa del
Parlamento e degli altri membri del governo, doveva però essere ratificata da
una Camera in maggioranza ancora "giolittiana".
Quando capì di rischiare una bocciatura, Salandra rassegnò le dimissioni, ma il
re le respinse, mostrando così di approvare l'operato del presidente del
Consiglio, mentre le manifestazioni di piazza – in quelle che la retorica
interventista avrebbe celebrato come le «radiose giornate» – si fecero sempre
più imponenti e minacciose.
Il 20 maggio 1915, costretta a scegliere fra l'accettazione del fatto compiuto e
un voto contrario che avrebbe sconfessato lo stesso sovrano, la maggioranza
della Camera, con l'opposizione dei soli socialisti, approvò la concessione dei
pieni poteri al governo.
La sera del 23 maggio l'Italia dichiarava guerra all'Austria; il giorno dopo
ebbero inizio le operazioni militari.
Lo scontro sull'intervento lasciò però un segno profondo nella vita politica
italiana, evidenziando l'estraneità di larghe masse popolari ai valori
patriottici, l'indebolimento delle istituzioni parlamentari e l'emergere di
nuovi metodi di lotta politica estranei alle tradizioni dello Stato liberale.
1915-16. Lo stallo
Il fronte italiano
L'intervento italiano non servì, come molti avevano sperato, a
decidere le sorti del conflitto.
Le forze austroungariche si schierarono sulle posizioni difensive più
favorevoli, lungo il corso dell'Isonzo e sulle alture del Carso. Contro queste
linee le truppe comandate dal generale Luigi Cadorna sferrarono, nel corso del
1915, quattro sanguinose offensive (le prime quattro «battaglie dell'Isonzo»)
senza cogliere alcun successo.
Il fronte italiano
Nel giugno 1916 furono gli austriaci a lanciare un improvviso
attacco (che fu chiamato significativamente Strafexpedition, ossia
"spedizione punitiva" contro l'antico alleato ritenuto colpevole di tradimento),
tentando di penetrare dal Trentino nella pianura veneta e di spezzare in due lo
schieramento nemico.
L'offensiva fu faticosamente arrestata, ma il governo Salandra, per il
contraccolpo psicologico suscitato nel paese, fu costretto alle dimissioni e
sostituito da un governo di coalizione nazionale – comprendente cioè tutte le
forze politiche (esclusi, in questo caso, i socialisti) – presieduto da un
anziano politico di orientamento conservatore, Paolo Boselli.
Il cambio di ministero, però, non comportò alcun mutamento nella conduzione
militare della guerra. Nel corso dell'anno furono combattute altre battaglie
sull'Isonzo, senza risultati decisivi.
Il fronte francese
Una situazione analoga, su scala ancora più ampia, si era creata
sul fronte francese.
Anche qui gli schieramenti rimasero pressoché immobili per tutto il 1915.
All'inizio del 1916 i tedeschi sferrarono un attacco in forze contro la
piazzaforte francese di Verdun con lo scopo principale di logorare le forze
nemiche. La battaglia, durata quattro mesi, risultò troppo costosa anche per gli
attaccanti: complessivamente i due schieramenti registrarono oltre 600 mila
perdite.
Il fronte occidentale
La carneficina, forse la più tremenda cui l'umanità avesse mai assistito in uno spazio geografico così limitato, proseguì nei mesi successivi, quando gli inglesi tentarono una controffensiva sul fiume Somme: qui, in sei mesi, il numero delle perdite arrivò a quasi un milione.
Il fronte orientale
In realtà, fra il 1915 e il 1916, i soli successi militari di
qualche importanza furono conseguiti dagli Imperi centrali e i pochi spostamenti
rilevanti del fronte si verificarono in Europa orientale.
Nell'estate del '15 una grande offensiva tedesca costrinse i russi ad
abbandonare buona parte della Polonia. In autunno gli austriaci attaccarono la
Serbia, che fu invasa e di fatto eliminata dal conflitto.
Il fronte orientale
Falliva intanto il tentativo degli anglo-francesi di alleggerire la pressione nemica sull'alleato russo portando la guerra sul territorio della Turchia, il più potente alleato degli Imperi centrali. Fra la primavera e l'estate del '15 una spedizione navale britannica attaccò lo stretto dei Dardanelli e riuscì a far sbarcare un contingente sulle coste turche. Ma l'impresa, contrastata con efficacia, si risolse in un sanguinoso fallimento.
Il blocco navale
Questi risultati non bastarono a riequilibrare la situazione a
favore degli Imperi centrali, che subivano le conseguenze del blocco navale
attuato dagli inglesi nel Mare del Nord.
Invano, nel maggio 1916, la flotta tedesca aveva tentato un attacco contro
quella inglese in prossimità della penisola dello Jutland.
Le perdite subite nella battaglia, per quanto inferiori a quelle degli
avversari, furono tali da indurre i comandi a ritirare le navi nei porti,
rinunciando definitivamente allo scontro in campo aperto.
La vita in guerra
Due anni e mezzo di guerra non avevano dunque risolto la situazione di stallo creatasi nell'estate del '14, né avevano mutato i caratteri di un conflitto sempre più dominato dalla tremenda usura dei reparti combattenti. Un'usura dovuta soprattutto alla combinazione micidiale tra la vecchia dottrina militare, che imponeva ai soldati di cercare a ogni costo la rottura del fronte avversario (o la conquista di una determinata posizione) e le nuove armi automatiche, le mitragliatrici in primo luogo, capaci di trasformare ogni assalto in una carneficina.
La vita nelle trincee
Dal punto di vista tecnico, la vera protagonista della guerra fu la trincea,
ossia la più semplice e primitiva tra le fortificazioni difensive.
Concepite all'inizio come rifugi provvisori per le truppe in attesa del balzo
decisivo, divennero, una volta stabilizzatesi le posizioni, la sede permanente
dei reparti di prima linea.
Col passare del tempo, vennero allargate, dotate di ripari, protette da
reticolati di filo spinato e da "nidi" di mitragliatrici.
La vita nelle trincee, monotona e rischiosa al tempo stesso, logorava i
combattenti nel morale oltre che nel fisico e li gettava in uno stato di apatia
e di torpore mentale. Soldati e ufficiali restavano in prima linea senza
ricevere il cambio anche per intere settimane. Vivevano in condizioni igieniche
deplorevoli, esposti al caldo, al freddo e alle intemperie, oltre che ai
periodici bombardamenti dell'artiglieria avversaria. Non uscivano dai loro
ricoveri se non per compiere qualche pericolosa azione notturna di sabotaggio
nelle linee nemiche o per lanciarsi all'attacco, quando scattava un'offensiva.
L'assalto
Gli assalti, che iniziavano di regola nelle prime ore del mattino, erano
preceduti da un intenso tiro di artiglieria («fuoco di preparazione») che in
teoria avrebbe dovuto scompaginare le difese avversarie ma in pratica aveva come
risultato principale quello di eliminare ogni effetto-sorpresa.
I soldati che
scattavano simultaneamente fuori delle trincee e riuscivano a superare il fuoco
di sbarramento delle mitragliatrici finivano con l'accalcarsi nei pochi varchi
aperti dall'artiglieria nei reticolati, facilitando così il compito dei tiratori
nemici.
Se, nonostante tutto ciò, riuscivano a raggiungere le trincee di prima
linea, dovevano subire il contrattacco dei reparti di seconda linea e delle
riserve, che in genere li ricacciava sulle posizioni di partenza.
Entusiasmo e rassegnazione
Bastarono i primi mesi di guerra nelle trincee a far svanire l'entusiasmo
patriottico con cui molti combattenti – soprattutto i giovani di estrazione
borghese – avevano affrontato il conflitto.
Gran parte dei soldati semplici – il discorso vale soprattutto per quelli di
origine contadina – non aveva idee precise sui motivi per cui si combatteva la
guerra e la considerava come una specie di flagello naturale da accettare con
fatalistica sopportazione.
La visione eroica e avventurosa della guerra restò prerogativa di esigue
minoranze di combattenti. Per tutti gli altri la guerra era una dura necessità.
I soldati la combattevano perché animati da un senso di elementare solidarietà
con i propri compagni di reparto o con i propri superiori diretti, ma anche
perché vi erano costretti dalla presenza di un apparato repressivo spietato nel
punire ogni forma di insubordinazione.
Le forme del rifiuto
Né il senso del dovere né la minaccia del plotone di esecuzione poterono
impedire, tuttavia, che la paura o l'avversione alla guerra si traducessero
talora in forme di rifiuto.
Le più diffuse erano quelle individuali, che andavano dalla renitenza alla leva
alla diserzione o alla pratica dell'autolesionismo, consistente nell'infliggersi
volontariamente ferite e mutilazioni per essere dispensati dal servizio al
fronte.
Meno frequenti erano i casi di ribellione collettiva – «scioperi militari» o
veri e propri ammutinamenti – che crebbero in numero e intensità col prolungarsi
del conflitto. E crebbero in parallelo, nei governi e nei comandi militari, i
timori di un cedimento delle truppe.
Le nuove tecnologie
Nella ricerca spasmodica di un risultato decisivo sul campo, gli eserciti
belligeranti fecero ricorso senza risparmio a tutte le risorse messe a
disposizione dai progressi della scienza e della tecnologia.
Nel corso del primo conflitto mondiale furono sperimentati per la prima volta
nuovi mezzi bellici, alcuni dei quali avrebbero svolto un ruolo importantissimo
nelle guerre dei decenni successivi.
Già nel 1915 fecero la loro comparsa le armi chimiche, proiettili che
sprigionavano gas venefici e venivano sparati sulle trincee nemiche provocando
la morte per soffocamento di chi li respirava.
Nel corso del conflitto conobbe un fortissimo incremento la produzione di aerei
da guerra, usati sia per la ricognizione, sia per il bombardamento di obiettivi
nemici. Dai primi mezzi corazzati (le autoblindo, ossia autocarri ricoperti da
piastre d'acciaio e muniti di mitragliatrici) si passò, nel 1916, ai carri
armati, veicoli dotati di cingoli e dunque capaci di muoversi anche su terreni
accidentati.
Ma l'applicazione dei nuovi ritrovati, non inquadrata in nuove concezioni
strategiche, non ottenne effetti risolutivi e si risolse in un ulteriore
dispendio di vite umane, e anche in devastazioni e danni permanenti all'ambiente
e al territorio dei teatri di guerra.
Il sottomarino
Fra le nuove macchine belliche sperimentate in questi anni, una sola influì
in modo significativo sul corso della guerra: il sottomarino.
Furono soprattutto i tedeschi a intuire le possibilità del nuovo mezzo e a
servirsene sia per attaccare le navi da guerra nemiche, sia per affondare senza
preavviso le navi mercantili, anche di paesi neutrali, che portavano
rifornimenti verso i porti dell'Intesa.
Nonostante il numero limitato dei mezzi disponibili, la guerra sottomarina si
rivelò subito un'arma molto efficace.
Il "fronte interno"
Per tutti i paesi che vi parteciparono, e in particolare per quelli che la
combatterono sul proprio territorio, la Grande Guerra costituì un laboratorio,
un campo di sperimentazione e anche un acceleratore di tutti i fenomeni legati
alla società di massa.
Circa 65 milioni di uomini furono strappati alle loro occupazioni abituali, alle
famiglie e ai mondi chiusi in cui la maggior parte di loro viveva, per essere
coinvolti in una gigantesca esperienza collettiva. Indossavano le stesse
uniformi, combattevano negli stessi luoghi, mangiavano lo stesso rancio. Si
abituavano forzatamente alla vita in comune e alla disciplina, ma anche alla
violenza e alla quotidiana familiarità con la morte.
Le vittime civili
Anche le popolazioni civili vennero in varia misura investite dagli eventi
bellici.
I più colpiti furono naturalmente gli abitanti delle zone in cui si combatteva,
costretti a lasciare le loro case e le loro terre.
C'era poi il problema di chi risiedeva in un paese diverso dalla propria patria
d'origine e che poteva trovarsi improvvisamente nella condizione di nemico:
soggetto quindi alla confisca dei beni e a una serie di restrizioni personali
che potevano arrivare all'internamento.
Infine le minoranze etniche che avevano nel passato recente manifestato
aspirazioni indipendentiste erano ovunque tenute sotto controllo perché
sospettate di scarsa lealtà nei confronti della nazione in guerra.
Lo sterminio degli armeni
Un caso limite, a questo proposito, fu quello degli armeni.
Questa antica popolazione di religione cristiana abitava prevalentemente in una
regione del Caucaso divisa fra l'Impero ottomano e quello russo.
Già alla fine dell'800, e ancor più dopo la rivoluzione dei «Giovani turchi» del
1908, gli armeni di Turchia avevano pagato con persecuzioni e massacri i loro
tentativi di ribellione.
Nella primavera-estate del 1915, mentre Russia e Turchia si combattevano nel
Caucaso (e gli anglo-francesi cercavano di sbarcare sulle coste dei Dardanelli),
gli armeni che vivevano nella parte turca di quella regione, sospettati di
intesa col nemico russo, furono sottoposti a una brutale deportazione nelle zone
interne dell'Anatolia che, per la maggior parte di loro (oltre un milione), si
trasformò in sterminio.
Le trasformazioni nell'economia
Al di là dei lutti e delle sofferenze legate, direttamente o indirettamente,
alle operazioni militari, la guerra produsse una serie di profonde e durature
trasformazioni in tutti i paesi che vi furono coinvolti.
I mutamenti più vistosi furono quelli che interessarono il mondo dell'economia e
in particolare il settore industriale, chiamato ad alimentare la macchina
gigantesca degli eserciti al fronte. Le industrie interessate alle forniture
belliche (siderurgiche, meccaniche e chimiche in primo luogo) conobbero uno
sviluppo imponente, al di fuori di qualsiasi legge di mercato.
Tutto ciò impose una riorganizzazione dell'apparato produttivo e una continua
dilatazione dell'intervento statale, che assunse dimensioni incompatibili col
modello liberale ottocentesco.
Interi settori dell'industria furono posti sotto il controllo dei militari; la
produzione agricola fu assoggettata a un regime di requisizioni e di prezzi
controllati; in molti paesi si giunse al razionamento dei beni di consumo di
prima necessità.
La propaganda
Strumento essenziale per la mobilitazione dei cittadini era la propaganda:
una propaganda che non si rivolgeva soltanto alle truppe, ma cercava anche di
raggiungere in tutti i modi possibili la popolazione civile.
I governi di tutti i paesi profusero un impegno senza precedenti per stampare
manfesti murari, organizzare manifestazioni di solidarietà ai combattenti,
incoraggiare la nascita di comitati e associazioni «per la resistenza interna».
Si trattava di mezzi ancora rudimentali, che rivelavano tuttavia la
preoccupazione dei governi nel "curare" l'opinione pubblica e nel cercarne
l'appoggio: preoccupazione che diventava tanto più forte quanto più si
rafforzavano le correnti di opposizione alla guerra.
La svolta del 1917
La rivoluzione in Russia e l'intervento americano
Nei primi mesi del 1917 due novità intervennero a mutare il corso della
guerra e dell'intera storia europea e mondiale.
All'inizio di marzo (fine febbraio secondo il calendario russo) uno sciopero
generale degli operai di Pietrogrado (questo il nuovo nome assunto dalla
capitale russa dopo l'estate del '14) si trasformò in un'imponente
manifestazione politica contro il regime zarista. Quando i soldati chiamati a
ristabilire l'ordine rifiutarono di sparare sulla folla e fraternizzarono coi
dimostranti, la sorte della monarchia fu segnata: lo zar abdicò il 15 marzo e
pochi giorni dopo venne arrestato con l'intera famiglia reale.
Si metteva in moto, così, un processo che avrebbe portato in breve tempo al
collasso militare della Russia e alla firma dell'armistizio.
Il 6 aprile gli Stati Uniti dichiaravano guerra alla Germania che aveva ripreso
la guerra sottomarina indiscriminata, in precedenza sospesa proprio per le
proteste americane. L'intervento americano, pur facendo sentire il suo peso solo
dopo parecchi mesi, sarebbe risultato decisivo sia sul piano militare sia su
quello economico, tanto da compensare il gravissimo colpo subito dall'Intesa con
l'uscita di scena della Russia.
La stanchezza degli eserciti
Nell'immediato, infatti, gli avvenimenti russi incisero negativamente sul
morale delle truppe.
In Francia come in Italia si fecero più frequenti gli episodi di
insubordinazione dei reparti combattenti e le proteste popolari contro la
guerra. Anche negli Imperi centrali si andavano frattanto moltiplicando i segni
di stanchezza.
Particolarmente delicata era, all'inizio del '17, la posizione dell'Impero
austro-ungarico, dove prendevano forza le aspirazioni indipendentiste delle
«nazionalità oppresse» (polacchi, cechi, slavi del Sud). Consapevole del
pericolo di disgregazione cui era esposto l'Impero, il nuovo imperatore Carlo I
(Francesco Giuseppe era morto nel novembre del '16 dopo quasi settant'anni di
regno) avviò tra il febbraio e l'aprile del '17 negoziati segreti in vista di
una pace separata. Ma le sue proposte furono respinte dall'Intesa.
Benedetto XV e l'«inutile strage»
Non ebbe miglior fortuna una iniziativa promossa in agosto dal papa Benedetto
XV che invitò i governi a por fine all'inutile strage» e a prendere in
considerazione l'ipotesi di una pace senza annessioni.
Tanto più cresceva il carico di sofferenze imposto dalla guerra, tanto meno i
responsabili degli Stati belligeranti erano disposti ad ammettere che tutto ciò
potesse essere considerato «inutile» e ad accontentarsi di altro che della
vittoria finale.
Le difficoltà dell'Italia: Caporetto
Anche per l'Italia il 1917 fu l'anno più difficile della guerra. Fra maggio e
settembre il generale Cadorna ordinò una nuova serie di offensive sull'Isonzo,
con risultati modesti e costi umani ancora più pesanti che in passato.
In questa situazione, i comandi austro-tedeschi decisero di profittare della
disponibilità di truppe provenienti dal fronte russo per infliggere un colpo
decisivo all'Italia. Il 24 ottobre 1917, un'armata austriaca rinforzata da sette
divisioni tedesche attaccò le linee italiane sull'alto Isonzo e le sfondò nei
pressi del villaggio di Caporetto.
"Caporetto"
La manovra fu così efficace e inattesa che le truppe italiane, per evitare di essere accerchiate, dovettero abbandonare precipitosamente le posizioni che tenevano dall'inizio della guerra. Solo dopo due settimane un esercito praticamente dimezzato riusciva ad attestarsi sulla nuova linea difensiva del Piave.
Il fronte sul Piave
La reazione alla sconfitta
Prima di essere rimosso dal comando supremo, dove fu sostituito da Armando
Diaz, il generale Cadorna gettò le colpe della disfatta sui suoi stessi soldati,
accusando i reparti investiti dall'offensiva di essersi arresi senza combattere.
In realtà la rottura del fronte era stata determinata dagli errori dei comandi,
che si erano lasciati cogliere impreparati dall'attacco sull'alto Isonzo, ed era
diventata irreparabile per l'efficacia della manovra ideata dagli strateghi
tedeschi.
Paradossalmente questa disfatta ebbe ripercussioni positive sul corso della
guerra italiana. La ritirata sul Piave consentì un notevole accorciamento del
fronte e quindi un minor logorio dei reparti combattenti. I soldati si trovarono
inoltre a combattere una guerra difensiva, contro un nemico che occupava una
parte del territorio nazionale: ciò contribuì a rendere più comprensibili gli
scopi del conflitto e ad aumentare il senso di coesione patriottica.
Fu costituito un nuovo governo di coalizione nazionale presieduto da Vittorio
Emanuele Orlando e le forze politiche parvero trovare una maggiore concordia.
Anche il nuovo comandante supremo, Diaz, si mostrò più attento di Cadorna alle
condizioni materiali e morali dei soldati, garantendo loro vitto più abbondante
e licenze più frequenti.
Infine, dall'inizio del 1918, fu svolta un'opera sistematica di propaganda fra
le truppe, che si avvaleva anche della collaborazione di numerosi intellettuali
di prestigio. Si cercò di prospettare la possibilità di vantaggi materiali per i
combattenti e l'intero paese in caso di vittoria, ma ci si sforzò anche di
presentare la guerra come una lotta per un più giusto ordine interno e
internazionale.
La rivoluzione d'ottobre
Fra tutti gli sconvolgimenti politici e sociali provocati dalla prima guerra
mondiale, la rivoluzione russa fu non soltanto il più violento e traumatico, ma
anche il più imprevisto, almeno nei suoi sviluppi.
Quando, all'inizio del '17, il regime zarista fu abbattuto dalla rivolta degli
operai e dei soldati di Pietrogrado, pochi immaginavano che ne sarebbe seguito
il più grande evento rivoluzionario mai verificatosi nel mondo dopo la
Rivoluzione francese.
Il governo provvisorio e i partiti
Dopo la caduta dello zar (in marzo), si formò nella capitale un
governo provvisorio che aveva l'obiettivo dichiarato di continuare la guerra a
fianco dell'Intesa e di promuovere nel contempo la modernizzazione, politica ed
economica, del paese.
Condividevano questa prospettiva non solo i gruppi liberal-moderati che facevano
capo al partito dei cadetti (= KD, ossia costituzionali-democratici), ma anche i
socialisti menscevichi (ossia 'minoritari') che si ispiravano ai modelli della
socialdemocrazia europea, e i social-rivoluzionari, che avevano solide radici
nella società rurale russa e interpretavano le aspirazioni delle masse contadine
a una radicale riforma agraria.
Rappresentanti di tutti e tre i partiti entrarono, nel maggio '17, nel governo
provvisorio.
Gli unici a rifiutare ogni partecipazione al potere furono i bolscevichi ('maggioritari'),
la frazione intransigente della socialdemocrazia russa, guidata da Lenin.
I soviet
Come già era accaduto nella rivoluzione del 1905, al potere "legale" del
governo si affiancò subito il potere di fatto dei consigli (soviet, in
russo), degli operai e dei soldati.
I membri dei soviet erano espressi direttamente dai lavoratori, ed erano
continuamente revocabili, secondo un principio di democrazia diretta ispirato
all'esperienza della Comune di Parigi del 1871.
Il più importante di questi soviet, quello della capitale Pietrogrado, agiva
come una specie di parlamento proletario, spesso in contrasto con le
disposizioni del governo. Quello che la rivoluzione aveva ormai messo in moto
era un movimento di massa che respingeva l'idea di un'autorità centrale, era
favorevole a un diffuso potere dal basso e, soprattutto, voleva porre fine alla
guerra.
Lenin e le Tesi d'aprile
Questa era la situazione nell'aprile del '17, quando Vladimir Il'ič
Ul'janov (nome di battaglia: Lenin), leader dei bolscevichi, rientrò in Russia
dalla Svizzera dopo un avventuroso viaggio attraverso l'Europa in guerra. Il
viaggio era stato reso possibile dalla copertura delle autorità tedesche che,
conoscendo le idee di Lenin sulla guerra, speravano di accelerare l'uscita della
Russia dal conflitto.
Non appena giunto a Pietrogrado, Lenin diffuse un documento in dieci punti – le
cosiddette Tesi d'aprile – in cui poneva il problema della presa del
potere, rovesciando la teoria marxista ortodossa, secondo cui la rivoluzione
proletaria sarebbe scoppiata prima nei paesi più sviluppati.
Il primo obiettivo era quello di conquistare la maggioranza nei soviet –
riconosciuti come unica legittima fonte del potere – e di lanciare le parole
d'ordine della pace, della terra ai contadini poveri, del controllo della
produzione da parte dei consigli operai.
I bolscevichi al potere
Il primo scontro fra i bolscevichi e il governo provvisorio si ebbe a
Pietrogrado a metà luglio, quando soldati e operai armati scesero in piazza per
impedire la partenza per il fronte di alcuni reparti. Ma l'insurrezione fallì. A
settembre un tentativo di colpo di Stato promosso dal capo dell'esercito, il
generale Kornilov, fu sventato dal governo, guidato dal social-rivoluzionario
Aleksandr Kerenskij.
A uscire rafforzati da questa vicenda furono però soprattutto i bolscevichi,
principali protagonisti della mobilitazione popolare contro il colpo di Stato,
che conquistarono la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e di Mosca.
La decisione di rovesciare il governo fu presa dai bolscevichi in ottobre.
Organizzatore dell'insurrezione fu Lev Davidovič
Bronstein, noto con lo pseudonimo di Trotzkij, eletto presidente del soviet di
Pietrogrado.
La mattina del 7 novembre (25 ottobre per il calendario russo) soldati
rivoluzionari e guardie rosse (ossia milizie operaie) circondarono il Palazzo
d'Inverno, già residenza dello zar e ora sede del governo provvisorio, e se ne
impadronirono la sera stessa.
I primi decreti rivoluzionari
In quegli stessi giorni, si riuniva a Pietrogrado il Congresso rivoluzionario
panrusso dei soviet, cioè l'assemblea dei delegati dei soviet di tutte le
province dell'ex Impero russo.
Come suo primo atto il Congresso varò due decreti, proposti personalmente da
Lenin:
- l'appello a tutti i popoli dei paesi belligeranti «per una pace giusta e
democratica [...] senza annessioni e senza indennità»;
- l'abolizione della grande proprietà terriera «immediatamente e senza alcun
indennizzo».
Lo scioglimento dell'Assemblea costituente
La fulminea presa del potere da parte dei bolscevichi colse di sorpresa tutte
le altre forze politiche.
Menscevichi, cadetti e socialrivoluzionari non organizzarono una reazione
efficace e preferirono puntare le loro carte sulle elezioni dell'Assemblea
costituente, fissate per la fine di novembre, in cui, effettivamente, i
risultati delle urne costituirono una delusione per i bolscevichi, che ottennero
meno di un quarto dei seggi.
Quasi scomparsi dalla scena i menscevichi e i cadetti, i veri trionfatori delle
elezioni furono i socialrivoluzionari, che si assicurarono la maggioranza
assoluta, grazie al massiccio sostegno dell'elettorato rurale.
Ma i bolscevichi non avevano alcuna intenzione di rinunciare al potere appena
conquistato.
Riunitasi la prima volta all'inizio di gennaio, l'Assemblea costituente fu
immediatamente sciolta dall'intervento dei militari bolscevichi, che ubbidivano
a un ordine del Congresso dei soviet.
Questo nuovo atto di forza, coerente con le idee espresse più volte da Lenin che
non credeva alle regole della «democrazia borghese», segnava una rottura
irreversibile con le altre componenti del movimento socialista e con tutta la
tradizione democratica occidentale.
Guerra civile e dittatura
Il trattato di Brest-Litovsk
Se era stato relativamente facile per i bolscevichi impadronirsi del potere
centrale, molto più difficile – per un partito che contava nel novembre '17
circa 70 mila iscritti su una popolazione di oltre 150 milioni di abitanti – si
presentava il compito di gestire questo potere, di amministrare un paese
immenso, di governare una società tanto complessa quanto arretrata, di
affrontare i tremendi problemi ereditati dal vecchio regime, primo fra tutti
quello della guerra.
Il governo rivoluzionario decise immediatamente l'uscita dal conflitto, firmando
il 5 dicembre l'armistizio con gli Imperi centrali. Ma dovette trattare in
condizioni di palese inferiorità, e alla fine fu costretto ad accettare tutte le
durissime condizioni imposte dai tedeschi.
La pace separata con la Germania, che fu conclusa il 3 marzo 1918 con la firma
del trattato di Brest-Litovsk, comportava infatti la perdita di tutti i
territori non russi dell'ex Impero (circa un quarto della sua parte europea),
dove sarebbero sorti nuovi Stati indipendenti.
L'inizio della guerra civile
Gravissime furono poi le conseguenze del trattato a livello dei rapporti
internazionali. Le potenze dell'Intesa, ancora impegnate contro gli Imperi
centrali e preoccupate di un possibile contagio rivoluzionario, considerarono la
pace di Brest-Litovsk un tradimento e cominciarono ad appoggiare le forze
antibolsceviche che, già dalla fine del '17, si erano andate organizzando in
varie zone del paese, per lo più sotto la guida di ex ufficiali zaristi.
Fra la primavera e l'estate del 1918 si ebbero sbarchi di truppe anglo-francesi
prima nel nord della Russia e poi sulle coste del Mar Nero, mentre reparti
statunitensi e giapponesi penetravano nella Siberia orientale.
Guerra civile in Russia
L'arrivo dei contingenti stranieri servì a rafforzare l'opposizione al
governo bolscevico – soprattutto quella dei monarchico-conservatori, i
cosiddetti bianchi – e ad alimentare la guerra civile in diverse zone del paese.
La prima minaccia venne dall'Est, dove i bianchi assunsero il controllo di vasti
territori della Siberia penetrando, nell'estate del '18, nella zona fra gli
Urali e il Volga: fu in questa circostanza che lo zar e tutta la sua famiglia,
prigionieri nella città di Ekaterinburg, furono giustiziati per ordine del
soviet locale nel timore che fossero liberati dai controrivoluzionari.
Nell'estate del '19, le potenze straniere avrebbero cominciato a ritirare le
loro truppe, per le proteste che l'intervento suscitava nei loro paesi e per il
pericolo di un "contagio rivoluzionario" fra i soldati.
Nella primavera del '20 la fase più acuta della guerra civile si sarebbe chiusa,
dopo oltre due anni di combattimenti che avevano provocato perdite gravissime da
ambo le parti e sofferenze inaudite per l'intera popolazione.
La stretta autoritaria
Frattanto il regime rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari. Si
era cominciato, già nel dicembre '17, con la creazione di una polizia politica,
la Ceka. Nello stesso periodo era stato istituito un Tribunale rivoluzionario
centrale, col compito di processare chiunque disubbidisse al «governo operaio e
contadino».
Nel giugno '18 vennero messi fuori legge i partiti d'opposizione e fu
reintrodotta la pena di morte che era stata abolita subito dopo la rivoluzione
d'ottobre. Arresti arbitrari ed esecuzioni sommarie di «nemici di classe»
entrarono sin da allora nella realtà quotidiana del nuovo regime.
L'Armata rossa
Si procedeva nel contempo alla riorganizzazione dell'esercito, ricostituito
ufficialmente nel febbraio '18 col nuovo nome di Armata rossa degli operai e dei
contadini. Artefice principale dell'operazione fu Trotzkij che, servendosi anche
di ufficiali del vecchio esercito zarista, costruì una potente macchina da
guerra, fondata su una ferrea disciplina.
Ad assicurare la lealtà al governo rivoluzionario provvedevano figure di nuova
istituzione, i commissari politici, distaccati dal partito presso le unità
combattenti.
La sfida rivoluzionaria
La creazione di un esercito efficiente, decisiva per la vittoria nella guerra civile, avrebbe consentito anche in seguito alla Russia sovietica di sopravvivere allo scontro con i suoi numerosi nemici, interni ed esterni. Nasceva così un nuovo modello di Stato a partito unico dai tratti spietatamente autoritari, prototipo, come vedremo, di molti regimi antidemocratici che si sarebbero affermati negli anni successivi, eppure capace di proporsi, col suo radicale messaggio di eguaglianza sociale, come agente di liberazione per i popoli di tutto il mondo e come permanente minaccia per l'ordine economico e per gli equilibri internazionali dell'intero Occidente.
1918. La sconfitta degli Imperi centrali
I «quattordici punti» di Wilson
Per scongiurare la minaccia di una diffusione del modello rivoluzionario
bolscevico, gli Stati dell'Intesa accentuarono, nella fase finale della guerra,
il carattere ideologico dello scontro, presentandolo sempre più come una
crociata della democrazia contro l'autoritarismo, come una difesa della libertà
dei popoli contro i disegni egemonici dell'imperialismo tedesco.
Questa concezione della guerra trovò il suo interprete più autorevole nel
presidente americano Woodrow Wilson.
Nel gennaio 1918 Wilson precisò le linee ispiratrici della sua politica in un
programma di pace in quattordici punti. Oltre a formulare una serie di proposte
concrete circa il nuovo assetto europeo nel rispetto dei principi di nazionalità
e di autodeterminazione, il presidente americano proponeva l'abolizione della
diplomazia segreta, il ripristino della libertà di navigazione, la soppressione
delle barriere doganali, la riduzione degli armamenti.
Nell'ultimo punto si proponeva infine l'istituzione di un nuovo organismo
internazionale, la Società delle nazioni, per assicurare il mutuo rispetto delle
norme di convivenza fra i popoli.
La controffensiva dell'Intesa
Sul fronte bellico l'inizio del 1918 vedeva ancora i due schieramenti in una
situazione di sostanziale equilibrio.
La partita decisiva continuava a giocarsi sul fronte francese. Fu qui che la
Germania tentò la sua ultima e disperata scommessa impegnando tutte le forze
rese disponibili dalla firma della pace con la Russia. In giugno l'esercito
tedesco era di nuovo sulla Marna e Parigi era sotto il tiro dei cannoni a lunga
gittata. Sempre in giugno gli austriaci tentarono di sferrare il colpo decisivo
sul fronte italiano attaccando in forze sul Piave e nella zona del Monte Grappa,
ma furono respinti dopo una settimana di furiosi combattimenti.
Alla fine di luglio le forze dell'Intesa, ormai superiori in uomini e mezzi
grazie al massiccio apporto degli Stati Uniti, passarono al contrattacco. Fra
l'8 e l'11 agosto, nella grande battaglia di Amiens, i tedeschi subirono la
prima grave sconfitta sul fronte occidentale. Da quel momento cominciarono ad
arretrare lentamente, mentre fra le loro truppe si facevano più evidenti i segni
di stanchezza.
La fine dell'Austria-Ungheria
Alla fine di ottobre si consumò la crisi finale dell'Austria-Ungheria.
Cecoslovacchi e slavi del Sud proclamarono l'indipendenza, mentre i soldati
abbandonavano il fronte in numero sempre maggiore.
Quando, il 24 ottobre, gli italiani lanciarono un'offensiva sul Piave, l'Impero
era ormai in piena crisi. Sconfitti sul campo nella battaglia di Vittorio
Veneto, gli austriaci il 3 novembre firmarono a Villa Giusti, presso Padova,
l'armistizio con l'Italia che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo.
La resa della Germania
Intanto la situazione precipitava anche in Germania.
Ai primi di ottobre si era formato un nuovo governo di coalizione democratica,
con la partecipazione dei socialdemocratici e del Centro cattolico. Si sperava
che un governo realmente rappresentativo potesse costituire un interlocutore più
credibile per l'Intesa al tavolo delle trattative.
Ai primi di novembre i marinai di Kiel, dov'era concentrato il grosso della
flotta tedesca, si ammutinarono e diedero vita, assieme agli operai della città,
a consigli rivoluzionari ispirati all'esempio russo. Il moto si propagò a
Berlino e in Baviera e ad esso parteciparono anche i socialdemocratici, pure
presenti nel governo "legale" del Reich.
Il 9 novembre a Berlino un socialdemocratico, Friedrich Ebert, fu proclamato
capo del governo, mentre Guglielmo II era costretto a fuggire in Olanda e veniva
proclamata la Repubblica.
L'11 novembre i delegati del governo provvisorio tedesco firmavano l'armistizio
nel villaggio francese di Rethondes.
Il bilancio della guerra
La Germania perdeva così una guerra che più degli altri aveva contribuito a
far scoppiare. La perdeva per fame e per stanchezza, ma senza essere stata
schiacciata sul piano militare e senza che il suo territorio fosse stato invaso
da eserciti stranieri.
Gli Stati dell'Intesa, vincitori grazie all'apporto, tardivo ma decisivo, di una
potenza extraeuropea, uscivano dal conflitto scossi e provati per l'immane
sforzo sostenuto.
La guerra si chiudeva non solo con un tragico bilancio di perdite umane (8
milioni e mezzo di morti, oltre 20 milioni di feriti gravi e mutilati), ma anche
con un drastico ridimensionamento del peso politico del vecchio continente sulla
scena internazionale.
Vincitori e vinti
La conferenza della pace
Il 18 gennaio 1919, nella reggia di Versailles, presso Parigi, si aprirono i
lavori della conferenza della pace. Vi parteciparono i rappresentanti di
trentadue paesi dei cinque continenti (compresi alcuni Stati appena costituiti),
molti dei quali avevano svolto nella guerra un ruolo marginale, mentre rimasero
esclusi i paesi sconfitti, chiamati solo a ratificare le decisioni che li
riguardavano.
Tutte le materie più importanti vennero in realtà riservate ai cosiddetti
"quattro grandi", ossia ai capi di governo delle principali potenze vincitrici:
l'americano Wilson, il francese Clemenceau, l'inglese Lloyd George e l'italiano
Orlando, quest'ultimo però spesso tagliato fuori nei momenti decisivi.
I leader delle potenze vincitrici avevano il compito di ridisegnare la carta
politica del vecchio continente, sconvolta dal crollo contemporaneo di quattro
imperi (russo, austroungarico, tedesco e turco).
Il nuovo equilibrio non poteva non tener conto dei principi di democrazia e di
giustizia internazionale enunciati nei «quattordici punti» di Wilson; in realt,
però, la realizzazione di quel programma si rivelò assai problematica: i
principi wilsoniani, infatti, non sempre erano compatibili con l'esigenza di
punire in qualche modo gli sconfitti – considerati i soli responsabili della
guerra – e di premiare i vincitori, o quanto meno di garantirli, anche sul piano
territoriale, contro la possibilità di rivincite da parte degli ex nemici.
II trattato di Versailles
Il contrasto risultò evidente soprattutto quando furono discusse le
condizioni da imporre alla Germania.
Il trattato, che venne firmato a Versailles il 28 giugno 1919, fu in realtà
un'imposizione – un Diktat, ovvero un "dettato", come allora fu definito
– subita sotto la minaccia dell'occupazione militare e del blocco economico.
Dal punto di vista territoriale era previsto, oltre alla restituzione alla
Francia dell'Alsazia-Lorena, annessa nel 1871, il passaggio alla ricostituita
Polonia di alcune regioni orientali abitate solo in parte da tedeschi: l'Alta
Slesia, la Posnania, più una striscia della Pomerania – il cosiddetto corridoio
polacco – che interrompeva la continuità territoriale fra Prussia occidentale e
Prussia orientale, per consentire alla Polonia di affacciarsi sul Baltico e
accedere al porto di Danzica. Questa città, abitata in prevalenza da tedeschi,
veniva anch'essa tolta alla Germania e trasformata in «città libera».
La Germania venne privata anche delle sue colonie in Africa e in Oceania,
spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone.
Smilitarizzazione e riparazioni
Ma la parte più pesante del Diktat era costituita dalle clausole
economiche e militari.
Indicata nel testo stesso del trattato come responsabile della guerra, la
Germania dovette impegnarsi a rifondere ai vincitori, a titolo di riparazione, i
danni subiti in conseguenza del conflitto. Fu inoltre costretta ad abolire il
servizio di leva, a rinunciare alla marina da guerra, a ridurre la consistenza
del proprio esercito entro il limite di 100 mila uomini e a lasciare
«smilitarizzata» (priva cioè di reparti armati e di fortificazioni) l'intera
valle del Reno, che sarebbe stata presidiata per quindici anni da truppe
inglesi, francesi e belghe.
Erano condizioni umilianti, tali da ferire profondamente l'orgoglio nazionale
tedesco. Ma erano anche, agli occhi dei francesi, l'unico mezzo per impedire
alla Germania di riprendere la sua posizione di grande potenza.
La dissoluzione dell'impero asburgico
Un problema completamente diverso era costituito dal riconoscimento delle
nuove realtà nazionali emerse dalla dissoluzione dell'Impero asburgico.
La nuova Repubblica di Austria si trovò ridotta entro un territorio di appena 85
mila km2 (più o meno quello che occupa attualmente), abitato da sei
milioni e mezzo di cittadini di lingua tedesca: più di un quarto risiedevano a
Vienna, una capitale ormai sproporzionata alle dimensioni e alle risorse del
piccolo Stato.
Un trattamento severo toccò anche all'Ungheria che, costituitasi in repubblica
nel novembre '18, perse non solo le regioni slave (Slovacchia, Croazia) fin
allora dipendenti da Budapest, ma anche alcuni territori abitati in prevalenza
da popolazioni magiare.
Le nuove nazioni
A trarre vantaggio dal crollo dell'Impero asburgico, oltre all'Italia, furono
soprattutto i popoli slavi.
I polacchi della Galizia si unirono alla nuova Polonia, formata da territori già
appartenenti agli imperi russo e tedesco. I cechi e gli slovacchi confluirono
nella Repubblica di Cecoslovacchia, uno Stato federale che comprendeva anche una
minoranza di tre milioni di tedeschi (residenti nella regione dei Sudeti). Gli
slavi del Sud – cioè gli abitanti della Croazia, della Slovenia e della
Bosnia-Erzegovina – si unirono alla Serbia e al Montenegro per dar vita alla
Jugoslavia.
Il crollo dell'Impero ottomano
Il nuovo assetto balcanico era completato dall'ingrandimento della Romania, dal ridimensionamento della Bulgaria e dalla quasi completa estromissione dall'Europa dell'Impero ottomano che, privato contemporaneamente di tutti i suoi territori arabi, si trasformava di fatto in uno Stato nazionale turco, conservando la sola penisola dell'Anatolia, tranne la regione di Smirne assegnata alla Grecia. Dell'antico impero restava ormai solo un involucro formale, che mascherava il tentativo delle potenze vincitrici di spartire il paese in zone di influenza a loro riservate.
La Russia e le repubbliche baltiche
Restava aperto il problema dei rapporti con la Russia rivoluzionaria.
Gli Stati vincitori non riconobbero la Repubblica socialista, mentre furono
riconosciute e protette, proprio in funzione antisovietica, le nuove repubbliche
indipendenti che si erano formate nei territori baltici persi dalla Russia con
il trattato di Brest-Litovsk: la Finlandia, l'Estonia, la Lettonia e la
Lituania.
L'indipendenza dell'Irlanda
L'Europa uscita dalla conferenza di Parigi contava dunque ben otto nuovi Stati. A essi si sarebbe aggiunto nel 1921 lo Stato libero d'Irlanda, cui la Gran Bretagna si risolse a concedere l'indipendenza, anche se nell'ambito del Commonwealth e con l'esclusione del Nord protestante (Ulster). Tale accordo fu però contestato dall'ala radicale degli indipendentisti.
L'Europa dopo il Trattato di Versailles
La Società delle nazioni
Ad assicurare il rispetto dei trattati e la salvaguardia della pace avrebbe
dovuto provvedere la Società delle nazioni.
Il nuovo organismo prevedeva nel suo statuto la rinuncia da parte degli Stati
membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti e l'adozione di
sanzioni economiche nei confronti degli Stati aggressori. Ma nasceva minato in
partenza da profonde contraddizioni, tra cui la più grave era l'esclusione
iniziale dei paesi sconfitti e della Russia.
Il colpo più duro alla Società
delle nazioni, però, arrivò proprio dagli Stati Uniti, cioè dal paese che più di
ogni altro ne aveva voluto la nascita: nel marzo 1920, infatti, il Senato
statunitense rifiutò di ratificare i trattati di Versailles, che includevano
l'adesione al nuovo organismo.
Mentre per gli Stati Uniti cominciava una stagione di isolazionismo, ossia di
rifiuto delle responsabilità mondiali e di ritorno a una sfera di interessi
continentali, la Società delle nazioni finì con l'essere egemonizzata da Gran
Bretagna e Francia e non fu in grado di prevenire i conflitti che costellarono
gli anni fra le due guerre mondiali.
Il mito e la memoria
La comunità dei combattenti
La prima guerra mondiale fu, come pochi altri eventi della storia
contemporanea, una grande produttrice di miti.
Lo fu innanzitutto per coloro che la combattevano. La condizione di disagio
psicologico oltre che materiale, di sradicamento e di spaesamento vissuta dalla
maggior parte dei soldati portò molti di loro a sviluppare forme diverse di fuga
dalla realtà: dunque a coltivare credenze irrazionali, ad accettare come vere
notizie fantastiche, a immaginare apparizioni miracolose o eventi
sovrannaturali.
Anche la tendenza, naturale e in parte giustificata, a sentirsi parte di una
comunità omogenea e compatta – quella delle trincee – contrapposta a una società
egoista e ingrata, insensibile ai sacrifici di chi stava al fronte, si trasformò
un po' in tutti i paesi in una visione distorta e semplificata della realtà, in
cui alla frattura fisica che opponeva il proprio fronte a quello nemico si
sommava la frattura morale tra combattenti e "imboscati".
Il culto dei caduti
Anche negli anni successivi alla fine del conflitto, la guerra
continuò a lungo a essere oggetto di rappresentazione e di trasfigurazione
mitica.
L'entità senza precedenti delle perdite umane, che ovviamente avevano colpito
soprattutto le generazioni più giovani, lasciò una traccia profonda e aprì una
ferita non rimarginabile nella memoria privata delle famiglie e degli stessi
commilitoni, ma anche nella memoria pubblica dei paesi coinvolti nel conflitto.
Comune alla dimensione privata e a quella pubblica era il tentativo di
elaborare, per quanto possibile, il lutto, di trovare a posteriori
giustificazioni ideali a tanta sofferenza, in nome del patriottismo e della
difesa della nazione.
Ne risultò spesso una visione idealizzata della guerra, che nel ricordo veniva
depurata dei suoi orrori e delle sue crudeltà e rivissuta nella chiave
dell'eroismo, del volontario martirio: una sorta di santificazione laica di
coloro che erano caduti nell'adempimento del dovere.
Luoghi della memoria
Non si trattava certo di una novità: la celebrazione dei morti in guerra, ben
presente fin dall'antichità classica e alimentata da una cospicua tradizione
letteraria, era stata rinverdita dalla cultura romantica che vedeva negli
eserciti basati sulla leva in massa l'espressione della nazione in armi, e ancor
più con la diffusione del volontariato nel corso delle lotte per l'indipendenza
e delle rivoluzioni ottocentesche.
Nuove erano però le dimensioni del fenomeno, proporzionate alla vastità del
conflitto e al numero delle vittime.
Nuova la partecipazione emotiva di massa e più esteso l'impegno delle autorità
pubbliche nelle iniziative in ricordo dei caduti.
Non solo furono eretti grandi mausolei nei luoghi dei combattimenti più
sanguinosi (Tannenberg in Prussia orientale, Verdun in Francia, Redipuglia in
Italia), ma in moltissimi centri, compresi i piccoli comuni, sorsero monumenti
ai caduti che celebravano il sacrificio dei soldati del luogo, i cui nomi erano
elencati sul marmo.
Ai monumenti si aggiunsero parchi e viali "della rimembranza" (questo il nome
che assunsero in Italia), luoghi di raccoglimento che dovevano ricordare i
caduti e al tempo stesso suggerire l'idea di una continuità della vita,
simboleggiata dagli alberi piantati nell'occasione.
Il milite ignoto
Una forma nuova di celebrazione collettiva, anch'essa commisurata alla
vastità del lutto, fu quella del "milite ignoto": la sepoltura solenne in uno
spazio pubblico delle spoglie di un soldato anonimo, scelto in rappresentanza di
tutti i combattenti morti e in particolare dei tanti di cui non era stato
possibile nemmeno il riconoscimento.
In tutti i paesi che la adottarono (cominciarono la Francia e la Gran Bretagna
nel 1920, seguite un anno dopo anche dall'Italia, che scelse per la sepoltura
l'Altare della patria, sul grande monumento a Vittorio Emanuele II), la
celebrazione del milite ignoto fu seguita con grande emozione e partecipazione
popolare. Ma rappresentò anche il tentativo delle classi dirigenti di
riunificare e pacificare una memoria che restava comunque divisa, di
riavvicinare l'immagine ufficiale ed eroica del conflitto al sentimento diffuso
in larghi strati della popolazione (anche dei paesi vincitori), che nella guerra
vedevano soprattutto una spaventosa sciagura, o addirittura un grande misfatto
collettivo di cui i responsabili avrebbero prima o poi dovuto rispondere.
La contrapposizione mai del tutto sanata fra le diverse memorie costituì un
fattore non secondario della radicalizzazione politica e sociale che avrebbe
segnato gli anni agitati del dopoguerra europeo.
UN DIFFICILE DOPOGUERRA
Le conseguenze economiche della guerra
Le difficoltà finanziarie
Quella che usciva dalla traumatica esperienza della Grande Guerra era
un'Europa sconvolta e trasformata nel profondo, e non solo per la tremenda
distruzione di vite umane e per il drastico mutamento dei confini fra gli Stati.
Macroscopiche, e per molti aspetti dirompenti, furono le conseguenze sul piano
economico. Con la sola eccezione degli Stati Uniti, tutti i paesi belligeranti
uscirono dalla prima guerra mondiale in condizioni di gravissimo dissesto. La
guerra aveva inghiottito una quantità incredibile di risorse: in Italia, in
Francia e in Germania le spese sostenute per il conflitto furono pari al doppio
del prodotto nazionale lordo dell'ultimo anno di pace, in Gran Bretagna
addirittura al triplo.
Per far fronte a queste enormi spese, i governi erano ricorsi dapprima
all'aumento delle tasse. Quindi avevano fatto appello al patriottismo dei
risparmiatori lanciando sottoscrizioni e prestiti nazionali e allargando a
dismisura il debito pubblico. Infine avevano contratto massicci debiti con i
paesi amici, in primo luogo con gli Stati Uniti.
Inflazione e prezzi
Né le tasse né i debiti erano stati comunque sufficienti a coprire le spese
di guerra.
Così i governi avevano stampato carta moneta in eccedenza, mettendo in moto un
rapido processo inflazionistico.
Fra il 1915 e il 1918 i prezzi crebbero di tre volte e mezzo in Francia, di due
volte e mezzo in Italia, di due volte in Gran Bretagna e in Germania. E nei
primi due anni del dopoguerra la tendenza risultò ulteriormente accelerata,
determinando uno sconvolgimento nella distribuzione della ricchezza e nelle
stesse gerarchie sociali: se la guerra aveva creato fortune improvvise
soprattutto fra gli industriali e gli speculatori (i cosiddetti «pescecani» o
profittatori di guerra), l'inflazione distruggeva posizioni economiche
consolidate ed erodeva i risparmi dei ceti medi, in particolare di coloro che
avevano investito in titoli del debito pubblico.
L'intervento statale
Per non aggravare le tensioni, i governi dovettero mantenere per tempi più o
meno lunghi il blocco sui prezzi dei generi di prima necessità e sui canoni
d'affitto.
D'altro canto il sostegno dei poteri pubblici era richiesto dagli industriali
che dovevano affrontare la difficile riconversione alle attività di pace.
Rimasero quindi in vita molti apparati burocratici (ministeri,
sottosegretariati, commissariati) destinati ai compiti più diversi: dal
controllo dei prezzi agli approvvigionamenti alimentari, dalle pensioni di
guerra alla composizione delle vertenze di lavoro.
Non si interruppe, anzi si rafforzò, la tendenza dei pubblici poteri a
intervenire su materie un tempo riservate alla libera iniziativa delle parti
sociali.
Grazie al sostegno dello Stato, accordato sotto forma di dazi protettivi, di
facilitazioni creditizie, di nuove commesse per la ricostruzione civile e per le
forze armate, l'industria europea riuscì in un primo tempo a mantenere i livelli
produttivi degli anni di guerra. Ma questa espansione artificiale, che si
accompagnò a una stagione di intense lotte sociali, durò meno di due anni e fu
seguita, nel 1920-21, da una fase depressiva.
Il calo degli scambi
Una pronta ripresa delle economie europee era peraltro frenata dal
calo degli scambi internazionali. Quattro anni di interruzione delle usuali
correnti di traffico avevano inferto un colpo durissimo alla tradizionale
supremazia commerciale dell'Europa.
Gli Stati Uniti e il Giappone avevano fortemente aumentato le esportazioni,
sostituendosi agli europei sui mercati dell'Asia e del Sud America.
Altri paesi, come l'Argentina e il Brasile, il Canada, il Sudafrica e
l'Australia, avevano sviluppato una propria produzione industriale allentando la
dipendenza dal vecchio continente.
Ancora più grave, nell'immediato, era per Gran Bretagna e Francia la perdita di
molti partner commerciali europei, economicamente stremati come la Germania,
isolati come la Russia, o smembrati, come l'Impero austro-ungarico, in tanti
nuovi Stati, ciascuno con la sua moneta, il suo sistema di comunicazioni, i suoi
dazi doganali.
Invece della piena libertà degli scambi auspicata nel programma di Wilson, si
ebbe nel dopoguerra una ripresa di nazionalismo economico e di protezionismo
doganale, soprattutto da parte dei nuovi Stati che volevano sviluppare una
propria industria.
I mutamenti nella vita sociale
L'evoluzione dei costumi
I mutamenti economici del dopoguerra europeo si accompagnarono e si
intrecciarono, com'era naturale, con un più ampio processo di trasformazione
della società. La guerra aveva agito come un potentissimo acceleratore dei
fenomeni sociali, provocando trasformazioni in tutti i campi della vita
associata.
L'espansione dell'industria bellica aveva spostato dalle campagne alle città
nuovi strati di lavoratori non qualificati, per lo più donne e ragazzi non
ancora in età di leva.
Il brusco distacco dal nucleo familiare di molti giovani e l'assenza prolungata
dei capifamiglia chiamati al fronte avevano messo in crisi le strutture
tradizionali della famiglia e provocato mutamenti profondi nella mentalità e
nelle abitudini delle generazioni più giovani.
C'era minor rispetto per le tradizioni e per le gerarchie consolidate. I giovani
cercavano nuove occasioni di divertimento e le trovavano nel cinema o nella
musica importata in Europa dai soldati statunitensi. I lavoratori chiedevano
maggior disponibilità di tempo libero. Tutti cercavano compensi per le
sofferenze subite o per gli anni perduti a causa della guerra.
Le donne
A risentire di questi mutamenti furono, in primo luogo, coloro che alla
guerra non avevano direttamente partecipato: le donne.
I cambiamenti più evidenti si ebbero nel mondo del lavoro: nei campi, nelle
fabbriche, negli uffici le donne presero spesso il posto degli uomini al fronte,
assumendo responsabilità e compiti fin allora sostanzialmente preclusi.
Divennero operaie nelle fabbriche di armi, guidatrici di tram, impiegate di
banca.
Anche tra le mura domestiche il loro ruolo cambiò radicalmente: da esecutrici
delle mansioni domestiche a capifamiglia di fatto.
La maggiore disponibilità
economica e la crescente consapevolezza delle proprie capacità trasformarono
l'immagine stessa della donna: le giovani, soprattutto, tendevano ad assumere
comportamenti più liberi, anche nella vita quotidiana – diminuì, in genere, il
tempo passato in casa – e nell'abbigliamento: furono abbandonati corpetti e
gonne lunghe fino ai piedi in favore di abiti più corti e leggeri.
Questo
processo di emancipazione ebbe nel dopoguerra anche un parziale riconoscimento
sul piano del diritto di voto: dopo la Gran Bretagna, che lo riconobbe nel 1918,
furono la Germania (1919) e gli Stati Uniti (1920) i principali paesi
occidentali a codificarlo nel primo dopoguerra.
Gli ex-combattenti
La trasformazione del ruolo della donna suscitò però anche forti resistenze
in ampi settori dell'opinione pubblica. A manifestare preoccupazione furono
soprattutto i reduci di guerra, che temevano di veder occupati quei posti di
lavoro cui credevano di aver diritto.
Il problema del trattamento degli ex combattenti e del loro reinserimento nel
mondo del lavoro fu tra i più urgenti per le classi dirigenti di tutti i paesi.
Chi aveva rischiato la vita sui campi di battaglia tornava a casa con la
convinzione di aver maturato un credito nei confronti della società. Quelli che
al fronte avevano avuto ruoli di comando mal si rassegnavano al ritorno a un
lavoro subordinato.
Sorsero dappertutto associazioni di ex combattenti che si mobilitavano in difesa
dei propri valori e dei propri interessi.
Nei confronti dei reduci i governanti di tutti i paesi furono larghi di
promesse; ma in realtà, a causa dei gravissimi problemi finanziari che
assillavano gli Stati europei, le provvidenze in favore dei combattenti –
polizze di assicurazione, premi di smobilitazione, pensioni per gli invalidi,
gli orfani e le vedove – furono limitate, suscitando un diffuso senso di
risentimento.
La "massificazione" della politica
Le inquietudini dei reduci erano però solo un segno di un più vasto fenomeno
di mobilitazione sociale.
La guerra aveva dimostrato l'importanza del principio di organizzazione
applicato alle masse. Per far valere i propri diritti e per affermare le proprie
rivendicazioni sembrava dunque necessario associarsi e organizzarsi in gruppi il
più possibile numerosi.
Risultò così accentuata la tendenza, già in atto, alla "massificazione" della
politica: partiti e sindacati videro aumentare ovunque il numero dei loro
iscritti, i loro apparati organizzativi divennero più complessi e centralizzati.
Persero importanza le forme tradizionali dell'attività politica nei regimi
liberali: quelle che si svolgevano nei circoli ristretti dei notabili e che
culminavano nell'azione parlamentare. Acquistavano invece maggior peso e
maggiore frequenza le manifestazioni pubbliche – comizi, dimostrazioni, adunate,
cortei – basate sulla partecipazione diretta dei cittadini.
Stati nazionali e minoranze
Nuove compagini statali
La vittoria delle potenze democratiche e il crollo degli imperi multietnici
significarono per molti popoli europei il coronamento di lunghe lotte per
l'indipendenza e parvero dar corpo agli ideali di nazionalità proclamati dai
protagonisti delle rivoluzioni ottocentesche e rilanciati, nell'ultima fase
della guerra, dai «quattordici punti» di Wilson.
Tuttavia, già nel corso della conferenza della pace l'applicazione dei principi
wilsoniani si rivelò a dir poco problematica. Una difficoltà che, se in parte
poteva essere ricondotta ai calcoli e agli egoismi delle potenze vincitrici, in
realtà nasceva soprattutto dall'oggettiva impossibilità di tradurre in atto
l'utopia mazziniana di una pacifica convivenza fra i diversi popoli, ciascuno
sovrano nel suo proprio territorio.
Etnie e territori
Questa utopia si basava infatti sul presupposto di una coincidenza pressoché
perfetta fra poche nazioni etnicamente omogenee e i territori da esse occupati.
Una condizione che poteva realizzarsi, con larga approssimazione, nei principali
Stati dell'Europa occidentale (Francia, Spagna, la stessa Italia), ma era molto
lontana dalla realtà etnico-linguistica della parte orientale del continente,
dove popoli diversi erano abituati a convivere sullo stesso territorio e dove
l'appartenenza a un gruppo nazionale non costituiva l'unico né sempre il
principale riferimento politico.
Negli antichi imperi la divisione etnica coincideva spesso con i confini di
classe più che con quelli geografici: in ampie zone della Polonia, ad esempio, i
signori erano per lo più polacchi o tedeschi, i contadini erano ucraini e
polacchi, mentre gli ebrei, concentrati in insediamenti separati (shtetl),
si dedicavano prevalentemente al commercio o alle professioni.
Nell'Impero ottomano situazioni del genere erano la regola più che l'eccezione e
i diversi gruppi etnico-religiosi potevano essere sottoposti a giurisdizioni
diverse pur vivendo sulla stessa terra.
Il problema delle minoranze
Date queste premesse, l'applicazione del principio di nazionalità non poteva
che risultare imperfetta, oltre che difficile: si è calcolato che le decisioni
di Versailles diedero una patria indipendente a circa sessanta milioni di
persone, ma ne trasformarono altri venticinque milioni in minoranze.
Una volta elevato il principio nazionale a base di legittimazione degli Stati,
quella che era una condizione generalmente accettata nei contesti multietnici
(dove pure non mancavano i conflitti e le sopraffazioni), divenne un problema da
risolvere, se non addirittura un'anomalia da estirpare. La presenza di gruppi
che parlavano lingue diverse, seguivano proprie tradizioni o professavano altre
religioni rispetto alla maggioranza fu sentita come una minaccia dai membri di
comunità nazionali che si volevano omogenee e coese.
Paradossalmente, la liberazione dei popoli dalle dominazioni straniere poteva
così dar luogo a nuove oppressioni o persecuzioni e scatenare nuovi conflitti a
sfondo nazionale.
Contese e conflitti
Già durante la conferenza di Versailles e poi nella neonata Società delle
nazioni, gli statisti europei si sforzarono di trovare soluzioni pacifiche a un
problema che tutti avevano sottovalutato.
In alcuni casi controversi (come quello dell'Alta Slesia, contesa fra Germania e
Polonia), furono indetti plebisciti per decidere l'assegnazione di un
territorio.
Più spesso si cercò di vincolare gli Stati al rispetto dei diritti delle
minoranze, primo fra tutti quello di studiare e di comunicare nella propria
lingua.
Ma queste norme furono per lo più ignorate, anche per l'incapacità della Società
delle nazioni di imporre sanzioni efficaci. Si apri dunque la strada alle
soluzioni più drastiche.
In alcuni casi – fra questi, ancora una volta, alcuni territori contesi fra
Germania e Polonia – si organizzarono scambi di popolazioni. Altre volte questi
scambi si verificarono in forma cruenta come risultato di un conflitto: per
esempio, la guerra fra Grecia e Turchia del 1922-23 portò al trasferimento
forzato, in direzioni opposte, di circa due milioni di persone in base
all'appartenenza etnica e religiosa.
Più tardi, procedendo su questa strada, si sarebbe giunti a quelle che oggi
chiamiamo "pulizie etniche", ovvero alle espulsioni in massa non mitigate da
alcun accordo fra le parti, e infine al caso estremo, già annunciato dal
massacro degli armeni durante la Grande Guerra, dello sterminio pianificato di
un intero popolo.
Il "biennio rosso": rivoluzione e controrivoluzione in Europa
Le lotte operaie
Tra la fine del 1918 e l'estate del 1920 il movimento operaio europeo fu
protagonista di un'impetuosa avanzata politica che assunse in alcuni casi
connotati rivoluzionari.
I partiti socialisti registrarono quasi ovunque notevoli incrementi elettorali.
I lavoratori organizzati dai sindacati diedero vita a un'ondata di agitazioni
che consentì agli operai dell'industria di difendere o migliorare i livelli
reali delle loro retribuzioni e di ottenere fra l'altro la riduzione dell'orario
di lavoro a otto ore giornaliere a parità di salario: un obiettivo che da
trent'anni figurava al primo posto nei programmi del movimento socialista e che
fu raggiunto quasi simultaneamente, subito dopo la fine della guerra, in tutti i
principali Stati europei.
L'ondata di lotte operaie non si esaurì nelle rivendicazioni sindacali.
Alimentate dalle vicende russe, si manifestavano aspirazioni più radicali, che
investivano direttamente il problema del potere nella fabbrica e nello Stato.
Ovunque si formarono spontaneamente consigli operai che scavalcavano le
organizzazioni tradizionali dei lavoratori e che, sull'esempio dei soviet russi,
si proponevano come organi di governo della futura società socialista.
Il fallimento dei tentativi rivoluzionari
L'ondata rossa del '19-20 si manifestò nei singoli paesi in forme e con
intensità diverse.
Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna (diverso fu il
caso dell'Italia), conservatori e moderati mantennero il controllo dei
rispettivi parlamenti e la pressione del movimento operaio fu contenuta senza
eccessive difficoltà.
Germania, Austria e Ungheria, dove le tensioni sociali si sommavano ai traumi
della sconfitta e del cambiamento di regime, furono invece teatro di tentativi
rivoluzionari, che furono però rapidamente stroncati.
Ciò che era stato possibile in Russia non fu dunque possibile negli altri paesi
europei, dove borghesia e capitalismo non erano stati prostrati ma piuttosto
trasformati dalla guerra e dove lo stesso movimento operaio era legato a una
ormai lunga esperienza di azione pacifica all'interno delle istituzioni.
La divisione del movimento operaio
La rivoluzione d'ottobre aveva però accentuato, all'interno del movimento
operaio, la frattura, già manifestatasi durante la guerra, fra le avanguardie
rivoluzionarie e il resto del movimento legato ai partiti socialdemocratici e
alle grandi centrali sindacali.
Già nel 1918, i bolscevichi avevano abbandonato l'antica denominazione di
Partito socialdemocratico, a lungo contesa con i menscevichi, per quella di
Partito comunista (bolscevico) di Russia. La scissione fu sancita ufficialmente,
nel marzo 1919, con la costituzione a Mosca di una Internazionale comunista (Comintern,
con dizione abbreviata), o Terza Internazionale.
I partiti comunisti
La struttura e i compiti del Comintern furono fissati nel II congresso, che
si tenne, sempre a Mosca, nel luglio del 1920.
Fu lo stesso Lenin a fissare in un documento in ventuno punti le condizioni da
rispettare per poter essere ammessi al nuovo organismo: i partiti aderenti al
Comintern avrebbero dovuto ispirarsi al modello bolscevico, cambiare il proprio
nome in quello di Partito comunista, difendere in tutte le sedi possibili la
causa della Russia sovietica, rompere con le correnti riformiste espellendone i
principali esponenti.
Condizioni così pesanti e ultimative suscitarono in seno al movimento operaio
europeo accesi dibattiti e gravi lacerazioni con conseguenti scissioni.
Fra la fine del '20 e l'inizio del '21 fu comunque raggiunto l'obiettivo di
creare in tutto il mondo una rete di partiti ricalcati sul modello bolscevico e
fedeli alle direttive del partito-guida. Nessuna di queste formazioni riuscì
però a conquistare il consenso maggioritario della classe operaia dei paesi più
sviluppati.
La scissione del movimento operaio, preparata e consumata nella prospettiva di
un'imminente rivoluzione europea, avrebbe invece contribuito ad aprire il varco
alla controffensiva conservatrice.
Rivoluzione in Germania
Prima di essere sancita dalle scissioni, la rottura fra socialdemocrazia e
comunismo era stata segnata nei fatti dalle vicende drammatiche che in Germania
avevano seguito la proclamazione della Repubblica.
Già al momento della firma dell'armistizio lo Stato tedesco si trovava in una
situazione tipicamente rivoluzionaria. Il governo legale, presieduto da Ebert e
con sede a Berlino, era formato da esponenti del Partito socialdemocratico (Spd),
ma nelle città i padroni della situazione erano i consigli degli operai e dei
soldati.
La situazione poteva sembrare molto simile a quella della Russia del '17. Ma le
differenze erano notevoli. I socialdemocratici tedeschi, l'unica grande forza
organizzata presente nel paese, erano decisamente contrari a una rivoluzione di
tipo sovietico e non intendevano smantellare le strutture militari e civili del
vecchio Stato fino alla convocazione di un'assemblea costituente. Si creò cosi
un'obiettiva convergenza fra i capi della Spd e gli esponenti della vecchia
classe dirigente, con in testa i militari.
L'insurrezione spartachista
La linea moderata scelta dalla Spd portava fatalmente allo scontro con le
correnti più radicali del movimento operaio, soprattutto con i rivoluzionari
della Lega di Spartaco (nucleo originario del Partito comunista tedesco), che si
opponevano alla convocazione della Costituente.
Il 5-6 gennaio 1919, gli spartachisti tentarono di rovesciare il governo di
Berlino. Durissima fu la reazione delle autorità che, non potendo contare su un
esercito efficiente, si servirono per la repressione di squadre volontarie (i
cosiddetti Freikorps, ossia "corpi franchi") formate da soldati
smobilitati e inquadrate da ufficiali di orientamento nazionalista e
conservatore.
Nel giro di pochi giorni i Freikorps schiacciarono nel sangue
l'insurrezione berlinese. I leader del movimento spartachista, Karl Liebknecht e
Rosa Luxemburg, furono arrestati e trucidati da ufficiali dei corpi franchi.
La nascita della Repubblica di Weimar
Il 19 gennaio si tennero le elezioni per l'Assemblea costituente.
La convergenza fra socialisti, cattolici e democratici rese possibile la
formazione di un governo di coalizione a guida socialdemocratica e, soprattutto,
il varo, nell'agosto 1919, della nuova Costituzione.
La Costituzione di Weimar – chiamata cosi dal nome della città in cui si
svolsero i lavori dell'assemblea – aveva un'ispirazione fortemente democratica:
prevedeva larghe autonomie regionali, il suffragio universale maschile e
femminile, un governo responsabile di fronte al Parlamento e un presidente della
Repubblica eletto direttamente dal popolo.
Né la convocazione della Costituente né il varo della Costituzione valsero però
a riportare la tranquillità nel paese.
In aprile l'epicentro del moto rivoluzionario si era spostato in Baviera, dove
era stata proclamata una Repubblica dei consigli, stroncata dall'intervento
dell'esercito e dei corpi franchi.
Non meno grave era la minaccia che veniva da destra: dai corpi franchi e dagli
stessi capi dell'esercito, pronti a dimenticare, man mano che si allontanava il
pericolo rivoluzionario, i loro impegni di lealtà alle istituzioni repubblicane.
Furono proprio quei generali che portavano la maggiore responsabilità politica
della sconfitta, e che avevano sollecitato, nell'autunno del '18, una rapida
conclusione dell'armistizio, a diffondere la leggenda della «pugnalata alla
schiena», secondo cui l'esercito tedesco sarebbe stato ancora in grado di
vincere se non fosse stato tradito da una parte del paese. Una leggenda priva di
fondamento, utile però a gettare discredito sulla Repubblica e sulla classe
dirigente che si era assunta l'ingrato compito di firmare la pace.
Rivoluzione e reazione in Austria e in Ungheria
Anche nella nuova Repubblica austriaca furono i socialdemocratici a governare
il paese nella difficile fase del trapasso di regime, mentre i comunisti
tentarono ripetutamente, senza fortuna, la carta dell'insurrezione.
Nel 1920, però, le elezioni videro prevalere il voto clericale e conservatore.
Breve e drammatica fu la vita della Repubblica democratica in Ungheria, dove
i socialisti si unirono ai comunisti per instaurare, nel marzo del 1919, una
Repubblica sovietica, che attuò una politica di dura repressione nei confronti
della borghesia e dell'aristocrazia agraria.
L'esperimento durò poco più di quattro mesi. Ai primi di agosto, la situazione
fu rovesciata dalla reazione delle forze conservatrici che scatenarono un'ondata
di «terrore bianco». L'Ungheria cadeva così sotto un regime autoritario sorretto
dalla Chiesa e dai grandi proprietari terrieri: prima applicazione di un modello
destinato a incontrare notevole fortuna nei paesi dell'Europa orientale negli
anni fra le due guerre mondiali.
La Germania di Weimar
Un esperimento democratico
Nonostante i drammatici travagli che ne avevano segnato la nascita, la
Repubblica nata dalla Costituente di Weimar rappresentò nell'Europa degli anni
'20 un modello di democrazia parlamentare aperta e avanzata.
Lo stesso rigoglio di attività intellettuali, che fece della Germania weimariana
il centro più vivace della cultura europea del tempo, era strettamente collegato
al clima di grande libertà che allora si respirava. Molti erano tuttavia i
fattori che contribuivano a indebolire il sistema repubblicano.
Debolezza politica
Un evidente motivo di debolezza stava nella accentuata frammentazione dei gruppi politici, che rendeva instabili maggioranze e governi. Per un decennio la Spd rimase il partito più forte, ma dovette misurarsi con le formazioni del centro (cattolici e liberali) e della destra conservatrice e moderata. Queste ultime non nascondevano la loro diffidenza nei confronti delle istituzioni repubblicane, indissolubilmente associate alla sconfitta, all'umiliazione di Versailles e a quella autentica tragedia nazionale che fu costituita dal problema delle «riparazioni», i risarcimenti che il paese sconfitto era tenuto a pagare ai vincitori.
Le riparazioni
Nella primavera del 1921, una commissione interalleata stabilì infatti
l'ammontare dei risarcimenti dovuti dalla Germania nella cifra, spaventosa per
quei tempi, di 132 miliardi di marchi-oro da pagare in 42 rate annuali.
L'annuncio dell'entità delle riparazioni suscitò in tutto il paese un'ondata di
proteste. I gruppi dell'estrema destra nazionalista – fra i quali si stava
mettendo in luce il piccolo Partito nazionalsocialista guidato da Adolf Hitler –
scatenarono un'offensiva terroristica contro la classe dirigente repubblicana,
accusata di tradimento per essersi piegata alle imposizioni dei vincitori.
I governi di coalizione che si succedettero fra il '21 e il '23 si impegnarono
comunque a pagare le prime rate delle riparazioni ma, per non rendersi
ulteriormente impopolari, evitarono interventi troppo drastici sulle tasse e
sulla spesa pubblica: furono quindi costretti ad aumentare la stampa di
carta-moneta.
Il risultato fu che il valore del marco precipitò, accelerando il processo
inflazionistico già in atto.
La crisi della Ruhr e la grande inflazione
Nel gennaio 1923 la Francia e il Belgio, traendo pretesto dalla mancata
corresponsione di alcune riparazioni in natura, inviarono truppe nel bacino
della Ruhr, centro della produzione carbonifera e dell'industria siderurgica
tedesca.
Impossibilitato a reagire militarmente, il governo incoraggiò la resistenza
passiva della popolazione: imprenditori e operai della Ruhr abbandonarono le
fabbriche, rifiutando ogni collaborazione con gli occupanti.
Per le già dissestate finanze tedesche l'occupazione della Ruhr rappresentò il
definitivo tracollo, poiché privava il paese di una parte delle sue risorse
produttive e costringeva il governo a ingenti spese per finanziare la resistenza
passiva.
Il marco, abbandonato al suo destino, precipitò a livelli impensabili e il suo
potere d'acquisto fu praticamente annullato: un chilo di pane giunse a costare
400 miliardi, un chilo di burro 5000.
Le conseguenze di questa polverizzazione della moneta furono sconvolgenti. Lo
Stato stampava banconote in quantità sempre maggiore e con valore nominale
sempre più alto: un milione, un miliardo, cento miliardi e così via. Ma chi
riceveva in pagamento denaro svalutato si affrettava a liberarsene in cambio di
qualsiasi cosa, aumentando così la velocità di circolazione della moneta e
alimentando ulteriormente l'inflazione.
La «grande coalizione» e il complotto di Monaco
Nel momento più drammatico della crisi la classe dirigente trovò però la
forza di reagire.
Nell'agosto 1923 si formò un governo di «grande coalizione» presieduto da Gustav
Stresemann, leader del Partito tedesco-popolare (considerato il portavoce della
grande industria). In settembre, fra le proteste dell'estrema destra, il governo
ordinò la fine della resistenza passiva nella Ruhr e riallacciò i contatti con
la Francia. Subito dopo decretò lo stato di emergenza e se ne servì per
reprimere i focolai insurrezionali diffusi nel paese e per fronteggiare la
ribellione della destra nazionalista che aveva il suo centro in Baviera.
A Monaco, nella notte fra l'8 e il 9 novembre 1923, alcune migliaia di aderenti
al Partito nazionalsocialista, guidato da Adolf Hitler, cercarono di organizzare
un'insurrezione contro il governo centrale. Ma il complotto fallì e fu
rapidamente represso. Hitler fu condannato a cinque anni di carcere (poi in
buona parte condonati) e la sua carriera politica parve precocemente conclusa.
La stabilizzazione economica
Ristabilita l'autorità dello Stato, il governo cercò di porre rimedio al caos
economico.
Nell'ottobre '23 era stata emessa una nuova moneta, il cosiddetto Rentenmark
('marco di rendita'), il cui valore era garantito dal patrimonio agricolo e
industriale della Germania: lo Stato tedesco si comportava cioè come un privato
che impegni tutti i suoi averi per gantirsi un credito.
Nel contempo veniva avviata una politica rigorosamente deflazionistica (basata
cioè sulla limitazione del credito e della spesa pubblica e sull'aumento delle
imposte) che costò ai tedeschi ulteriori sacrifici, ma consentì un graaduale
ritorno alla normalità monetaria.
Una vera stabilizzazione sarebbe stata tuttavia impossibile senza un accordo con
i vincitori sulle riparazioni.
L'accordo fu trovato, all'inizio del 1924, sulla base di un piano elaborato da
un finanziere e uomo politico statunitense, Charles G. Dawes. Il piano Dawes si
basava sull'idea che la Germania avrebbe potuto far fronte ai suoi impegni solo
se fosse stata messa in grado di rilanciare la sua economia: prevedeva quindi
che l'entità delle rate da pagare fosse graduata nel tempo e che la finanza
internazionale, in particolare quella statunitense, sovvenzionasse lo Stato
tedesco con una serie di prestiti a lunga scadenza.
Negli anni successivi grazie anche alla ripresa produttiva la situazione
politica in Germania si andò stabilizzando.
I partiti di centro e di centro-destra mantennero il potere fino al 1928, quando
i socialdemocratici riassunsero la guida del governo. Stresemann conservò
ininterrottamente fino alla sua morte, nel 1929, la carica di ministro degli
Esteri, assicurando così la continuità di quella linea di collaborazione con le
potenze vincitrici che costituì il cardine principale dell'equilibrio europeo
nella seconda metà degli anni '20.
Il dopoguerra dei vincitori
Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna, il dopoguerra
fu sicuramente meno agitato che in Europa centrale.
Ma non mancarono i conflitti e le tensioni sociali. La ripresa economica fu
lenta e problematico si rivelò il recupero di quel ruolo egemonico su cui in
teoria si sarebbero dovuti fondare gli equilibri internazionali del
dopo-Versailles.
Moderati e radicali in Francia
In Francia la maggioranza di centro-destra che controllò il governo dal '19
in poi attuò una politica fortemente conservatrice, che faceva ricadere sulle
classi popolari il peso di una difficile ricostruzione.
Solo nella primavera del '24 i radicali di sinistra, uniti ai socialisti in una
coalizione elettorale (il cartello delle sinistre), riuscirono a strappare la
maggioranza ai moderati. Ma l'esperimento ebbe breve durata, anche perché il
governo non seppe affrontare una gravissima crisi finanziaria, accentuata dalla
fuga di capitali verso l'estero.
Nel luglio del '26 la guida del governo fu assunta dal leader storico dei
moderati, l'ex presidente della Repubblica Raymond Poincaré.
Rimasto in carica per tre anni, Poincaré riuscì a stabilizzare il corso della
moneta e a risanare il bilancio statale aumentando ulteriormente la pressione
fiscale.
Le difficoltà della Gran Bretagna
Anche in Gran Bretagna furono le forze moderate a guidare il paese negli anni
critici del dopoguerra. Fra il 1918 e il 1929 i conservatori furono quasi sempre
al potere (prima coi liberali, poi da soli). La grande novità di questi anni fu
il ridimensionamento dei liberali, che consenti al Partito laburista (Labour
Party) di assumere il ruolo di principale antagonista dei conservatori.
I governi conservatori portarono avanti una politica di austerità finanziaria e
di contenimento dei salari che li fece scontrare duramente con i sindacati.
L'episodio più drammatico si verificò nel 1926 con un imponente sciopero dei
minatori, che uscirono sconfitti da un'agitazione durata ben sette mesi.
Il governo cercò di profittare di questo successo: furono vietati gli scioperi
di solidarietà e fu dichiarata illegale la pratica per cui gli aderenti alle
Trade Unions venivano iscritti "d'ufficio" al Labour Party.
I laburisti riuscirono però a risalire la corrente e ad affermarsi nelle
elezioni del 1929. Si formò così un ministero di coalizione liberal-laburista,
destinato a vita breve per il sopraggiungere della grande crisi economica
mondiale del 1929-30.
La Francia e le alleanze
Sul terreno dell'equilibrio europeo, Gran Bretagna e Francia seguirono linee
spesso divergenti.
Mentre la Gran Bretagna evitò di assumere impegni vincolanti sul continente, la
Francia, profondamente segnata dalle esperienze della guerra franco-prussiana
del 1870 e dell'attacco del 1914, cercò di costruire in funzione antitedesca una
rete di alleanze con tutti i paesi dell'Europa centro-orientale che erano stati
avvantaggiati dai trattati di Versailles – o dovevano ad essi la loro stessa
esistenza – ed erano quindi contrari a ogni ipotesi di revisione del nuovo
assetto europeo: in primo luogo la Polonia; poi la Cecoslovacchia, la Jugoslavia
e la Romania che, nel 1921, si erano unite in un'alleanza detta Piccola Intesa.
L'accordo con gli Stati dell'Est-Europa non sembrava tuttavia sufficiente ad
allontanare lo spettro di una rivincita tedesca. Da qui l'impegno quasi fanatico
dei governanti nel pretendere il rispetto integrale delle clausole di Versailles
e nell'esigere il pagamento delle riparazioni.
Gli anni della distensione
Questa linea di politica estera, culminata nell'occupazione della Ruhr, subì
un deciso mutamento nel 1924 con l'accettazione del piano Dawes.
Si inaugurò allora una fase di distensione e di collaborazione fra le due
potenze ex nemiche. Alla base dell'intesa c'era la volontà comune di
normalizzare i rapporti fra vincitori e vinti, nel quadro di un più vasto
progetto di sicurezza collettiva. Il risultato più importante dell'intesa
franco-tedesca fu rappresentato dagli accordi di Locarno dell'ottobre 1925, che
consistevano nel riconoscimento da parte di Germania, Francia e Belgio delle
frontiere comuni tracciate a Versailles e nell'impegno di Gran Bretagna e Italia
a farsi garanti contro eventuali violazioni.
La Francia otteneva cosi una garanzia internazionale ai suoi confini.
Un anno dopo la firma del patto, la Germania fu ammessa alla Società delle
nazioni. Nel giugno 1929 fu varato il piano Young che ridusse e graduò
ulteriormente le riparazioni tedesche.
Nel giugno 1930 gli ultimi reparti francesi si ritirarono dalla Renania, mentre
il governo tedesco rinnovava l'impegno a mantenere la regione smilitarizzata.
Questa stagione di distensione internazionale, tuttavia, si interruppe
bruscamente alla fine del decennio, in coincidenza con l'inizio della grande
risi economica mondiale.
Già nel settembre del '30 la Francia decise di dare il via alla costruzione di
un imiponente complesso di fortificazioni difensive (la cosiddetta linea
Maginot) lungo il confine con la Germania. Era il segno più evidente
dell'esaurirsi dello "spirito di Locarno" e della caduta delle speranze nella
"sicurezza collettiva".
La Russia comunista
La guerra con la Polonia
Negli anni dell'immediato dopoguerra, la Russia comunista rappresentò un mito
positivo, oltre che un punto di riferimento, per i rivoluzionari di tutta
Europa, cosi come la Francia lo era stata alla fine del '700.
La capacità espansiva dell'esperienza bolscevica non fu però altrettanto grande;
e ancor meno lo era la forza militare del paese in cui quell'esperienza si
incarnava. La stessa sopravvivenza del regime comunista rimase a lungo in forse.
Appena conclusa, nella primavera del '20, la guerra civile, i bolscevichi
dovettero affrontare l'attacco improvviso da parte della Polonia, che cercava di
profittare delle difficoltà del vicino per ritagliarsi confini più favorevoli.
Dopo fasi alterne (l'Armata rossa contrattaccò efficacemente e nell'agosto 1920
giunse alle porte di Varsavia per essere poi ricacciata entro i confini russi),
si giunse a un armistizio che accontentava in parte le aspirazioni polacche, ma
segnava soprattutto la fine della speranza di esportare la rivoluzione grazie ai
successi militari.
Il collasso economico
Una minaccia non meno grave alla sopravvivenza dell'esperimento comunista
veniva dal rischio di un collasso economico.
Quando i bolscevichi presero il potere, l'economia russa si trovava già in uno
stato di dissesto, che la rivoluzione e le devastazioni della guerra civile
finirono con l'aggravare ulteriormente.
L'abolizione della proprietà terriera e la redistribuzione delle terre ai
contadini poveri si risolsero nella creazione di una miriade di piccole aziende
che producevano soprattutto per l'autoconsumo e non contribuivano
all'approvvigionamento delle città.
Molte industrie furono lasciate in mano ai vecchi imprenditori ma sotto la
sorveglianza dei consigli operai, altre furono gestite direttamente dai
lavoratori, altre infine furono poste sotto il controllo statale.
Le banche furono nazionalizzate e i debiti con l'estero cancellati.
Ma tutto questo servì a poco, visto lo stato di caos in cui versava il paese
sconvolto dalla guerra civile, e il governo fu costretto, per le esigenze più
urgenti, a stampare carta moneta priva di qualsiasi valore. Si fini così col
tornare al sistema del baratto e le stesse retribuzioni vennero pagate in
natura.
Il «comunismo di guerra»
A partire dall'estate del '18, il governo bolscevico cercò di attuare una
politica più energica e autoritaria, che fu poi definita con l'espressione
«comunismo di guerra».
Per risolvere il problema degli approvvigionamenti alle città, furono istituiti
in tutti i centri rurali comitati col compito di provvedere all'ammasso e alla
distribuzione delle derrate. Venne incoraggiata, senza molto successo, la
formazione di comuni agricole volontarie, le cosiddette "fattorie collettive" (kolchoz)
e furono anche istituite delle "fattorie sovietiche" (sovchoz) gestite
direttamente dallo Stato o dai soviet locali.
In campo industriale furono nazionalizzati tutti i settori più importanti: una
misura che aveva lo scopo di normalizzare la produzione e di centralizzare le
decisioni, ponendo fine allo spontaneismo che aveva caratterizzato le prime fasi
della rivoluzione.
Carestia e rivolta
Grazie al «comunismo di guerra» il regime bolscevico riuscì ad assicurare lo
svolgimento di alcune funzioni essenziali e soprattutto ad armare e nutrire il
suo esercito. Ma sul piano economico l'esperienza si risolse in un totale
fallimento.
Alla fine del 1920 il volume della produzione industriale era di ben sette volte
inferiore a quello del 1913. Le grandi città si erano spopolate per la
disoccupazione e per la fame. Il commercio privato, formalmente vietato, fioriva
nell'illegalità.
La crisi raggiunse il culmine nella primavera-estate del '21 quando, per
l'effetto congiunto della guerra civile e di un anno di siccità, una terribile
carestia colpì le campagne della Russia e dell'Ucraina, provocando la morte di
almeno 3 milioni di persone.
Imbarazzante per il potere comunista era poi il dissenso che cominciava a
serpeggiare fra gli operai, stanchi delle privazioni materiali, ma anche delusi
dalla gestione autoritaria dell'economia.
Il punto di maggior tensione fu toccato ai primi di marzo del 1921, quando a
ribellarsi al governo furono i marinai della base di Kronštadt,
presso Pietrogrado, che a stata una roccaforte dei bolscevichi. Alle richieste
dei ribelli, che invocavano maggiori libertà politiche e sindacali, il governo
rispose con una dura repressione militare, con centinaia di fucilazioni
immediate e poi migliaia di condanne a morte, al carcere o ai lavori forzati.
La Nep
Nello stesso 1921, mentre si chiudeva ogni spazio di discussione all'interno
del partito, prendeva avvio una parziale liberalizzazione nella produzione e
negli scambi. La nuova politica economica (in sigla Nep) aveva l'obiettivo
principale di stimolare la produzione agricola e di favorire afflusso dei generi
alimentari verso le città.
Ai contadini si consentiva ora di vendere sul mercato le eventuali eccedenze,
una volta che avessero consegnato agli organi statali una quota fissa dei
raccolti. La liberalizzazione si estese anche al commercio e alla piccola
industria produttrice di beni di consumo. Lo Stato mantenne comunque il
controllo delle banche e dei maggiori gruppi industriali.
La Nep ebbe conseguenze indubbiamente benefiche su un'economia stremata, ma
produsse effetti sociali non previsti né desiderati dai suoi promotori. Nelle
campagne i nuovi spazi concessi all'iniziativa privata favorirono il riemergere
del ceto dei contadini benestanti, i kulaki. La liberalizzazione del
commercio accrebbe disponibilità di beni di consumo, ma provocò la comparsa una
nuova classe di trafficanti la cui ricchezza contrastava col basso tenore di
vita della maggioranza della popolazione urbana.
L'URSS da Lenin a Stalin
Le Costituzioni del 1918 e del 1924
La prima Costituzione della Russia rivoluzionaria fu varata nel luglio del
'18, in piena guerra civile, e si apriva con una Dichiarazione dei diritti del
popolo lavoratore e sfruttato dove si proclamava che il potere doveva
«appartenere unicamente e interamente alle masse lavooratrici e ai loro
autentici organismi rappresentativi: i soviet».
La Costituzione si spirava dunque alla idea consiliare e collocava al vertice
del potere il Congresso dei soviet. Inoltre prevedeva che il nuovo Stato avesse
carattere federale, rispettasse l'autonomia delle minoranze etniche e si aprisse
all'unione con altre future repubbliche "sovietiche", nella prospettiva di
un'unica repubblica socialista mondiale.
In realtà, quella che si attuò fra il '20 e il '22 fu semplicemente l'unione
alla Repubblica russa – che comprendeva anche l'intera Siberia – delle altre
province dell'ex impero zarista (l'Ucraina, la Bielorussia, l'Azerbaigian,
l'Armenia e la Georgia), nelle quali i comunisti erano riusciti a prendere il
potere dopo aver eliminato le altre forze politiche col decisivo aiuto
dell'Armata rossa.
Quella che dal 1922 prese il nome Unione delle repubbliche socialiste sovietiche
(Urss) era una compagine priva di reali meccanismi federativi e in cui i russi
erano la nazionalità dominante. La nuova Costituzione dell'Urss, approvata nel
1924, prevedeva una complessa struttura istituzionale, al cui vertice stava
ancora il Congresso dei soviet dell'Unione.
Il potere reale, tuttavia, era nelle mani del Partito comunista (che dal 1925
assume il nome di Partito comunista dell'Unione Sovietica, Pcus), l'unico la cui
esistenza fosse prevista dalla Costituzione.
Il partito-Stato
Era, infatti, il partito a fornire le direttive ideologiche e politiche cui
si ispirava l'azione del governo.
Era il partito a controllare la potentissima polizia politica (la Ceka, ora
denominata Gpu), che colpiva i «nemici del popolo» con arresti, processi,
fucilazioni, deportazioni in campi da lavoro.
Era ancora il partito a proporre i candidati alle elezioni dei soviet che
avvenivano su lista unica e con voto palese. Un partito il cui apparato centrale
e periferico si sovrapponeva di fatto a quello dello Stato.
La Repubblica che si proclamava fondata sulla democrazia "sovietica" era invece
governata, attraverso un apparato fortemente centralizzato che faceva capo al
segretario generale e all'Uffino politico (Politburo) del Comitato centrale, dal
ristretto gruppo dirigente del Partito comunista.
Cultura, religione e costumi
Lo sforzo di trasformazione intrapreso dopo la rivoluzione d'ottobre non
riguardò soltanto le strutture economiche e gli ordinamenti politici.
Come tutti i rivoluzionari dei tempi moderni, anche i comunisti russi mirarono a
cambiare la società nel profondo, a cancellare valori e comportamenti
tradizionali, a creare una nuova cultura adatta alla realtà che si voleva
costruire.
Lo sforzo si indirizzò soprattutto in due direzioni: la lotta contro
l'analfabetismo, premessa indispensabile per lo sviluppo economico ma anche
presupposto essenziale per l'indottrinamento delle nuove generazioni da condurre
attraverso la scuola e le organizzazioni giovanili; e la lotta contro la Chiesa
ortodossa, in quanto espressione di una visione del mondo che si voleva
estirpare perché incompatibile con i fondamenti materialisti della dottrina
marxista.
La scristianizzazione fu portata avanti con molta durezza – confisca dei beni
ecclesiastici, chiusura di chiese, arresti di capi religiosi – e, nel complesso,
poté dirsi riuscita nei suoi obiettivi. L'influenza della Chiesa non fu del
tutto eliminata (culti e credenze continuarono a sopravvivere, soprattutto nelle
campagne), ma certo drasticamente ridimensionata.
La battaglia contro la religione e la morale tradizionale si estese naturalmente
anche ai problemi della famiglia e dei rapporti fra i sessi.
Il governo rivoluzionario stabilì fra i suoi primi atti il riconoscimento del
solo matrimonio civile e semplificò al massimo le procedure per il divorzio. Nel
1920 fu legalizzato l'aborto. Venne proclamata l'assoluta parità fra i sessi e
la condizione dei figli illegittimi fu equiparata a quella dei legittimi.
In generale il regime comunista favori una notevole liberalizzazione dei
costumi, anche se furono ben presto emarginate le posizioni estreme di chi
riteneva che la rivoluzione dovesse portare all'assoluta libertà sessuale e alla
scomparsa della famiglia.
Lo scontro tra Stalin eTrotzkij
Nell'aprile del 1922 il georgiano Josip Djugasvili, detto Stalin, ex
commissario alle Nazionalità, fu nominato segretario generale del Partito
comunista dell'Urss.
Poche settimane dopo, Lenin fu colpito dal primo attacco di quella malattia che
lo avrebbe condotto alla morte nel gennaio 1924. Da allora si apri una sempre
più scoperta lotta per la successione.
Il primo grave scontro all'interno del gruppo dirigente ebbe per oggetto il
problema della centralizzazione e della eccessiva burocratizzazione del partito.
Protagonista sfortunato della battaglia volta a limitare le prerogative
dell'apparato fu Trotzkij, il più autorevole e il più popolare dopo Lenin fra i
capi bolscevichi, ma anche il più isolato rispetto agli altri leader di primo
piano – Zinov'ev, Kamenev, Bucharin – che respinsero le sue critiche alla
gestione del partito e fecero blocco col segretario generale.
Lo scontro non riguardava solo il problema della «burocratizzazione». Trotzkij
collegava l'involuzione autoritaria del partito all'isolamento internazionale
dello Stato sovietico e riteneva che l'Unione Sovietica dovesse estendere il
processo rivoluzionario nell'Occidente capitalistico.
Contro questa tesi, per cui fu coniata l'espressione «rivoluzione permanente»,
scese in campo lo stesso Stalin.
Stalin sosteneva che, nei tempi brevi, la vittoria del «socialismo in un solo
paese» era «possibile e probabile» e che l'Unione Sovietica aveva in sé le forze
sufficienti a fronteggiare l'ostilità del mondo capitalista. La teoria del
«socialismo in un solo paese» rappresentava una rottura con quanto era sempre
stato affermato dai bolscevichi, ma si adattava alla situazione reale, che da
tempo non consentiva illusioni circa la possibilità di una rivoluzione mondiale,
e offriva inoltre al paese lo stimolo di un potente richiamo patriottico.
Anche l'atteggiamento delle potenze europee, che fra il '24 e il '25 si decisero
a instaurare rapporti diplomatici con lo Stato sovietico, finì col rafforzare
implicitamente le tesi di Stalin.
L'eliminazione degli oppositori
Una volta sconfitto Trotzkij, venne meno però il principale legame che teneva
uniti i suoi avversari politici.
A partire dall'autunno del '25, Zinov'ev e Kamenev, riprendendo idee già
sostenute da Trotzkij, si pronunciarono per un'interruzione dell'esperimento
della Nep, che a loro avviso stava facendo rinascere il capitalismo nelle
campagne, e per un rilancio dell'industrializzazione a spese, se necessario,
degli strati contadini privilegiati.
La tesi opposta, favorevole alla prosecuzione della Nep, fu sostenuta da
Bucharin, che ebbe l'appoggio di Stalin.
Zinov'ev e Kamenev, messi in minoranza nel partito, si riaccostarono a Trotzkij
e cercarono di organizzare un fronte unico degli avversari del segretario. Ma i
leader dell'opposizione furono dapprima allontanati dagli organi dirigenti e
poi, nel '27, espulsi dal partito.
I loro seguaci furono perseguitati e incarcerati. Trotzkij fu deportato in una
località dell'Asia centrale e successivamente espulso dall'Urss.
Con la sconfitta dell'opposizione di sinistra si chiudeva definitivamente la
prima fase della rivoluzione comunista, la fase della costruzione del nuovo
Stato. Se ne apriva una nuova, caratterizzata dalla continua crescita del potere
personale di Stalin e dal suo tentativo di portare l'Unione Sovietica alla
condizione di grande potenza industriale e militare.
L'ITALIA: DOPOGUERRA E FASCISMO
Le tensioni del dopoguerra
Un paese inquieto
Uscita vincitrice dalla prova più impegnativa della sua storia unitaria,
l'Italia si trovò a condividere i problemi politici e le tensioni sociali che la
Grande Guerra aveva suscitato in tutta Europa.
Rispetto agli altri paesi vincitori, problemi e tensioni si presentavano però in
forma più acuta: sia perché le strutture economiche erano meno avanzate e più
ampie le sacche di arretratezza, sia perché le istituzioni politiche erano meno
radicate nella società.
L'esperienza del primo conflitto mondiale aveva fortemente accelerato il
processo di avvicinamento delle masse allo Stato, ma lo aveva fatto in modo
traumatico, provocando nuove divisioni. Aveva alimentato il rifiuto della guerra
e dei suoi orrori; ma aveva anche generato, come negli altri paesi, una diffusa
assuefazione alla violenza e accentuato la tendenza a risolvere le questioni
controverse con atti di forza. Una tendenza che, in Italia, si inseriva in un
contesto storico da sempre segnato dalla radicalità dello scontro politico e
sociale.
Quella che usciva della guerra era dunque una società inquieta e attraversata da
profonde fratture, unita però da una generale ansia di rinnovamento, da una
sorta di febbre rivendicativa che tendeva a saltare le mediazioni politiche e a
spostare il centro delle lotte dal Parlamento alle piazze.
Scioperi e lotte agrarie
Le tensioni sociali erano legate in primo luogo al continuo aumento dei
prezzi al consumo.
Fra il giugno e il luglio del 1919 le principali città italiane divennero teatro
di una serie di violenti tumulti contro il caro-viveri, mentre le industrie
erano investite da una ondata di scioperi volti ad ottenere aumenti salariali.
Anche il settore dei servizi pubblici, in genere meno sindacalizzato, fu
sconvolto da una lunga serie di astensioni dal lavoro.
Non meno intense furono in questo periodo le lotte dei lavoratori agricoli. In
Val Padana, dove prevaleva il bracciantato, le "leghe rosse" controllate dai
socialisti avevano in pratica il monopolio della rappresentanza sindacale e
miravano alla socializzazione della terra; soprattutto nelle regioni centrali,
in cui dominavano la mezzadria e la piccola proprietà, erano attive anche le
"leghe bianche" cattoliche, che si battevano piuttosto per lo sviluppo della
piccola proprietà contadina.
L'aspirazione alla proprietà della terra fu poi all'origine di un altro
movimento che si sviluppò in forma spontanea nelle campagne del Centro-sud:
l'occupazione di terre incolte e latifondi da parte di contadini poveri, spesso
ex combattenti.
La «vittoria mutilata»
Ad agitare la scena italiana dell'immediato dopoguerra contribuì anche una
cattiva gestione della trattativa di pace, che rese il clima più simile a quello
di un paese sconfitto che a quello di una potenza vincitrice.
L'Italia era uscita dalla guerra nettamente rafforzata: aveva ottenuto – secondo
gli accordi firmati a Londra nel 1915 – Trento, Trieste e le altre «terre
irredente»; aveva raggiunto i "confini naturali" segnati dalle Alpi, includendo
nel suo territorio anche zone non italiane come il Sud-Tirolo (ribattezzato Alto
Adige); aveva infine visto scomparire dalle sue frontiere il nemico
tradizionale, l'Impero asburgico.
La nascita del nuovo Stato jugoslavo, tuttavia, poneva una serie di problemi non
previsti nel momento in cui era stato stipulato il patto di Londra: in base a
quel patto, infatti, l'Italia avrebbe dovuto annettere anche la Dalmazia, una
striscia costiera considerata indispensabile per il controllo dell'Adriatico ma
abitata in prevalenza da slavi; non era prevista invece l'annessione della città
di Fiume, a maggioranza italiana.
Alla conferenza di Versailles, il presidente del Consiglio Orlando e il ministro
degli Esteri Sonnino chiesero l'annessione di Fiume sulla base del principio di
nazionalità, in aggiunta ai territori promessi nel 1915. Tali richieste
incontrarono l'opposizione degli alleati, in particolare del presidente degli
Stati Uniti.
I confini italiani nel 1919
Nell'aprile del '19, per protestare contro l'atteggiamento di Wilson – che
aveva cercato di scavalcarli indirizzando un messaggio al popolo italiano –
Orlando e Sonnino abbandonarono Versailles e fecero ritorno in Italia, dove
furono accolti da imponenti manifestazioni patriottiche. Un mese dopo, però,
dovettero tornare a Parigi senza aver ottenuto alcun risultato.
Questo insuccesso segnò la fine del governo Orlando.
Il nuovo ministero presieduto da Francesco Saverio Nitti si trovò ad affrontare
una situazione già gravemente deteriorata.
Gli avvenimenti della primavera 1919 avevano infatti suscitato in larghi strati
dell'opinione pubblica un sentimento di ostilità verso gli ex alleati, accusati
di voler defraudare l'Italia dei frutti della vittoria. Si parlò allora di
«vittoria mutilata»: un'espressione coniata da Gabriele D'Annunzio, ormai
assurto al ruolo di protagonista politico, anche in virtù di alcune audaci
imprese compiute durante la guerra.
D'Annunzio a Fiume
La manifestazione più clamorosa di questa protesta si ebbe nel settembre
1919, quando alcuni reparti militari ribelli assieme a gruppi di volontari,
sotto il comando proprio di D'Annunzio, occuparono la città di Fiume, posta
allora sotto controllo internazionale, e ne proclamarono l'annessione
all'Italia.
Concepita all'inizio come un mezzo di pressione sul governo, l'avventura fiumana
si prolungò per quindici mesi e si trasformò in un'inedita esperienza politica.
A Fiume, dove D'Annunzio istituì una provvisoria «reggenza»,
furono sperimentati per la prima volta formule e rituali collettivi – adunate
coreografiche, dialoghi fra il capo e la folla – che sarebbero stati ripresi e
applicati su ben più larga scala dai movimenti autoritari degli anni '20 e '30.
La crisi politica e il "biennio rosso"
Le elezioni del 1919
Le prime elezioni politiche del dopoguerra, che si tennero nel novembre 1919,
mostrarono la gravità delle fratture che attraversavano la società e il sistema
politico.
Furono queste le prime elezioni tenute col nuovo metodo della rappresentanza
proporzionale con scrutinio di lista: metodo che prevedeva il confronto fra
liste di partito, anziché fra singoli candidati, e che, contrariamente al
vecchio sistema del collegio uninominale, assicurava alle forze politiche un
numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti, favorendo i gruppi organizzati
su base nazionale.
L'esito fu disastroso per la vecchia classe dirigente:
- i gruppi liberal-democratici, che si erano presentati divisi alle elezioni,
persero la maggioranza assoluta passando dagli oltre 300 seggi del 1913 a circa
200;
- i socialisti, che pure avevano adottato un programma rivoluzionario e
dichiaravano di ispirarsi al modello sovietico, ottennero un successo clamoroso
con 156 seggi (tre volte più che nel 1913);
- il Partito popolare italiano (Ppi), con 100 deputati, si affermava come la
principale novità politica del dopoguerra.
Fondato all'inizio del 1919 da un sacerdote siciliano, don Luigi Sturzo, il Ppi,
riuniva le forze di ispirazione cattolica, che entravano così per la prima volta
apertamente nella competizione politica, ponendo fine alla storica anomalia nata
con la rottura fra la Chiesa e il Regno d'Italia.
Pur dichiarandosi non confessionale, cioè non espressione diretta degli
interessi e delle istanze della Chiesa, e adottando un programma democratico, il
nuovo partito godeva dell'appoggio della Chiesa, spaventata dalla minaccia
socialista.
I due vincitori delle elezioni non potevano però coalizzarsi fra loro, dal
momento che il Psi era dominato dalla corrente "massimalista", ostile a ogni
collaborazione con i gruppi "borghesi".
L'unica maggioranza possibile era quella basata sull'accordo fra popolari e
liberal-democratici, e su questa precaria alleanza si fondarono gli ultimi
governi dell'era liberale, prima dell'avvento del fascismo.
Il ritorno di Giolitti
Indebolito dall'esito delle elezioni, il ministero Nitti sopravvisse fino al
giugno 1920, quando a costituire il nuovo governo fu chiamato l'ormai quasi
ottantenne Giovanni Giolitti.
Nei dodici mesi in cui tenne la guida dell'esecutivo, Giolitti diede ancora
prova di abilità e di energia.
Un risultato importante fu raggiunto in politica estera, con la firma, nel
novembre 1920, del trattato di Rapallo con la Jugoslavia.
L'Italia conservò Trieste e tutta l'Istria. La Jugoslavia ebbe la Dalmazia,
salvo la città di Zara che fu assegnata all'Italia.
Fiume fu dichiarata città libera (sarebbe diventata italiana, grazie a un
successivo accordo con la Jugoslavia, nel 1924).
Il trattato fu accolto con generale favore dall'opinione pubblica e dalle forze
politiche: non vi furono reazioni di rilievo quando, il giorno di Natale del
1920, le truppe regolari italiane attaccarono Fiume, costringendo D'Annunzio ad
abbandonare la città.
L'occupazione delle fabbriche
Più serie furono le difficoltà incontrate da Giolitti sul terreno della
politica interna.
I conflitti sociali conobbero, nell'estate-autunno del '20, il loro episodio più
drammatico con l'agitazione dei metalmeccanici culminata nell'occupazione delle
fabbriche.
La vertenza vedeva contrapporsi gli industriali del settore, nucleo di punta del
mondo imprenditoriale, e i metalmeccanici, una categoria operaia compatta e
combattiva, guidata dal più forte dei sindacati aderenti alla Confederazione
generale del lavoro (Cgl), vale a dire la Federazione italiana operai
metallurgici (Fiom).
A Torino e in altri centri industriali del Nord si era poi sviluppata, fuori dal
sindacato, l'esperienza dei Consigli di fabbrica, ispirata al modello dei soviet
e animata da un gruppo di giovani intellettuali (Gramsci, Togliatti, Terracina,
Tasca), che si riunivano attorno alla rivista «L'Ordine nuovo».
Fu la Fiom a dare inizio alla vertenza, presentando una serie di richieste
economiche e normative, cui gli industriali opposero un netto rifiuto.
Alla fine di agosto, in risposta alla chiusura degli stabilimenti attuata da una
industria milanese, la Fiom ordinò ai lavoratori di occupare le fabbriche.
Nei primi giorni di settembre, 400 mila operai occuparono gli stabilimenti
metallurgici e meccanici del Nord, issarono le bandiere rosse sui tetti delle
officine e organizzarono servizi armati di vigilanza (le «Guardie rosse»). Molti
lavoratori in lotta vissero questa esperienza come l'inizio di un moto
rivoluzionario destinato a estendersi a tutto il paese.
In realtà il movimento non era in grado di uscire dalle fabbriche e di porsi in
modo concreto il problema del potere.
Prevalse così la linea dei dirigenti della Cgl, che ottennero miglioramenti
salariali e aperture in tema di controllo sindacale sulla gestione delle
aziende. Tale esito fu favorito dall'iniziativa mediatrice di Giolitti, che si
era attenuto a una linea di rigorosa neutralità fra sindacato e industriali,
resistendo alle pressioni del padronato per un intervento della forza pubblica
contro le fabbriche occupate.
Sul piano sindacale, gli operai uscivano vincitori dallo scontro. Sul piano
politico, però, la sensazione dominante era di delusione rispetto alle attese
maturate nei giorni dell'occupazione.
D'altro canto, gli industriali non nascondevano la loro irritazione per aver
dovuto subire le pressioni del governo. E la borghesia tutta, passata la «grande
paura» della rivoluzione, si apprestava a sfruttare ogni occasione di rivincita.
La scissione del Psi e la fine del "biennio rosso"
Queste polemiche si intrecciarono con le fratture sviluppatesi all'interno
del Partito socialista.
Al congresso del Psi che si tenne a Livorno nel gennaio 1921 la minoranza di
estrema sinistra – in particolare la corrente che faceva capo ad Amadeo Bordiga
e i torinesi di «Ordine Nuovo» – lasciò il partito per dar vita al Partito
comunista d'Italia (Pcd'I), in linea con le indicazioni dell'Internazionale
comunista, avversate dalla maggioranza massimalista del Psi.
La nuova formazione nasceva con un programma rigorosamente leninista, proprio
nel momento in cui la prospettiva rivoluzionaria andava svanendo non solo in
Italia.
L'occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno segnarono la fine del
"biennio rosso" in Italia.
Provata da due anni di lotte e indebolita dalle divisioni interne, la classe
operaia cominciò ad accusare i colpi della crisi che stava investendo l'economia
italiana. In questo quadro, in larga parte comune a tutta l'Europa, si inserì un
fenomeno che invece non aveva riscontro in nessun altro paese: lo sviluppo
improvviso del movimento fascista.
Lo squadrismo fascista
I Fasci di combattimento
Il 23 marzo 1919 l'ex socialista rivoluzionario Benito Mussolini, direttore
del quotidiano «II Popolo d'Italia», fondò a Milano i
«Fasci di combattimento».
Il nuovo movimento si schierava politicamente a
sinistra, chiedeva audaci riforme sociali e si dichiarava favorevole alla
repubblica; ma nel contempo ostentava un acceso nazionalismo e una feroce
avversione nei confronti del Partito socialista.
Fino all'autunno del '20, il fascismo svolse un ruolo marginale nella vita
politica: nelle elezioni del 1919 le liste dei Fasci ottennero poche migliaia di
voti e nessun deputato.
Fascismo agrario e leghe rosse
Tra la fine del 1920 e l'inizio del 1921, il movimento subì un rapido
processo di mutazione che lo portò ad accantonare l'originario programma
radical-democratico, a organizzare formazioni paramilitari – le squadre d'azione
– e a condurre una lotta spietata contro il movimento socialista, in particolare
contro le organizzazioni contadine della Valle Padana, le leghe rosse.
Questa trasformazione da piccolo movimento di ceti medi urbani a partito armato
radicato nelle campagne (per questo si parlò di «fascismo agrario») si spiega in
parte con una scelta di Mussolini, che decise di cavalcare l'ondata di riflusso
antisocialista seguita al "biennio rosso"; in parte va collegata alla
particolare situazione delle campagne padane, dove lo squadrismo fascista si
sviluppò, quelle stesse in cui più forte era la presenza delle leghe rosse che,
nel primo dopoguerra, avevano conosciuto un notevole sviluppo, controllavano il
mercato del lavoro, disponevano di una fitta rete di cooperative e avevano in
mano buona parte delle amministrazioni comunali.
Ad aprire le prime brecce nell'edificio delle organizzazioni rosse fu proprio
l'offensiva fascista.
L'episodio scatenante si verificò a Bologna il 21 novembre 1920, quando gli
squadristi si mobilitarono per impedire la cerimonia d'insediamento della nuova
amministrazione comunale socialista. Vi furono scontri e sparatorie, con morti e
feriti, dentro e fuori il Palazzo d'Accursio, sede del municipio. Per un tragico
errore i socialisti incaricati di difendere il palazzo comunale gettarono bombe
a mano sulla folla, composta dai loro stessi sostenitori, provocando una decina
di morti.
Da ciò i fascisti trassero pretesto per scatenare una serie di ritorsioni contro
i socialisti. I proprietari terrieri scoprirono allora nei Fasci lo strumento
capace di abbattere il potere delle leghe e cominciarono a sovvenzionarli
generosamente.
Il movimento fascista vide affluire nelle sue file nuove e numerose reclute:
ufficiali smobilitati ed ex arditi che faticavano a reinserirsi nella vita
civile, figli della piccola borghesia alla ricerca di nuovi canali di promozione
sociale e di affermazione politica; giovani e giovanissimi che non avevano fatto
in tempo a partecipare alla guerra e che trovavano l'occasione per combattere
una loro battaglia contro quelli che consideravano nemici della patria.
Nel giro di pochi mesi, il fenomeno dello squadrismo dilagò in tutte le province
padane, estendendosi anche ad altre zone del Centro-nord, mentre pressoché
immune dal contagio fascista rimaneva il Mezzogiorno, con l'eccezione della
Puglia dove esisteva una fitta rete di leghe socialiste.
Le tecniche squadriste
L'offensiva ebbe ovunque le stesse caratteristiche.
Le squadre partivano in genere dalle città e si spostavano in camion per le
campagne, verso i centri rurali. Obiettivo delle spedizioni erano non solo le
sedi delle amministrazioni locali e delle rappresentanze sindacali socialiste –
i municipi, le Camere del lavoro, le leghe, le Case del popolo –, che vennero
sistematicamente devastate e incendiate, ma le persone stesse, dirigenti e
militanti socialisti, sottoposti a ripetute violenze e spesso costretti a
lasciare il loro paese.
Le amministrazioni "rosse" della Valle Padana furono in buona parte costrette a
dimettersi.
Centinaia di leghe furono sciolte e molti dei loro aderenti passarono, per
scelta o per costrizione, alle nuove organizzazioni costituite dagli stessi
fascisti, che promettevano di incoraggiare la formazione della piccola proprietà
coltivatrice.
Il successo dell'offensiva fascista non può spiegarsi solo con fattori di ordine
"militare"; né può essere imputato interamente agli errori dei socialisti, che
pure furono molti e di non poco conto: primo fra tutti quello di ferire i
sentimenti patriottici dei ceti medi e di spaventarli con la promessa di una
prossima e cruenta resa dei conti rivoluzionaria.
In realtà il movimento operaio, nel 1921-22, si trovò a combattere una lotta
impari contro un nemico che poteva giovarsi della benevola neutralità, o
addirittura dell'aperto sostegno, di buona parte della classe dirigente e degli
apparati statali.
Raramente la forza pubblica, portata a vedere nei fascisti dei naturali alleati
nella lotta contro i "rossi", si oppose con efficacia alle azioni squadristiche.
La stessa magistratura adottò nei loro confronti criteri ben diversi da quelli
usati contro i sovversivi di sinistra.
Pesanti furono anche le responsabilità del governo. Giolitti infatti, pur
evitando di favorire apertamente lo squadrismo, pensò di servirsi del movimento
fascista per ridurre a più miti pretese i socialisti (e gli stessi popolari) e
di poterlo in seguito assorbire nella maggioranza liberale.
Mussolini alla conquista del potere
Le elezioni del 1921
Alle elezioni del maggio 1921 il disegno di Giolitti si concretizzò con
l'ingresso di candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali, cioè nelle
liste di coalizione in cui i gruppi "costituzionali" (conservatori, liberali,
democratici) si unirono per impedire una nuova affermazione dei partiti di
massa.
I fascisti ottenevano così una legittimazione da parte della classe dirigente,
senza per questo dover rinunciare ai metodi illegali. Anzi, la campagna
elettorale fornì loro lo spunto per intensificare intimidazioni e violenze
contro gli avversari.
Ciononostante, i risultati delle urne delusero chi aveva voluto le elezioni.
I socialisti subirono una limitata flessione. I popolari addirittura si
rafforzarono. I gruppi liberal-democratici migliorarono le loro posizioni, ma
non tanto da riacquistare il completo controllo del Parlamento.
In definitiva, la maggior novità fu costituita dall'ingresso alla Camera di 35
deputati fascisti, capeggiati da un Mussolini deciso a giocare il ruolo di nuovo
arbitro della politica nazionale.
Il patto di pacificazione e la nascita del Pnf
L'esito delle elezioni di maggio mise praticamente fine all'ultimo
esperimento governativo di Giolitti, che si dimise all'inizio di luglio.
Il suo successore, l'ex socialista Ivanoe Bonomi, tentò di far uscire il paese
dalla guerra civile favorendo una tregua d'armi fra le due parti in lotta.
Nell'agosto 1921, fu in effetti firmato un patto di pacificazione tra socialisti
e fascisti, che si impegnavano a rinunciare alla violenza e a sciogliere le loro
formazioni armate.
Il patto rientrava in quel momento nella strategia di Mussolini, che mirava a inserirsi nel gioco politico «ufficiale» e temeva il
diffondersi di una reazione popolare contro lo squadrismo. Questa strategia non
era però condivisa dai fascisti intransigenti, che si riconoscevano nello
squadrismo agrario e nei suoi capi locali, i cosiddetti ras.
I ras (Grandi a
Bologna, Farinacci a Cremona, Balbo a Ferrara, per citare solo i più noti)
sabotarono in ogni modo il patto di pacificazione e giunsero a mettere in
discussione l'autorità di Mussolini. La ricomposizione si ebbe al congresso dei
Fasci tenutosi a Roma ai primi di novembre.
Mussolini si rese conto di non poter
fare a meno della massa d'urto dello squadrismo agrario e sconfessò il patto di
pacificazione (che del resto non aveva mai funzionato sul serio). I ras
riconobbero la guida politica di Mussolini e accettarono la trasformazione del
movimento fascista in un vero e proprio partito, cosa che avrebbe limitato non
poco la loro libertà d'azione.
Nasceva così il Partito nazionale fascista (Pnf),
che poteva contare su una base di oltre 200 mila iscritti, in gran parte nelle
regioni del Centro-nord.
L'agonia dello Stato liberale
Il ministero Bonomi cadde nel febbraio del 1922.
Il debole governo di Luigi Facta non mise alcun freno alla violenza fascista che
si rese protagonista di operazioni sempre più ampie e clamorose: scorrerie che
coinvolgevano intere province, occupazione in armi di grandi centri, come
Ferrara, Bologna e Cremona.
All'inizio di agosto, in risposta alla decisione dei dirigenti sindacali di
proclamare uno sciopero generale legalitario in difesa delle libertà
costituzionali, i fascisti lanciarono una nuova e più violenta offensiva contro
il movimento operaio, che non seppe opporre all'attacco squadrista né una
mobilitazione di massa né un'iniziativa politica volta ad appoggiare un governo
capace di far rispettare la legge.
Sconfitto il movimento operaio, il fascismo doveva porsi il problema della
conquista dello Stato.
In questa delicata fase Mussolini giocò, come al solito, su due tavoli.
Da un lato intrecciò trattative con tutti i più autorevoli esponenti liberali in
vista della partecipazione fascista a un nuovo governo; rassicurò la monarchia
sconfessando le passate simpatie repubblicane; si guadagnò il favore degli
industriali annunciando di voler restituire spazio all'iniziativa privata.
Dall'altro lasciò che l'apparato militare del fascismo si preparasse apertamente
alla presa del potere mediante un colpo di Stato.
La marcia su Roma
Prese così corpo il progetto di una marcia su Roma, ossia di una
mobilitazione generale di tutte le forze fasciste, con obiettivo la conquista
del potere centrale.
Un piano del genere non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse
incontrato una ferma reazione da parte delle autorità. Per quanto agguerrite, le
squadre fasciste erano pur sempre delle bande indisciplinate ed equipaggiate in
modo approssimativo, non certo in grado di affrontare uno scontro con l'esercito
regolare.
Ne era consapevole lo stesso Mussolini, che contava soprattutto sulla debolezza
del governo e sulla benevola neutralità della monarchia.
In effetti, nel generale disfacimento dei poteri statali, decisivo fu
l'atteggiamento del re. Spaventato dalla prospettiva di una guerra civile,
Vittorio Emanuele III rifiutò, la mattina del 28 ottobre 1922, il giorno fissato
per la marcia fascista sulla capitale, di firmare il decreto per la
proclamazione dello stato d'assedio (cioè per il passaggio dei poteri alle
autorità militari), che era stato preparato in tutta fretta dal governo Facta,
già dimissionario.
Il rifiuto del re aprì la via del potere a Mussolini, che non si accontentò
della soluzione auspicata dal re e dagli ambienti moderati (partecipazione
fascista a un governo guidato da un esponente conservatore), ma chiese e ottenne
di essere chiamato lui stesso a presiedere il governo.
La mattina del 30 ottobre 1922, mentre gli squadristi entravano nella capitale
senza incontrare alcuna resistenza da parte della forza pubblica, Mussolini fu
ricevuto dal re.
La sera stessa il nuovo governo guidato da Mussolini era già pronto.
Ne facevano parte, oltre ai fascisti, esponenti di tutti i gruppi che avevano
partecipato ai precedenti governi: liberali giolittiani, liberali di destra,
democratici e popolari.
Cambio di governo o nuovo regime?
La crisi si era dunque risolta in modo quanto meno ambiguo.
I fascisti gridarono al trionfo e si convinsero di aver attuato una rivoluzione
che in realtà era stata soltanto simulata.
I moderati si rallegrarono per il fatto che la legalità costituzionale, violata
nei fatti, era stata rispettata almeno nelle forme.
I rivoluzionari (socialisti massimalisti e comunisti) si illusero che nulla
fosse cambiato nella sostanza, dal momento che ai loro occhi ogni governo
borghese era espressione della stessa dittatura di classe.
Il paese nel suo complesso seguì gli eventi con un misto di indifferenza e di
rassegnazione.
Pochi capirono che il sistema liberale aveva ricevuto un colpo mortale e che il
cambio di governo sarebbe presto diventato un cambio di regime.
Verso il regime
Il Gran consiglio e la Milizia
Salito al potere con una finta rivoluzione, Mussolini, con 35 (meno del 7%
dei seggi), non disponeva di una sua maggioranza alla Camera.
Riuscì ugualmente a consolidare il suo potere per la miopia degli alleati di
governo liberali e cattolici, i cosiddetti «fiancheggiatori», che continuarono a
garantire il loro appoggio anche quando fu chiaro che il Partito fascista
intendeva assumere un ruolo incompatibile con i principi basilari dello Stato
liberale.
Nel dicembre 1922 fu istituito il Gran consiglio del fascismo, che aveva il
compito di indicare le linee generali della politica fascista e di servire da
raccordo fra partito e governo.
Nel gennaio 1923 le squadre fasciste vennero inquadrate nella Milizia volontaria
per la sicurezza nazionale: un corpo armato di partito che aveva come scopo
dichiarato quello di «proteggere gli inesorabili sviluppi della rivoluzione» ma
che, nelle intenzioni di Mussolini, doveva anche disciplinare lo squadrismo e
limitare il potere dei ras.
L'istituzionalizzazione della Milizia non servi peraltro a far cessare le
violenze illegali contro gli oppositori, alle quali ora si sommava la
repressione "legale" condotta dalla magistratura e dagli organi di polizia.
Le conseguenze di questa azione combinata su quel che restava delle
organizzazioni del movimento operaio furono disastrose.
Il numero degli scioperi, già in rapido calo a partire dal '21, scese nel '23 a
livelli insignificanti. I salari reali subirono una costante riduzione,
riavvicinandosi ai livelli dell'anteguerra.
La ripresa economica
La compressione salariale era del resto una componente importante della
politica economica del governo che, fedele alle promesse della vigilia, mirò
soprattutto a restituire libertà d'azione e margini di profitto all'iniziativa
privata.
Fu alleggerito il carico fiscale sulle imprese, privatizzato il servizio
telefonico e contenuta la spesa statale con un energico sfoltimento dei
dipendenti pubblici (vennero colpiti soprattutto i ferrovieri, una delle
categorie più sindacalizzate).
Sul piano economico e finanziario, la politica liberista ottenne discreti
successi: fra il '22 e il '25 vi fu un notevole aumento della produzione e il
bilancio dello Stato tornò in pareggio. Il risultato era in buona parte dovuto
all'opera degli ultimi ministeri liberali, ma valse ugualmente a rafforzare il
governo e a rinsaldare i legami fra potere economico e fascismo.
L'appoggio della Chiesa
Un altro sostegno decisivo Mussolini lo ebbe dalla Chiesa cattolica in cui,
dopo l'elezione del nuovo papa Pio XI (nel febbraio 1922), stavano riprendendo
il sopravvento le tendenze più conservatrici.
Per molti cattolici il fascismo, al di là dei suoi orientamenti ideologici,
aveva il merito di aver allontanato il pericolo di una rivoluzione socialista.
Dal canto suo Mussolini, abbandonati i toni anticlericali del primo fascismo, si
mostrò disposto a importanti concessioni. La riforma scolastica varata nella
primavera del 1923 dall'allora ministro della Pubblica Istruzione, il filosofo
Giovanni Gentile, prevedeva l'insegnamento della religione nelle scuole
elementari e l'introduzione di un esame di Stato al termine di ogni ciclo di
studi: una misura da tempo richiesta dai cattolici, in quanto metteva sullo
stesso piano scuole pubbliche e private.
La prima vittima dell'avvicinamento fra Chiesa e fascismo fu il Partito
popolare, considerato ormai dalle gerarchie ecclesiastiche un ostacolo sulla via
del miglioramento dei rapporti con lo Stato.
Nell'aprile 1923 Mussolini impose le dimissioni dei ministri popolari dal
governo. Poco dopo, don Sturzo, sotto le pressioni del Vaticano, lasciò la
segreteria del Ppi.
La nuova legge elettorale
Liberatosi del più scomodo fra i suoi alleati, Mussolini aveva il problema di
crearsi una sua maggioranza parlamentare, sanzionando al tempo stesso la
posizione di preminenza del fascismo. Fu questo lo scopo della nuova legge
elettorale maggioritaria, varata nell'estate del 1923 col voto favorevole di
buona parte dei liberali e dei cattolici di destra.
La legge avvantaggiava vistosamente la lista che avesse ottenuto la maggioranza
relativa (con almeno il 25% dei voti), assegnandole i due terzi dei seggi
disponibili.
Quando, all'inizio del 1924, la Camera fu sciolta, molti esponenti liberali
(compresi Orlando e Salandra) e alcuni cattolici conservatori accettarono di
candidarsi assieme ai fascisti nelle liste nazionali presentate in tutti i
collegi col simbolo del fascio.
Le forze antifasciste erano invece profondamente divise. I socialisti, i
comunisti, i popolari, i liberali di opposizione guidati da Giovanni Amendola e
gli altri partiti minori si presentarono ciascuno con proprie liste: il che
significava condannarsi a sicura sconfitta.
Le elezioni del '24
Nonostante questo vantaggio iniziale, i fascisti non rinunciarono alla
violenza contro gli avversari, sia durante la campagna elettorale sia nel corso
delle votazioni, che ebbero luogo il 6 aprile 1924. La scontata vittoria
fascista assunse così proporzioni clamorose, tanto da rendere inutile il
meccanismo della legge maggioritaria: le «liste nazionali», infatti, ottennero
il 65% dei voti e più di tre quarti dei seggi.
Il successo fu massiccio soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole, cioè nelle
regioni in cui il fascismo aveva minori radici, ma si era rapidamente
ingrossato, dopo l'andata al governo, con l'adesione dei notabili moderati e
delle loro clientele.
La dittatura a viso aperto
Il delitto Matteotti
A poco più di due mesi dalle elezioni, un evento tragico e inatteso
intervenne a mutare bruscamente lo scenario.
Il 10 giugno 1924, il deputato socialista Giacomo Matteotti fu rapito a Roma da
un gruppo di squadristi, caricato a forza su un'auto e ucciso a pugnalate.
Il suo cadavere, abbandonato in una macchia boscosa a pochi chilometri dalla
capitale, fu trovato solo due mesi dopo.
Dieci giorni prima di essere ucciso, Matteotti aveva pronunciato alla Camera una
durissima requisitoria contro il fascismo, denunciandone le violenze e
contestando la validità dei risultati elettorali.
Era dunque naturale che la sua scomparsa suscitasse nell'opinione pubblica, pur
assuefatta alla violenza politica, un'ondata di indignazione contro il fascismo
e il suo capo. Sebbene gli esecutori materiali del crimine fossero stati
arrestati dopo pochi giorni, né allora né in seguito si poterono individuare con
certezza i mandanti diretti.
Il paese capì tuttavia che il delitto era il risultato di una pratica ormai
consolidata di violenze e di impunità, di cui Mussolini e i suoi seguaci
portavano intera la responsabilità. Il fascismo, che fino a pochi giorni prima
era parso inattaccabile, si trovò improvvisamente isolato.
L'Aventino
Ma l'opposizione, drasticamente ridimensionata dalle elezioni, non aveva la
possibilità di mettere in minoranza il governo, né d'altra parte era in grado di
affrontare una prova di forza sul piano della mobilitazione di piazza.
L'unica iniziativa concreta presa dai gruppi antifascisti fu quella di astenersi
dai lavori parlamentari e di riunirsi separatamente finché non fosse stata
ripristinata la legalità democratica.
La secessione dell'Aventino – come fu definita con un'espressione tratta da un
episodio della storia romana: la plebe che si ritira sul colle Aventino per
protestare contro i patrizi – aveva un indubbio significato ideale, ma era di
per sé priva di qualsiasi efficacia pratica. I partiti "aventiniani" si
limitarono infatti ad agitare di fronte all'opinione pubblica una «questione
morale», sperando in un intervento della corona o in uno sfaldamento della
maggioranza fascista.
Ma il re non intervenne. E i fiancheggiatori non tolsero l'appoggio al governo.
Il discorso del 3 gennaio
Nel giro di pochi mesi l'ondata antifascista rifluì.
Mussolini, pressato dall'ala intransigente del fascismo, decise di
contrattaccare.
Il 3 gennaio 1925, in un discorso alla Camera, il capo del governo ruppe ogni
cautela legalitaria, assumendosi la «responsabilità politica, morale e storica»
di tutto quanto era avvenuto e minacciando apertamente di usare la forza contro
le opposizioni.
Nei giorni successivi, una raffica di arresti, perquisizioni e sequestri si
abbatté sui partiti d'opposizione e sui loro organi di stampa.
Anziché provocare la fine dell'avventura fascista, la crisi Matteotti aveva
determinato la disfatta dei partiti democratici e accelerato il passaggio a una
vera e propria dittatura. A questo punto non restava spazio per equivoci e
compromessi. La scelta era tra fascismo e antifascismo, tra dittatura e libertà.
Molti politici e uomini di cultura che avevano fin allora mantenuto nei
confronti del fascismo un atteggiamento di benevola neutralità sentirono la
necessità di prendere posizione. A un Manifesto degli intellettuali del fascismo
diffuso nell'aprile '25 per iniziativa di Giovanni Gentile (divenuto ormai il
filosofo ufficiale del fascismo), gli antifascisti risposero con un "contromanifesto"
redatto da Benedetto Croce, che rivendicava i diritti di libertà ereditati dalla
tradizione risorgimentale.
Repressione e fascistizzazione dello Stato
Ma intanto il fascismo portava a compimento l'occupazione e chiudeva ogni
residuo spazio di libertà politica e sindacale. Molti esponenti antifascisti
furono costretti a prendere la via dell'esilio.
Giovanni Amendola morì in Francia nell'estate del '26 in seguito ai postumi di
un'aggressione squadrista. Sempre in Francia era morto pochi mesi prima il
giovane liberale di sinistra Piero Gobetti che era stato, con la sua rivista «La
Rivoluzione Liberale», uno degli animatori del dibattito politico fra il '22 e
il '24. Gli organi di stampa dei partiti antifascisti furono messi
nell'impossibilità di funzionare. I grandi quotidiani di informazione, che
avevano assunto una linea critica verso il governo dopo il delitto Matteotti,
furono "fascistizzati" mediante pressioni sui proprietari che licenziarono i
direttori antifascisti.
Nell'ottobre '25, il sindacalismo libero ricevette un colpo mortale dal patto di
Palazzo Vidoni, con cui la Confindustria si impegnava a riconoscere la
rappresentanza dei lavoratori ai soli sindacati fascisti.
La fine dello Stato liberale
Eliminate o ridotte al silenzio le voci d'opposizione, il fascismo non si
accontentò più di esercitare una dittatura di fatto, ma procedette alla
formulazione di nuove leggi destinate a stravolgere definitivamente i connotati
dello Stato liberale.
La nuova legislazione ebbe il suo maggior artefice nel ministro della Giustizia,
l'ex nazionalista Alfredo Rocco:
- con la legge del dicembre '25 venivano rafforzati i poteri del capo del
governo sia rispetto agli altri ministri sia rispetto al Parlamento;
- nel febbraio '26 una riforma delle amministrazioni locali abolì l'elettività
dei sindaci e dei consigli comunali;
- nell'aprile '26, una legge sindacale proibì lo sciopero e stabilì che solo i
sindacati «legalmente riconosciuti» (cioè quelli fascisti) avevano il diritto di
stipulare contratti collettivi;
- nel novembre '26, all'indomani di un fallito attentato alla vita di Mussolini,
una raffica di misure repressive («provvedimenti per la difesa dello Stato»)
cancellò le ultime tracce di vita democratica: furono sciolti tutti i partiti
antifascisti e soppresse tutte le pubblicazioni contrarie al regime; furono
dichiarati decaduti dal mandato i deputati aventiniani; fu reintrodotta la pena
di morte per i colpevoli di reati «contro la sicurezza dello Stato»; fu
istituito, per giudicare questi reati, un Tribunale speciale composto non da
giudici ordinari, ma da ufficiali delle forze armate e della Milizia;
- nel 1928 una nuova legge elettorale introduceva il sistema della lista unica
(con tanti candidati quanti erano i seggi da occupare) e lasciava agli elettori
solo la scelta se approvarla o respingerla in blocco;
- sempre nel 1928 fu "costituzionalizzato" il Gran consiglio che diventò un
organo dello Stato, dotato di prerogative molto importanti, fra cui quella di
preparare le liste elettorali.
I provvedimenti del '28 completavano la costruzione del regime, ma già le leggi
«fascistissime» del novembre '26 avevano messo fine allo Stato liberale nato con
l'unità d'Italia e avevano dato vita a un nuovo regime: un regime a partito
unico, in cui era stata abolita la separazione dei poteri e tutte le decisioni
importanti erano concentrate nelle mani di un solo uomo.
Il contagio autoritario
Il successo del fascismo in Italia non fu un caso isolato. Già nel corso degli anni '20, il regime mussoliniano rappresentò per molti paesi un possibile modello, alternativo a quello democratico-liberale.
Europa meridionale |
|||
Portogallo |
António de Oliveira Salazar |
1932-68 |
Unione nazionale |
Spagna |
gen. Miguel Primo de Rivera |
1923-30 |
Unione patriottica |
gen. Francisco Franco |
1936/39-75 |
Falange |
|
Grecia |
Ioannis Metaxas |
1936-41 |
|
Europa centrale e balcanica |
|||
Polonia |
gen. Józef Pilsudski |
1926-35 |
Blocco nazionale |
Josef Jósef |
1935-39 |
||
Ungheria |
Miklós Horthy |
1920-44 |
|
Austria |
Engelbert Dollfuss |
1932-34 |
Partito cristiano-sociale |
Kurtvon Schuschnigg |
1934-38 |
||
Slovacchia |
mons. Joseph Tiso |
1938/39-45 |
Partito popolare slovacco |
Jugoslavia |
re Alessandro I |
1929-34 |
Partito nazionale jugoslavo |
Milan Stojadinovič |
1935-39 |
||
Bulgaria |
re Boris III |
1934-43 |
|
Romania |
re Carol II |
1930-40 |
Fronte della rinascita popolare |
gen. Ion Antonescu |
1940-44 |
||
Europa del Nord |
|||
Lituania |
Auguste Voldemaras |
1926-29 |
|
Lettonia |
Karlis Ulmanis |
1934-40 |
Nelle stesse democrazie occidentali non pochi guardarono a quel modello come a una soluzione praticabile, almeno in alcuni suoi aspetti, e adatta comunque a quei paesi in cui le istituzioni rappresentative non poggiavano su una solida base di cultura e di tradizione liberale, scontando invece il peso preponderante dei militari, dell'aristocrazia terriera delle Chiese.
L'Europa centro-orientale
Il primo paese a sperimentare, prima ancora dell'avvento del fascismo, un
autoritarismo di questo tipo fu l'Ungheria dell'ammiraglio Miklós Horthy, ex
comandante della marina asburgica divenuto nel 1920 «reggente» in attesa di una
futura (e mai attuata) restaurazione monarchica: il regime rappresentativo
sopravvisse solo formalmente e le libertà politiche e sindacali furono
fortemente limitate.
Un altro regime semidittatoriale si affermò in Polonia nel 1926, quando l'ex
socialista Josef Pilsudski guidò una "marcia su Varsavia" e modificò la
costituzione in senso autoritario.
Anche in Austria le tensioni fra il Partito cristiano-sociale al potere e
l'opposizione socialdemocratica portarono, nella seconda metà degli anni '20, a
una netta involuzione autoritaria. Nel 1934, il cancelliere Engelbert Dollfuss,
dopo aver represso sanguinosamente una rivolta operaia scoppiata nella capitale
(la Comune di Vienna), avrebbe messo fuori legge il Partito socialdemocratico e
varato una nuova costituzione di ispirazione clericale e corporativa.
Gli Stati balcanici
Non meno agitate furono negli anni '20 le vicende degli Stati balcanici.
In Grecia il regime repubblicano nato nel '24 non riuscì a funzionare
regolarmente per i continui interventi dei militari e per la ricorrente minaccia
dei gruppi monarchici.
In Bulgaria l'esperimento democratico attuato dal primo ministro Stambolijski,
leader del Partito dei contadini e promotore di un'ampia riforma agraria, fu
interrotto nel '23 da un colpo di Stato militare.
Un caso a parte era rappresentato dalla Jugoslavia, dove la scena politica era
dominata dal contrasto fra i diversi gruppi etnici. Per domare la protesta dei
croati, che si sentivano oppressi dal centralismo serbo, il re Alessandro I
attuò nel 1929 un colpo di Stato, col risultato di aggravare le tensioni e di
spingere il movimento separatista croato (gli ustascia) sulla via del
terrorismo.
Spagna e Portogallo
Nel complesso si trattava di regimi autoritari di tipo tradizionale,
sostenuti dall'esercito e dai gruppi conservatori, e privi di una base di massa,
molto simili a quelli che nello stesso periodo si affermarono in un'altra area
geografica, anch'essa afflitta da grave arretratezza economica e da profonde
disuguaglianze sociali: la Penisola iberica.
In Spagna, un colpo di Stato fu attuato nel 1923 dal generale Miguel Primo de
Rivera, con l'appoggio del sovrano Alfonso XIII. Nel 1930, dopo sette anni di
governo semidittatoriale, Primo de Rivera fu costretto a dimettersi di fronte a
una massiccia ondata di proteste popolari. Nelle elezioni amministrative del
1931 i partiti democratici e repubblicani ottennero un larghissimo successo, che
indusse il re a lasciare il paese. Si formò così una Repubblica, destinata
anch'essa – come si vedrà in seguito – a vita breve e travagliata.
Anche in Portogallo furono i militari a interrompere, nel 1926, l'esperienza di
una fragile democrazia parlamentare. Ma fu un economista cattolico, António de
Oliveira Salazar (ministro delle Finanze dal '28, presidente del Consiglio dal
'32), ad assumere il ruolo di ispiratore e guida di un regime autoritario,
clericale e corporativo che sarebbe rimasto in vita per quasi mezzo secolo.
UNA CRISI PLANETARIA
La grande crisi: le cause e le conseguenze
Negli anni della crisi finanziaria mondiale iniziata nel 2008, si è fatto
spesso ricorso al paragone con la "grande crisi" per antonomasia: quella
scoppiata alla fine del 1929 col crollo improvviso della Borsa di New York e
subito propagatasi in tutto il mondo industrializzato, per poi prolungarsi per
buona parte degli anni '30 e trasformarsi così in "grande depressione", cioè in
una fase prolungata di recessione economica.
Tra le due crisi vi sono in effetti molti punti di contatto: entrambe partirono
dagli Stati Uniti (allora come oggi centro principale dell'economia
capitalistica e della finanza mondiale) e colpirono duramente l'Europa; entrambe
ebbero origine dall'esplosione di quella che chiamiamo una "bolla speculativa"
(ossia un anomalo gonfiamento del valore dei titoli azionari o di altri
strumenti finanziari); entrambe si ripercossero negativamente sull'economia
produttiva, provocando fallimenti a catena, disoccupazione, disagi materiali,
soprattutto fra i ceti più poveri.
Rispetto a quella degli anni recenti, la crisi degli anni '30 ebbe tuttavia
effetti più devastanti sul piano sociale, anche perché colpì duramente proprio
le economie più sviluppate del pianeta, a cominciare da quelle degli Usa e della
Germania, allora strettamente collegate fra loro.
Sul piano politico, le conseguenze furono drammatiche: un'ondata di discredito e
di sfiducia colpi non solo il sistema dell'economia di mercato, ma anche le
istituzioni rappresentative e la stessa democrazia liberale, che con quel
sistema economico veniva identificata.
L'eclissi della democrazia
Uscita in apparenza vincitrice dalla prima guerra mondiale, la democrazia
politica, fondata sulle istituzioni rappresentative e sul suffragio universale,
aveva già subito sconfitte importanti nel corso degli anni '20, con
l'affermazione del fascismo in Italia e di altri regimi variamente autoritari in
molti paesi dell'Europa meridionale e orientale.
Gli effetti della grande crisi la indebolirono ulteriormente, fino a metterne a
rischio l'esistenza sull'intero continente europeo.
Alla democrazia si imputava di non aver saputo mantenere le sue promesse di
giustizia e di uguaglianza e di non saper tutelare gli interessi nazionali: di
essere insomma un regime debole e imbelle, fattore di disgregazione anziché di
coesione.
Cresceva intanto il fascino dei modelli alternativi: quello comunista che si
stava affermando in Urss sotto la guida spietata di Stalin; e quello proposto
dal nazionalsocialismo – variante radicale del fascismo – dopo l'avvento al
potere di Hitler in Germania nel 1933.
Giungeva così al suo culmine quella che è stata definita "l'epoca delle
tirannie", caratterizzata dal culto della forza e dal disprezzo del valore della
vita umana.
In questo clima maturarono, nell'indifferenza di gran parte delle opinioni
pubbliche europee, le politiche di aggressione, l'oppressione delle minoranze,
le discriminazioni razziali, le persecuzioni, fino agli stermini di massa che
accompagnarono il secondo conflitto mondiale.
Autoritarismo e totalitarismo
Nel secondo dopoguerra, il termine "totalitarismo" fu usato dalla scienza
politica per indicare una particolare forma di autoritarismo, tipica del secolo
XX, che non si accontentava di controllare la società (come tendevano a fare i
regimi autoritari "tradizionali"), ma pretendeva di pervaderla totalmente, di
trasformarla nel profondo sotto la guida di un capo, attraverso l'uso combinato
del terrore e della propaganda: quel potere, insomma, che non solo reprime il
dissenso attraverso gli apparati di polizia, ma cerca anche di mobilitare i
cittadini attraverso proprie organizzazioni e di imporre la sua ideologia
attraverso il monopolio dell'educazione e dei mezzi di comunicazione di massa.
Il concetto di totalitarismo è chiaramente modellato sull'esperienza di due
regimi per altri versi fra loro contrapposti: quello comunista-staliniano in
Urss e quello nazista-hitleriano in Germania (mentre più discussa è la sua
applicazione al fascismo italiano, che pure fu il primo a definirsi
totalitario).
Per questo la categoria di "totalitarismo" è stata a lungo guardata con sospetto
dalla sinistra marxista.
Oggi è usata comunemente, come la più adatta a designare quella forma di potere
assoluto che si affermò nell'Europa degli anni '30 e che può considerarsi tipica
della moderna società di massa.
Stalinismo e modernizzazione
La collettivizzazione del settore agricolo e la contemporanea
industrializzazione forzata dell'Urss, imposte da Stalin a partire dalla fine
degli anni '20, furono un'operazione grandiosa e terribile, una "rivoluzione
dall'alto", più violenta e più costosa in termini di vite umane di qualsiasi
rivoluzione dal basso: non solo per i molti milioni di morti che essa provocò
direttamente, ma anche perché quell'operazione rappresentò lo sfondo, e la
giustificazione, di uno dei regimi più oppressivi, arbitrari e sanguinari che la
storia avesse mai conosciuto: quello che Stalin costruì portando
all'esasperazione i tratti totalitari del sistema uscito dalla rivoluzione
bolscevica del 1917.
L'associazione fra dispotismo personale e modernizzazione economica può aiutare
a capire il fenomeno, altrimenti inspiegabile, del grande prestigio che Stalin
acquisì fra i lavoratori e gli intellettuali di sinistra di tutto il mondo (e
che sarebbe vistosamente cresciuto dopo che l'Urss fu coinvolta nel secondo
conflitto mondiale dall'attacco della Germania nazista) proprio nel momento in
cui il suo regime mostrava il volto più spietato.
Negli anni della crisi del capitalismo e dell'eclissi della democrazia,
deportazioni, epurazioni ("grandi purghe") e massacri di massa potevano passare
in secondo piano rispetto alla costruzione di un nuovo sistema capace di
realizzare il socialismo e insieme di vincere la guerra.
La guerra ideologica
Scoppiato, nel 1939, a soli ventun anni dalla fine della "Grande Guerra", il
secondo conflitto mondiale si presentò all'inizio come una replica del primo, o
come una nuova fase di un'unica "guerra dei trent'anni" iniziata nell'estate del
1914.
Simile era lo schieramento delle potenze coinvolte (Gran Bretagna e Francia da
una parte, Germania dall'altra, questa volta però con l'appoggio dell'Italia e,
all'inizio, dell'Urss). E simile, almeno in apparenza, l'oggetto del conflitto:
il tentativo della Germania di imporre la propria egemonia all'Europa,
contrastato con tutti i mezzi dalle potenze "democratiche".
Profondamente diverse furono però le motivazioni e le stesse modalità delle due
guerre. In particolare Hitler, primo e indiscusso responsabile dello scoppio del
conflitto, perseguiva un progetto di dominio che andava ben oltre le
tradizionali logiche di potenza. La guerra, dunque, acquistò subito una forte
caratterizzazione ideologica, che si accentuò quando (nel 1941) diventò
veramente mondiale, con l'ingresso dell'Unione Sovietica e degli Stati Uniti,
attaccati rispettivamente dalla Germania e dal Giappone.
Il conflitto si trasformò allora in una "guerra antifascista", che vedeva gli
Stati democratici alleati con la Russia comunista contro Hitler e i suoi alleati
italiani e giapponesi.
Dunque uno scontro fra ideologie e visioni del mondo, feroce come una guerra
civile, caratterizzato per giunta dalla spaventosa forza distruttiva dei nuovi
mezzi bellici, che annullava ogni distinzione fra militari e civili.
Nell'ambito di questa guerra la deportazione e lo sterminio degli inermi
diventarono la regola, in proporzioni mai viste prima. Si spiega così il fatto
che nel tragico bilancio finale del conflitto (circa 50 milioni di morti) le
vittime civili fossero assai più numerose di quelle in divisa.
Lo sterminio pianificato
Lo sterminio di larga parte della popolazione ebraica nei paesi occupati
dalle armate tedesche fu l'atto finale di un lungo itinerario di persecuzione
cominciato nella Germania hitleriana e poi portato avanti nella sua forma più
spietata e radicale nel contesto delle politiche razziali attuate dai nazisti in
Europa centro-orientale nel corso del secondo conflitto mondiale. Si trattò di
un crimine di massa per molti aspetti unico (anche a prescindere dalle sue
dimensioni, comunque spaventose), la cui condanna sarebbe diventata per questo
un momento fondativo della coscienza occidentale e della ricostruzione dei
rapporti internazionali all'indomani della guerra.
Due sono le caratteristiche che distinguono la Shoah (in ebraico
'catastrofe') dai tanti delitti collettivi consumati nell'"epoca delle
tirannie", e segnatamente negli anni della seconda guerra mondiale.
La prima sta nel suo essere originata da un piano consapevole di sterminio volto
alla cancellazione dalla faccia della terra di un intero popolo, individuato
come nemico in quanto tale, in base a un criterio esclusivamente razziale.
La seconda consiste nel fatto di essere stata consumata nel cuore dell'Europa,
per opera soprattutto di un popolo di grandi tradizioni culturali e con alto
livello di istruzione come quello tedesco, in una società da tempo
industrializzata: l'unica peraltro in cui era possibile applicare allo sterminio
le modalità tipiche della produzione in serie, coniugare così strettamente il
progresso tecnologico con la barbarie più feroce.
Dalla ripresa alla crisi
La crescita degli anni '20
Nella seconda metà degli anni '20, l'Europa e il mondo industrializzato,
superati i traumi del primo conflitto mondiale, sembravano avviarsi verso una
nuova stagione di prosperità, simile a quella vissuta all'inizio del '900.
I rapporti fra le maggiori potenze attraversavano una fase di distensione,
grazie anche al consolidamento della democrazia in Germania.
L'economia dell'Occidente capitalistico, trainata dalla spettacolosa espansione
produttiva degli Stati Uniti, aveva ripreso a svilupparsi con discreta
regolarità dopo le convulsioni dell'immediato dopoguerra.
Le contraddizioni della crescita
L'apparente ritorno alla normalità dell'economia internazionale nascondeva
però alcuni squilibri profondi che interessavano in primo luogo il vecchio
continente.
Durante la guerra, gli apparati produttivi dei maggiori Stati europei erano
stati piegati alle esigenze dello sforzo bellico; e la domanda mondiale di beni
di consumo, oltre che di materie prime, era stata soddisfatta in larga parte dai
paesi extraeuropei, che erano rimasti estranei al conflitto o vi avevano preso
parte solo marginalmente. La capacità produttiva di questi paesi era perciò
cresciuta notevolmente.
A guerra finita, l'economia internazionale si trovò di conseguenza alle prese
con una sovrapproduzione cronica, cioè con una capacità produttiva eccessiva
rispetto alle capacità di assorbimento dei mercati.
Un altro problema fu costituito dalla scelta "isolazionista" degli Stati Uniti:
ossia dal loro rifiuto di assumersi non solo il ruolo di protagonista del nuovo
ordine internazionale ma anche quello di leader dell'economia mondiale, a cui la
loro stessa potenza li chiamava. Gli Stati Uniti attuarono così scelte di
politica economica che penalizzavano fortemente le nazioni europee, introducendo
nuovi dazi doganali sulle merci importate (praticando cioè una politica
protezionistica) e varando provvedimenti che limitavano drasticamente
l'immigrazione.
In questo modo, impedirono alle merci provenienti dall'estero di trovare sbocco
nel mercato in quel momento più favorevole e negarono agli europei che al
ritorno dalla guerra non avevano trovato lavoro la possibilità di cercare
fortuna oltreoceano, come invece avevano fatto le precedenti generazioni.
Una cesura epocale
Gli squilibri e le contraddizioni dell'economia internazionale vennero allo
scoperto alla fine del 1929, quando ebbe inizio una crisi economica tanto
imprevista quanto catastrofica.
Scoppiata negli Stati Uniti nell'autunno del 1929 e prolungatasi per buona parte
degli anni '30, la «grande crisi» – come ancora oggi viene chiamata – fece
sentire i suoi effetti anche sulla politica e sulla cultura, sulle strutture
sociali e sulle istituzioni statali, segnando una netta cesura, che si aggiunse
a quella creata dalla Grande Guerra, nello sviluppo delle società occidentali.
La crisi sconvolse i vecchi assetti e accelerò trasformazioni già in atto. Diede
un'ulteriore, decisiva spinta alla decadenza dell'Europa liberale, creando le
premesse per l'affermazione di regimi autoritari.
Compromise seriamente gli equilibri internazionali, mettendo in moto una catena
di eventi che avrebbe portato, nel giro di un decennio, a un nuovo conflitto
mondiale.
Gli Stati Uniti e il crollo del '29
Il primato economico degli Usa
Usciti vincitori da una guerra per loro relativamente breve (e combattuta
lontano dal proprio territorio), gli Stati Uniti videro definitivamente
confermato nel dopoguerra il loro ruolo di grande potenza economica mondiale.
Erano il primo paese produttore in tutti i settori più importanti dell'industria
e dell'agricoltura. Ma erano anche il primo esportatore di capitali e il primo
creditore, in virtù dei prestiti concessi agli alleati nel corso del conflitto.
A guerra finita, il dollaro era la nuova moneta forte dell'economia
internazionale. E, accanto al mercato finanziario di Londra, cresceva di
importanza quello di New York.
A partire dal 1921, superata una breve fase di stagnazione, l'economia
statunitense cominciò a crescere a ritmi molto rapidi. La diffusione della
produzione in serie e i miglioramenti nell'organizzazione del lavoro in fabbrica
favorirono notevoli aumenti di produttività.
Salì la produzione industriale e, con essa, il reddito nazionale, anche se,
contemporaneamente, diminuì il numero degli occupati nell'industria, poiché gli
sviluppi della tecnica causarono una diminuzione della quantità di lavoro
necessaria a ottenere un determinato prodotto. Crebbe, invece, per l'espansione
delle funzioni organizzative e burocratiche, l'occupazione nel settore dei
servizi, mentre la diffusione fra i ceti medi di beni fin allora riservati a
pochi (automobili ed elettrodomestici) faceva degli Stati Uniti il laboratorio
di nuovi modi di vita e di nuovi modelli di consumo.
Isolazionismo e conservatorismo
A questo indiscusso primato non corrispondeva però una adeguata capacità di
guida dei processi economici. All'isolazionismo in politica estera fece
riscontro una forte egemonia conservatrice.
I repubblicani, che rimasero al potere per tutti gli anni '20, alimentarono le
aspettative più ottimistiche sull'immancabile crescita della prosperità
americana, senza troppo preoccuparsi dei gravi problemi sociali che pure
continuavano a manifestarsi nel paese. La distribuzione dei redditi, infatti,
era fortemente sperequata e comportava l'emarginazione di consistenti fasce
della popolazione.
A tutto questo si aggiunse, inoltre, un'ondata di ostilità nei confronti delle
minoranze etniche. Furono introdotte leggi limitative dell'immigrazione, anche
per impedire un'eccessiva contaminazione dei caratteri etnici della popolazione
bianca e la diffusione di ideologie sovversive di origine europea.
Il punto culminante di questa reazione fu il processo ai due anarchici italiani
Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati di omicidio con una montatura
giudiziaria e mandati a morte nel 1927.
Contemporaneamente si inasprirono le pratiche discriminatorie nei confronti
della popolazione nera e la setta del Ku Klux Klan, espressione del razzismo più
isterico, raggiunse negli Stati del Sud le dimensioni di un'organizzazione di
massa.
Consistenti settori della popolazione si chiusero in una difesa ottusa e
fanatica dei valori della civiltà bianca e protestante: anche cattolici ed ebrei
venivano guardati con diffidenza.
Lo stesso proibizionismo – cioè il divieto di fabbricare e vendere bevande
alcoliche, introdotto nel 1920 e rimasto in vigore fino al 1934 – scaturì da
questo retroterra culturale, poiché l'ubriachezza era ritenuta un vizio tipico
di neri e proletari in genere.
La febbre speculativa
Questa realtà sociale così contraddittoria non intaccava però il sostanziale
ottimismo della borghesia nordamericana e la sua fiducia in una continua
moltiplicazione della ricchezza. La conseguenza più vistosa di questo clima fu
la frenetica attività della Borsa di New York (chiamata Wall Street dal nome
della via in cui tuttora ha sede).
Incoraggiati dalla prospettiva di facili guadagni, infatti, i risparmiatori
acquistavano azioni per rivenderle a prezzo maggiorato, facendo assegnamento
sulla continua ascesa delle quotazioni, sostenuta dalla crescente domanda di
titoli. Questa incontenibile euforia speculativa poggiava in realtà su
fondamenta assai fragili.
La domanda sostenuta di beni di consumo aveva fatto si che nel settore
industriale si formasse una capacità produttiva sproporzionata alle possibilità
di assorbimento del mercato interno: possibilità limitate sia dalla particolare
natura dei beni di consumo durevoli (che, non avendo bisogno di essere
continuamente sostituiti, tendevano a «saturare» il mercato), sia dalla crisi
del settore agricolo, che teneva bassi i redditi dei ceti rurali, limitandone il
potere di acquisto.
Il legame con l'Europa
L'industria statunitense aveva ovviato a questa difficoltà con l'aumento
delle esportazioni nel resto del mondo, in particolare nel vecchio continente.
Così fra economia americana ed economia europea si era venuto a creare uno
stretto rapporto di interdipendenza: l'espansione americana finanziava con un
cospicuo afflusso di prestiti la ripresa europea e quest'ultima, a sua volta,
alimentava con le sue importazioni lo sviluppo degli Stati Uniti. Questo
meccanismo, però, poteva incepparsi da un momento all'altro, anche perché i
crediti statunitensi all'estero erano generalmente erogati da banche private e
dunque legati a puri calcoli di profitto.
Quando, nel 1928, molti capitali americani furono dirottati verso le più
redditizie operazioni speculative di Wall Street, le conseguenze sull'economia
europea si fecero sentire immediatamente, ripercuotendosi subito dopo sulla
produzione industriale degli Stati Uniti, il cui indice cominciò a scendere già
nell'estate del 1929.
La caduta della Borsa
In una situazione già carica di segnali allarmanti si abbatterono gli effetti
catastrofici del crollo della Borsa di New York: un evento che fu a un tempo la
spia del malessere dell'economia mondiale e l'elemento propulsore che portò d'un
tratto in superficie tutti gli squilibri accumulatisi nel precedente periodo di
espansione.
Il valore dei titoli a Wall Street raggiunse i livelli più elevati all'inizio
del settembre 1929. Seguirono alcune settimane di incertezza, durante le quali
cominciò a emergere la tendenza degli speculatori a vendere i propri pacchetti
azionari per realizzare i guadagni fin allora ottenuti. La corsa alle vendite
determinò naturalmente una precipitosa caduta del valore dei titoli,
distruggendo in pochi giorni i sogni di ricchezza dei loro possessori. A metà
novembre le quotazioni si stabilizzarono su valori più o meno dimezzati. Ma
intanto molte fortune si erano volatilizzate.
Il crollo del mercato azionario colpì in primo luogo i ceti ricchi e benestanti.
Ma, riducendo drasticamente la loro capacità di acquisto e di investimento, ebbe
conseguenze disastrose sull'intera economia nazionale, colpendo tutti gli strati
della popolazione: un'industria chiudeva i battenti perché priva di ordini,
licenziando i suoi dipendenti; i lavoratori disoccupati erano costretti a
ridurre i loro consumi; il mercato diventava così sempre più asfittico,
provocando il crollo di altre imprese, portando alla rovina gli esercizi
commerciali, aggravando la crisi dell'agricoltura che non trovava più sbocchi
per i suoi prodotti.
La crisi diventa mondiale
Il dilagare della crisi
La crisi innescata dal crollo del 1929 raggiunse in poco tempo un'estensione
mai vista in precedenza.
La recessione economica si diffuse rapidamente in tutto il mondo – con
l'eccezione dell'Unione Sovietica – come una spaventosa epidemia, presentandosi
ovunque con i medesimi sintomi e con la stessa dinamica.
Fra il 1929 e il 1932 la produzione mondiale di manufatti diminuì del 30% e
quella di materie prime del 26%. I prezzi caddero bruscamente sia nel settore
industriale sia, soprattutto, in quello agricolo, dove il calo fu di oltre il
50%. I disoccupati raggiunsero il numero di 14 milioni negli Stati Uniti e di 6
milioni in Germania, cui si deve aggiungere la cifra, ingente anche se
incalcolabile, dei sotto-occupati.
La diffusione internazionale della crisi era il risultato delle strette
relazioni commerciali e finanziarie che univano le diverse aree del mondo fra
loro e le rendevano tutte dipendenti, sia pur in diversa misura, da quanto
accadeva nel paese leader dell'economia mondiale, gli Stati Uniti.
Quando, con lo scoppio della crisi, le banche americane ridussero, fino a
sospenderla, l'erogazione di crediti all'estero, gli Stati europei si trovarono
a corto di capitali, mentre le loro esportazioni negli Usa si ridussero per il
generale calo della domanda. A tutto ciò si aggiunse la decisione, presa nel
1930 dal presidente degli Stati Uniti, Herbert Hoover, di inasprire il
protezionismo per difendere la produzione interna.
La scelta protezionistica e le svalutazioni
La crisi e le risposte che ad essa vennero date dai governi provocarono un
brusco passo indietro nell'integrazione tra i diversi mercati nazionali.
Il protezionismo statunitense indusse gli altri paesi ad adottare analoghe
misure a difesa della propria bilancia commerciale. Molti Stati, poi,
svalutarono le loro monete, per rendere più bassi i prezzi delle proprie merci e
quindi favorire le esportazioni.
Anche in questo caso, si avviarono reazioni a catena che ebbero l'effetto di
rendere altamente instabili i rapporti di cambio tra le diverse monete. La
conseguenza di tutto ciò fu una contrazione drastica del commercio
internazionale, che fra il 1929 e il 1932 – l'anno in cui la crisi giunse al
culmine – si ridusse di oltre il 60% rispetto al triennio precedente.
L'aumento delle disuguaglianze
Anche i paesi meno sviluppati, in America Latina, Asia e Africa, pagarono un
duro prezzo. Le loro economie si basavano in larga parte sull'esportazione di
prodotti agricoli e materie prime verso i paesi più ricchi e quindi furono
fortemente penalizzate dalle politiche protezionistiche.
Nel giro di pochi anni i ricavi delle esportazioni si ridussero di quasi due
terzi per l'America Latina e l'Asia e di circa il 40% per l'Africa. Negli stessi
anni, in quei continenti si accelerava la crescita demografica: non solo quindi
la ricchezza prodotta diminuiva, ma si doveva distribuire a un numero più
elevato di persone. Il divario tra i paesi più ricchi e quelli meno sviluppati
toccò una delle sue punte massime.
L'assenza di collaborazione
Dopo l'inizio della crisi i governi dei paesi più industrializzati provarono
a mettere a punto soluzioni condivise per fronteggiare le emergenze. Tuttavia,
gli incontri e le conferenze internazionali non portarono ad alcun risultato.
Al crescente allentamento dei legami commerciali e finanziari corrispose
l'assenza di una effettiva collaborazione tra gli Stati.
La crisi più grave fin allora sperimentata in età contemporanea, la prima ad
avere un'estensione realmente globale, fu quindi affrontata senza meccanismi di
controllo e di governo adeguati. Se alla vigilia della prima guerra mondiale il
mondo sembrava, sul piano economico, sempre più unificato da inarrestabili
flussi di merci, capitali e persone, venti anni dopo esso appariva frammentato
da nuovi confini, barriere doganali e linee di separazione, mentre gli scambi si
concentravano in aree specifiche sempre meno comunicanti le une con le altre.
Le conseguenze in Europa
La crisi finanziaria
In Europa al declino delle attività produttive e commerciali si sovrappose
una crisi finanziaria che ebbe le sue prime manifestazioni in Austria e in
Germania, dove il fallimento di alcune importanti banche portò al collasso
dell'intero sistema del credito.
Alla crisi bancaria seguì una crisi monetaria.
I crolli verificatisi in Austria e Germania provocarono infatti un allarme
incontrollato sulla solidità delle finanze inglesi (molti capitali britannici
erano stati infatti investiti in quei due paesi) e sulla stessa tenuta della
sterlina. Le banche inglesi dovettero far fronte a un precipitoso ritiro dei
capitali stranieri e a ingenti richieste di conversione delle sterline nel loro
equivalente in oro.
Nel settembre 1931, esauritesi le riserve auree della Banca d'Inghilterra, fu
sospesa la convertibilità della sterlina in oro e la valuta inglese fu
svalutata: si trattò di un avvenimento che destò sensazione, poiché sanzionava
emblematicamente la decadenza della Gran Bretagna dal ruolo di «banchiere del
mondo».
Analoghi provvedimenti vennero successivamente adottati da molti altri paesi,
nella speranza che il deprezzamento della moneta favorisse le esportazioni e
aprisse varchi nelle barriere doganali ovunque frapposte alla circolazione delle
merci.
Le politiche di austerità
Quando la crisi ebbe inizio, tutti i governi dei paesi industrializzati
ritennero di affrontarla affidandosi ai classici principi della scuola economica
liberale, vale a dire tagliando drasticamente la spesa pubblica, per sanare i
deficit di bilancio: vennero così ridotti gli stipendi ai pubblici dipendenti,
diminuite le prestazioni sociali fornite dallo Stato e furono imposte nuove
tasse.
Questi provvedimenti ridussero ulteriormente la domanda interna, aggravando
perciò la recessione e la disoccupazione.
La crisi in Germania
In Germania le conseguenze della crisi si fecero sentire più che in ogni
altro Stato europeo, a causa della stretta integrazione che il sistema dei
prestiti internazionali aveva creato fra l'economia statunitense e quella
tedesca, ancora gravata dall'onere delle riparazioni di guerra.
La crisi mise in gravi difficoltà il governo di coalizione allora guidato dai
socialdemocratici, provocando un dissenso insanabile fra questi ultimi e i
partiti di centro-destra sui sussidi di disoccupazione e sulle altre prestazioni
sociali assicurate dallo Stato, che i moderati volevano ridimensionare
sensibilmente.
Il nuovo capo del governo, il cattolico Heinrich Brüning,
attuò una severissima politica di sacrifici, anche allo scopo di rivelare al
mondo l'intollerabile onere che la Germania era condannata a sopportare per
tener fede all'obbligo delle riparazioni.
Lo scopo fu in parte raggiunto nel 1932, quando una conferenza internazionale
ridusse sensibilmente l'entità delle riparazioni e ne sospese il versamento per
tre anni (trascorsi i quali, comunque, i pagamenti non furono mai ripresi). Ma
intanto la politica di Brüning aveva prodotto ben più tragici frutti: 6 milioni
di lavoratori disoccupati facevano da sfondo alla rapida ascesa del Partito
nazionalsocialista di Hitler che seppe sfruttare il disagio e il risentimento
largamente diffusi nella popolazione.
Francia e Gran Bretagna
Anche in Francia la politica di austerità fu applicata con estremo rigore.
Qui la crisi giunse in ritardo, nella seconda metà del '31, ma durò più a lungo
(nel '38 la produzione non era ancora tornata ai livelli del '29) anche perché i
governi vollero legare il loro prestigio alla difesa della moneta nazionale, il
franco, ritardandone fino al '37 la svalutazione.
La crisi economica coincise con un periodo di grande instabilità della
situazione politica francese: fra l'ottobre del '29 e il giugno del '36 si
succedettero ben diciassette governi, ora di centro-destra ora di
centro-sinistra.
In Gran Bretagna il ministero guidato dal laburista Ramsay MacDonald cercò di
fronteggiare la crisi con un programma che prevedeva, fra l'altro, un drastico
taglio del sussidio ai disoccupati. Questo programma incontrò però la ferma
opposizione delle Trade Unions, le associazioni sindacali, nerbo del
movimento laburista. A quel punto (agosto 1931) MacDonald ruppe clamorosamente
col suo partito e, seguito da una minoranza di deputati laburisti, si accordò
con liberali e conservatori per la formazione di un «governo nazionale» di cui
egli stesso assunse la presidenza. Fu sotto questo governo che la Gran Bretagna
svalutò la sterlina e abbandonò la sua secolare tradizione liberoscambista,
adottando un sistema di tariffe doganali che privilegiava gli scambi commerciali
nell'ambito del Commonwealth.
A partire dal 1933 l'economia europea cominciò a manifestare sintomi di
miglioramento, ma nella maggior parte dei paesi la ripresa fu molto lenta: un
vero rilancio produttivo si ebbe solo alla fine del decennio e fu dovuto anche
al generale incremento delle spese militari conseguente all'aggravarsi delle
tensioni internazionali.
Roosevelt e il New Deal
La vittoria di Roosevelt
Nel novembre 1932, dopo tre anni di crisi che avevano gettato la popolazione
in un angoscioso stato di insicurezza, si tennero negli Stati Uniti le elezioni
presidenziali. Il presidente uscente, il repubblicano Herbert Hoover, che non
aveva conseguito alcun successo nella lotta contro la crisi, fu nettamente
sconfitto dal democratico Franklin Delano Roosevelt, governatore dello Stato di
New York.
Quando presentò la sua candidatura alla presidenza, Roosevelt non aveva un
programma organico da contrapporre ai repubblicani: fin dal momento della
campagna elettorale seppe però far valere le sue notevoli doti di comunicativa,
instaurando con i cittadini un rapporto diretto, convinto com'era che la
condizione preliminare di un'azione politica efficace stesse nella capacità di
infondere speranza e coraggio nella popolazione.
Divennero celebri le sue Conversazioni al caminetto, una trasmissione
radiofonica che teneva spesso, con tono familiare e suadente, per illustrare ai
concittadini la sua attività.
Il New Deal
Già nel discorso di accettazione della candidatura, del 2 luglio 1932,
Roosevelt annunciò di voler inaugurare un New Deal ("nuovo patto" o
"nuovo corso") nella politica degli Stati Uniti: un nuovo corso che si sarebbe
caratterizzato soprattutto per un più energico intervento dello Stato centrale
nei processi economici.
Il New Deal fu avviato immediatamente nei primi mesi della presidenza Roosevelt
– i cosiddetti «cento giorni» – con una serie di provvedimenti che dovevano
servire da terapia d'urto per arrestare il corso della crisi: si cercò in primo
luogo di ristrutturare e risanare, con ingenti aiuti pubblici, il sistema
creditizio, sconvolto da cinquemila fallimenti bancari che avevano polverizzato
i risparmi di milioni di americani; e furono facilitati i prestiti per
consentire ai cittadini indebitati di estinguere le ipoteche sulle case; furono
aumentati i sussidi di disoccupazione e fu svalutato il dollaro per rendere più
competitive le esportazioni.
A queste misure di emergenza, il governò affiancò alcuni provvedimenti più
organici qualificanti, caratterizzati dall'uso di nuovi e originali strumenti
d'intervento.
L'Agricultural Adjustment Act (Aaa) si proponeva di limitare la
sovrapproduzione nel settore agricolo, assicurando premi in denaro a coloro che
avessero ridotto coltivazioni e allevamenti. Il National Industrial Recovery
Act (Nira) imponeva alle imprese operanti nei vari settori dei "codici di
comportamento" volti a evitare, mediante accordi sulla produzione e sui prezzi,
le conseguenze di una concorrenza troppo accanita, ma anche a tutelare i diritti
e i salari dei lavoratori.
Particolare rilievo ebbe, infine, l'istituzione della Tennessee Valley
Authority (Tva), un ente che aveva il compito di sfruttare le risorse
idroelettriche del bacino del Tennessee, producendo energia a buon mercato a
vantaggio degli agricoltori, ed era anche impegnato in opere di sistemazione del
territorio.
Spesa pubblica e legislazione sociale
Se l'esperienza della Tva – rimasta come un modello di intervento organico
sul territorio da parte del potere centrale – rappresentò per Roosevelt un
notevole successo sia sul piano economico sia su quello propagandistico, le
altre iniziative ebbero effetti più lenti e contraddittori.
Il calo della produzione agricola previsto dall'Aaa causò l'espulsione dalle
campagne di vaste masse di lavoratori. Alla fine del '34 gli investimenti erano
ancora stagnanti, mentre i disoccupati raggiungevano gli 11 milioni.
Per porre rimedio a questa situazione, il governo federale allargò al di là di
ogni consuetudine il flusso della spesa pubblica, nella convinzione che le
difficoltà derivanti dalla crescita del deficit potessero essere compensate dal
contemporaneo aumento della produzione e del reddito.
Parallelamente, si intensificò l'impegno nel campo delle riforme sociali.
Nel 1935 furono varate una riforma fiscale, una legge sulla sicurezza sociale –
che garantì alla maggior parte dei lavoratori la pensione di vecchiaia e
riorganizzò l'assistenza statale a favore dei bisognosi – e una nuova disciplina
dei rapporti di lavoro, che garantiva il libero svolgimento dell'azione
sindacale.
Consensi e opposizioni al New Deal
Con le sue misure progressiste in campo sociale Roosevelt si guadagnò
l'appoggio del movimento sindacale che, negli anni del New Deal, attraversò una
fase di espansione grazie anche a un'ondata di lotte operaie senza precedenti
nella storia americana.
D'altra parte, le novità del New Deal e i suoi risultati non sempre brillanti
diedero spazio al formarsi di un'ampia coalizione avversa al presidente.
La Corte suprema degli Stati Uniti, massimo organo del potere giudiziario, cercò
di bloccare le riforme di Roosevelt dichiarando, nel 1935-36,
l'incostituzionalità del Nira e dell'Aaa. Forte dello schiacciante successo
ottenuto nelle elezioni presidenziali del '36, Roosevelt reagì ripresentando con
lievi modifiche le leggi bocciate.
In conclusione, l'azione di Roosevelt, se da un lato smentì i principi cardine
del liberismo – secondo cui lo Stato deve lasciare libero corso alle leggi del
mercato e all'iniziativa imprenditoriale – dimostrando al contrario che
l'intervento statale era indispensabile per arrestare il corso della crisi,
dall'altro non riuscì a conseguire completamente il fine ultimo che si era
proposto: quello cioè di ridare slancio all'iniziativa economica dei privati.
Per tutti gli anni '30 l'economia americana ebbe bisogno di continue iniezioni
di denaro pubblico.
Sarebbe giunta a una vera ripresa, nonché alla piena occupazione, solo durante
la seconda guerra mondiale, con lo sviluppo della produzione bellica.
L'intervento dello Stato in economia
La sfiducia nel mercato
Prima dello scoppio della grande crisi, l'intervento dei poteri pubblici in
economia era stato largamente attuato, soprattutto in Europa, per favorire
l'industrializzazione, per moderare i conflitti di classe e, in forme
particolarmente incisive, per organizzare la produzione in tempo di guerra. Ma
la cultura dominante fra gli economisti e gli statisti dei paesi
industrializzati considerava ancora queste forme di intervento come una
conseguenza di specifiche situazioni o al massimo come un supporto che doveva
rendere più scorrevole il funzionamento del mercato.
La crisi del 1929 fece però sorgere un complesso di problemi la cui soluzione
non poteva essere affidata all'iniziativa dei soggetti privati. E la fiducia
nella capacità del mercato di autoregolarsi e di espandersi per forza propria
precipitò ai livelli minimi.
Molti, in quegli anni, subirono il fascino delle alternative di sistema che si
andavano affermando in Europa: dal collettivismo integrale dell'Urss di Stalin
agli esperimenti corporativi (basati cioè sulla gestione diretta dell'economia
da parte delle rappresentanze sociali e delle organizzazioni di mestiere)
proposti dal fascismo italiano e dai regimi autoritari di destra.
Le forme dell'intervento
Dopo la crisi del '29 fu ovunque lo Stato ad assumersi nuovi e importanti
compiti.
Dalle tradizionali misure di sostegno alle attività produttive (come i dazi
sulle importazioni) si passò all'adozione di più radicali misure di controllo
(sul cambio della moneta, sui prezzi e sui salari) e, infine, all'assunzione da
parte dello Stato di un ruolo attivo nell'espansione economica.
In alcuni casi, come quello appena visto degli Stati Uniti, si agi soprattutto
attraverso lo stimolo alla domanda interna mediante l'espansione della spesa
pubblica; in altri, come in Italia, si giunse all'assunzione diretta da parte
dello Stato di imprese industriali in difficoltà; altrove – in Gran Bretagna e,
in forme più incisive, nei paesi scandinavi – si puntò sull'elaborazione di
programmi di sviluppo che si proponevano di orientare, tramite il credito o la
manovra fiscale, l'attività economica verso obiettivi fissati dal potere
politico.
Le teorie di Keynes
Il primo e più importante tentativo di sistemazione teorica delle
trasformazioni in corso giunse nel 1936, con la pubblicazione da parte
dell'economista inglese John Maynard Keynes del volume Occupazione, interesse
e moneta. Teoria generale, che aprì un capitolo nuovo nella storia della
scienza economica.
Il crollo del '29 e la successiva crisi fornirono a Keynes gli elementi per
confutare alcune proposizioni fondamentali della teoria economica classica, in
particolare quella secondo cui il mercato tenderebbe spontaneamente a produrre
l'equilibrio tra domanda e offerta e a raggiungere la piena occupazione.
Keynes riteneva invece che i meccanismi spontanei del capitalismo non fossero in
grado di garantire da soli un'utilizzazione ottimale delle risorse. Ciò lo
indusse a criticare radicalmente le politiche deflazionistiche che, riducendo il
potere d'acquisto dei privati mediante il contenimento della spesa pubblica e la
restrizione del credito, aggravavano, nelle situazioni di crisi, le difficoltà
dell'economia.
Era dunque compito dello Stato sostenere la domanda con politiche di aumento
della spesa pubblica, anche a costo di allargare, per periodi determinati, il
deficit del bilancio statale e di accrescere la quantità di moneta in
circolazione. Gli effetti inflazionistici di queste misure sarebbero stati
compensati dai benefici arrecati ai redditi e alla produzione.
Le linee di intervento proposte da Keynes in sede di teoria economica
rispecchiavano molto da vicino quelle che Roosevelt stava attuando – o aveva già
attuato – negli Stati Uniti del New Deal. Politiche analoghe, basate
essenzialmente sull'espansione della spesa pubblica, sarebbero state adottate da
quasi tutti i governi occidentali dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Le trasformazioni nella vita sociale
Le città e i servizi
Dopo il 1929 l'intero Occidente industrializzato subì, come si è visto, un
generale processo di impoverimento.
Questo, tuttavia, non impedì che nuove abitudini di vita, nuovi e più moderni
modelli di consumo si affermassero, anche in Europa, presso vasti strati della
popolazione, soprattutto urbana.
Nel corso degli anni '30, il processo di urbanizzazione si accelerò a causa
della grave crisi in cui versava il settore agricolo. Crescita delle città
significava sviluppo del settore edilizio. Lo sviluppo edilizio ebbe a sua volta
conseguenze notevoli non solo sull'economia, ma anche sul modo di vita delle
masse urbane.
Le case di nuova costruzione, in particolare quelle destinate ai ceti medi,
erano di solito fornite di acqua corrente e di elettricità; inoltre, dato che si
trovavano per lo più in zone periferiche, resero necessario uno sviluppo dei
trasporti pubblici – tram elettrici, autobus e metropolitane – e della stessa
motorizzazione privata.
I ceti medi
Inoltre la grande crisi, se per un verso accentuò le distanze fra ricchi e
poveri, e fra occupati e disoccupati, per un altro determinò un certo
miglioramento nelle retribuzioni reali e nei livelli di consumo di quei
lavoratori che avevano mantenuto la loro occupazione e a cui il drastico calo
dei prezzi agricoli aveva consentito di ridurre la quota di reddito riservata ai
consumi alimentari e di aumentare quindi quella da destinare ad altri beni.
Così si spiega come mai, proprio negli anni '30, in Europa alcuni settori
sociali – in primo luogo i ceti medi – poterono fruire per la prima volta su
larga scala di quei beni di consumo durevoli che si erano diffusi negli Stati
Uniti durante il decennio precedente.
I nuovi consumi
La produzione europea di veicoli a motore fece registrare consistenti
progressi, anche se restò lontana dai livelli statunitensi: nel 1938 circolavano
in Europa oltre 8 milioni di autovetture, contro i 5 del 1930, mentre nello
stesso periodo gli Usa passarono da 25 a 30 milioni.
Nel vecchio continente l'automobile rimase, per tutti gli anni '30, un bene
riservato a pochi. Ma intanto cominciavano a comparire anche in Europa le prime
vetture "popolari" – come la Volkswagen ('vettura del popolo') in
Germania o la "Topolino" in Italia – concepite per emulare il successo della
leggendaria Ford T, la prima utilitaria, che negli Stati Uniti, fra il 1908 e il
1924, era stata venduta in 15 milioni di esemplari.
Un discorso analogo si può fare per la produzione degli elettrodomestici. I più
costosi, come frigoriferi e scaldabagni, continuarono a essere considerati beni
di lusso, ma il loro uso si andò ugualmente estendendo, almeno fra le categorie
a reddito più elevato.
Più ampia diffusione, anche fra i ceti medio-inferiori, ebbero altri apparecchi
domestici, come il ferro da stiro elettrico, la cucina a gas e soprattutto la
radio.
Le nuove frontiere dell'informazione: la radio
I primi apparecchi per la trasmissione del suono attraverso l'etere senza
l'ausilio dei fili erano stati sperimentati alla fine dell'800.
Durante i primi vent'anni del '900 la tecnica radiofonica aveva fatto continui
progressi.
Il grande salto si ebbe dopo la fine della prima guerra mondiale, quando la
radio si trasformò da mezzo di comunicazione fra singoli soggetti in strumento
di irradiazione di programmi destinati a un pubblico fornito di apparecchi
riceventi: dunque un mezzo di informazione e di svago.
I primi programmi regolari di trasmissioni si ebbero negli Stati Uniti nel 1920
e furono organizzati da compagnie private che si finanziavano con gli introiti
pubblicitari. Nei maggiori paesi europei le trasmissioni si svilupparono negli
anni immediatamente successivi, per lo più a opera di enti che operavano sotto
il controllo statale, sul modello dell'inglese Bbc (British Broadcasting
Corporation), e imponevano agli utenti un canone di abbonamento.
Nell'uno come nell'altro caso, lo sviluppo della radiofonia fu rapidissimo: alla
fine degli anni '20 esistevano circa 3 milioni di apparecchi in Gran Bretagna,
altrettanti in Germania e quasi 10 negli Stati Uniti. Queste cifre si
moltiplicarono nel decennio successivo: nel 1939 c'erano in tutto il mondo circa
100 milioni di radio, metà delle quali nel Nord America.
Anche come mezzo di informazione la radio non temeva confronti: i notiziari
radiofonici potevano essere ascoltati in qualsiasi ora, non richiedevano
particolari sforzi di attenzione né spese supplementari ed erano per giunta
molto più tempestivi dei giornali. A partire dagli anni '30, infatti, la
diffusione della stampa subì un netto rallentamento. I giornali quotidiani
continuarono a essere acquistati e letti soprattutto dal pubblico più
qualificato, ma persero molta della loro capacità di espansione fra le classi
popolari.
Per riguadagnare il terreno perduto, il settore della carta stampata cominciò a
puntare più sull'immagine: da qui lo sviluppo delle riviste illustrate (capofila
del genere fu l'americana «Life»), dove la parte fotografica prevaleva
decisamente sui testi.
Capostipite di una serie di invenzioni destinate a improntare di sé la civiltà
contemporanea, la radio segnò una tappa decisiva nel cammino della società di
massa e inaugurò – come a suo tempo il telegrafo e il telefono – un'era nuova
nel campo delle telecomunicazioni. Se ne resero conto alcuni grandi gruppi
industriali, in particolare i colossi elettrici americani e tedeschi, che
puntarono decisamente sullo sviluppo della radiofonia. Se ne resero conto anche
gli uomini politici, da Roosevelt a Hitler e Mussolini, che affidarono alla
radio i loro discorsi più importanti e di essa si servirono per assicurare ai
loro messaggi una diffusione capillare.
Il cinema
Gli anni del trionfo della radio videro anche l'affermazione di un'altra
forma di comunicazione di massa tipica del nostro tempo: il cinema.
Verso la fine degli anni '20, con l'invenzione del sonoro, il cinema divenne uno
spettacolo "completo", come lo erano il teatro di prosa o l'opera lirica. Con la
differenza che la proiezione di un film, ripetibile infinite volte, aveva costi
incomparabilmente più bassi rispetto a una rappresentazione teatrale, poteva
essere realizzata in qualsiasi locale abbastanza ampio per contenere uno schermo
ed era quindi alla portata di un pubblico vastissimo.
Spettacolo popolare per eccellenza, esempio di fusione fra creazione artistica e
prodotto industriale, il cinema non era solo un mezzo di svago. Era anche un
veicolo attraverso cui imporre immagini e personaggi: col boom del cinema nacque
il fenomeno del "divismo" di massa, ossia quel particolare rapporto di
attrazione, spesso ai limiti dell'idolatria, che lega il grande pubblico agli
attori più popolari, o meglio alla loro immagine diffusa dagli schermi.
Attraverso il cinema si potevano anche divulgare messaggi ideologici e visioni
del mondo: si pensi al ruolo svolto dalla cinematografia statunitense – la più
importante per prestigio e volume di produzione – nel diffondere in tutto il
mondo i valori tipici della società americana: il coraggio fisico, la tecnica,
l'ascesa individuale.
Una forma di propaganda più diretta era quella affidata ai cinegiornali
d'attualità che venivano proiettati nelle sale cinematografiche in apertura di
spettacolo e svolgevano una funzione complementare a quella dei notiziari
radiofonici.
Politica e spettacolo
Insomma, lo sviluppo delle comunicazioni di massa non solo cambiò
radicalmente i modi di concepire e di usare il tempo libero, ma ebbe effetti
rivoluzionari in tutti i settori dell'attività umana.
La radio e il cinema costituivano un formidabile moltiplicatore, capace di
trasformare in spettacolo di massa qualsiasi manifestazione della vita sociale:
la creazione artistica come la competizione sportiva (fu in questo periodo che
lo sport perse il suo carattere di attività dilettantistica fine a se stessa per
trasformarsi in esibizione destinata essenzialmente al pubblico), la cultura
come la politica.
Furono soprattutto i regimi autoritari a sfruttare appieno le possibilità insite
nei nuovi mezzi di comunicazione e ad accentuare il lato «spettacolare» delle
manifestazioni di massa. Ma anche nelle democrazie la radio, il cinema e la
stampa illustrata contribuirono a «spettacolizzare» la competizione politica, a
valorizzarne gli aspetti più eclatanti, a concentrare l'attenzione sulle figure
dei leader.
I dilemmi della scienza
Negli anni fra le due guerre mondiali, l'onda lunga della rivoluzione della
scienza applicata, cominciata negli ultimi decenni dell'800, continuò a far
sentire i suoi effetti sulla vita quotidiana e sulla salute, sulle attività di
pace e sullo sviluppo dei mezzi bellici.
Risalgono agli anni '20 e '30 alcune scoperte che avrebbero segnato in modo
decisivo la storia del '900, dando la misura del carattere non neutrale della
scienza moderna, vale a dire del suo potere sconfinato, delle sue implicazioni
politiche e sociali, della contraddittorietà dei suoi esiti.
La ricerca sull'atomo
In questi anni un folto gruppo di fisici di diversi paesi, quasi tutti nati
all'inizio del secolo (l'italiano Enrico Fermi, gli inglesi Paul Dirac e James
Chadwick, i francesi Frédéric Joliot e Louis De Broglie, i tedeschi Erwin Schrödinger
e Werner Heisenberg per citarne solo alcuni), portò avanti gli studi e gli
esperimenti sul nucleo dell'atomo avviati all'inizio del '900 da Ernest
Rutherford e da Niels Bohr. Si trattava di ricerche essenzialmente teoriche, che
assunsero però un'immediata risonanza anche al di fuori degli ambienti
scientifici quando, alla fine degli anni '30, si scoprì che dalla scissione,
provocata artificialmente, di un nucleo atomico di materiale radioattivo era
possibile liberare enormi quantità di energia.
Molti intuirono allora che da questa nuova straordinaria fonte di energia
sarebbe stato possibile ottenere un'arma più potente di qualsiasi altra fin
allora realizzata. Ma soltanto nel 1942 quando, durante la seconda guerra
mondiale, una équipe di scienziati nordamericani guidata da Fermi realizzò il
primo reattore nucleare, lo spettro della «guerra atomica» si materializzò
minacciosamente, inducendo i due schieramenti in lotta a un'affannosa e
segretissima corsa verso la costruzione della nuova bomba.
L'aviazione e i suoi impieghi militari
Se i possibili impieghi bellici della fisica nucleare restarono per molto
tempo sconosciuti ai più, nessuno poteva ignorare il nesso strettissimo che
intercorreva fra le caratteristiche della guerra futura e gli sviluppi della
tecnica aviatoria.
Negli anni '20 e '30, l'aeronautica compi in tutti i paesi industrializzati
progressi notevoli: gli aerei divennero più sicuri e più rapidi (i mezzi più
veloci toccavano punte di 7-800 km orari), aumentando nel contempo la loro
capacità di carico e la loro autonomia.
Imprese come la trasvolata solitaria dell'americano Charles Lindbergh, che nel
1927 compì per primo su un piccolo aereo il volo senza scalo da New York a
Parigi, valsero a esaltare agli occhi dell'opinione pubblica mondiale le nuove
possibilità offerte dal trasporto aereo.
L'aviazione civile, dopo i primi timidi passi negli anni '20, conobbe nel
decennio successivo un considerevole incremento, soprattutto negli Stati Uniti,
pur restando, a causa dei suoi alti costi, un servizio accessibile solo alle
categorie privilegiate.
I progressi dell'aviazione civile furono però superati dai contemporanei
sviluppi dell'aeronautica militare. Dopo aver accolto con scetticismo i primi
impieghi bellici dell'aviazione, generali e uomini di governo finirono col
convincersi che un'arma aerea, autonoma dall'esercito e dalla marina, era
destinata a svolgere un ruolo decisivo nelle guerre future.
Tutte le grandi e medie potenze intensificarono, dall'inizio degli anni '30, la
costruzione di aerei militari: aerei da caccia sempre più veloci, aerei da
trasporto sempre più capienti, bombardieri dotati di sempre maggiore autonomia.
L'ipotesi di una guerra in cui i contendenti si combattessero seminando morte
dal cielo fra le popolazioni civili diventava ormai una tragica certezza.
L'EUROPA DEGLI ANNI '30: DEMOCRAZIE E DITTATURE
Democrazie in crisi e fascismi
L'eclissi della democrazia
Negli anni '30 del '900, in coincidenza col dilagare della crisi economica,
la democrazia visse la sua stagione più buia e rischiò addirittura di vedere le
sue istituzioni e le sue culture cancellate dall'Europa continentale, anche dai
paesi in cui sembravano avere basi più solide.
Già nel decennio precedente, regimi autoritari si erano affermati in molti Stati
dell'Europa mediterranea e orientale. Ma, nei paesi più progrediti sul piano
dell'economia e delle strutture civili, questi regimi erano stati visti
soprattutto come un prodotto dell'arretratezza economica e politica e
dell'insufficiente radicamento dei principi liberal-democratici.
Con la grande crisi del 1929, con i successi del nazismo in Germania e con la
crescita generalizzata dei movimenti estremisti e razzisti soprattutto in Europa
orientale (in Polonia come in Romania, in Ungheria come in Jugoslavia), si capì
che il male era più profondo e non risparmiava nemmeno i paesi economicamente
più sviluppati. In ampi strati dell'opinione pubblica si diffuse, infatti, la
convinzione che i sistemi democratici fossero troppo deboli per tutelare gli
interessi nazionali e troppo inefficienti per garantire il benessere dei
cittadini; che la vera alternativa fosse quella fra il comunismo sovietico e i
regimi autoritari di destra.
Furono questi ultimi a conoscere negli anni '30 il loro periodo di maggior
fortuna: sia sotto la veste delle dittature reazionarie di tipo tradizionale,
sia nelle forme più "moderne" del fascismo italiano e poi del nazismo tedesco.
I caratteri dei regimi fascisti
Caratteristica fondamentale dei movimenti e dei regimi che convenzionalmente
chiamiamo fascisti – anche se il fascismo non ebbe mai una base dottrinaria ben
definita – era il tentativo di proporsi come artefici di una propria rivoluzione
(e non solo di una controrivoluzione), di dar vita a un nuovo ordine politico e
sociale, diverso da quelli conosciuti fin allora.
Sul piano dell'organizzazione politica, fascismo significava accentramento del
potere nelle mani di un capo, struttura gerarchica dello Stato, inquadramento
più o meno forzato della popolazione nelle organizzazioni di massa, rigido
controllo sull'informazione e sulla cultura. Sul piano economico e sociale, il
fascismo si vantava di aver inventato una "terza via" fra capitalismo e
comunismo: ma questo modello non riuscì mai a prender corpo e l'unica vera
novità in questo campo consistette nella soppressione della libera dialettica
sindacale, oltre che in un complessivo rafforzamento dell'intervento statale in
economia.
Eppure, nonostante la sua inconsistenza teorica, il fascismo e i regimi ad esso
affini esercitarono una notevole attrazione, soprattutto sugli strati sociali
intermedi. Ai giovani in cerca di avventura, agli intellettuali bisognosi di
certezze, ai piccolo-borghesi delusi dalla democrazia e spaventati
dall'alternativa comunista, le nuove dittature parevano offrire una prospettiva
nuova ed emozionante: la sensazione di appartenere a una comunità e di
riconoscersi in un capo, la convinzione, non importa quanto fondata, di essere
inseriti in una gerarchia basata sul merito (e non sulla ricchezza o sui
privilegi di nascita), l'indicazione di un nemico cui attribuire ogni possibile
colpa.
Società di massa e totalitarismi
Tutto ciò rappresentava una sorta di protezione contro il senso di
schiacciamento e di anonimato provocato dai processi di "massificazione": dunque
una reazione contro la società di massa, ma al tempo stesso un'esaltazione di
alcuni suoi aspetti.
Più di quanto non avessero mai fatto le classi dirigenti liberal-democratiche,
il fascismo seppe capire la società di massa, ne interpretò le componenti
aggressive e violente e soprattutto ne sfruttò appieno le tecniche e gli
strumenti: i mezzi di propaganda (soprattutto quelli nuovi, come la radio e il
cinema), i canali di informazione e di istruzione, le strutture associative, in
particolare quelle giovanili.
Questa capacità di adattamento alla società di massa e di controllo sui suoi
meccanismi costituì una caratteristica specifica del fascismo e del nazismo, ma
anche di un regime di opposta matrice ideologica e sociale come quello sovietico
nell'età di Stalin: fu insomma propria di tutti quei regimi che, per la loro
pretesa di dominare in modo "totale" la società, di condizionare non solo i
comportamenti ma la stessa mentalità dei cittadini, sono stati definiti
totalitari.
Dall'igiene razziale alle politiche di sterminio
Caratteristica comune ai regimi totalitari, anche in tempo di pace, fu la
scarsa o nulla considerazione del valore della vita umana e della dignità
dell'individuo.
Mai come in questa fase della storia europea – non a caso culminata con le
stragi di massa del secondo conflitto mondiale – si affermò la tendenza a
risolvere i problemi col ricorso sistematico alla forza, con le deportazioni e i
campi di concentramento, infine con lo sterminio di intere popolazioni o gruppi
sociali.
La nazione come corpo unico
Queste pratiche non erano del tutto estranee all'Europa di inizio '900, che
aveva conosciuto ripetuti e indiscriminati massacri nei territori dell'ex-Impero
ottomano (in particolare durante le guerre balcaniche) e li aveva praticati
nelle guerre coloniali.
Il salto qualitativo si ebbe però con la prima guerra mondiale, che non solo
produsse una generale assuefazione alla morte di massa, ma abituò i gruppi
dirigenti e le opinioni pubbliche a ragionare in termini di salute e di
efficienza collettiva (delle forze armate e della stessa nazione), più che di
benessere dei singoli.
Infine, la controversa applicazione del principio di nazionalità, a guerra
terminata, creò nuovi problemi di convivenza fra gruppi etnici, spesso risolti
con il trasferimento forzato o la persecuzione delle minoranze, da parte di
Stati che si volevano il più possibile omogenei.
Tutto ciò contribuiva a creare un atteggiamento diffuso, quasi un senso comune
che vedeva nella comunità nazionale non tanto un insieme di individui, quanto
un'entità collettiva, un organismo unico la cui integrità andava tutelata a ogni
costo, anche al prezzo dell'espulsione di qualsiasi corpo estraneo o
dell'amputazione di presunte parti "malate".
La diffusione delle teorie eugenetiche
In questo quadro si spiega la rinnovata fortuna dell'eugenetica, una teoria
nata nella seconda metà dell'800, che sosteneva la necessità di un
perfezionamento non spontaneo della specie umana attraverso pratiche simili a
quelle adottate per gli animali e per le piante: selezioni e incroci volti a far
prevalere, nella trasmissione ereditaria, i caratteri positivi su quelli
negativi.
Figlia della cultura positivista ottocentesca (il suo inventore, Francis Galton,
era cugino di Charles Darwin), l'eugenetica non era all'inizio necessariamente
legata al nazionalismo né alle ideologie razziste (al contrario, affascinò non
pochi intellettuali progressisti, soprattutto anglosassoni). E alcune delle sue
applicazioni più inquietanti – divieto di matrimoni fra soggetti sani e
portatori di malattie ereditarie, sterilizzazione di questi ultimi, interventi
chirurgici sul cervello di malati mentali – furono adottate per la prima volta,
nei primi decenni del '900, dai poteri pubblici in Stati democratici, come gli
Usa, la Gran Bretagna e i paesi scandinavi (non in quelli a maggioranza
cattolica, per la decisa opposizione della Chiesa).
Dalla selezione allo sterminio
Il passaggio da queste esperienze a una diffusa pratica di eliminazione
fisica dei soggetti ritenuti estranei alla comunità, pericolosi o semplicemente
inadatti si ebbe però solo nei regimi totalitari.
Nella Germania nazista l'adozione di misure di sterilizzazione forzata e poi di
soppressione di individui malati si inquadrava nel progetto di una società
basata sulla purezza della razza "eletta" e sul suo dominio su scala mondiale; e
suonava come minacciosa premessa alle deportazioni e allo sterminio razziale che
sarebbero stati praticati ai danni degli ebrei negli anni del secondo conflitto
mondiale.
Diverse nelle motivazioni ma analoghe nelle conseguenze furono le politiche di
sterminio adottate nell'Unione Sovietica di Stalin: qui le vittime (in primo
luogo i kulaki) erano scelte su basi ideologiche e di classe. Ma anche
intere popolazioni (i tartari di Crimea, i tedeschi del Volga) furono deportate
e in larga parte sterminate perché ritenute in blocco politicamente infide.
Alla base di questi orrori c'erano dunque storie diverse, ma un'unica idea di
fondo: quella di una comunità omogenea e compatta, capace di espellere da sé
ogni elemento di diversità (ideologica o religiosa, etnica o razziale) e di
operare come un'unica massa agli ordini di un unico capo dotato di un potere
assoluto e incontrollato. Il che costituiva l'obiettivo autentico – anche se mai
perfettamente raggiunto – dei totalitarismi novecenteschi.
L'ascesa del nazismo
Nel novembre 1923, quando fini in prigione per aver tentato di organizzare un
colpo di Stato a Monaco di Baviera, Adolf Hitler era un personaggio
semisconosciuto, capo di una piccola formazione politica estremista. Meno di
dieci anni dopo, nel gennaio 1933, lo stesso Hitler, leader di un partito che
ormai rappresentava circa un terzo dell'elettorato tedesco, diventava capo del
governo.
Per capire i motivi di questa imprevedibile ascesa è necessario tornare
brevemente sulla Germania degli anni '20 e sugli effetti devastanti della grande
crisi sulla società tedesca.
Hitler e il Partito nazista
Fino al 1930, infatti, il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi
(Nsdap) – o nazista, come veniva comunemente chiamato – rimase un gruppo
marginale, che si serviva sistematicamente della violenza contro gli avversari
politici, potendo contare su una robusta organizzazione armata: le SA (sigla di
Sturm Abteilungen, cioè 'reparti d'assalto') comandate dal capitano
dell'esercito Ernst Röhm.
Dopo il fallimentare tentativo di Monaco, Hitler aveva cercato, sull'esempio di
quanto aveva fatto Mussolini in Italia, di dare al partito un volto più
"rispettabile". Aveva messo da parte le rivendicazioni di stampo
anticapitalistico che figuravano nel programma nazista, riuscendo così ad
assicurarsi un certo sostegno finanziario da parte di alcuni ambienti della
grande industria. Ma non aveva affatto rinunciato al nucleo centrale di quel
programma.
Mein Kampf
Hitler espose con chiarezza i suoi progetti a lungo termine in un libro dal
titolo Mein Kampf ('La mia battaglia'), scritto nei mesi del carcere.
Hitler credeva nell'esistenza di una razza superiore e conquistatrice, quella
ariana, progressivamente inquinata dalla commistione con le razze 'inferiori'.
I caratteri originari dell'arianesimo si erano per lui conservati solo nei
popoli nordici, in particolare nel popolo tedesco, che avrebbe dunque dovuto
dominare sull'Europa e sul mondo.
Per realizzare questo sogno era necessario dapprima schiacciare i nemici
interni: primi fra tutti gli ebrei, considerati, in quanto «popolo senza
patria», i portatori del virus della dissoluzione morale, responsabili a un
tempo dei misfatti del capitale finanziario e di quelli del bolscevismo.
Una volta ricostituita la propria unità in un nuovo Stato, i tedeschi avrebbero
dovuto respingere le imposizioni del trattato di Versailles, recuperare i
territori perduti ed espandersi verso est a danno dei popoli slavi, considerati
razzialmente inferiori.
La ricerca dello "spazio vitale" a Oriente avrebbe fatto coincidere l'espansione
territoriale con la crociata ideologica contro il comunismo.
La crisi economica e i successi dei nazisti
Questo programma, in apparenza poco realistico, aveva trovato scarsi consensi
nella Germania di Weimar.
Nelle elezioni del maggio 1928, infatti, i nazisti ottennero appena il 2,5% dei
voti.
Ma con lo scoppio della grande crisi economica, la maggioranza dei tedeschi,
colpiti per la terza volta in poco più di un decennio (dopo gli anni della
guerra e quelli della grande inflazione), perse ogni fiducia nella Repubblica e
nei partiti che in essa si identificavano.
In questa situazione i nazisti poterono far leva sulla paura della grande
borghesia, sulla frustrazione dei ceti medi, sulla rabbia dei disoccupati. Ai
suoi concittadini provati dalla crisi Hitler offriva non solo la prospettiva
esaltante della riconquista di un primato della nazione tedesca, non solo
l'indicazione di alcuni capri espiatori cui addossare la responsabilità delle
disgrazie del paese, ma anche l'immagine tangibile di una forza politica, la
sua, in grado di ristabilire l'ordine contro «traditori»
e «nemici interni».
L'agonia della Repubblica di Weimar cominciò nel settembre 1930, quando il
cancelliere Heinrich Brüning, esponente del Centro cattolico, convocò nuove
elezioni sperando di far uscire dalle urne una maggioranza favorevole alla sua
politica di austerità. Accadde invece che i nazisti ebbero uno spettacolare
incremento (dal 2,5 al 18,3% dei voti) a spese soprattutto della destra
tradizionale, mentre i comunisti guadagnarono posizioni ai danni dei
socialdemocratici.
L'aspetto più grave dei risultati stava nel fatto che, mentre i partiti contrari
al sistema si rafforzavano, i partiti fedeli alla Repubblica non disponevano più
di una solida maggioranza; Brüning continuò a governare per altri due anni
grazie al sostegno del presidente Hindenburg, che si valse sistematicamente dei
poteri straordinari previsti dalla Costituzione nei casi di emergenza.
Ma in quei due anni le istituzioni parlamentari si indebolirono ulteriormente,
mentre la situazione economica andava precipitando.
Il collasso della Repubblica
La crisi raggiunse il suo apice nel 1932.
La produzione industriale calò dei 50% rispetto al 1928 e i senza lavoro
raggiunsero i 6 milioni: ciò significava che la disoccupazione toccava la metà
delle famiglie tedesche.
Frattanto i nazisti ingrossavano le loro file in modo impressionante (un milione
e mezzo di iscritti). Le città divennero teatro di scontri sanguinosi: nei soli
mesi di luglio e agosto si registrarono più di 150 morti.
Si consumava intanto il collasso del sistema repubblicano. Due crisi di governo
e tre consultazioni elettorali tenute a pochi mesi di distanza l'una dall'altra
non fecero che confermare la crescita delle forze eversive e l'impossibilità di
formare una qualsiasi maggioranza "costituzionale".
Si cominciò, nel marzo 1932, con le elezioni per la presidenza della Repubblica.
Per sbarrare la strada a Hitler, i partiti democratici non trovarono di meglio
che appoggiare la rielezione dell'ottantacinquenne maresciallo Hindenburg.
Quest'ultimo si affermò con un margine abbastanza netto su Hitler, che ottenne
comunque ben 13 milioni di voti, pari al 37%. Ma, una volta confermato nella
carica, il vecchio generale cedette alle pressioni dei militari e della grande
industria e congedò il primo ministro Brüning.
A guidare il governo furono chiamati in successione due uomini della destra
conservatrice, il cattolico Franz von Papen e, poi, il generale Kurt von
Schleicher. Privi del sostegno del Parlamento, entrambi i tentativi fallirono.
Nelle due successive elezioni politiche che Papen fece convocare nella vana
speranza di procurarsi una maggioranza, i nazisti si affermarono come il primo
partito tedesco: 37% dei voti nel luglio '32, il doppio che nelle precedenti
elezioni del '30, e 33% in novembre. I gruppi conservatori, l'esercito, lo
stesso Hindenburg finirono col convincersi che senza di loro non era possibile
governare.
Hitlier diventa cancelliere
Il 30 gennaio 1933 Hitler fu convocato dal presidente della Repubblica e
accettò di capeggiare un governo in cui i nazisti avevano solo tre ministeri su
undici e in cui erano rappresentate tutte le più importanti componenti della
destra.
Gli esponenti conservatori credettero di aver ingabbiato Hitler e di poter
utilizzare il nazismo per un'operazione di pura marca conservatrice. Si
sarebbero presto resi conto di aver sbagliato grossolanamente i loro calcoli.
Il consolidamento del potere di Hitler
L'incendio del Reichstag
A Hitler bastarono pochi mesi per imporre la sua dittatura personale.
L'occasione per una prima stretta repressiva fu offerta dall'incendio appiccato
alla sede del Reichstag, il Parlamento nazionale, a Berlino, nella notte
del 27 febbraio 1933.
L'arresto di un comunista olandese, semisquilibrato mentale, indicato come
l'autore dell'attentato, fornì al governo il pretesto per un'imponente
operazione di polizia contro i comunisti e per una serie di misure eccezionali
che limitavano o annullavano le libertà di stampa e di riunione.
Nelle successive elezioni del 5 marzo i nazisti ottennero un numero di voti (il
44%) che, uniti a quelli dei gruppi di destra, sarebbero bastati ad assicurare
al governo un'ampia base parlamentare. Ma Hitler mirava ormai all'abolizione del
Parlamento. E il Reichstag appena eletto lo assecondò approvando una legge che
conferiva al governo i pieni poteri, compreso quello di modificare la
Costituzione.
Nel giugno 1933 la Spd fu sciolta, insieme ai sindacati di orientamento
socialista. Gli stessi partiti conservatori, che avevano favorito l'avvento del
nazismo, cessarono di esistere.
In luglio Hitler poteva varare una legge che proclamava quello
nazionalsocialista unico partito consentito in Germania. Infine, in novembre,
una nuova consultazione elettorale, questa volta di tipo "plebiscitario", su
lista unica, faceva registrare un 92% di voti favorevoli.
La «notte dei lunghi coltelli»
Di fronte a Hitler restavano ancora due ostacoli: da una parte l'ala
estremista del nazismo, rappresentata soprattutto dalle SA di Röhm;
dall'altra la vecchia destra, impersonata dal presidente Hindenburg e dai capi
dell'esercito, che chiedevano in termini ultimativi a Hitler di tutelare le
tradizionali prerogative delle forze armate.
Hitler, che temeva anche lui l'autonomia delle SA (e, già da qualche anno, aveva
provveduto a formare una sua milizia personale, le SS, sigla di
Schutz-Staffeln, 'squadre di difesa'), decise di risolvere il problema nel
modo più drastico e a lui più congeniale: con un massacro che fece inorridire il
mondo civile.
Nella notte del 30 giugno 1934, la «notte dei lunghi coltelli», reparti delle SS
assassinarono Röhm insieme a tutto lo stato
maggiore delle SA.
Hitler capo dello Stato
La contropartita chiesta e ottenuta da Hitler fu l'assenso delle forze armate
alla sua candidatura alla successione di Hindenburg.
Quando il vecchio maresciallo morì, nell'agosto del '34, Hitler, in base a una
legge da lui stesso promulgata, poté così cumulare le funzioni di cancelliere e
capo dello Stato. Ciò significava, fra l'altro, l'obbligo per gli ufficiali di
prestare giuramento di fedeltà al capo del nazismo: in prospettiva, la fine di
quell'autonomia dal potere politico di cui i generali tedeschi si erano mostrati
così gelosi.
Il Terzo Reich
Il Führer e le masse
Con l'assunzione della presidenza da parte di Hitler scomparivano anche le
ultime tracce del sistema repubblicano.
Nasceva il Terzo Reich, il "Terzo Impero" (dopo il Sacro romano Impero
medievale e quello nato nel 1871), nel quale si realizzava pienamente quel
'principio del capo' (Führerprinzip)
che costituiva un punto cardine della dottrina nazista.
Il capo (Führer è l'equivalente tedesco di "duce") non era soltanto colui
al quale spettavano tutte le decisioni ma anche la fonte suprema dei diritto;
non era solo la guida del popolo, ma anche colui che unico ne esprimeva le
autentiche aspirazioni.
Il rapporto tra capo e popolo era diretto, privo di mediazioni istituzionali e
di ogni forma di rappresentanza. Il solo tramite fra il capo e le masse era
costituito dal partito unico e da tutti gli organismi ad esso collegati: come il
Fronte del lavoro, che sostituiva i disciolti sindacati, o le organizzazioni
giovanili che facevano capo alla Hitlerjugend (Gioventù hitleriana).
Compito di queste organizzazioni era trasformare l'insieme dei cittadini in una
"comunità di popolo" compatta e disciplinata. Da questa comunità di popolo erano
esclusi, per definizione, gli elementi «antinazionali», i cittadini di origine
straniera o di stirpe "non ariana" e soprattutto gli ebrei.
Gli ebrei tedeschi
Gli ebrei erano allora in Germania una ristretta minoranza: circa 500 mila su
una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti. Ma, diversamente da quanto
accadeva in Europa orientale, erano concentrati in prevalenza nelle grandi città
e, pur non facendo parte della classe dirigente tradizionale, occupavano le zone
medio-alte della scala sociale: erano per lo più commercianti, liberi
professionisti, intellettuali e artisti; parecchi avevano posizioni di prestigio
nell'industria e nell'alta finanza.
Nei confronti di questa minoranza attivamente inserita nella comunità nazionale,
la propaganda nazista riuscì a risvegliare quei sentimenti di ostilità – contro
la diversità etnica e religiosa e contro il presunto privilegio economico – che
erano largamente diffusi, soprattutto fra le classi popolari, in tutta l'Europa
centro-orientale.
Le leggi di Norimberga e la discriminazione
La discriminazione fu ufficialmente sancita, nel settembre 1935, dalle
cosiddette leggi di Norimberga che tolsero agli ebrei la nazionalità tedesca e
quindi tutti i diritti politici, e proibirono i matrimoni fra ebrei e non ebrei.
Successivamente agli ebrei fu impedito di avere attività industriali e
commerciali; di esercitare determinate professioni (come la medicina e
l'avvocatura), di avere incarichi statali e direttivi.
Nel 1938, traendo pretesto dall'uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi per
mano di un ebreo, i nazisti organizzarono un gigantesco pogrom in tutta
la Germania: nella notte fra il 9 e il 10 novembre (chiamata «notte dei
cristalli» per via delle molte vetrine di negozi appartenenti a ebrei infrante
dalla furia dei dimostranti) esplose la violenza, con la distruzione di
sinagoghe, la devastazione di abitazioni, decine di ebrei uccisi e migliaia
arrestati.
Da allora in poi la vita divenne pressoché impossibile per gli ebrei tedeschi,
privati dei loro beni, del lavoro, esclusi da molti luoghi pubblici – scuole,
musei, biblioteche –, accusati di cospirare contro il Reich e dunque
minacciati di nuove violenze. Tutto ciò spinse molti ebrei tedeschi a emigrare:
in circa 200 mila fra il '33 e il '39 lasciarono la Germania.
La «soluzione finale»
Infine, a guerra mondiale già iniziata, Hitler concepì il progetto mostruoso
di una «soluzione finale» del problema: soluzione che prevedeva la deportazione
in massa e lo sterminio del popolo ebraico.
La persecuzione degli ebrei era la manifestazione estrema di un più vaste
programma di difesa dell'integrità della "razza" che comportò, fra l'altro, la
sterilizzazione forzata per i portatori di malattie ereditarie e, dalla fine
degli anni '30, anche la soppressione dei malati di mente classificati come
incurabili.
Tali misure suscitarono reazioni di silenziosa protesta che indussero il regime
a sospendere il programma impropriamente detto di "eutanasia".
Fu uno dei rari casi in cui si manifestò una frattura fra la società civile e un
regime che in generale poggiava su un'ampia base di consenso.
Le deboli reazioni delle Chiese cristiane
Fino a quando non fu definitivamente sconfitta in guerra, la macchina del
regime nazista poté funzionare senza incontrare ostacoli di rilievo.
I cattolici, dopo lo scioglimento del Partite del Centro, finirono con
l'adattarsi al regime, incoraggiati anche dall'atteggiamento della Chiesa di
Roma che, nel luglio del '33, stipulò un Concordato col governo nazista.
Solo nel marzo 1937, di fronte agli eccessi della politica razziale, il papa Pio
XI intervenne con un'enciclica in lingua tedesca (Mit Brennender Sorge,
'Con viva ansia'), per condannare le dottrine e le pratiche razziste. Ma non vi
fu, né allora né in seguito, una scomunica ufficiale del nazismo, né una
denuncia del Concordato.
Deboli furono anche le resistenze offerte dalla maggioranza protestante. Le
Chiese luterane, per lo più orientate in senso conservatore e tradizionalmente
ossequienti al potere, si piegarono alle imposizioni del regime, compreso il
giuramento di fedeltà dei pastori al Führer.
Solo una minoranza di ministri del culto (la cosiddetta "Chiesa confessante") si
oppose attivamente alla nazificazione e fu perciò perseguitata.
Repressione e consenso
Per spiegare la debolezza dell'opposizione al nazismo, è necessario
mettere in conto, in primo luogo, la vastità e l'efficienza dell'apparato
repressivo e terroristico: le molte polizie – dalla Gestapo (Geheime
Staatspolizei, 'polizia segreta di Stato') all'onnipresente «servizio di
sicurezza» delle SS – che controllavano con ogni mezzo la vita pubblica e
privata dei cittadini; i campi di concentramento (Lager) dove gli
oppositori venivano rinchiusi a centinaia di migliaia e sottoposti, sotto la
regia di speciali reparti delle SS, a un lento annientamento.
Tutto questo, però, può spiegare la limitatezza del dissenso, almeno di quello
esplicito, ma non aiuta a capire le dimensioni del consenso al regime.
Una prima risposta sta nei successi di Hitler in politica estera, di cui si
parlerà più avanti. Un altro importante fattore di consenso fu senza dubbio la
ripresa economica.
Superato già nel '33 il momento più acuto della crisi, la produzione industriale
tornò in pochi anni ai livelli del '28, per superarli nel '38-39. Grazie all'impulso
dato ai lavori pubblici e soprattutto alla politica di riarmo messa in atto da
Hitler, la disoccupazione diminuì rapidamente: fra il '33 e il '36 i disoccupati
si ridussero da 6 milioni a 500 mila.
Un'utopia antimoderna
Per spiegare l'ampiezza del consenso al regime, occorre però tener
conto di un altro fattore essenziale: la capacità del nazismo di imporre formule
e miti capaci di toccare le corde profonde dell'anima popolare.
Il regime hitleriano propose ai tedeschi un'utopia reazionaria e "ruralista": un
mondo popolato da uomini belli e sani, profondamente legati alla terra, una
società di contadini-guerrieri, libera dalle malattie della civiltà industriale.
Questo ideale — ovviamente irrealizzabile in una società industrializzata e
altamente urbanizzata come quella tedesca — contrastava in realtà con la prassi
concreta del regime, sospinto dalla sua logica bellicista a favorire lo sviluppo
della grande industria. Ma si innestava su una solida tradizione culturale
nazionale, di origine soprattutto romantica, fondata sui miti della terra e del
sangue; e rifletteva uno stato d'animo, largamente diffuso a livello popolare,
di istintivo rifiuto della civiltà moderna.
Propaganda e comunicazioni di massa
La caratteristica peculiare della politica culturale nazista stava nel fatto
che per diffondere un'utopia antimoderna il regime si serviva di tutti i più
moderni strumenti dell'età delle comunicazioni di massa: la stampa, la radio, i
film di propaganda.
Quello di Hitler fu il primo governo a istituire in tempo di pace un ministero
per la Propaganda (affidato all'abilissimo Joseph Göbbels)
che puntava al controllo totale di ogni manifestazione culturale del paese e
divenne uno dei principali centri di potere del regime.
La stampa fu sottoposta a strettissimo controllo. Gli intellettuali furono
inquadrati in un'organizzazione nazionale (la Camera di cultura del Reich)
e dovettero fare atto di adesione al nazismo: quelli che non vollero piegarsi
furono costretti al silenzio o obbligati a lasciare il paese. Ma, soprattutto,
furono utilizzate in misura mai vista prima le tecniche dello spettacolo.
Tutti i momenti più significativi della vita del regime furono infatti scanditi
da cerimonie pubbliche: sfilate militari, esibizioni sportive di gruppo e
soprattutto adunate di massa – come quelle organizzate annualmente a Norimberga
in occasione dei congressi del partito – culminanti nel discorso del Führer o di
altri dirigenti.
Queste cerimonie-spettacolo erano preparate con estrema cura: la scenografia
doveva essere solenne e monumentale, il colpo d'occhio suggestivo, la
coreografia impeccabile.
L'importanza delle cerimonie pubbliche non si limitava a questi aspetti di
parata. Nella grande adunata il cittadino cercava quei momenti di
socializzazione, sia pure forzata, che la vita delle grandi città non offriva
spontaneamente e ritrovava quegli elementi "sacrali" che aveva perso col
tramonto della vecchia società contadina, il cui ritmo era appunto scandito da
feste e da riti.
L'Urss: collettivizzazione e industrializzazione
Negli anni '30, mentre la grande depressione economica investiva l'Occidente
capialistico e fascismo e nazismo trionfavano in Italia e in Germania,
lavoratori e intellettuali di tutto il mondo guardavano con interesse e speranza
all'Unione Sovietica: il paese che tentava di costruire una nuova società
fondata sui principi del socialismo e si presentava come l'estrema trincea
dell'antifascismo mondiale.
Non solo: mentre gli Stati capitalistici si dibattevano nelle spire della crisi,
l'Urss, in virtù del suo stesso isolamento economico, non ne era affatto
toccata, anzi si rendeva protagonista di un gigantesco sforzo di
industrializzazione.
La scelta dell'industrializzazione forzata
La decisione di forzare i tempi dello sviluppo industriale e di porre fine
all'esperienza di parziale liberalizzazione della Nep fu presa da Stalin tra il
'27 e il '28, subito dopo la definitiva sconfitta di quell'opposizione di
sinistra capeggiata da Zinov'ev e Kamenev che proprio sulla necessità
dell'industrializzazione aveva impostato la sua battaglia.
Confluivano in questa scelta l'idea – comune a Lenin e a tutto il partito
bolscevico – dell'industrializzazione come presupposto insostituibile della
società socialista e la convinzione, forte soprattutto in Stalin, che solo un
rapido sviluppo dell'industria pesante avrebbe potuto fare dell'Urss una grande
potenza militare, in grado di competere con le potenze capitalistiche.
La collettivizzazione e la campagna contro i kulaki
Il primo e più importante ostacolo alla costruzione di un'economia altamente
industrializzata e totalmente collettivizzata fu individuato nel ceto dei
contadini benestanti, i kulaki, accusati di affamare le città non
consegnando allo Stato la quota di prodotto dovuta e di arricchirsi alle spalle
del popolo con la vendita sul mercato.
Contro di loro furono adottate misure restrittive e operate ingenti
requisizioni. E, poiché queste misure si rivelarono inefficaci, Stalin proclamò,
nell'estate '29, la necessità di accelerare la collettivizzazione del settore
agricolo, espropriando i contadini di terre, bestiame e mezzi di produzione e
inquadrandoli nelle fattorie collettive. L'obiettivo era quello di «eliminare i
kulaki come classe».
Nonostante l'opposizione di Nikolaj Bucharin, numero due del regime e teorico
della Nep, la maggioranza del partito si schierò con Stalin: Bucharin e i suoi
amici, condannati nel 1930 come «deviazionisti di destra», furono esclusi dai
vertici del partito.
E il gruppo dirigente comunista procedette sulla via della collettivizzazione
forzata, senza arretrare dinanzi alla prospettiva di una inevitabile, sanguinosa
repressione.
I contadini ricchi, ma anche tutti coloro che si opponevano alle requisizioni e
resistevano al trasferimento nelle fattorie collettive (i kolchoz),
furono considerati come «nemici del popolo». Migliaia furono i fucilati dopo
processi sommari. Centinaia di migliaia gli arrestati. Milioni di contadini
furono deportati con le loro famiglie in Siberia o nella Russia settentrionale,
chiusi in campi di lavoro forzato o abbandonati in terre inospitali.
La carestia
Agli effetti della repressione si sommarono quelli di una nuova spaventosa
carestia che ebbe il suo culmine nel biennio '32-33, determinata da una serie di
fattori concomitanti: l'inefficienza di una macchina organizzativa troppo
centralizzata per tener conto delle situazioni locali; la resistenza opposta dai
contadini che, in molti casi, preferirono macellare subito il bestiame piuttosto
che consegnarlo alle fattorie collettive; ma anche la cinica determinazione
delle autorità centrali che non solo non aiutarono in alcun modo la popolazione
affamata, ma insistettero nella politica delle requisizioni.
I risultati in termini di costi umani furono terribili: fra il '29 e il '33 i
kulaki, che in tutta l'Urss erano circa 5 milioni, scomparvero non solo come
"classe", ma, in gran parte, anche come persone fisiche. Nella sola Ucraina, in
quegli stessi anni, le vittime ammontarono, secondo calcoli recenti, a 4
milioni, fra cui numerosissimi bambini.
Ma anche il bilancio economico dell'operazione fu, nell'immediato, disastroso:
solo alla fine degli anni '30 la produzione agricola tornò ai livelli dei tempi
della Nep. Ma intanto deportazioni, morti per fame, ma anche la fuga nelle
città, avevano ridotto drasticamente la popolazione nelle campagne mentre la
grande maggioranza dei contadini (oltre il 90% nel 1939) era stata inserita
nelle fattorie collettive.
I piani quinquennali
Il vero scopo della collettivizzazione dell'agricoltura, che lo stesso Stalin
definì una «rivoluzione dall'alto», era però favorire l'industrializzazione del
paese mediante lo spostamento di risorse economiche e di energie umane dalle
campagne alle fabbriche.
Da questo punto di vista i risultati furono indubbiamente notevoli, anche se
inferiori a quelli programmati: il primo piano quinquennale per l'industria,
varato nel 1928, fissava infatti una serie di obiettivi tecnicamente impossibili
da conseguire. La crescita del settore fu comunque imponente. Nel 1932 la
produzione industriale era aumentata, rispetto al '28, di circa il 50% e il
numero degli addetti all'industria era passato da 3 milioni scarsi a oltre 5
milioni.
Col secondo piano quinquennale (1933-37), la produzione aumentò di un altro 120%
e il numero degli operai giunse a toccare i 10 milioni.
Questi risultati furono consentiti non solo da una straordinaria concentrazione
di risorse – resa a sua volta possibile da un gigantesco prelievo di ricchezza a
spese dell'intera popolazione e soprattutto dei ceti rurali – ma anche dal clima
di entusiasmo ideologico e patriottico, che permise ai lavoratori dell'industria
di sopportare sacrifici pesanti, seppur non paragonabili a quelli dei contadini,
in termini di consumi individuali e di ritmi lavorativi. Gli operai furono
infatti sottoposti a una disciplina severissima, ai limiti della
militarizzazione, ma furono anche stimolati con incentivi materiali che
premiavano i lavoratori più produttivi.
Il caso di un minatore del bacino del Don, Aleksej Stachanov, diventato famoso
per aver estratto in una notte un quantitativo di carbone superiore di ben
quattordici volte a quello normale, diede origine a un vero e proprio movimento
di massa detto appunto "stachanovismo", sostenuto dalle autorità ed esaltato da
Stalin.
Il mito di Stalin
L'eco di questi successi varcò i confini dell'Urss galvanizzando i comunisti
di tutto il mondo e suscitando ammirazione anche presso esponenti di altri
schieramenti politici. Intellettuali sin allora lontani dai partiti comunisti ne
divennero simpatizzanti o aderenti.
Poco conosciuti, o volutamente ignorati, fuori dall'Urss erano i costi umani e
politici di quell'impresa. Pochi immaginarono le reali dimensioni della tragedia
che si era consumata nelle campagne. E pochi si resero conto che il clima
creatosi nel paese in coincidenza col lancio dei piani quinquennali – un clima
di esaltazione collettiva, ma anche di sospetto e di repressione giustificata
con l'esigenza di colpire i "sabotatori" – era il più adatto ad accentuare i
tratti totalitari del regime e la crescita del potere assoluto di Stalin.
L'Urss: le "grandi purghe" e i processi
Il potere assoluto di Stalin
Sorretto da un onnipotente apparato burocratico e poliziesco ma anche dal
consenso spontaneo di milioni di lavoratori – Stalin finì con l'assumere in Urss
un ruolo di capo assoluto, non diverso da quello svolto nello stesso periodo dai
dittatori di opposta sponda ideologica.
Era il padre e la guida infallibile del suo popolo. Era l'autorità politica
suprema, il depositario dell'autentica dottrina marxista-leninista, e al tempo
stesso il garante della sua corretta applicazione. Ogni critica, da qualunque
parte avanzata, assumeva i caratteri odiosi del tradimento.
Il controllo della cultura
Le stesse attività culturali dovevano ispirarsi alle direttive del capo e dei
suoi interpreti autorizzati: uno di questi, Andrej Zdanov, sarebbe assurto alla
fine degli anni '30 al ruolo di controllore di tutto il settore culturale.
La letteratura, il cinema, la musica e le arti figurative furono sottoposte a un
regime di rigida censura e costrette a svolgere una funzione propagandistica e
pedagogica entro i canoni del cosiddetto «realismo socialista»: il che in
pratica significava dedicarsi alla descrizione e all'esaltazione della realtà
sovietica.
La storia recente fu riscritta per mettere meglio in luce il ruolo di Stalin e
cancellare quello di Trotzkij e degli altri oppositori sconfitti.
Persino il settore delle scienze naturali fu messo sotto controllo e scienziati
illustri furono perseguitati per aver sostenuto teorie giudicate non ortodosse.
Le radici del terrore staliniano
Questa deriva totalitaria, che si accentuò nel corso degli anni '30, era in
parte già implicita nei caratteri del bolscevismo e nella prassi autoritaria
inaugurata da Lenin subito dopo la presa del potere. Ma Stalin introdusse nella
gestione di questo sistema elementi di spietatezza e di arbitrio, riconducibili
anche ad alcuni aspetti patologici della sua personalità, che peraltro non gli
impedivano di ragionare in termini di cinico realismo.
Non si limitò a combattere i nemici della rivoluzione, ma eliminò buona parte
del gruppo dirigente comunista. Non solo emarginò politicamente tutti i suoi
rivali reali o potenziali, ma li sterminò fisicamente. E fece sparire assieme a
loro migliaia di quadri dirigenti del partito e un numero incalcolabile di
semplici cittadini sospetti di «deviazionismo» o soltanto invisi alla polizia
politica.
La macchina del terrore: "purghe", Gulag, processi
La macchina del terrore aveva cominciato a funzionare già, come abbiamo
visto, negli anni della collettivizzazione e del primo piano quinquennale:
vittime principali erano stati i contadini, ma anche commercianti, tecnici e
dirigenti di partito accusati di sabotare lo sforzo produttivo.
Nel 1934 l'assassinio — probabilmente organizzato dallo stesso Stalin — di
Sergej Kirov, astro nascente del gruppo dirigente comunista, fornì il pretesto
per un'imponente ondata di arresti fra i quadri del partito. Iniziava così la
stagione delle "grandi purghe", ossia delle epurazioni di massa che
periodicamente colpivano dirigenti politici o intere categorie di cittadini.
Si trattò di una gigantesca repressione poliziesca che assunse negli anni
successivi un ritmo impressionante e fu condotta nell'arbitrio più assoluto,
coinvolgendo milioni di persone e dando vita ad un immenso universo
concentrazionario formato dai campi di lavoro (detti, con termine tedesco,
Lager) disseminati in tutte le zone più inospitali dell'Urss: quell'universo
cui, molti anni dopo, il romanziere Aleksandr Solìenitsyn avrebbe dato il nome
di «Arcipelago Gulag» (Gulag è in realtà una sigla burocratica che sta
per 'Amministrazione centrale dei Lager').
In molti casi le vittime furono prelevate dalle loro case e deportate nei campi
di concentramento senza nemmeno conoscere i loro capi di imputazione.
Peggiore fu la sorte di coloro che furono sottoposti a pubblici processi,
formalmente regolari ma in realtà basati su confessioni estorte con la tortura,
in cui gli imputati si confessavano colpevoli di complotti tramati
immancabilmente d'intesa con i "trotzkisti" e con gli agenti del fascismo
internazionale e venivano poi condannati a morte.
In questo modo furono eliminati tutti gli antichi oppositori di Stalin – Zinov'ev
e Kamenev furono fucilati nel '36, Bucharin nel '38 – ma anche molti stretti
collaboratori del dittatore, inghiottiti dalla stessa macchina che avevano
contribuito a creare. Trotzkij, esule dal '29 e animatore dall'estero di
un'instancabile polemica antistaliniana, fu ucciso nel 1940 in Messico da un
sicario di Stalin.
Un tragico bilancio
In generale, la repressione non risparmiò alcun settore della società.
Professionisti e intellettuali, tecnici e scienziati scomparvero a decine di
migliaia nei campi di concentramento.
Nel '37 una drastica epurazione colpi i quadri delle forze armate: furono
eliminati circa 20 mila ufficiali, a cominciare dal maresciallo Tuchačevskij,
capo dell'Armata rossa.
Si calcola che, tra il '37 e il '38, circa 700 mila persone perirono a causa
delle "purghe".
Fra l'inizio della collettivizzazione e lo scoppio della seconda guerra
mondiale, il conto totale delle vittime ammontò a 10-11 milioni.
Gli echi in Occidente
Le "grandi purghe" e i processi degli anni '30 provocarono notevole
impressione in Occidente.
Nel complesso, però, la denuncia dello stalinismo non ebbe grande rilievo negli
ambienti democratici e socialisti. Lo impedivano il difetto di informazioni
sulle reali dimensioni del fenomeno, ma anche i pregiudizi ideologici — in
particolare l'idea, di origine giacobina, che una certa dose di terrore fosse
componente indispensabile di ogni grande rivoluzione — e soprattutto le remore
politiche: troppo prezioso era il contributo dell'Unione Sovietica e del
comunismo internazionale alla lotta contro il fascismo.
Così l'immagine di Stalin riuscì a passare indenne attraverso il drammatico
periodo delle persecuzioni di massa e il regime comunista sovietico continuò a
mantenere intatto il suo fascino su milioni di lavoratori europei.
Le democrazie europee e i «fronti popolari»
Le prime iniziative internazionali di Hitler
Se già la grande crisi aveva distrutto le basi economiche della
cooperazione fra vinti e vincitori e fra Europa e Stati Uniti, l'avvento al
potere di Hitler diede un colpo definitivo all'equilibrio internazionale
faticosamente costruito nella seconda metà degli anni '20, all'insegna della
«sicurezza collettiva».
La prima importante decisione del governo nazista in materia di politica estera
fu, nell'ottobre '33, il ritiro della Germania dalla Società delle nazioni.
La decisione destò allarme in tutta Europa. Anche l'Italia fascista, nonostante
le affinità ideologiche con la Germania nazista e nonostante il comune
atteggiamento "revisionista" (critico cioè nei confronti dell'assetto
internazionale stabilito a Versailles), ebbe ben presto motivo di preoccuparsi
per le mire aggressive tedesche. Quando in Austria, nel luglio del '34, gruppi
nazisti ispirati da Berlino tentarono di impadronirsi del potere e uccisero il
cancelliere Dollfuss al fine di preparare l'unificazione fra Austria e Germania,
Mussolini reagì immediatamente facendo schierare quattro divisioni al confine
italo-austriaco.
Hitler, che non era ancora pronto per una guerra, fu costretto a fare marcia
indietro sconfessando gli autori del complotto.
Meno di un anno dopo (aprile 1935), di fronte a una nuova iniziativa unilaterale
del governo nazista, che reintrodusse in Germania la coscrizione obbligatoria
vietata dal trattato di Versailles, i rappresentanti di Italia, Francia e Gran
Bretagna si riunirono a Stresa per condannare il riarmo tedesco e per
riaffermare il loro interesse all'indipendenza dell'Austria.
L'accordo di Stresa fu l'ultima manifestazione di solidarietà fra le tre potenze
vincitrici all'interno del sistema di «sicurezza collettiva».
Mentre si accordava con le democrazie occidentali per contrastare il riarmo
tedesco, Mussolini stava già preparando l'aggressione all'Impero etiopico, unico
grande Stato indipendente del continente africano, rompendo così il «fronte di
Stresa» e dando avvio al riavvicinamento italo-tedesco.
L'avvicinamento dell'Urss alle democrazie
Intanto la causa della sicurezza collettiva aveva trovato un nuovo
e insperato sostegno proprio nel paese che fin allora era rimasto – per sua e
per altrui volontà – estraneo a tutte le iniziative di cooperazione europea:
l'Unione Sovietica.
Fino al '33 la politica estera dell'Urss si era ispirata al rifiuto dei trattati
di Versailles, senza fare alcuna distinzione fra Stati fascisti e democrazie
"borghesi".
I successi di Hitler, che non aveva mai fatto mistero dei suoi progetti ostili
nei confronti dell'Urss, indussero Stalin a una svolta radicale. Nel settembre
1934 l'Unione Sovietica entrò nella Società delle nazioni e nel maggio '35
stipulò un'alleanza militare con la Francia.
L'Internazionale comunista e i «fronti popolari»
Questa svolta diplomatica ebbe immediato riscontro in un altrettanto rapido
capovolgimento della linea seguita dalla Terza Internazionale e dai partiti
comunisti europei. Fu improvvisamente accantonata la tattica della
contrapposizione frontale nei confronti delle forze democratico-borghesi e più
ancora delle socialdemocrazie (prima accusate di favorire «oggettivamente» il
fascismo o addirittura di costituire «un'ala del fascismo», da cui l'espressione
polemica «socialfascismo»): tattica che aveva contribuito a isolare il movimento
comunista e a spianare la strada al nazismo in Germania.
La nuova parola d'ordine, lanciata ufficialmente nel VII congresso del
Comintern (Mosca, agosto 1935), fu quella della lotta al fascismo, indicato
come il primo e il principale nemico.
Ai partiti comunisti spettava il compito di riallacciare i rapporti non solo con
gli altri partiti operai, ma anche con le forze democratiche, di favorire
ovunque possibile la nascita di larghe coalizioni dette «fronti popolari» (dove
l'aggettivo stava a indicare il passaggio in secondo piano degli obiettivi più
propriamente socialisti), di appoggiare i governi decisi a difendere le
istituzioni rappresentative.
Questa linea, se da una parte rispecchiava la nuova politica estera sovietica,
dall'altra era il risultato di una pressione unitaria della base operaia
europea, spaventata dalla minaccia fascista. Questa spinta si avverti
soprattutto in Francia, dove l'instabilità dei governi e il susseguirsi degli
scandali politico-finanziari mettevano a dura prova le istituzioni repubblicane,
dando spazio alla crescita della destra reazionaria e dei movimenti filofascisti.
Quando, il 6 febbraio 1934, l'estrema destra organizzò una marcia sul Parlamento
per impedire l'insediamento del governo presieduto dal radicale Daladier,
socialisti e comunisti risposero con manifestazioni unitarie, le prime dopo
molti anni.
Fu questo il primo segno di un riavvicinamento che anticipava la svolta
dell'Internazionale comunista e che sarebbe poi stato sanzionato dalla firma, in
Francia e in altri paesi, di patti di unità d'azione fra socialisti e comunisti.
La rimilitarizzazione della Renania
La nuova linea unitaria fece rinascere nella sinistra la speranza di poter
fronteggiare vittoriosamente le sfide del nazismo e del fascismo. Ma la speranza
si rivelò illusoria. L'avvicinamento fra l'Urss e le democrazie non bastò a
fermare, nel '35, l'aggressione dell'Italia fascista all'Etiopia; né poté
impedire che, nella primavera del '36, Hitler violasse un'altra clausola del
trattato di Versailles, reintroducendo truppe tedesche nella Renania
"smilitarizzata".
La passività mostrata in questa occasione dalle democrazie, che non intervennero
contro una Germania militarmente ancora debole, avrebbe oggettivamente
incoraggiato i piani aggressivi di Hitler.
Il Fronte popolare in Francia
Il solo risultato concreto della politica dei fronti popolari fu quello di
restituire un minimo di unità al movimento operaio europeo, per la prima volta
dopo la grande rottura della rivoluzione russa, e di ridare così alla sinistra
l'opportunità di assumere responsabilità di governo nelle democrazie
occidentali.
Nel febbraio 1936 una coalizione di fronte popolare comprendente anche i
comunisti vinse le elezioni politiche in Spagna. Nel maggio dello stesso anno,
in Francia il netto successo elettorale delle sinistre apri la strada alla
formazione di un governo composto da radicali e socialisti, sostenuto
dall'esterno dai comunisti e presieduto dal socialista Léon Blum.
L'insediamento del primo governo a guida socialista nella storia francese fu
accompagnato da grandi manifestazioni di entusiasmo popolare. La Francia
repubblicana e socialista parve ritrovare per un momento l'atmosfera fra
esaltata e festosa delle rivoluzioni ottocentesche.
Gli operai dell'industria diedero vita a un'imponente ondata di scioperi,
strappando a un padronato riluttante, grazie alla decisiva mediazione del
governo, la firma (giugno 1936) degli storici accordi di Palazzo Matignon che
prevedevano, oltre a consistenti aumenti salariali, la riduzione della settimana
lavorativa a quaranta ore e la concessione di quindici giorni di ferie pagate.
Declino e caduta del Fronte popolare
Ma tali accordi, che rispondevano a esigenze più che legittime (le due
settimane di ferie, ad esempio, erano state conquistate in altri paesi europei
ed erano in vigore anche in Italia e in Germania), crearono notevoli difficoltà
all'economia francese, che non si era ancora ripresa dalla grande depressione.
L'improvviso aumento del costo del lavoro pregiudicò la competitività dei
prodotti dell'industria e innescò un rapido processo inflazionistico che
vanificò in gran parte i vantaggi salariali conseguiti dai lavoratori.
L'inflazione, e i contemporanea fuga dei capitali all'estero, costrinsero il
governo a due successive svalutazioni del franco.
Di fronte alla violenta ostilità degli ambienti industriali e finanziari, oltre
che alla ricorrente minaccia dell'estrema destra, il governo Blum si dimise nel
giugno del '37 senza essere riuscito a condurre in porto un organico programma
di riforme. La maggioranza di sinistra resistette ancora per un anno, prima di
dissolversi a causa dei continui contrasti fra i radicali e i partiti operai.
La guerra civile in Spagna
Fra il 1936 e il 1939, mentre in Francia si consumava l'esperienza
del Fronte popolare, la Spagna fu sconvolta da una sanguinosa guerra civile: un
conflitto che si caricò di accesi antagonismi ideologici, trasformandosi in uno
scontro fra democrazia e fascismo, fra rivoluzione sociale e reazione
conservatrice, fra clericalismo e anticlericalismo.
Scoppiata in un momento di forti tensioni internazionali, la guerra civile
spagnola contribuì a sua volta ad aggravarle. Ma le sue origini furono
essenzialmente nazionali e vanno ricondotte ai contrasti che avevano lacerato il
paese nella prima metà degli anni '30.
Un paese lacerato
Dopo la fine della dittatura di Primo de Rivera e la caduta della
monarchia, la Spagna aveva attraversato un periodo di grave instabilità
economica, politica e sociale, che aveva visto succedersi un fallito colpo di
Stato militare (estate '32) e una insurrezione anarchica sanguinosamente
repressa (autunno '34).
Alle tensioni che percorrevano l'intera Europa negli anni della grande
depressione si sommavano quelle specifiche di un paese arretrato e
prevalentemente agricolo qual era allora la Spagna: dove qualsiasi tentativo
riformatore si scontrava da un lato contro l'ottusità di un ceto dominante
reazionario, dall'altro contro le tendenze sovversive e antistatali di un
proletariato fortemente influenzato dalle ideologie rivoluzionarie.
La Spagna era l'unico paese al mondo in cui la maggior centrale sindacale (la
Cnt) fosse controllata dagli anarchici. Ma era anche uno degli Stati in cui più
si faceva sentire il peso dell'aristocrazia terriera, che possedeva oltre il 40%
delle terre coltivate ed era strettamente legata a una Chiesa a sua volta
schierata in gran parte su posizioni conservatrici e tradizionaliste.
Queste tensioni condizionarono pesantemente anche la vita politica della Spagna
repubblicana, che pure si era data, nel 1932, una Costituzione democratica molto
avanzata. Le principali forze politiche, divise su tutto, erano accomunate da
una concezione strumentale della democrazia, che le portava a rispettare i
verdetti elettorali solo quando erano favorevoli alla propria parte.
La guerra civile e il colpo di Stato
Quando, nel febbraio 1936, la coalizione di Fronte popolare (che vedeva per la prima volta i comunisti alleati a repubblicani e socialisti) si affermò nelle elezioni politiche, la tensione esplose in tutto il paese. Le masse proletarie vissero la vittoria come l'inizio di una rivoluzione sociale: un'autentica esplosione di collera popolare si rivolse contro i grandi proprietari, i notabili conservatori e soprattutto contro il clero cattolico. I gruppi di destra risposero con la violenza squadristica, in cui si distinsero le formazioni della Falange, che si ispiravano al modello fascista.
La guerra civile
La guerra civile di fatto era dunque già in atto quando un gruppo di
militari, seguendo una consolidata tradizione nazionale, decise di ribellarsi al
governo repubblicano. L'evento scatenante fu l'uccisione, il 13 luglio 1936, da
parte di poliziotti repubblicani, dell'esponente monarchico-conservatore José
Calvo Sotelo.
A guidare la ribellione fu una giunta di cinque generali, in cui il ruolo
predominante fu assunto dal poco più che quarantenne Francisco Franco, a capo
delle truppe coloniali di stanza in Marocco. I ribelli assunsero inizialmente il
controllo di gran parte della Spagna occidentale; le prime fasi dello scontro
parvero però favorevoli al governo repubblicano che, appoggiato da una parte
delle stesse forze armate e sostenuto da un'intensa mobilitazione popolare,
mantenne il controllo della capitale e delle regioni del Nord-est, le più ricche
e industrializzate.
Gli interventi esterni
A far pendere la bilancia a favore dei "nazionalisti" di Franco fu il
comportamento delle potenze europee.
Italia e Germania aiutarono massicciamente gli insorti franchisti. Mussolini
inviò in Spagna un contingente di 50 mila "volontari" (ma si trattava in realtà
di reparti regolari) oltre a notevoli quantità di materiale bellico, mentre
Hitler fornì soprattutto aerei e piloti e si servì della guerra per sperimentare
l'efficienza della sua aviazione.
Nessun aiuto venne invece alla Repubblica da parte delle potenze democratiche.
Frenato dagli alleati inglesi e preoccupato dal rischio di uno scontro aperto
con gli Stati fascisti, il governo francese di Fronte popolare si astenne da
ogni aiuto palese ai repubblicani e aderì a un accordo fra le grandi potenze per
il non intervento nella crisi spagnola, sottoscritto, nell'agosto del '36, anche
da Italia e Germania, ma di fatto rispettato soltanto da Francia e Gran
Bretagna.
L'unico Stato a portare un aiuto efficace alla Repubblica fu l'Urss, che rifornì
il governo spagnolo di materiale bellico e favorì, attraverso il Comintern, la
formazione di Brigate internazionali: reparti volontari composti in buona parte
da comunisti ma aperti ad antifascisti di tutte le tendenze e di tutti i paesi.
Numerosi furono gli italiani e i tedeschi che trovarono nella guerra l'occasione
per combattere in campo aperto quella battaglia che non potevano affrontare in
patria. «Oggi in Spagna, domani in Italia» fu lo slogan lanciato da Carlo
Rosselli a nome dell'emigrazione antifascista italiana.
L'intervento dei volontari antifascisti ebbe un significato morale e politico
largamente superiore a quello militare, che pure non fu trascurabile (lo si vide
nella battaglia di Guadalajara del marzo '37, quando gli italiani della Brigata
Garibaldi sconfissero i loro connazionali inquadrati nei reparti fascisti). Ma
ciò non bastava a controbilanciare gli appoggi internazionali di cui godevano i
franchisti.
Le divisioni Inferiori fra i repubblicani e la vittoria dei franchisti
Inferiori agli avversari sul piano militare, i repubblicani erano anche
indeboliti dalle loro divisioni interne.
Mentre Franco, insignito del titolo di caudillo ('duce, condottiero'),
realizzava l'unità di tutte le destre in un partito unico chiamato Falange
nazionalista (ma con i falangisti della prima ora ridotti in posizione
subalterna), il Fronte popolare vedeva allontanarsi quei settori della borghesia
progressista che, favorevoli in un primo tempo alla Repubblica, erano ora
spaventati dalle violenze degli anarchici.
Mentre i nazionalisti mettevano in piedi nei loro territori uno Stato dai chiari
connotati autoritari, i repubblicani si scontravano fra loro sull'organizzazione
presente e futura della società e sul modo stesso di combattere la guerra.
Particolarmente grave era il contrasto che divideva gli anarchici – insofferenti
di qualsiasi disciplina militare e di ogni compromesso politico – dagli altri
partiti della coalizione: a cominciare dai comunisti, favorevoli, in omaggio
alla strategia dei fronti popolari, a una linea relativamente moderata.
Il contrasto assunse toni drammatici soprattutto nella primavera del '37,
quando, a Barcellona, gli anarchici si scontrarono armi in pugno con i comunisti
e l'esercito regolare repubblicano.
I comunisti che, grazie al legame con l'Urss, godevano di un'influenza
sproporzionata alla loro modesta consistenza numerica, adottarono nei confronti
degli anarchici metodi simili a quelli in uso nella Russia di Stalin: numerosi
militanti scomparvero fra il '37 e il '38 e un intero partito, il Poum,
nato dalla confluenza fra trotzkisti e anarchici, fu liquidato anche con
l'intervento di agenti sovietici.
Le divisioni nel fronte repubblicano facilitarono l'offensiva delle forze
nazionaliste: un'offensiva lenta ma sistematica e spietata, volta a eliminare
ogni sacca di resistenza militare e ogni possibile centro di dissidenza
politica.
Abbandonata da tutti (anche il Comintern decise in autunno il ritiro delle
Brigate internazionali), la Repubblica spagnola resistette fino all'inizio del
'39, quando i nazionalisti sferrarono l'offensiva finale che si concluse, in
marzo, con la caduta di Madrid.
Il bilancio della guerra civile
Tre anni di guerra civile lasciarono nel paese una pesante eredità di lutti e
distruzioni: circa 500 mila morti (ai quali vanno aggiunte le decine di migliaia
di vittime di una feroce repressione protrattasi per molti anni dopo il '39),
quasi 300 mila emigrati politici, un dissesto economico di proporzioni
incalcolabili.
Terminata pochi mesi prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, la
guerra civile spagnola ne rappresentò per molti aspetti un sinistro preludio:
anche perché in Spagna furono adottati per la prima volta metodi e tecniche di
guerra (i bombardamenti dei centri abitati, le rappresaglie, i rastrellamenti
dei civili) che l'Europa e il mondo avrebbero presto sperimentato su ben più
ampia scala.
Verso la guerra
I piani di espansione di Hitler
Nel periodo in cui si combatté la guerra di Spagna, la marcia dell'Europa
verso la catastrofe di un secondo conflitto generale subì una paurosa
accelerazione. Il fattore scatenante fu senza dubbio la politica della Germania
hitleriana. Il comportamento arrendevole tenuto da Gran Bretagna e Francia in
tutte le occasioni di confronto con le potenze fasciste convinse Hitler – che
contava ormai sull'amicizia dell'Italia – di poter accelerare i tempi per la
realizzazione del suo programma di espansione e di dominio.
I piani hitleriani non comportavano necessariamente una guerra contro le potenze
occidentali, anche se non scartavano a priori questa eventualità. Al contrario,
Hitler sperò fino all'ultimo di poter evitare uno scontro con la Gran Bretagna,
a patto naturalmente che la Gran Bretagna lasciasse campo libero alle mire
tedesche in Europa centro-orientale.
La Gran Bretagna e l'appeasement
In questa speranza, il dittatore tedesco fu incoraggiato dalla politica
seguita dai governi conservatori britannici, in particolare dal primo ministro
Neville Chamberlain, sostenitore convinto di quella che allora fu chiamata
politica dell'appeasement (in inglese pacificazione'): una politica
basata sul presupposto che fosse possibile ammansire Hitler accontentandolo
nelle sue rivendicazioni più "ragionevoli" e risarcendo in qualche modo la
Germania del trattamento subìto a Versailles.
Il presupposto era sbagliato, visto che i programmi di Hitler non erano affatto
"ragionevoli".
Ma l'idea dell'appeasement riscosse ugualmente notevole successo perché
rispondeva a una tendenza diffusa nella classe dirigente e nell'opinione
pubblica inglese, incline al pacifismo (anche i laburisti, che contestavano l'appeasement
in nome dell'antifascismo, si opponevano poi a qualsiasi politica di riarmo) e
poco convinta, nel fondo, dell'equità del trattato di Versailles.
La più coerente opposizione alla politica di Chamberlain venne da una minoranza
di conservatori che facevano capo a Winston Churchill, convinti che l'unico modo
per fermare Hitler fosse quello di opporsi con decisione a tutte le sue pretese,
anche a costo di affrontare subito una guerra.
La crisi della Francia
La Francia, che era stata negli anni '20 la prima garante dei trattati di
Versailles, era attraversata oltre che da profonde lacerazioni politiche, da una
crisi morale che ne minò la capacità di reazione.
Forte era innanzitutto la paura di una nuova guerra; e troppo recente il trauma
del primo conflitto mondiale che ai francesi era costato un prezzo in vite umane
superiore, in proporzione, a quello di qualsiasi altro popolo. Sentendosi
protetti dalla linea Maginot, i francesi si chiedevano se valesse la pena
rischiare una nuova guerra per difendere i lontani alleati dell'Est europeo. Ad
alimentare queste perplessità concorrevano sia il tradizionale pacifismo dei
socialisti sia l'aperto filofascismo di una destra tanto spaventata dal Fronte
popolare da dimenticare le sue tradizioni nazionaliste («meglio Hitler che Blum»
fu lo slogan di moda in quegli anni negli ambienti reazionari).
Così la Francia, che restava sulla carta la prima potenza militare d'Europa, si
adattò a una politica timida e oscillante, sostanzialmente subalterna a quella
della Gran Bretagna. E ciò consentì alla Germania di cogliere una serie di
successi senza nemmeno dover mettere alla prova le sue forze armate ancora in
fase di ricostituzione.
L'annessione tedesca dell'Austria
Il primo successo clamoroso Hitler lo ottenne nel marzo 1938 con l'annessione
(Anschluss) dell'Austria al Reich tedesco.
Era questo un obiettivo che il Führer, austriaco di nascita, aveva
particolarmente a cuore e che, come abbiamo visto, aveva già tentato di
raggiungere nell'estate del '34. Allora ne era stato impedito dalla decisa
reazione delle potenze occidentali, in particolare dell'Italia.
Ma quando, all'inizio del '38, Hitler rilanciò la questione, mobilitando i
nazisti austriaci e costringendo alle dimissioni il governo in carica, Mussolini
rinunciò a opporsi alle pretese tedesche.
Nessuna reazione venne dal governo britannico, che considerava non del tutto
infondata la rivendicazione dell'Anschluss (l'Austria era un paese di
lingua tedesca, che già in passato si era mostrato favorevole all'unificazione
con la Germania).
L'11 marzo 1938 il capo dei nazisti austriaci Seyss-Inquart, diventato capo del
governo, chiese l'intervento dell'esercito tedesco «per salvare il paese dal
caos». Il giorno seguente le truppe del Reich procedettero
all'occupazione del territorio austriaco.
Un mese dopo, un plebiscito sanzionò a schiacciante maggioranza l'avvenuta
unificazione.
La crisi dei Sudeti e la conferenza di Monaco
La questione austriaca si era appena chiusa, e già Hitler metteva sul tappeto
una nuova rivendicazione: quella riguardante i Sudeti, ossia gli oltre tre
milioni di tedeschi che vivevano entro i confini della Cecoslovacchia.
Anche in questo caso Hitler agì mobilitando i nazisti locali e spingendoli a
formulare richieste sempre più pesanti all'indirizzo del governo ceco: il quale,
in un primo tempo, si mostrò disposto alla concessione di più larghe autonomie
alla comunità tedesca. Ma questo non bastò ad accontentare Hitler, che in realtà
mirava apertamente all'annessione della regione e alla distruzione dello Stato
cecoslovacco.
Due volte, nel settembre del '38, Chamberlain volò in Germania per sottoporre
invano a Hitler ipotesi di compromesso. Alla fine di settembre, quando ormai
l'Europa si stava preparando alla guerra, Hitler accettò la proposta di un
incontro fra i capi di governo delle grandi potenze europee (Urss esclusa),
lanciata in extremis da Mussolini.
Nell'incontro, che si svolse a Monaco di Baviera il 29-30 settembre 1938, i
primi ministri di Gran Bretagna e Francia, Chamberlain e Daladier, accettarono
un progetto presentato dall'Italia che in realtà accoglieva quasi alla lettera
le richieste tedesche e prevedeva l'annessione al Reich dell'intero
territorio dei Sudeti.
Ai cecoslovacchi, che non erano stati nemmeno consultati, non restò che
accettare un accordo che li lasciava alla mercé della Germania e apriva la
strada al dissolvimento della loro Repubblica.
Il disonore e la guerra
Chamberlain, Daladier e lo stesso Mussolini furono accolti, al rientro in
patria, da grandi manifestazioni di entusiasmo popolare e acclamati come
salvatori della pace. Ma quella salvata a Monaco era una pace fragile e
precaria, pagata per giunta a caro prezzo. Accordandosi con Hitler sulla testa
della Cecoslovacchia, le potenze democratiche avevano distrutto, assieme alle
ultime tracce del principio di sicurezza collettiva, la loro stessa credibilità
e avevano aperto la strada a nuove aggressioni.
Il commento più appropriato agli accordi di Monaco fu quello di Winston
Churchill: «Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il
disonore e avranno la guerra».
IL FASCISMO IN ITALIA
Lo Stato fascista
Lo Stato e il partito
Nella storia dei regimi autoritari nel periodo fra le due guerre mondiali, il
fascismo italiano occupa un posto di grande rilievo, se non altro per una
questione di priorità cronologica.
Nella seconda metà degli anni '20, quando in Germania il nazismo era ancora una
forza marginale, in Italia lo Stato fascista era una realtà già consolidata
nelle sue strutture giuridiche – fondate sulla negazione di ogni principio
democratico – e nelle sue manifestazioni esteriori: le adunate di cittadini in
uniforme, le campagne propagandistiche orchestrate dall'autorità,
l'amplificazione dell'immagine e della parola del capo, oggetto di un vero e
proprio culto.
Caratteristica essenziale del regime era la sovrapposizione di due strutture e
di due gerarchie parallele: quella dello Stato, che aveva conservato
l'impalcatura del vecchio Stato monarchico, e quella del partito con le sue
numerose ramificazioni.
Al di sopra di tutti si esercitava incontrastato il potere di Mussolini, che
riuniva in sé la qualifica di capo del governo e quella di "duce" del fascismo.
Ma, contrariamente a quanto sarebbe accaduto nei regimi più tipicamente
totalitari, nel fascismo italiano l'apparato dello Stato ebbe fin dall'inizio,
per esplicita scelta di Mussolini, una netta preponderanza sulla macchina del
partito.
Per trasmettere la sua volontà dal centro alla periferia, Mussolini si servi del
tradizionale strumento dei prefetti – i funzionari pubblici che rappresentano,
in ogni Provincia, il governo – assai più che degli organi locali del Partito
fascista.
A controllare l'ordine pubblico e reprimere il dissenso provvedeva la Polizia di
Stato, mentre la Milizia era confinata a una funzione decorativa e "ausiliaria",
imparagonabile al ruolo svolto, per esempio, dalle SS nella Germania nazista.
Seppur privo di autonomia politica, il Pnf venne però continuamente dilatando le
sue dimensioni e la sua presenza nella società civile.
Dalla fine degli anni '20 l'iscrizione al partito cessò di essere il segno
dell'appartenenza a un'élite e divenne una pratica di massa (nel 1939 gli
iscritti superavano i 2 milioni e mezzo), necessaria fra l'altro per ottenere un
posto nell'amministrazione statale.
Le organizzazioni di massa
Faceva capo al partito anche una serie di organismi collaterali, come l'Opera
nazionale dopolavoro (che si occupava del tempo libero dei lavoratori
organizzando gare sportive, gite e altre attività ricreative) e le numerose
organizzazioni giovanili: i Fasci giovanili, per i giovani dai diciotto ai
ventun anni, i Gruppi universitari fascisti (Guf) e soprattutto l'Opera
nazionale Balilla (Onb).
Quest'ultima, nata nel 1926, inquadrava tutti i ragazzi fra gli otto e i
diciotto anni – divisi, secondo l'età, in «figli della lupa» (dai sei agli otto
anni), «balilla» (dagli otto ai dodici) e «avanguardisti» (dai tredici ai
diciotto) – e forniva loro, oltre a un supplemento di educazione fisica e a
qualche forma di istruzione "premilitare", anche un indottrinamento ideologico
di base.
Nel complesso, queste strutture svolsero una funzione importante nella
fascistizzazione del paese: attraverso queste e altre organizzazioni di massa,
dai sindacati di regime alla Milizia, il fascismo cercava di "occupare", insieme
con lo Stato, anche la società, riplasmandola dalle fondamenta.
Patti lateranensi
Nel suo tentativo di permeare di sé la società il fascismo
incontrava però degli ostacoli; il maggiore era rappresentato dalla Chiesa.
In un paese in cui oltre il 99% della popolazione si dichiarava di fede
cattolica, in cui la pratica religiosa era ovunque diffusa, in cui le parrocchie
rappresentavano spesso l'unico centro di aggregazione sociale e culturale, non
era facile governare contro la Chiesa o senza trovare con essa un qualche
accordo.
Consapevole di ciò, Mussolini cercò un'intesa col Vaticano – profittando della
disponibilità manifestata dalle gerarchie ecclesiastiche nei confronti del
regime – per comporre definitivamente lo storico contrasto fra Stato e Chiesa
che aveva segnato l'intera vita del Regno d'Italia.
Le trattative, condotte in segreto, fra governo e Santa Sede si conclusero il 1
febbraio 1929 con la stipula dei patti che presero il nome dai palazzi del
Laterano, cioè dal luogo in cui Mussolini e il segretario di Stato vaticano,
cardinal Pietro Gasparri, si incontrarono per la firma.
I Patti lateranensi si articolavano in tre parti distinte:
- un trattato internazionale, con cui la Santa Sede poneva ufficialmente fine
alla «questione romana» riconoscendo lo Stato italiano e la sua capitale e
vedendosi riconosciuta la sovranità sullo «Stato della Città del Vaticano» (uno
Stato poco più che simbolico, comprendente la basilica di San Pietro, i palazzi
pontifici e un piccolo territorio circostante);
- una convenzione finanziaria, con cui l'Italia si impegnava a pagare al papa
una forte somma, corrispondente a quella che con la «legge delle guarentigie»
del 1871 lo Stato si era impegnato a pagare annualmente e che il papa aveva
sempre rifiutato di accettare;
- infine un concordato, che regolava i rapporti interni fra la Chiesa e il
Regno d'Italia, intaccando sensibilmente il carattere laico dello Stato. Il
concordato stabiliva fra l'altro che i sacerdoti fossero esonerati dal servizio
militare, che i preti spretati fossero esclusi dagli uffici pubblici, che il
matrimonio religioso avesse effetti civili, che l'insegnamento della dottrina
cattolica fosse considerato «fondamento e coronamento» dell'istruzione pubblica,
che le organizzazioni dipendenti dall'Azione cattolica potessero continuare a
svolgere la propria attività, purché sotto il controllo delle gerarchie
ecclesiastiche e al di fuori di ogni partito politico.
La crescita del consenso
Per il regime fascista i Patti lateranensi rappresentarono un
notevole successo propagandistico.
Presentandosi come l'artefice della "conciliazione", Mussolini consolidò la sua
area di consenso e la estese anche a strati della popolazione rimasti fin allora
ostili o indifferenti.
Le prime elezioni plebiscitarie – tenute col sistema della lista unica e
indette, non a caso, nel marzo 1929, a poche settimane dalla firma dei Patti –
registrarono un afflusso alle urne senza precedenti (quasi il 90%) con un 98% di
voti favorevoli. Un risultato da valutare con cautela (come tutti quelli dei
plebisciti tenuti in regimi autoritari, dove l'elettore non ha una vera libertà
di scelta e manca qualsiasi controllo sulla veridicità dei dati), ma comunque
indicativo di un diffuso orientamento favorevole al regime.
I vantaggi per la Chiesa
Se il fascismo trasse dai Patti lateranensi immediati vantaggi
politici, fu però il Vaticano a cogliere i successi più significativi e
duraturi.
In cambio della rinuncia a qualcosa che aveva irrevocabilmente perduto da quasi
sessant'anni (il potere temporale), la Chiesa acquistò una posizione di
privilegio nei rapporti con lo Stato – anche in materie importanti come
l'istruzione e la legislazione matrimoniale – e rafforzò notevolmente la sua
presenza nella società.
Mantenendo intatta, seppur limitata nelle sue attività, la rete di associazioni
e circoli facente capo all'Azione cattolica, la gerarchia ecclesiastica si
assicurava un margine di autonomia ed entrava in concorrenza col fascismo
proprio nel settore delle organizzazioni giovanili. Di questi spazi la Chiesa
non si servi mai per fare opera di opposizione; li usò, però, per educare ai
suoi valori una parte non trascurabile della gioventù, per formare una classe
dirigente capace, all'occorrenza, di prendere il posto di quella fascista: cosa
che si sarebbe verificata nel secondo dopoguerra.
La monarchia
La Chiesa non costituì l'unico ostacolo per le aspirazioni
totalitarie del fascismo.
Un altro limite insuperabile stava all'interno, anzi al vertice delle
istituzioni statali ed era rappresentato dalla monarchia.
Per quanto fosse nei fatti regolarmente esautorato, fino ad apparire come un
ostaggio nelle mani di Mussolini, il re restava pur sempre la più alta autorità
dello Stato. A lui spettavano, secondo lo Statuto, il comando supremo delle
Forze armate, la scelta dei senatori e il diritto di nomina e revoca del capo
del governo.
Si trattava di poteri del tutto teorici, destinati a restare tali finché il
regime fosse rimasto forte e compatto attorno al suo capo. Ma, in caso di crisi
o di spaccatura interna, le carte migliori sarebbero fatalmente tornate in mano
al re, punto di riferimento obbligato per i militari e la borghesia
conservatrice.
Questa eventualità rappresentava per il fascismo un motivo di sotterranea
debolezza.
Il totalitarismo italiano e i suoi limiti
L'immagine dell'Italia fascista
Se osserviamo l'Italia del ventennio fascista quale ci appare attraverso i
materiali prodotti durante il regime (cinegiornali d'attualità, foto ufficiali,
stampa illustrata), vediamo emergere con evidenza l'immagine di un paese
largamente fascistizzato.
I ritratti di Mussolini esposti nelle scuole e negli uffici o innalzati per le
strade in giganteschi cartelli. Gli edifici pubblici e i monumenti, le copertine
dei libri e le cartoline ornati dall'emblema del fascio littorio, insegna del
potere dei magistrati di Roma antica, eletto a simbolo del regime. I muri
istoriati da scritte guerriere. Le grandi folle mobilitate in occasione delle
ricorrenze fasciste (come l'anniversario della marcia su Roma) o dei discorsi
del duce trasmessi dalla radio. Gli scolari che sfilavano in formazione
militare, vestiti in camicia nera e armati di fucili di legno. I loro padri,
anch'essi in divisa fascista, che si riunivano nei giorni festivi agli ordini
dei fasci locali per celebrare i riti del regime.
Il problema è vedere se queste immagini rispecchiavano la realtà dell'Italia di
allora.
Per comprendere se il paese fosse davvero cambiato rispetto al periodo
precedente, così com'era cambiata la sua immagine ufficiale, è necessario dare
uno sguardo alle condizioni del "paese reale", quali risultano dai dati
statistici.
La società italiana tra sviluppo e arretratezza
I dati ci dicono in primo luogo che, anche durante il periodo fascista,
l'Italia continuò a muoversi e a svilupparsi secondo le linee di tendenza comuni
a tutti i paesi dell'Europa occidentale, benché con un ritmo più lento di quello
tenuto nel ventennio precedente.
La popolazione, che era di 38 milioni nel 1921, passò a 44 nel 1939.
Nello stesso periodo si accentuò l'urbanizzazione e la percentuale dei residenti
in comuni con più di 100 mila abitanti sali dal 13 al 18%; la quota degli
addetti all'agricoltura sul totale della popolazione attiva calò dal 58 al 51%,
mentre quella degli occupati nell'industria passò dal 23 al 26,5% e quella degli
addetti al terziario dal 18 al 22%.
Nonostante questi segni di sviluppo, alla vigilia della seconda guerra mondiale
l'Italia era ancora un paese fortemente arretrato rispetto alle maggiori potenze
europee.
Alla fine degli anni '30, il reddito medio di un italiano era poco più della
metà di quello di un francese, un terzo di quello di un inglese (e un quarto di
quello di uno statunitense). Malgrado spendesse più della metà del suo reddito
in consumi alimentari, l'italiano medio si nutriva essenzialmente di farinacei,
mangiava carne e beveva latte in quantità tre volte inferiore a quella di un
inglese o di un americano, considerava generi di lusso il caffè, il tè e lo
zucchero.
Nel 1938 c'era in Italia un'automobile ogni 100 abitanti (mentre il rapporto era
di 1 a 20 in Gran Bretagna e in Francia), un telefono ogni 70 abitanti (1 a 13
in Gran Bretagna, 1 a 27 in Francia), un apparecchio radio ogni 40 (1 a 6 in
Gran Bretagna, 1 a 8 in Francia).
Il tradizionalismo fascista
L'arretratezza economica e civile della società italiana fu per certi aspetti
funzionale al regime e all'ideologia fascista.
Il fascismo, come il nazismo, predicò il «ritorno alla campagna», lanciando a
più riprese la parola d'ordine della ruralizzazione, e tentò di scoraggiare,
senza peraltro riuscirvi, l'afflusso dei lavoratori verso i centri urbani.
Il fascismo inoltre, d'accordo in questo con la Chiesa, difese ed esaltò la
funzione del matrimonio e della famiglia, come garanzia di stabilità e come base
per lo sviluppo demografico.
Ispirandosi alla dottrina che identificava la potenza con la forza del numero,
il fascismo cercò di incoraggiare con ogni mezzo l'incremento della popolazione:
furono aumentati gli assegni familiari dei lavoratori, vennero favorite le
assunzioni dei padri di famiglia, furono istituiti premi per le coppie più
prolifiche, venne addirittura imposta una tassa sui celibi.
In coerenza con questa linea, il regime ostacolò il lavoro delle donne (anche in
questo caso con scarso successo) e, più in generale, si oppose al processo di
emancipazione femminile.
In realtà anche le donne ebbero, durante il fascismo, le loro strutture
organizzative – i Fasci femminili, le Giovani italiane, le Massaie rurali –, ma
si trattava di organismi poco vitali, la cui funzione principale stava nel
ribadire la centralità delle virtù domestiche, l'immagine tradizionale della
donna come «angelo del focolare».
L'utopia dell' "uomo nuovo"
Il fascismo, però, non era solo un regime conservatore e immobilista. Se da
un lato voleva mantenere in vita strutture sociali e tradizioni del passato,
dall'altro era in qualche modo proiettato verso il futuro, verso la creazione
dell' "uomo nuovo", verso un sistema totalitario moderno, in cui l'intera
popolazione fosse inquadrata nelle strutture del regime e pronta a combattere
per la grandezza nazionale.
Per la realizzazione di questa utopia il ritardo economico e culturale del paese
rappresentava però un ostacolo insormontabile. Non era facile far giungere il
messaggio fascista nei piccoli paesi dove non arrivavano le strade carrozzabili,
non c'erano scuole e non si sapeva che cosa fossero la radio e il cinema.
Le classi lavoratrici
Ma era soprattutto la scarsezza delle risorse che impediva al regime di
praticare una politica economica e sociale capace di conquistare il consenso
delle classi lavoratrici. Nel 1927 venne varata con grande solennità la Carta
del lavoro (in cui si parlava fra l'altro di «uguaglianza giuridica» fra
imprenditori e prestatori d'opera e di «solidarietà fra i vari settori della
produzione»).
Ma le generiche enunciazioni della Carta non erano certo sufficienti a ripagare
i lavoratori della scomparsa dei sindacati liberi e dunque della perdita di
qualsiasi autonomia organizzativa e capacità contrattuale.
I vantaggi dell'organizzazione dopolavoristica e i miglioramenti nel campo della
previdenza sociale (pensioni, ferie pagate) non bastarono a compensare il calo
dei salari reali che, nel settore industriale, scesero del 20% fra il 1921 e il
1939.
I limiti del consenso al regime
Non a caso, i maggiori successi, in termini di partecipazione e di consenso,
il regime li ottenne presso la media e piccola borghesia.
I ceti medi, infatti, non solo furono complessivamente favoriti dalle scelte
economiche del regime e si videro aprire nuovi canali di ascesa sociale dalla
moltiplicazione degli apparati burocratici (sia nello Stato, sia nel partito e
negli enti di nuova istituzione), ma erano anche i più sensibili ai valori
esaltati dal fascismo (la nazione, la gerarchia, l'ordine sociale), i più
disposti a recepirne i messaggi e a farne proprie le parole d'ordine.
In sintesi, il fenomeno della fascistizzazione fu ampio, ma riguardò
essenzialmente gli strati intermedi della società, toccando solo parzialmente le
classi popolari.
Il regime riuscì a cambiare, in maniera anche vistosa, i comportamenti pubblici
e le forme di partecipazione collettiva, ma non a trasformare nel profondo
mentalità e strutture sociali.
Scuola, cultura, informazione
La fascistizzazione della scuola
In coerenza con la sua aspirazione al controllo totale della società, e in
particolare delle giovani generazioni, il fascismo dedicò un'attenzione tutta
particolare alla scuola, già profondamente ristrutturata nel 1923 con la riforma
Gentile: una riforma che sanciva il primato delle discipline umanistiche,
considerate il principale strumento di formazione della classe dirigente.
Una volta consolidatosi, il regime si preoccupò di fascistizzare l'istruzione
sia con una più stretta sorveglianza sugli insegnanti, sia attraverso il
controllo dei libri scolastici e l'imposizione, dal 1930, di testi unici per le
elementari.
Universita e mondo della cultura
Rispetto alla scuola elementare e media, l'università godette di un'autonomia
molto maggiore. Ma non la usò per contestare le scelte culturali del fascismo.
Quando, nel 1931, fu imposto a tutti i docenti il giuramento di fedeltà al
regime, su 1200 professori titolari solo una dozzina, per lo più anziani e
prossimi alla pensione, rifiutarono di giurare e persero così le cattedre.
Vi furono insegnanti non fascisti, o addirittura antifascisti, che si piegarono
all'imposizione solo per poter continuare la loro attività. Ma, nella maggior
parte dei casi, il giuramento non suscitò particolari problemi di coscienza.
In generale, gli ambienti dell'alta cultura – universitaria e non – si
allinearono su una posizione di sostanziale adesione al regime.
Alcuni fra i nomi più illustri della cultura italiana – oltre a Giovanni
Gentile, storici come Gioacchino Volpe, scrittori come Luigi Pirandello,
scienziati come Guglielmo Marconi, musicisti come Pietro Mascagni, architetti
come Marcello Piacentini – fecero esplicita professione di fede fascista.
Molti accettarono di inserirsi nelle istituzioni culturali pubbliche, godendo
delle gratificazioni materiali e dei riconoscimenti di cui il fascismo fu
prodigo nei loro confronti.
Il controllo della stampa
Ben più diretto e capillare fu il controllo esercitato dal regime
sull'informazione e sui mezzi di comunicazione di massa.
Tutto il settore della stampa politica – già fascistizzata fra il '22 e il '26 –
fu sottoposto a un controllo sempre più stretto e soffocante da parte del potere
centrale, che non si limitava alla semplice censura, ma interveniva con precise
direttive sul merito degli articoli.
Affidata istituzionalmente a un apposito ufficio – poi trasformato in ministero
per la Cultura popolare (Minculpop), creato nel 1937 a imitazione di quello
nazista per la propaganda – la sorveglianza sulla stampa era in realtà
esercitata personalmente da Mussolini, il quale, non dimentico del suo passato
di giornalista, dedicava alla lettura dei quotidiani una parte notevole del suo
tempo.
La radio e il cinema
Al controllo sulla carta stampata il regime univa quello sulle trasmissioni
radiofoniche, affidate, dal 1927, a un ente di Stato denominato Eiar
(progenitore dell'attuale Rai).
Come mezzo d'ascolto privato, la radio ebbe però una diffusione abbastanza
lenta, in confronto a quella dei paesi più sviluppati.
Solo dopo il 1935 si affermò come essenziale canale di propaganda, grazie anche
alla decisione del governo di installare apparecchi nelle scuole, negli uffici
pubblici, nelle sedi delle organizzazioni di partito. E solo negli ultimi anni
'30 entrò stabilmente nelle case della classe media, influenzandone non poco i
gusti e le abitudini.
Come la radio, anche il cinema fu oggetto privilegiato delle attenzioni del
regime e ne ricevette generose sovvenzioni, che avevano lo scopo di favorire la
produzione nazionale e di limitare la massiccia penetrazione dei film
statunitensi.
Sulla normale produzione cinematografica il regime esercitò però un controllo
abbastanza elastico, volto più a bandire dalle pellicole qualsiasi argomento
politicamente e socialmente scabroso che non a introdurvi temi di esplicita
propaganda.
Per questo bastavano i cinegiornali d'attualità, prodotti da un apposito ente
statale – l'Istituto Luce – e proiettati obbligatoriamente nelle sale
cinematografiche all'inizio di ogni spettacolo.
I cinegiornali furono uno dei più importanti strumenti di propaganda di massa di
cui disponesse il fascismo: sia perché raggiungevano un pubblico valutabile in
parecchi milioni di persone, sia perché fornivano delle immagini capaci di
attirare l'attenzione popolare e scelte accuratamente per meglio illustrare i
trionfi del fascismo e del suo capo.
Economia e ideologia
Il progetto corporativo
Fin dai suoi esordi, il fascismo italiano ebbe l'ambizione di presentarsi
come portatore di nuove soluzioni nel campo dell'economia.
La formula fatta propria ufficialmente dal regime fu quella del corporativismo:
un'idea che affondava le sue radici addirittura nel Medioevo, nell'esperienza
delle corporazioni di arti e mestieri, e aveva già ispirato nell'800 il pensiero
sociale cattolico.
In sostanza il corporativismo avrebbe dovuto significare gestione diretta
dell'economia da parte delle categorie produttive, organizzate appunto in
«corporazioni» distinte per settori di attività e comprendenti sia gli
imprenditori sia i lavoratori dipendenti.
Le istituzioni corporative avrebbero dovuto incarnare una "terza via" fra
capitalismo e socialismo e contemporaneamente risolvere il problema della
rappresentanza politica secondo criteri diversi da quelli "individualistici"
della democrazia. In realtà un vero sistema corporativo non vide mai la luce.
Per molti anni le corporazioni restarono un puro progetto. Quando infine vennero
istituite, nel 1934, tutto si risolse nella creazione di una nuova burocrazia
sovrapposta a quelle già esistenti e priva di qualsiasi rappresentatività in
quanto designata dall'alto.
Il fascismo riuscì ugualmente a realizzare interventi importanti nell'economia,
ma non inventò un nuovo sistema. E non mantenne nemmeno, nel corso del
ventennio, una linea di politica economica coerente.
Dal liberismo al protezionismo
Nei suoi primi anni di governo (1922-25) il fascismo adottò una linea
liberista, di forte incoraggiamento all'iniziativa privata. Questa politica
provocò però, assieme a un consistente incremento produttivo, un riaccendersi
dell'inflazione, un crescente deficit negli scambi con l'estero e un
deterioramento del valore della lira.
Nell'estate del 1925 si ebbe una brusca svolta; e venne inaugurato un nuovo
corso fondato sul protezionismo, sulla deflazione, sulla stabilizzazione
monetaria e su un più accentuato intervento statale nell'economia.
Prima importante misura fu l'aumento del dazio sui cereali: una misura che si
inseriva in una tendenza di lungo periodo volta a favorire la produzione
cerealicola nazionale, ma che questa volta fu accompagnata da una rumorosa
campagna propagandistica detta «battaglia del grano». L'obiettivo era il
raggiungimento dell'autosufficienza nella produzione dei cereali, da conseguire
sia attraverso l'aumento della superficie coltivata a frumento, sia mediante
l'impiego di tecniche più avanzate: il che avrebbe favorito anche le industrie
produttrici di concimi e macchine agricole. Lo scopo fu in buona parte
raggiunto: alla fine degli anni '30 la produzione di grano era aumentata del
50%. Ma il prezzo fu il sacrificio di altri settori, come l'allevamento
(danneggiato dalla riduzione dei pascoli), e delle colture rivolte
all'esportazione.
La rivalutazione della lira
La seconda "battaglia" fu quella per la rivalutazione della lira.
Nell'agosto 1926 il duce annunciò di voler riportare il cambio in ternazionale
della moneta ai livelli precedenti il conflitto mondiale, e fissò l'obiettivo di
«quota novanta», ossia 90 lire per una sterlina (contro le 145 del cambio allora
in vigore).
Alla base di questa scelta c'era soprattutto il desiderio di dare al mondo
un'immagine di stabilità monetaria oltre che politica, rassicurando i
risparmiatori.
Anche questo obiettivo fu raggiunto, grazie a una forte restrizione del credito
e con l'aiuto di un cospicuo prestito concesso da grandi banche statunitensi.
I prezzi diminuirono e la lira recuperò il potere d'acquisto perduto. Ma a
goderne non furono i lavoratori, che si videro tagliare i salari in misura più
che proporzionale.
Molte piccole e medie aziende agricole entrarono in crisi perché strozzate dal
calo dei prezzi dei loro prodotti e dalla restrizione del credito. Nel settore
industriale, furono colpite soprattutto le imprese che lavoravano per
l'esportazione, danneggiate dalla rivalutazione della moneta.
Gli effetti della grande crisi
L'economia italiana non si era ancora ripresa dalla cura deflazionistica,
quando cominciarono a farsi sentire le conseguenze della crisi mondiale.
Gli effetti furono meno drammatici che in altri paesi europei, anche perché la
politica economica adottata dopo il 1925 aveva in qualche modo anticipato gli
effetti negativi della crisi. Ma la recessione si fece sentire pesantemente
anche in Italia: il commercio con l'estero si ridusse drasticamente (nel '33 il
volume delle esportazioni era più che dimezzato rispetto al '29); l'agricoltura
subì un nuovo colpo a causa del calo delle esportazioni e dell'ulteriore
tracollo dei prezzi; le imprese industriali accusarono gravi difficoltà e la
disoccupazione aumentò bruscamente.
La risposta del regime si attuò su due direttrici principali: lo sviluppo dei
lavori pubblici come strumento per rilanciare la produzione (qui si può notare
una analogia con le politiche messe in atto sia negli Stati Uniti di Roosevelt
sia nella Germania di Hitler); e l'intervento diretto dello Stato a sostegno dei
settori in crisi.
I lavori pubblici
La politica dei lavori pubblici ebbe il suo maggiore sviluppo nella prima
metà degli anni '30.
Furono realizzate nuove strade e costruiti nuovi edifici pubblici dove il regime
poté appagare il suo gusto per il monumentale. Fu varato il «risanamento» del
centro storico della capitale, che provocò la distruzione di interi antichi
quartieri. E fu avviato un ambizioso programma di bonifica integrale che avrebbe
dovuto portare al recupero e alla valorizzazione delle terre incolte.
Il progetto, ostacolato sia dalle difficoltà della finanza pubblica sia dalle
resistenze dei grandi proprietari, fu attuato solo parzialmente. Fu però portata
a termine, nel giro di soli tre anni (dal '31 al '34), la bonifica dell'Agro
Pontino, un vasto territorio paludoso e malarico a Sud della capitale.
In complesso furono recuperati alle colture circa 60 mila ettari.
Furono creati 3000 nuovi poderi dove vennero trasferiti contadini provenienti
dalle zone più depresse del Centro-Nord (soprattutto dal Veneto); furono
costruiti villaggi rurali e vere e proprie «città nuove» come Sabaudia e
Littoria (l'odierna Latina): per il regime, un indubbio successo
propagandistico.
La crisi bancaria e l'intervento statale
Fu comunque nel settore dell'industria e del credito che l'intervento dello
Stato assunse le forme più incisive.
In difficoltà erano soprattutto le grandi banche (Banca Commerciale e Credito
italiano) che erano state create alla fine dell'800 allo scopo di sostenere gli
investimenti nell'industria e che, nel dopoguerra, avevano assunto il controllo
di importanti gruppi industriali, soprattutto nel settore siderurgico.
Per evitare che la crisi di questi gruppi trascinasse con sé quella delle
banche, il governo intervenne creando dapprima (1931) un nuovo istituto di
credito, l'Istituto mobiliare italiano (Imi), col compito di sostituire le
banche in difficoltà nel sostegno alle industrie in crisi, e dando vita due anni
dopo (1933) all'Istituto per la ricostruzione industriale (Iri).
Valendosi di fondi forniti in gran parte dallo Stato, l'Iri rilevò le
partecipazioni industriali delle banche, assumendo così il controllo di alcune
fra le maggiori imprese italiane, fra cui l'Ansaldo, l'Ilva e la Terni.
L'Italia Stato imprenditore
Nei progetti originari, il compito dell'Istituto avrebbe dovuto essere
transitorio, limitandosi al risanamento delle imprese in crisi in vista di una
loro riprivatizzazione. Accadde invece che la vendita ai privati risultò
impraticabile (date le dimensioni delle imprese e i rischi connessi alla loro
gestione) e l'Iri diventò, nel 1937, un ente permanente.
In questo modo lo Stato italiano si trovò a controllare una quota dell'apparato
industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro paese (salvo
naturalmente l'Urss): diventò cioè Stato-imprenditore oltre che Stato-banchiere,
senza con ciò minacciare l'autonomia delle grandi imprese.
Al contrario, i maggiori gruppi privati furono aiutati a rafforzarsi e a
ingrandirsi e accolsero con favore l'intervento statale, che accollava alla
collettività i costi della crisi industriale e bancaria.
L'autarchia e l'economia di guerra
Intorno alla metà degli anni '30 l'Italia era uscita dalla fase più acuta
della crisi, sia pure a prezzo di sacrifici non lievi.
A questo punto, però, mancarono al regime la capacità e la volontà di profittare
della ripresa per mettere in moto un processo di sviluppo che si riflettesse
sulle condizioni di vita della popolazione.
Al contrario, il regime si lanciò in una politica di dispendiose imprese
militari che sottrasse risorse ai consumi privati e agli investimenti
produttivi.
Alla fine del 1935, traendo spunto dalle sanzioni economiche imposte all'Italia
per l'aggressione all'Etiopia, Mussolini decise inoltre di intensificare la
politica "autarchica" già inaugurata con la «battaglia del grano» e consistente
nella ricerca di una sempre maggiore autosufficienza economica, soprattutto nel
campo dei prodotti e delle materie prime indispensabili in caso di guerra.
L'autarchia si tradusse in una ulteriore stretta protezionistica, in un più
intenso sfruttamento del sottosuolo e in un incoraggiamento alla ricerca
applicata, soprattutto nel campo delle fibre artificiali e dei combustibili
sintetici. I risultati finali non furono brillanti.
L'autosufficienza rimase un traguardo irraggiungibile. E la produzione
industriale crebbe piuttosto lentamente.
Cominciava per l'Italia una lunga stagione di economia di guerra destinata a
prolungarsi senza interruzioni fino al secondo conflitto mondiale.
La politica estera e l'Impero
La vocazione nazionalista
Diversamente dalla Germania, uscita sconfitta dalla guerra e punita
al tavolo della pace, l'Italia mussoliniana non aveva da avanzare rivendicazioni
territoriali capaci di mobilitare l'opinione pubblica.
Nonostante le delusioni subite a Versailles, era pur sempre una potenza
vincitrice e aveva risolto in modo soddisfacente la spinosa questione adriatica.
Non per questo il fascismo poteva accantonare quella vocazione nazionalista ed
espansionista che faceva parte dei suoi caratteri originari e lo portava a
proporsi come il restauratore delle glorie di Roma antica.
Fino ai primi anni '30, le aspirazioni imperiali del fascismo rimasero vaghe e
si tradussero, più che in una coerente direttiva di politica estera, in una
generica contestazione dell'assetto europeo uscito dai trattati di Versailles.
Il che tuttavia non impedì all'Italia di mantenere buoni rapporti con la Gran
Bretagna e di restare all'interno del sistema di sicurezza collettiva fondato
sull'intesa fra le potenze vincitrici.
L'accordo di Stresa dell'aprile 1935 fu la manifestazione più significativa di
questa fase della politica estera fascista. Ma fu anche l'ultima: mentre si
accordava con le democrazie occidentali per contrastare il riarmo tedesco,
Mussolini stava già preparando l'aggressione all'Impero etiopico, allora l'unico
grande Stato indipendente del continente africano.
L'impresa etiopica e le sanzioni
A spingere Mussolini verso un'impresa di cui pochi in Italia sentivano la
necessità furono motivi di politica internazionale e interna.
Con la guerra d'Etiopia il duce intendeva innanzitutto dare uno sfogo alla
vocazione imperiale del fascismo, vendicando al contempo lo scacco subito
dall'Italia nel 1896 con la sconfitta di Adua. Ma voleva anche creare una nuova
occasione di mobilitazione popolare che facesse passare in secondo piano i
problemi economici e sociali del paese.
I governi francese e britannico erano disposti ad assecondare, almeno in parte,
le mire italiane. Ma non potevano accettare che uno Stato indipendente, membro
della Società delle nazioni, fosse cancellato dalla carta geografica da un atto
di aggressione. Così, quando all'inizio di ottobre del 1935 l'Italia diede
inizio all'invasione dell'Etiopia, Francia e Gran Bretagna proposero al
Consiglio della Società delle nazioni l'adozione di sanzioni, consistenti nel
divieto di esportare in Italia merci necessarie all'industria di guerra.
Approvate a schiacciante maggioranza pochi giorni dopo l'inizio dell'invasione,
le sanzioni ebbero un'efficacia molto limitata: sia perché il blocco non era
esteso alle materie prime, sia perché non impegnava gli Stati che non facevano
parte della Società delle nazioni, come gli Stati Uniti e la Germania.
Le decisioni prese ebbero però l'effetto di creare una frattura fra il regime
fascista e le democrazie europee e consentirono a Mussolini di montare
un'imponente campagna propagandistica tesa a presentare l'Italia come vittima di
una congiura internazionale.
L'immagine dell'Italia «proletaria» cui le nazioni «plutocratiche», già padrone
di sterminati imperi coloniali, volevano impedire la conquista di un proprio
«posto al sole» riuscì in effetti a far breccia nell'opinione pubblica italiana,
non escluse le classi popolari, alle quali fu fatto intravedere il miraggio di
nuovi posti di lavoro e di nuove opportunità di ricchezza da conquistare
oltremare.
Le piazze si riempirono di folle inneggianti a Mussolini e alla guerra. Studenti
e attivisti di partito diedero vita a rumorose manifestazioni anti-inglesi.
Milioni di coppie, a cominciare da quella reale, accolsero l'invito del governo
a donare alla patria l'oro delle loro fedi nuziali.
L'impero
Sul piano militare l'impresa fu più difficile del previsto: gli etiopici si
batterono con accanimento per più di sette mesi sotto la guida del negus Hailé
Selassié.
Ma il loro esercito, male organizzato e peggio equipaggiato, nulla poteva contro
un corpo di spedizione che giunse a impegnare circa 400 mila uomini e fece ampio
ricorso ai mezzi corazzati e all'aviazione, usata in più occasioni per
bombardare le truppe nemiche con gas asfissianti.
Il 5 maggio 1936, le truppe italiane, comandate dal maresciallo Pietro Badoglio,
entrarono in Addis Abeba. Quattro giorni dopo, Mussolini poteva annunciare alle
folle plaudenti «la riapparizione dell'Impero sui colli fatali di Roma» e
offrire a re Vittorio Emanuele III la corona di imperatore d'Etiopia.
Da un punto di vista economico la conquista dell'Etiopia, paese povero di
risorse naturali e poco adatto agli insediamenti agricoli, rappresentò per
l'Italia un peso non indifferente, cui si aggiunsero i problemi suscitati dalle
sanzioni. Ma sul piano politico il successo fu indiscutibile. Portando a termine
una campagna coloniale vittoriosa, imponendo la propria volontà alle democrazie
occidentali e costringendole poi ad accettare il fatto compiuto (le sanzioni
furono ritirate nell'estate 1936), Mussolini diede a molti la sensazione,
illusoria, di aver conquistato per l'Italia una posizione di grande potenza.
Dall'Asse Berlino-Roma al Patto d'acciaio
Inebriato dal successo, il duce credette di poter condurre una politica
ambiziosa e spregiudicata, sfruttando ogni occasione (come, per esempio, la
guerra civile in Spagna) per allargare l'area di influenza italiana.
In questo piano rientrava, almeno in un primo tempo, anche l'avvicinamento
dell'Italia alla Germania, cominciato subito dopo la guerra d'Etiopia e sancito,
nell'ottobre 1936, dalla firma di un patto di amicizia cui fu dato il nome di
Asse Roma-Berlino.
Rafforzata dal comune impegno nella guerra civile spagnola e, nell'autunno '37,
dall'adesione italiana al cosiddetto patto anti-Comintern (un accordo stipulato
l'anno prima da Germania e Giappone, che impegnava i due paesi a lottare contro
il comunismo internazionale), l'Asse Roma-Berlino non era ancora una vera
alleanza militare.
Mussolini considerava infatti l'appoggio alla Germania non tanto come una scelta
irreversibile, quanto come uno strumento che, aumentando il peso contrattuale
dell'Italia, le consentisse di ottenere qualche ulteriore vantaggio in campo
coloniale: il tutto in attesa che il paese fosse preparato ad affrontare un
conflitto in posizione di forza.
Ma il dinamismo aggressivo della Germania non consentì a Mussolini i tempi e gli
spazi di manovra necessari per realizzare il suo programma. Credendo di potersi
servire dell'amicizia tedesca, il duce ne fu in realtà sempre più condizionato,
al punto da dover accettare passivamente tutte le iniziative di Hitler (comprese
quelle più sgradite come l'annessione dell'Austria).
Finché, nel maggio 1939, si decise alla scelta che sarebbe risultata fatale al
regime e al paese: la firma di un formale patto di alleanza con la Germania — il
«patto d'acciaio» — che legava definitivamente le sorti dell'Italia a quelle
dello Stato nazista.
La stretta totalitaria e le leggi razziali
Le incrinature del consenso
La vittoriosa campagna contro l'Etiopia segnò per il regime fascista l'apogeo
del successo e della popolarità. Ma, svaniti gli entusiasmi che avevano
accompagnato l'impresa coloniale, il fronte apparentemente compatto dei consensi
conobbe alcune significative incrinature.
A suscitare preoccupazione era soprattutto il nuovo indirizzo di politica estera
attuato da Mussolini e dal suo principale collaboratore di questi anni, il
genero Galeazzo Ciano, assurto poco più che trentenne alla carica di ministro
degli Esteri.
L'aspetto che più inquietava l'opinione pubblica era l'amicizia con la Germania:
un'amicizia che urtava contro le tradizioni del Risorgimento e della Grande
Guerra, e soprattutto contro la diffusa antipatia (anche se talvolta mista a una
certa dose di ammirazione) di cui era oggetto lo Stato nazista.
La politica mussoliniana si mostrava inoltre avara di risultati immediati e
faceva sembrare più vicina l'eventualità di una nuova guerra europea.
Non fu un caso se le uniche manifestazioni di spontaneo entusiasmo popolare di
questo periodo si ebbero in coincidenza col ritorno di Mussolini dalla
Conferenza di Monaco, nel '38, e furono rivolte al duce (che non le gradì) in
quanto presunto salvatore della pace.
La campagna anti-borghese di Mussolini
Ma le aspirazioni alla pace contrastavano con i programmi di Mussolini.
Il duce auspicava per l'Italia un avvenire di imprese militari e pensava che gli
italiani avrebbero dovuto non solo armarsi adeguatamente, ma anche rinnovarsi
nel profondo, trasformandosi in un popolo di conquistatori e di guerrieri. Ciò
implicava da parte del duce un atteggiamento duro e quasi punitivo nei confronti
della popolazione, in particolare della borghesia, intesa non tanto come classe
sociale quanto come atteggiamento mentale (tendenza agli agi e alla vita comoda,
ricerca del profitto anteposta al perseguimento di ideali superiori) che doveva
essere definitivamente estirpato dal costume nazionale.
La radicalizzazione del regime totalitario
Per avvicinarsi a questo obiettivo il regime doveva diventare più di quanto
non fosse stato fin allora.
Da qui scaturirono alcune modifiche istituzionali, che andavano dalla creazione
del ministero per la Cultura popolare all'accorpamento delle organizzazioni
giovanili nella Gioventù italiana del littorio (Gil), dall'ampliamento delle
funzioni del Partito fascista alla sostituzione, nel 1939, della Camera dei
deputati con una nuova Camera dei fasci e delle corporazioni dove, abolita ogni
finzione elettorale, si entrava semplicemente in virtù delle cariche ricoperte
negli organi di regime.
A una medesima logica rispondevano alcune iniziative di carattere più che altro
formale, e quasi folkloristico, che tuttavia possono dare un'idea del clima di
quegli anni: la campagna contro l'uso del «lei» (considerato «servile» e poco
italiano e da sostituirsi quindi col «voi») e contro tutti i termini stranieri;
l'imposizione della divisa ai funzionari pubblici; l'adozione del «passo romano»
(una variante del «passo dell'oca» in uso nell'esercito tedesco) per conferire
un aspetto più marziale alle sfilate militari.
Le leggi razziali
Ma la manifestazione più seria e più aberrante della stretta totalitaria
voluta da Mussolini fu l'introduzione, nell'autunno del 1938, di una serie di
leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei: leggi che ricalcavano nelle
grandi linee quelle naziste del '35, escludendo gli israeliti dagli uffici
pubblici, limitandone l'esercizio delle professioni e vietando i matrimoni
misti.
Preannunciata da un manifesto di sedicenti scienziati (che sosteneva l'esistenza
di una «pura razza italiana» di indiscutibile origine ariana) e preparata da
un'intensa campagna di stampa, la legislazione razziale giunse tuttavia del
tutto inattesa in un paese che non aveva mai conosciuto – al contrario della
Germania, della Russia e della stessa Francia – forme di antisemitismo diffuso:
anche perché la comunità ebraica era assai poco numerosa (circa 50 mila persone
concentrate per lo più a Roma e nelle città del Centro-Nord) e complessivamente
ben integrata nella società.
Adottando queste misure, tanto gratuite quanto moralmente ripugnanti, Mussolini
si proponeva di inoculare nel popolo italiano il germe dell'orgoglio razziale e
di fornirgli così un nuovo motivo di aggressività e compattezza nazionale. Ma,
anziché suscitare consenso e mobilitazione (non vi furono in Italia, né allora
né in seguito, episodi di violenza popolare contro gli ebrei, come mancarono,
d'altro canto, le proteste e le manifestazioni di solidarietà con le vittime),
le leggi razziali furono accolte con indifferenza o con perplessità
dall'opinione pubblica; e aprirono per giunta un serio contrasto con la Chiesa,
contraria non tanto alla discriminazione in sé quanto alle sue motivazioni
biologico-razziali.
Il coinvolgimento dei giovani
In generale, lo sforzo compiuto da Mussolini sul finire degli anni '30 per
fare del regime fascista un totalitarismo pienamente realizzato e per cambiare
la mentalità degli italiani ebbe risultati mediocri.
L'unico settore della società in cui le aspirazioni totalitarie ottennero
qualche successo fu quello giovanile. I ragazzi cresciuti nelle organizzazioni
di regime, gli studenti inquadrati nei Gruppi universitari fascisti, i giovani
più impegnati intellettualmente che ogni anno partecipavano a migliaia ai
«littoriali della cultura» (concorsi nazionali riservati ai migliori studenti
medi e universitari) si abituarono a "pensare fascista", a considerare il regime
come una realtà immutabile, come un quadro di riferimento obbligato nelle sue
linee di fondo.
Fu solo con lo scoppio del conflitto e con i primi rovesci bellici che il
fascismo cominciò a perdere progressivamente il sostegno sul quale più contava:
quello appunto dei giovani. I quali, diventati nel frattempo soldati e
ufficiali, vissero in prima persona il fallimento di un regime che, avendo
puntato tutto sulla politica di potenza, si dimostrò poi incapace di preparare
sul serio la guerra e la perse rovinosamente.
L'opposizione al fascismo
Il silenzio e l'esilio interno
A partire dalla metà degli anni '20 – da quando cioè ogni forma di dissenso
politico fu bandita dal paese e punita come un crimine – un numero crescente di
italiani dovette affrontare il carcere o il confino politico, l'esilio o la
clandestinità.
Non tutti gli antifascisti sperimentarono i rigori della repressione. Molti,
anzi i più, scelsero il silenzio o cercarono di sfruttare i ridotti spazi di
autonomia culturale che il regime lasciava sussistere purché non si
trasformassero in centri di opposizione politica. Fu questa la strada scelta
dalla maggior parte dei popolari e dei liberali non fascistizzati e anche da
molti socialisti.
Se i cattolici potevano contare su qualche forma di tacito e prudente appoggio
da parte di una Chiesa che restava pur sempre alleata del fascismo, i liberali
trovarono un importante punto di riferimento in Benedetto Croce. Protetto dalla
sua notorietà internazionale, ma anche da una precisa scelta del regime
(preoccupato dei danni di immagine che gli sarebbero derivati da un intervento
repressivo), l'anziano filosofo poté proseguire senza eccessivi fastidi la sua
attività culturale e pubblicistica, evitando però ogni esplicita presa di
posizione politica.
Grazie ai suoi libri e alla sua rivista «La Critica», che continuò a stamparsi
per tutto il ventennio, molti intellettuali ebbero la possibilità di conoscere e
mantenere in vita la tradizione dell'idealismo liberale, contrapposta a quella
idealistico-totalitaria impersonata da Gentile.
La clandestinità
Per coloro che intendevano opporsi attivamente alla dittatura, restavano
aperte solo due strade: l'esilio all'estero e l'agitazione clandestina in
patria.
A praticare fin dall'inizio quest'ultima forma di lotta furono soprattutto,
anche se non esclusivamente, i comunisti. Durante tutto il ventennio, il Partito
comunista riuscì a tenere in piedi e ad alimentare dall'interno e dall'estero
una propria rete clandestina, a diffondere opuscoli, giornali e volantini di
propaganda, a infiltrare suoi uomini nei sindacati e nelle organizzazioni
giovanili fasciste. Tutto questo nonostante i modesti risultati immediati e gli
altissimi rischi cui andavano incontro i militanti: più di tre quarti dei 4500
condannati dal Tribunale speciale e degli oltre 10 mila confinati fra il '26 e
il '43 furono infatti comunisti.
L'emigrazione politica
Anche gli altri gruppi antifascisti (socialisti riformisti e massimalisti e
repubblicani) cercarono di tenere in vita qualche isolato nucleo clandestino in
Italia.
Ma la loro attività principale si svolse all'estero, soprattutto in Francia, già
sede di una numerosa comunità italiana, dove si erano rifugiati molti esponenti
antifascisti (fra cui i vecchi capi del socialismo italiano come Turati e Treves
e i leader della generazione più giovane, come Pietro Nenni e Giuseppe Saragat).
Nel 1927 questi gruppi si federarono in un'organizzazione unitaria, la
Concentrazione antifascista, che si ricollegava all'esperienza dell'Aventino,
ereditandone però, con il contenuto ideale, anche i limiti pratici e le
divisioni interne.
Nonostante questi limiti, i partiti della Concentrazione svolsero un'attività
importante a livello di testimonianza e di propaganda, fecero sentire la voce
dell'Italia antifascista nelle organizzazioni internazionali, stamparono i loro
giornali, proseguirono in esilio le elaborazioni ideologiche e i dibattiti
politici iniziati in patria sulle ragioni della loro sconfitta e sui possibili
fattori di una riscossa democratica.
Di particolare interesse fu la riflessione autocritica che vide impegnati i
socialisti e che portò, nel 1930, in un congresso tenuto a Parigi, alla
riunificazione dei due tronconi (massimalista e riformista) in cui il Psi si era
diviso nel '22.
Giustizia e libertà
Un nuovo impulso all'azione concreta contro il fascismo e un'aperta critica
alla tattica attendista della Concentrazione vennero dal movimento di Giustizia
e Libertà (in sigla GL), fondato nell'estate del '29 da due antifascisti della
giovane generazione: Emilio Lussu e Carlo Rosselli, che nel '37 sarebbe stato
assassinato da sicari fascisti assieme al fratello Nello.
GL voleva essere innanzitutto un organismo di lotta, capace di far concorrenza
ai comunisti sul piano dell'attività clandestina (infatti riuscì a costituire
piccoli nuclei organizzati in varie città); ma si proponeva anche come nucleo di
una nuova formazione politica che sapesse coniugare gli ideali di libertà e di
giustizia sociale, ricomponendo la frattura fra liberalismo e socialismo,
secondo le linee indicate da Rosselli in un libro del 1930 intitolato Socialismo
liberale.
I comunisti
Fortemente polemici verso i partiti della Concentrazione, ma altrettanto
ostili ai tentativi di GL, erano i comunisti, attestati su una posizione di
rigido isolamento.
Anche i comunisti avevano un «centro estero» con sede a Parigi, ma il vero
centro dirigente era a Mosca. Palmiro Togliatti, il leader che guidò il partito
negli anni dell'esilio, era anche un dirigente di primo piano
dell'Internazionale comunista. Era dunque inevitabile che il Pci si allineasse
senza riserve alla strategia dettata da Mosca, che ne seguisse fedelmente anche
le formulazioni più settarie, che si adeguasse all'imperante culto di Stalin.
I dirigenti che assunsero posizioni eterodosse furono espulsi dal partito. Le
critiche alla linea ufficiale formulate in carcere da leader come Umberto
Terracina e Antonio Gramsci rimasero sconosciute ai militanti. Egualmente
sconosciute rimasero le originali riflessioni sulla storia d'Italia, sul ruolo
degli intellettuali e sulla strategia del partito elaborate, sempre in carcere,
da Gramsci e affidate ai quaderni di appunti che sarebbero stati pubblicati nel
secondo dopoguerra, molti anni dopo la morte, nel 1937, del loro autore,
stroncato dalla dura esperienza carceraria.
I «fronti popolari»
A metà degli anni '30, la svolta dei «fronti popolari» aprì anche per
l'antifascismo italiano una fase nuova, che vide il Pci riannodare i contatti
con le altre forze d'opposizione, partecipare alle manifestazioni unitarie
contro il fascismo, stringere nel '34 un patto di unità d'azione con i
socialisti.
Ma questa stagione, che conobbe il suo momento più alto con l'esperienza della
guerra di Spagna, durò solo pochi anni.
Il fallimento del Fronte popolare in Francia, le lotte interne allo schieramento
repubblicano in Spagna, gli echi delle "grandi purghe" staliniane, la rottura
fra l'Urss e le democrazie occidentali culminata nel patto tedesco-sovietico del
'39: tutti questi fatti si ripercossero negativamente sull'unità del movimento
antifascista italiano, che fu colto disorientato e diviso dallo scoppio del
secondo conflitto mondiale.
Un bilancio dell'antifascismo
Se si volesse tracciare un bilancio del movimento antifascista in base ai
suoi scarsi successi immediati, si dovrebbe concludere che la sua incidenza
sulla situazione italiana di quegli anni fu poco più che nulla.
Per molto tempo gli antifascisti attesero invano un grande sommovimento popolare
che abbattesse il regime. Si illusero che lo scossone potesse venire dalla
grande crisi o dall'avventura etiopica, dovendo poi constatare che il fascismo
era uscito rafforzato dall'una e dall'altra.
Eppure il movimento antifascista svolse, fra il '26 e il '43, un ruolo di grande
importanza politica oltre che morale: testimoniò con la sua sola presenza
l'esistenza di un'Italia che non si piegava alla dittatura e ad essa diede voce
e rappresentanza politica; rese possibile il sorgere, dopo il '43, di un
movimento di resistenza armata al nazifascismo (movimento che invece mancò in
Germania); anticipò con le sue riflessioni teoriche e i suoi dibattiti molti
tratti della futura Italia democratica.
OLTRE L'EUROPA
Il tramonto dei colonialismo
La partecipazione delle colonie alla guerra
Nel corso della prima guerra mondiale, le due maggiori potenze coloniali,
Gran Bretagna e Francia, avevano fatto ampio ricorso all'aiuto dei loro
territori d'oltremare, sotto forma non solo di materie prime ma anche di uomini
da mandare al fronte.
Circa 400 mila africani – più 70 mila fra indocinesi e caraibici – avevano
combattuto nell'esercito francese.
La Gran Bretagna aveva mobilitato un milione e trecentomila indiani e quasi
altrettanti uomini dai dominion bianchi: Canada, Australia, Nuova
Zelanda, Sudafrica.
La partecipazione alla guerra e il contatto con altre culture politiche
fortemente imbevute di ideali nazionali e democratici avevano fatto crescere nei
popoli extraeuropei la consapevolezza di aver maturato nuovi diritti e di aver
mutato i rapporti di forza con i colonizzatori. Nacquero così, in molti paesi,
nuovi movimenti indipendentisti, animati all'inizio da ristretti gruppi
intellettuali che per lo più avevano studiato nelle università europee.
Il diritto all'auto-determinazione
A questa prima, embrionale presa di coscienza contribuirono anche gli echi
dei grandi eventi politici che avevano accompagnato la fase finale del
conflitto, a cominciare dalla rivoluzione russa: i bolscevichi non solo
concessero ampie autonomie amministrative e linguistiche ai territori dell'Asia
centrale già appartenenti all'Impero zarista, ma non esitarono a innalzare la
bandiera della liberazione dei popoli dall'imperialismo e sostennero apertamente
i movimenti anticoloniali.
Non meno importante fu la diffusione dell'ideologia wilsoniana che riconosceva,
almeno in teoria, a tutti i popoli il diritto all'autodeterminazione.
In realtà fu subito chiaro che, per la maggior parte degli europei e degli
stessi americani, questo diritto si immaginava riservato alle sole popolazioni
bianche.
Alla conferenza della pace di Versailles, la proposta della delegazione
giapponese di proclamare in un documento ufficiale l'uguaglianza fra tutte le
"razze" non fu nemmeno presa in considerazione.
In compenso gli Stati Uniti – che non erano mai stati una potenza coloniale in
senso stretto – si batterono affinché l'assegnazione alle potenze vincitrici dei
territori già appartenenti alla Germania e all'Impero turco avvenisse sotto la
forma del mandato: un istituto che, se da un lato serviva a mascherare la
prosecuzione a tempo indeterminato del dominio coloniale, dall'altro conteneva
un implicito riconoscimento del diritto dei popoli extraeuropei all'autogoverno.
La rivoluzione kemalista inTurchia
Kemal e la guerra con la Grecia
Fra tutti i paesi sconfitti nella prima guerra mondiale, l'Impero turco fu
forse quello cui venne riservata la sorte peggiore.
Drasticamente ridimensionato dal punto di vista territoriale, amputato anche nel
suo nucleo storico (l'Anatolia) dall'occupazione greca di Smirne, era inoltre
oggetto di un tentativo di spartizione in zone di influenza da parte di Gran
Bretagna e Francia, che occupavano militarmente alcune regioni costiere e
manovravano un governo centrale inefficiente e corrotto.
La reazione a questo stato di cose venne dalle forze armate. Fu infatti un
generale, Mustafa Kemal, che aveva combattuto contro gli inglesi durante la
guerra, ad assumere la guida del movimento di riscossa nazionale, con l'appoggio
di molti intellettuali e di buona parte della borghesia turca. Mentre le potenze
vincitrici trattavano col governo-fantoccio del sultano, un'Assemblea nazionale
riunita ad Ankara nella primavera del 1920 affidava a Kemal il compito di
liberare il suolo della Turchia dagli stranieri.
L'impresa fu condotta a termine in poco più di due anni. Inglesi e francesi
rinunciarono ai loro progetti di penetrazione economica e lasciarono la Grecia a
vedersela da sola contro i turchi. Fra il '21 e il '22, l'esercito turco
sconfisse ripetutamente i greci e li costrinse a evacuare la zona di Smirne: la
città fu in parte incendiata e i suoi abitanti costretti a fuggire
precipitosamente su navi inglesi e francesi.
Per la Grecia, costretta a riaccogliere in patria quasi un milione di profughi
che da secoli vivevano in quella regione, fu un'autentica tragedia nazionale.
La Turchia ebbe riconosciuta la sua sovranità su tutta l'Anatolia e si vide
restituito quel lembo di territorio europeo (la Tracia orientale) che le
garantiva il controllo degli stretti.
Repubblica e modernizzazione
Contemporaneamente, si avviava la trasformazione della Turchia in uno Stato
nazionale, laico e repubblicano.
Nel novembre '22 venne abolito il sultanato e, un anno dopo, fu proclamata la
repubblica. Nel '24 fu approvata una nuova costituzione. Nominato presidente con
poteri semidittatoriali, Mustafà Kemal (insignito del soprannome di Atatürk,
ossia 'padre dei turchi') si impegnò a fondo in una politica di
occidentalizzazione e di laicizzazione dello Stato. Furono varati nuovi codici
ispirati ai modelli occidentali e aboliti i tribunali che giudicavano in base ai
principi del Corano. Fu adottato l'alfabeto latino e tutto il sistema di
istruzione fu riformato sull'esempio delle nazioni europee. Anche
l'abbigliamento tradizionale fu sostituito con quello occidentale e alle donne
fu proibito l'uso del velo negli uffici pubblici.
L'esperimento modernizzatore riuscì solo in parte, come avrebbero dimostrato le
travagliate vicende della Repubblica turca dopo la morte, nel 1938, del suo
fondatore; ma ebbe il valore di un modello per molti paesi impegnati sulla
strada dell'emancipazione dai vincoli coloniali.
Il nodo del Medio Oriente
Il crollo dell'Impero ottomano fece sentire le sue conseguenze in tutta
quella vasta area compresa fra la Turchia, la sponda sud-orientale del
Mediterraneo, il Mar Rosso e il Golfo Persico che dell'Impero faceva parte,
almeno formalmente, e che in gran parte coincide con quello che oggi siamo
soliti chiamare "Medio Oriente".
In questa regione, abitata quasi per intero da popolazioni arabe di religione
musulmana, gli impegni spesso contraddittori presi durante la guerra dalle
potenze dell'Intesa determinarono una situazione quanto mai intricata.
Strategia britannica e nazionalismo arabo
Un impegno totalmente disatteso fu ad esempio quello assunto dalle potenze
vincitrici nei confronti dei curdi, un popolo musulmano non arabo che viveva in
un ampio territorio montuoso oggi diviso fra Turchia, Siria, Iraq e Iran.
La promessa di un Kurdistan indipendente non si realizzò mai, anche perché
contrastava con la priorità allora accordata dalla Gran Bretagna ai rapporti con
il mondo arabo.
Il nazionalismo arabo, in quegli anni, era ancora un movimento in embrione,
legato più al prestigio dei capi tribali che alla spinta delle popolazioni.
Nel 1915 i britannici si accordarono con uno di questi capi, Hussein Ibn Alì,
emiro della Mecca (la città santa dell'Islam), promettendo l'appoggio alla
creazione di un grande regno arabo indipendente comprendente l'Arabia, la
Mesopotamia e la Siria in cambio di una collaborazione militare contro l'Impero
ottomano.
Nel 1916 Hussein lanciò le sue tribù beduine – composte per lo più da nomadi che
vivevano nel deserto e si spostavano a dorso di dromedari – in una «guerra
santa» contro i turchi, che si affiancò efficacemente alla campagna
dell'esercito inglese. Alla guida delle truppe erano i figli di Hussein,
Abdallah e Feisal. Loro consigliere era un agente britannico, appassionato della
cultura islamica, il colonnello Thomas Edward Lawrence, il leggendario Lawrence
d'Arabia.
I progetti di spartizione
Le vere intenzioni della Gran Bretagna sul futuro dei territori arabi
sottratti all'Impero ottomano erano però diverse, anche perché il governo non
poteva non tener conto degli interessi della Francia in quella regione.
Nel maggio 1916 francesi e britannici si accordarono per la spartizione in zone
d'influenza di tutta la zona compresa fra la Turchia e la Penisola arabica: alla
Francia la Siria e il Libano, alla Gran Bretagna la Mesopotamia e la Palestina.
A guerra finita, nonostante le proteste degli arabi, la spartizione si realizzò,
appena velata dall'assegnazione alle due potenze dei rispettivi territori sotto
forma di mandato.
Come compenso alla forzata rinuncia al grande regno arabo, la Gran Bretagna creò
nella zona di sua competenza due nuovi Stati, governati dalla dinastia hashemita
(ossia dai discendenti dell'emiro Hussein), sempre sotto controllo britannico:
l'Iraq (l'antica Mesopotamia) e la Transgiordania (l'attuale Giordania).
Nel 1932 nacque un altro Stato, l'Arabia Saudita, fondato nella Penisola arabica
dal sovrano Ibn Saud, che aveva sottratto alla dinastia hashemita il controllo
dei luoghi santi.
Il Medio Oriente fra le due guerre mondiali
Immigrazione ebraica
Un'altra ipoteca sulla sovranità nei territori ex ottomani era stata
intanto posta in Palestina, dove il governo britannico aveva riconosciuto, nel
novembre 1917, con una dichiarazione ufficiale del ministro degli Esteri
Arthur James Balfour, il diritto del movimento sionista a creare in Palestina
una sede nazionale per il popolo ebraico, secondo il progetto lanciato alla
fine dell'800 da Theodor Herzl.
Redatta in consultazione con il presidente americano Wilson, sotto la
pressione del movimento sionista, di cui si voleva ottenere l'appoggio alla
causa dell'Intesa, la Dichiarazione Balfour faceva salvi i «diritti civili e
religiosi» (non si parlava di quelli politici) delle comunità non ebraiche.
Venne così legittimata l'immigrazione sionista, che cominciò a svilupparsi in
quegli anni attorno ai piccoli insediamenti ebraici già presenti nella
regione.
Tra 1920 e 1921 scoppiarono i primi violenti scontri tra i coloni ebrei e i
residenti arabi, insofferenti della minaccia portata ai loro diritti sulla
Palestina.
Negli anni '30, dopo l'avvio delle persecuzioni razziali in Europa, il flusso
degli immigrati ebrei aumentò rapidamente, suscitando ulteriori tensioni e
risentimenti nella popolazione araba. Era l'inizio di un conflitto che avrebbe
insanguinato la regione nei decenni successivi, prolungandosi per tutto il
'900 e oltre.
I movimento indipendentista in India
Dall'impero britannico al Commonwealth
Per quanto fossero uscite esauste dalla Grande Guerra e faticassero sempre
più a mantenere il controllo dei loro imperi, le potenze coloniali europee si
opposero con durezza a qualsiasi allentamento dei vincoli fra la madrepatria e i
territori d'oltremare.
L'unica parziale, ma importante, eccezione fu quella della Gran Bretagna, che si
orientò, sia pur con riluttanza, alla concessione graduale di maggiori autonomie
almeno ad alcune delle sue colonie. Questa tendenza si manifestò, come si è
visto, nell'area mediorientale e portò, oltre che alla creazione dei nuovi regni
arabi, alla rinuncia al protettorato inglese sull'Egitto: il più importante e il
più popoloso fra i paesi del Nord Africa fu trasformato nel '22 in regno
autonomo e ottenne nel '36 la piena indipendenza, pur restando nell'orbita della
Gran Bretagna, che conservò comunque una presenza militare nel paese, oltre al
controllo (assieme alla Francia) della Compagnia del Canale di Suez.
Un'altra tappa nel processo di graduale smobilitazione dell'Impero britannico fu
rappresentata dalla Conferenza imperiale che si tenne a Londra nel 1926 e nella
quale i dominion bianchi (Canada, Sudafrica, Australia) – che già
godevano di una condizione di semi-indipendenza e avevano partecipato con
proprie delegazioni alla conferenza della pace – furono riconosciuti come
«comunità autonome ed eguali in seno all'Impero», unite dal comune vincolo di
fedeltà alla Corona d'Inghilterra e «liberamente associate come membri del
Commonwealth britannico», ossia una libera federazione fra Stati, che sarebbe
servita anche in futuro ad assicurare il mantenimento di una serie di legami
economici e istituzionali fra la Gran Bretagna e le sue ex colonie.
Il caso dell'India
Il paese in cui il processo di emancipazione assunse un valore esemplare fu
senza dubbio l'India: la più importante, sul piano economico e strategico, fra
le colonie britanniche, quella il cui controllo era ancora considerato
essenziale da una parte della classe dirigente del Regno Unito, ma anche quella
in cui le aspirazioni all'indipendenza si erano fatte sentire maggiormente già
prima della Grande Guerra, trovando un canale di espressione nel Congresso
nazionale indiano: un organismo nato alla fine dell'800 come rappresentanza dei
notabili e poi apertosi a istanze più radicali.
Durante il primo conflitto mondiale il governo britannico aveva premiato il
lealismo manifestato dalla classe dirigente locale in occasione della guerra,
promettendo ufficialmente, nel novembre 1917, «una crescente associazione degli
indiani a ogni ramo dell'amministrazione e un graduale sviluppo di forme di
autogoverno, in vista della progressiva realizzazione di un governo responsabile
in India».
Queste promesse, formulate non a caso nel momento più difficile della guerra e
successivamente attuate in modo lento e parziale, non bastarono però a bloccare
lo sviluppo del movimento nazionalista.
Quando, nell'aprile '19, nella città di Amritsar, le truppe inglesi repressero
sanguinosamente una manifestazione popolare di protesta (i morti furono quasi
400), la frattura fra colonizzatori e colonizzatisi si approfondì bruscamente.
Gandhi e la non violenza
Intanto, in seno al Congresso nazionale indiano – trasformatosi nel 1920 in
un vero e proprio partito politico – e in genere fra la maggioranza della
popolazione di religione induista, riscuoteva sempre maggiori consensi la
predicazione di un nuovo e prestigioso leader indipendentista, Mohandas
Karamchand Gandhi.
Adottando nuove forme di lotta, basate sulla resistenza passiva, sulla non
violenza e sul rifiuto di qualsiasi collaborazione con i dominatori, e
coniugando la battaglia per l'indipendenza con quella per la rottura del sistema
delle caste, Gandhi acquistò in breve tempo un'immensa popolarità e fece del
nazionalismo indiano un autentico movimento di massa.
Alla crescita del movimento indipendentista – che faceva proseliti anche nella
forte minoranza musulmana – gli inglesi risposero alternando gli interventi
repressivi alle concessioni.
Nel 1919, con il Government of India Act, venne riconosciuto maggior
spazio agli indiani nei ranghi dell'amministrazione, fu attuato un limitato
decentramento e venne consentita a una ristretta minoranza della popolazione
l'elezione di propri organismi rappresentativi. Nel 1935 il diritto di voto fu
esteso al 15% circa della popolazione e vennero ampliati gli spazi di autonomia
alle singole province.
Questi provvedimenti non valsero a fermare la marcia dell'India verso la piena
indipendenza, ma offrirono al movimento nazionale indiano canali legali
attraverso cui esprimersi e combattere le proprie battaglie: un'esperienza che
avrebbe contribuito alla tenuta delle istituzioni rappresentative nella futura
India indipendente.
La guerra civile in Cina
L'anarchia militare
Per tutta la prima metà del '900, lo Stato più popoloso del mondo, la Cina,
fu sconvolto e paralizzato da una lunga e sanguinosa guerra civile.
La repubblica democratica creata dalla rivoluzione del 1911 ebbe vita quanto mai
travagliata. Il suo padre fondatore, Sun Yat-sen, leader del Kuomintang (il
Partito nazionalista cinese), fu costretto all'esilio dopo appena due anni di
governo. E il regime autoritario imposto dal generale Yuan Shi-kai nel 1913 non
riuscì ad assicurare al paese tranquillità e unità. Anzi, venuto meno il
collante costituito dal pur screditato potere imperiale, la Cina precipitò in
una situazione di semi-anarchia. Il governo non aveva forza sufficiente per
imporre la sua autorità alle province, dove i governatori militari – i
cosiddetti signori della guerra – si comportavano come capi feudali, arruolando
milizie e imponendo tributi, né per opporsi alle mire egemoniche del Giappone
che, entrato in guerra contro la Germania nel 1915, mirava a sostituirsi alle
potenze europee nel controllo delle zone più ricche della Cina.
La decisione, presa nell'agosto 1917, di intervenire nel conflitto mondiale a
fianco dell'Intesa non servi a mutare la situazione.
Alla conferenza della pace – cui pure partecipò come Stato vincitore – la Cina
fu sacrificata dalle grandi potenze occidentali che riconobbero al Giappone il
diritto di subentrare alla Germania sconfitta nel controllo economico della
regione dello Shantung.
Il ritorno di Sun Yat-sen
Questa ennesima umiliazione – che significava per la Cina la conferma di una
condizione di sovranità limitata – ebbe l'effetto di risvegliare l'agitazione
nazionalista, che si raccolse ancora una volta attorno al Kuomintang e al suo
leader Sun Yat-sen, tornato nel frattempo dall'esilio. Nel maggio 1919,
scoppiarono dimostrazioni di protesta iniziate nelle università e poi
propagatesi in tutte le grandi città.
La lotta intrapresa contro il governo centrale da Sun Yat-sen, che nel '21 formò
un proprio governo a Canton, ebbe anche l'appoggio del Partito comunista cinese,
fondato, sempre nel '21, da un gruppo di intellettuali (fra i quali il giovane
Mao Zedong), per lo più passati attraverso l'esperienza nazionalista e
successivamente influenzati dall'esempio della rivoluzione russa.
Anche l'Unione Sovietica sostenne attivamente la causa di Sun Yat-sen (in
omaggio alla strategia che prescriveva l'appoggio del movimento operaio alle
«borghesie nazionali» impegnate nei movimenti di liberazione dal colonialismo),
inviò aiuti economici e militari al governo di Canton e indusse addirittura il
Partito comunista ad aderire in blocco al Kuomintang (conservando però la sua
struttura organizzativa).
Chang Kai-shek e la repressione dei comunisti
L'alleanza fra nazionalisti e comunisti non sopravvisse però alla morte, nel
1925, di Sun Yat-sen.
Il suo successore Chang Kai-shek, esponente dell'ala moderata del Kuomintang,
era molto meno aperto alle istanze di riforma sociale e molto più diffidente nei
riguardi dei comunisti, i cui progressi suscitavano crescente preoccupazione nei
ceti borghesi.
I contrasti cominciarono a manifestarsi nel '26 – quando Chang Kai-shek, alla
guida di un nuovo esercito, iniziò la campagna per scacciare il governo di
Pechino (ancora riconosciuto dalle potenze occidentali) – ed esplosero l'anno
successivo.
Nell'aprile 1927 a Shanghai, massimo centro industriale cinese e roccaforte dei
comunisti, le milizie operaie, che avevano liberato da sole la città dai
governativi e non intendevano deporre le armi, furono affrontate e sconfitte
dalle truppe di Chang Kai-shek.
In dicembre un'insurrezione operaia a Canton fu repressa in un bagno di sangue.
Il Partito comunista fu messo fuori legge e molti dirigenti furono incarcerati.
Dopo aver condotto a termine vittoriosamente la lotta contro il governo di
Pechino (la capitale fu conquistata nel giugno '28), Chang Kai-shek cercò di
riorganizzare l'economia e l'apparato statale secondo modelli di ispirazione
occidentale, ma fortemente venati di autoritarismo.
Il suo progetto però si scontrava contro l'obiettiva difficoltà di controllare
un paese immenso e profondamente diviso. Da un lato c'erano i comunisti che,
sconfitti nelle città, cominciarono a organizzare «basi rosse» nelle campagne,
rimaste fin allora estranee al processo rivoluzionario. Dall'altro sopravviveva
in alcune province il potere dei «signori della guerra», aiutati dal Giappone
che non aveva rinunciato ai suoi progetti di espansione ed era ostile al
consolidamento di un forte potere statale in Cina.
L'invasione giapponese della Manciuria
Nel 1931, traendo pretesto da un incidente di frontiera, i giapponesi
invasero la Manciuria, una vasta regione sotto la sovranità cinese, ai confini
con la Siberia, da tempo oggetto delle loro mire, e vi crearono uno
Stato-fantoccio, il Manchu-kuo, che avrebbe dovuto servire da base per
un'ulteriore espansione sul continente.
L'inerzia manifestata nell'occasione dal governo di Chang e lo scarso appoggio
ad esso fornito dalle potenze occidentali (la Società delle nazioni si limitò a
una platonica condanna dell'aggressione) diedero nuovo spazio all'azione dei
comunisti, che sempre più potevano presentarsi come i soli autentici difensori
degli interessi nazionali.
Mao Zedong e la «lunga marcia»
Decisiva per le fortune del Partito comunista fu la strategia di Mao Tse-tung,
che individuava nelle masse rurali il vero protagonista del processo
rivoluzionario, rovesciando la teoria marxista ortodossa in modo ancor più
radicale di quanto non avesse fatto a suo tempo Lenin.
All'inizio degli anni '30, i comunisti fecero numerosi proseliti fra i contadini
(delusi per la mancata attuazione della promessa riforma agraria da parte del
governo nazionalista) e allargarono le loro basi in molte zone agricole, dove i
latifondi furono espropriati e le terre distribuite fra i coltivatori.
Costretto a combattere su due fronti, Chang Kai-shek decise di dare la priorità
alla lotta contro i comunisti, anche a costo di trascurare la minaccia
giapponese, e lanciò, fra il '31 e il '34, una serie di sanguinose campagne
militari contro le zone da loro controllate. Nell'ottobre del '34, circa 100
mila militanti, accerchiati nello Hunan, nel Sud del paese, decisero di evacuare
quella zona e di trasferirsi nella regione settentrionale dello Shanxi,
giudicata meglio difendibile.
Ne giunsero a destinazione meno di 10 mila, dopo una marcia durata un anno e
lunga 10 mila chilometri attraverso l'interno della Cina.
La lunga marcia (1934-35)
Con quella che sarebbe poi passata alla storia e all'epopea rivoluzionaria
come la «lunga marcia», Mao Zedong riuscì comunque a salvare il nucleo dirigente
comunista e a ricostituire il partito proprio nelle zone in cui più forte era la
minaccia giapponese. Quando, nel '36, Chang Kai-shek decise di lanciare una
nuova campagna contro i comunisti, dovette scontrarsi con l'aperta dissidenza di
una parte dell'esercito, che chiedeva la fine della guerra civile e l'unione di
tutte le forze nazionali contro l'aggressione giapponese.
Si giunse così, all'inizio del '37, a un accordo stipulato sotto gli auspici
dell'Urss fra comunisti e nazionalisti, con cui le due parti si impegnavano a
costituire un fronte unito contro il nemico giapponese che si apprestava a
lanciare una nuova e più devastante offensiva.
L'imperialismo giapponese
Sviluppo industriale e militarismo
La partecipazione alla prima guerra mondiale aveva consentito al Giappone di
consolidare, con un costo militare relativamente esiguo, la sua posizione di
massima potenza asiatica e di rafforzare la sua struttura produttiva, grazie
soprattutto alla conquista di nuovi mercati non più raggiungibili dalle potenze
europee impegnate nel conflitto.
Il dinamismo dell'economia — in particolare delle grandi concentrazioni
industriali e finanziarie, gli zaibatsu —, l'impetuosa crescita
demografica (nei primi trent'anni del secolo la popolazione passò da 44 a 65
milioni di abitanti), la stessa struttura della classe dirigente, imperniata
sull'unione fra grande industria, grande proprietà terriera e alti gradi
militari, spingevano il Giappone verso una politica imperialistica che aveva
come campo d'azione il Pacifico e l'intera Asia orientale e come obiettivo
principale la sottomissione di vaste zone della Cina.
Questa politica veniva giustificata dalla classe dirigente con le esigenze reali
di un paese troppo popoloso e dinamico rispetto alla sua limitata estensione
territoriale, ma poggiava anche sulla rivendicazione di una superiorità
culturale e razziale e di una naturale vocazione al dominio sull'intero
scacchiere asiatico.
La crescita dei movimenti di destra
Durante il primo decennio postbellico, le spinte imperialistiche si
conciliarono col mantenimento di un quadro istituzionale vicino al modello
liberale, con lo sviluppo di una certa dialettica politica, con la crescita, sia
pur contrastata, di partiti e sindacati operai.
Già negli anni '20, però, fecero la loro comparsa movimenti autoritari di
destra, in parte ispirati al modello dei fascismi occidentali, in parte
impregnati di cultura tradizionalista (difesa delle antiche strutture sociali e
familiari, culto dell'imperatore come suprema autorità politica e religiosa).
Alla fine degli anni '20, queste tendenze furono favorite sia dalle conseguenze
della grande crisi (che determinò una certa contrazione delle attività
economiche suscitando un diffuso malcontento popolare), sia dalle preoccupazioni
suscitate nella classe dirigente dai progressi dei partiti di sinistra nelle
prime elezioni a suffragio universale che si tennero nel 1928.
Il regime autoritario e la scelta espansionista
Cominciò così per il Giappone, in significativa coincidenza con quanto stava
accadendo in molti Stati euro- pei, una stagione di crescente autoritarismo.
Questo autoritarismo non sfociò, almeno in un primo tempo, in forme
esplicitamente fasciste (un tentativo di colpo di Stato dei gruppi estremisti di
destra fu represso dall'esercito nel 1936; solo nel '40 fu istituito un regime a
partito unico); ma si risolse ugualmente nella chiusura di ogni spazio di
opposizione legale, in una dura repressione antioperaia, in pratica
nell'assunzione diretta del potere da parte dei generali (direttamente coinvolti
nelle scelte politiche) e degli esponenti degli zaibatsu, con
l'autorevole copertura dell'imperatore Hirohito, salito al trono nel 1926.
Furono queste forze a gestire la politica imperialistica in Estremo Oriente, a
scegliere una collocazione internazionale molto vicina a quella delle potenze
fasciste europee (nel '36 il Giappone firmò con la Germania il patto
anti-Comintern, cui successivamente avrebbe aderito anche l'Italia e, infine, a
far precipitare il paese nella catastrofica avventura del secondo conflitto
mondiale.
L'Oriente in guerra
L'aggressione giapponese alla Cina
Nel luglio del 1937, uno scontro fra militari giapponesi e cinesi sul ponte
Marco Polo, presso Pechino – forse un incidente, forse una messa in
scena orchestrata dagli aggressori –, fornì al governo nipponico il pretesto per
lanciare un attacco in forze contro la Cina.
L'Estremo Oriente asiatico, dove già dall'inizio degli anni '30 era in atto un
conflitto non dichiarato, che si intrecciava con le vicende della guerra civile
in Cina, entrò da questo momento in un vero stato di guerra, anticipando di due
anni lo scontro mondiale che si sarebbe acceso a partire dall'Europa e
annunciandone in larga misura le devastazioni e gli orrori.
Questa volta la resistenza cinese fu accanita, sia da parte dell'esercito
regolare sia da parte dei guerriglieri-contadini organizzati dai comunisti.
Ma non bastò a compensare l'enorme dislivello militare (e soprattutto
industriale) fra i due contendenti e il peso delle divisioni interne alla
Repubblica cinese, dove, come si è visto, comunisti e nazionalisti avevano
appena raggiunto un precario accordo.
Il massacro di Nanchino
Alla fine del 1937, dopo pochi mesi di guerra, i giapponesi raggiunsero
Nanchino, allora capitale della Cina, e la occuparono dopo un breve assedio.
Per sei terribili settimane (fra il dicembre '37 e il febbraio '38), gli
occupanti infierirono sulla popolazione, donne e bambini compresi, con
uccisioni, incendi e saccheggi. I morti, in buona parte civili, furono
moltissimi: fra i 200 mila e i 300 mila secondo stime attendibili. E altissimo
fu il numero degli stupri (tanto da far parlare dello «stupro di Nanchino» come
di una sorta di crimine collettivo).
La guerra si prolungò con fasi alterne, sempre contrassegnata dall'elevatissimo
numero di vittime civili, causate soprattutto dai bombardamenti giapponesi.
L'avanzata degli aggressori proseguì sistematicamente ma lentamente, a causa
anche dell'impossibilità di controllare le aree interne di un paese vastissimo
come la Cina.
Nell'estate del '39, il Giappone occupava comunque buona parte della zona
costiera, tutto il Nord-est industrializzato e quasi tutte le città più
importanti, a cominciare da Nanchino dove fu insediato un governo-fantoccio. Ma
a questo punto le vicende della guerra cino-giapponese cominciarono a
intrecciarsi con quelle del secondo conflitto mondiale che, dal 1941, avrebbe
avuto proprio in Asia orientale un teatro decisivo.
L'Africa coloniale
Marginalità e soggezione
I nuovi fermenti politici che, negli anni fra le due guerre, si manifestarono
nelle colonie asiatiche e nei paesi arabi interessarono solo marginalmente
quella parte del continente africano – che comunemente chiamiamo "Africa nera" o
"Africa sub-sahariana" – in cui il dominio coloniale era nella maggior parte dei
casi arrivato più tardi e non sembrava mostrare segni di crisi.
Il miglioramento delle condizioni sanitarie (causa principale dello sviluppo
demografico del continente: dai circa 120 milioni del 1900 ai 165 del 1935), la
pur lenta diffusione dell'istruzione di base, soprattutto attraverso le scuole
missionarie, l'aumentata partecipazione al commercio internazionale, la crescita
rapidissima dei grandi centri urbani (come Dakar, Lagos, Nairobi): tutto questo
non mutava nella sostanza la condizione di marginalità economica e di
subalternità politica delle popolazioni africane, escluse da ogni forma di
partecipazione al governo dei loro paesi.
Le prime organizzazioni politiche
Qualcosa tuttavia cominciava a cambiare. Se per i figli delle famiglie
economicamente più agiate (ma anche per chi riusciva a fruire di borse di
studio) si apriva la possibilità di studiare in Europa, per un numero ben più
elevato di giovani era il servizio militare a offrire l'occasione di uscire
dal chiuso delle comunità di villaggio, di maturare nuove esperienze e di
praticare nuove forme di socializzazione.
Nacquero così, all'inizio degli anni '20, le prime organizzazioni autonome dei
nativi: la Young Baganda Association in Uganda, il National Congress
of British West Africa in Costa d'oro (il futuro Ghana), la East Africa
Association in Kenya, il National Democratic Party in Nigeria, e
altre consimili.
Fra il 1919 e il 1927 si tennero, in diverse capitali europee, quattro
congressi panafricani, dove furono discussi i problemi comuni e furono
lanciate per la prima volta proposte di federazione fra le colonie.
Il tema dell'indipendenza era ancora assente da questi dibattiti, dove si
affrontavano per lo più questioni specifiche (in primo luogo la lotta contro
la discriminazione razziale) e si studiavano forme di partecipazione e canali
di rappresentanza più aperti per le popolazioni locali.
Ma intanto venivano emergendo nuove figure di intellettuali, come il keniano
Jomo Kenyatta, laureato in etnologia a Londra, il senegalese Léopold Senghor,
laureato in lettere a Parigi e apprezzato poeta in lingua francese, il ghanese
Nkwarne Nkrumah, laureato in filosofia dopo aver studiato in Gran Bretagna e
negli Usa: tutti destinati, nel secondo dopoguerra, a svolgere un ruolo
decisivo nelle lotte per l'indipendenza dei loro paesi.
L'America Latina fra le due guerre mondiali
Le conseguenze della grande crisi
Negli anni '20 e '30 anche i paesi latino-americani risentirono fortemente
dei mutamenti in atto in Europa e nel Nord America.
Il trauma maggiore fu rappresentato dalla grande crisi economica, che ridusse i
tradizionali flussi commerciali e fece crollare i prezzi delle materie prime e
delle derrate alimentari: tutte le economie del continente, che si fondavano
essenzialmente sulle esportazioni di minerali, carne e prodotti agricoli, si
trovarono in gravi difficoltà.
Anche nel caso dell'America Latina, gli effetti della depressione economica
furono accentuati dal legame sempre più stretto con gli Usa, che si erano ormai
sostituiti alla Gran Bretagna nel ruolo di potenza egemone dell'intero
continente. Alcuni Stati subirono passivamente la crisi, altri – i più grandi e
i più importanti: Brasile, Argentina, Cile e Messico – reagirono promuovendo un
processo di diversificazione produttiva, che consentì lo sviluppo di alcuni
settori di industria manifatturiera per sopperire alle esigenze del mercato
interno.
Le dittature personali
Questi mutamenti non furono senza influenza sugli equilibri politici dei
singoli Stati, che conobbero quasi tutti vicende molto agitate.
Nei paesi ancora legati al sistema della monocoltura continuarono a prevalere le
vecchie oligarchie terriere, in un'alternanza di instabili regimi liberali e
spietate dittature personali gestite per lo più da militari, come quelle di
Fulgencio Batista a Cuba (1933) e di Anastasio Somoza in Nicaragua (1936),
destinate a durare ben oltre la fine della seconda guerra mondiale.
Nei paesi in via di industrializzazione, invece, dove era già emerso un nucleo
di classe operaia, la crisi ebbe effetti più complessi e contraddittori.
Anche gli Stati più importanti e dinamici, comunque, sperimentarono forme di
autoritarismo più o meno marcato.
Autoritarismo e populismo
Nell'autunno del 1930 due sommovimenti politici quasi contemporanei ebbero
luogo in Argentina e in Brasile.
In Argentina un colpo di Stato militare rovesciò le istituzioni democratiche:
segui, per oltre un decennio, una serie di governi conservatori tenuti sotto
stretta tutela dai generali e dalle oligarchie terriere.
In Brasile, invece, una rivolta popolare contro le vecchie oligarchie,
appoggiata da una parte delle forze armate, portò al potere Getulio Vargas,
avvocato e politico di formazione liberal-progressista, governatore del Rio
Grande do Sul (uno degli Stati in cui era divisa la Repub- blica federale
brasiliana). Vargas diede vita a un regime autoritario, basato sul rapporto
diretto fra capo e masse, su un acceso nazionalismo e su un energico intervento
statale a sostegno della produzione, ma anche sulla concessione di una
legislazione sociale per i lavoratori urbani: un regime destinato a servire da
mo- dello ad altre esperienze politiche latino-americane, che sarebbero state
definite col termine populismo.
Una forma di populismo molto avanzata sul piano sociale fu quella praticata in
Messico sotto la presidenza di Lazaro Cárdenas (1934-40), che portò avanti in
modo deciso la riforma agraria iniziata negli anni '20 e nazionalizzò la
produzione petrolifera. Nella sua versione più radicale e demagogica, il
populismo si sarebbe poi affermato in Argentina, durante e dopo la seconda
guerra mondiale, con l'ascesa al potere del colonnello Juan Domingo Perón i del
movimento che da lui prese il nome di peronismo, improntando di sé la storia del
paese anche nei decenni successivi.
GUERRA MONDIALE, GUERRA TOTALE
Le origini e le responsabilità
Nell'estate del 1939 lo scoppio di una nuova guerra fra le potenze europee
era un evento largamente atteso. Mentre nel 1914 il conflitto generale era stato
occasionato da un singolo evento tragico e imprevedibile come l'attentato di
Sarajevo, venticinque anni dopo tutto sembrava condurre verso l'inevitabile
scontro fra la Germania nazista e le democrazie dell'Europa occidentale.
Per la seconda guerra mondiale, inoltre, la questione delle responsabilità è
molto meno controversa di quanto non sia per la prima. Non vi sono dubbi sul
fatto che a provocare il conflitto fu la politica di conquista e di aggressione
della Germania hitleriana. Anche se ciò non significa che le altre potenze
fossero immuni da errori o da colpe.
Dalla Cecoslovacchia alla Polonia
Le democrazie occidentali si erano illuse, nella conferenza di Monaco, di
aver placato la Germania con la cessione dei Sudeti.
In realtà, già nell'ottobre del '38, Hitler aveva pronti i piani per
l'occupazione della Boemia e della Moravia, ossia della parte più popolosa e
industrialmente più sviluppata dell'unico Stato democratico del Centro-Europa:
la Repubblica cecoslovacca, già indebolita dalla perdita dei Sudeti e minata
dalla lotta fra le diverse nazionalità che convivevano entro i suoi confini.
L'operazione scattò nel marzo 1939. Mentre la Slovacchia si proclamava
indipendente con l'appoggio dei tedeschi, Hitler dava vita al «protettorato di
Boemia e Moravia», parte integrante del Grande Reich tedesco.
L'espansione del terzo Reich, 1938-39
La distruzione dello Stato cecoslovacco determinò però una svolta
nell'atteggiamento delle potenze occidentali.
Fra il marzo e il maggio 1939, accantonata la politica dell'appeasement,
Gran Bretagna e Francia diedero vita a una vera e propria offensiva diplomatica,
volta a contenere l'aggressività delle potenze dell'Asse, stipulando patti di
assistenza militare con i paesi più direttamente minacciati dall'espansionismo
tedesco (Belgio, Olanda, Grecia, Romania e Turchia). Il più importante di tutti
fu quello con la Polonia, che costituiva il primo obiettivo dei progetti di
Hitler: già in marzo, infatti, Hitler aveva rivendicato il possesso di Danzica e
il diritto di passaggio attraverso il "corridoio" che univa la città al
territorio polacco.
L'alleanza fra Gran Bretagna, Francia e Polonia, conclusa fra marzo e aprile,
costituiva una risposta a queste minacce; e significava che le potenze
occidentali erano disposte ad affrontare la guerra pur di impedire che la
Polonia subisse la sorte della Cecoslovacchia.
L'Italia e il «patto d'acciaio»
Il radicalizzarsi della contrapposizione fra la Germania e gli anglo-francesi
tolse ogni residuo spazio di manovra all'Italia.
Mussolini cercò dapprima di contrapporre alle iniziative di Hitler una propria
iniziativa unilaterale: l'occupazione (aprile 1939) del piccolo Regno di
Albania, considerato una base per una ulteriore penetrazione nei Balcani.
Un mese dopo (maggio '39), Mussolini, convinto che l'Italia non potesse restare
neutrale nello scontro che si andava profilando e sicuro della superiorità della
Germania, decise di accettare le pressanti richieste tedesche di trasformare il
generico vincolo dell'Asse Roma-Berlino in una vera e propria alleanza militare,
che fu significativamente chiamata «patto d'acciaio». Il patto stabiliva che, se
una delle due parti si fosse trovata impegnata in un conflitto per una causa
qualsiasi (dunque anche in veste di aggressore), l'altra sarebbe stata obbligata
a scendere in campo al suo fianco.
Mussolini e il ministro degli Esteri Ciano accettarono sconsideratamente un
impegno così gravoso, pur sapendo che l'Italia non era preparata militarmente a
un conflitto europeo, fidandosi delle assicurazioni verbali di Hitler circa la
sua intenzione di non scatenare la guerra prima di due o tre anni.
In realtà, nel maggio '39, lo Stato maggiore tedesco stava già preparando
l'invasione della Polonia.
Il patto tedesco-sovietico
La principale incognita era costituita a questo punto dall'atteggiamento
dell'Urss.
Un'adesione sovietica alla coalizione antitedesca avrebbe probabilmente bloccato
i piani di Hitler. Ma le trattative fra l'Urss e i franco-inglesi furono
compromesse da una serie di reciproche e non infondate diffidenze: i sovietici
sospettavano che gli occidentali mirassero a indirizzare su di loro
l'aggressività della Germania; gli occidentali attribuivano ai sovietici
ambizioni egemoniche sull'Europa dell'Est; inoltre i polacchi – che temevano una
presenza militare russa non meno di un'aggressione tedesca – non volevano
concedere alle truppe dell'Urss il permesso di attraversare il proprio
territorio in caso di attacco da parte della Germania.
I sovietici cominciarono allora a prestare attenzione alle offerte di intesa che
stavano intanto giungendo da parte di Hitler.
Il 23 agosto 1939, i ministri degli Esteri tedesco e sovietico, Joachim von
Ribbentrop e Vjaéeslav Molotov, firmavano a Mosca un patto di non aggressione
fra i due paesi. L'annuncio dell'accordo fra due regimi ideologicamente
contrapposti rappresentò uno dei più grandi colpi di scena nella storia della
diplomazia di ogni tempo e fu accolto in tutto il mondo con un misto di stupore
e di indignazione. Si trattò in realtà di un gesto di spregiudicato realismo,
che assicurava ad ambo le parti considerevoli vantaggi.
L'Urss non solo allontanava momentaneamente la minaccia tedesca dai suoi
confini, ma otteneva anche, mediante un protocollo segreto, un riconoscimento
delle sue aspirazioni territoriali nei confronti degli Stati baltici, della
Romania e della Polonia (di cui si prevedeva la spartizione).
Dal canto suo Hitler era costretto a modificare la sua strategia di fondo,
rinviando lo scontro col nemico storico, la Russia sovietica; ma intanto poteva
risolvere la questione polacca senza correre il rischio della guerra su due
fronti.
Una guerra totale
Il 1° settembre 1939, le truppe tedesche attaccarono la Polonia.
Il 3 settembre Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Germania, mentre
l'Italia, il giorno stesso dello scoppio delle ostilità, si affrettò a
proclamare la sua «non belligeranza».
La seconda guerra mondiale cominciava così come una continuazione, o una
replica, della prima. Molto simili erano la posta in gioco e le cause di fondo:
il tentativo della Germania di affermare la propria egemonia sul continente
europeo e la volontà di Gran Bretagna e Francia di impedire questa affermazione.
Simile era anche la tendenza del conflitto ad allargarsi fuori dai confini
europei. Ma questa volta l'estensione del teatro di guerra sarebbe stata ancora
maggiore e ancora più rivoluzionarie le conseguenze sugli equilibri
internazionali.
Rispetto al primo conflitto mondiale, il secondo vide inoltre accentuarsi il
carattere totale della guerra: lo scontro ideologico fra i due schieramenti fu
più aspro e radicale, e più ampia fu la mobilitazione dei cittadini con o senza
uniforme. Nuove tecniche di guerra e nuove armi furono impiegate anche fuori dai
campi di battaglia e le conseguenze sulle popolazioni civili furono più tragiche
che in qualsiasi guerra del passato.
La guerra-lampo
La distruzione della Polonia
Le prime settimane di guerra furono sufficienti alla Germania per sbarazzarsi
della Polonia e per offrire al mondo un'impressionante dimostrazione di
efficienza bellica.
L'offensiva tedesca, accompagnata da una serie di micidiali bombardamenti aerei,
ebbe facilmente ragione di un esercito antiquato e mal guidato. Fu questa la
prima applicazione della guerra-lampo (in tedesco Blitzkrieg), una
strategia che si basava sull'uso congiunto dell'aviazione e delle forze
corazzate, affidando a queste ultime il peso principale dell'attacco.
L'impiego su vasta scala dei carri armati e delle autoblindo e il loro
raggruppamento in speciali reparti motorizzati rendevano di nuovo possibile la
guerra di movimento, e consentivano, in caso di successo, di impadronirsi in
pochi giorni di territori molto vasti, tagliando fuori gli eserciti nemici dalle
loro fonti di rifornimento.
Fu esattamente quanto accadde nella campagna di Polonia.
A metà settembre le armate del Reich già assediavano Varsavia che,
semidistrutta dai bombardamenti, capitolò alla fine del mese.
Frattanto l'Urss, in base alle clausole segrete del patto Molotov-Ribbentrop, si
impadroniva delle regioni orientali del paese, dopo aver invaso le tre piccole
repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania) che persero cosi la loro
indipendenza.
All'inizio di ottobre cessava ogni resistenza da parte dell'esercito polacco.
Tedeschi e sovietici imposero nei territori sotto il loro controllo uno spietato
regime di occupazione: in questo periodo si consumò, per opera dei sovietici, il
massacro di oltre 4000 ufficiali polacchi fatti prigionieri, i cui corpi,
gettati in fosse comuni, sarebbero stati scoperti dai tedeschi, nel '43, nella
foresta di Katyn, in territorio russo.
La Repubblica polacca cessava cosi di esistere dopo appena vent'anni di vita,
senza aver ricevuto alcun aiuto concreto dai suoi alleati occidentali che, non
volendo affrontare uno scontro in campo aperto, restarono sulla difensiva,
aspettando l'attacco tedesco.
La guerra nel Nord Europa
Per i successivi sette mesi, la guerra a Occidente restò così
congelata. L'Europa visse una fase di attesa che i francesi chiamarono drôle
de guerre ('strana guerra' o 'guerra per finta' o 'guerra per scherzo') e
che certo non giovò al morale delle truppe, mentre consentì ai tedeschi di
riorganizzare le forze in vista dello scontro decisivo.
Mentre le armi tacevano sul fronte occidentale, il teatro di guerra si spostava
inaspettatamente nell'Europa del Nord.
Questa volta fu l'Urss a prendere l'iniziativa, attaccando il 30 novembre la
Finlandia, colpevole di aver rifiutato alcune rettifiche di confine. La campagna
si rivelò però più difficile del previsto: i finlandesi resistettero per più di
tre mesi infliggendo notevoli perdite agli aggressori. Nel marzo 1940 la
Finlandia dovette cedere alle richieste sovietiche, conservando tuttavia la sua
indipendenza.
A questo punto fu di nuovo la Germania a cogliere tutti di sorpresa e a
prevenire ogni eventuale mossa anglo-francese nel Nord Europa lanciando, il 9
aprile 1940, un improvviso attacco alla Danimarca e alla Norvegia.
La Danimarca si arrese senza combattere.
La Norvegia oppose una certa resistenza, ma anche in questo caso l'azione
tedesca si rivelò incontenibile, nonostante la relativa esiguità delle forze
impiegate. Nella primavera del '40, Hitler controllava buona parte dell'Europa
centro-settentrionale. I tempi erano maturi per scatenare l'attacco a Occidente.
La sconfitta della Francia e la resistenza della Gran Bretagna
L'attacco tedesco alla Francia ebbe inizio il 10 maggio 1940 e si risolse nel
giro di poche settimane in un nuovo travolgente successo, tanto più clamoroso in
quanto ottenuto a spese delle due maggiori potenze occidentali coalizzate.
L'esercito francese, in particolare, era il più consistente e il meglio armato
d'Europa, disponendo di una forte aviazione e di ingenti forze corazzate.
A provocare la sconfitta furono gli errori dei comandi, ancora legati a una
concezione statica della guerra e troppo fiduciosi nell'efficacia delle
fortificazioni difensive che costituivano la famosa linea Maginot e che
coprivano solo la frontiera franco-tedesca, lasciando scoperto il confine col
Belgio, da dove in realtà veniva la minaccia più seria.
La battaglia di Francia
Infatti, come nel 1914, i tedeschi iniziarono l'attacco violando la
neutralità dello Stato confinante. Questa volta, oltre al Belgio, furono invasi
anche Olanda e Lussemburgo.
Fra il 12 e il 15 maggio, dopo aver attraversato velocemente la foresta delle
Ardenne, in territorio belga (ritenuta invalicabile dai carri armati), i reparti
corazzati tedeschi sfondarono nei pressi di Sedan, ossia nel punto centrale
della linea difensiva francese, le cui forze più consistenti erano in parte
impegnate nella difesa del Belgio, in parte dislocate a sud, a presidiare
l'inutile linea Maginot.
Le truppe tedesche dilagarono in pianura e puntarono verso il canale della
Manica, chiudendo in una sacca molti reparti francesi e belgi e l'intero corpo
di spedizione inglese, appena sbarcato sul continente.
Solo un momentaneo rallentamento dell'offensiva consentì al grosso delle forze
britanniche, assieme a circa 100 mila fra belgi e francesi, un difficile
reimbarco nel porto di Dunkerque (29 maggio-4 giugno). La sosta tedesca era
dovuta in parte all'esigenza di riorganizzare le forze in vista dell'attacco
definitivo, in parte forse a un calcolo politico di Hitler, che voleva lasciarsi
aperta la strada di un accordo con la Gran Bretagna.
Per gli inglesi la ritirata rappresentò comunque la possibilità di continuare la
lotta. Ma per la Francia, fiaccata nel morale oltre che nell'efficienza bellica,
la sconfitta era ormai irreparabile.
Il 14 giugno i tedeschi entravano a Parigi, mentre lunghe colonne di profughi si
riversavano verso il Sud.
L'armistizio
Assieme alle forze armate, cedeva anche la classe politica: il governo
presieduto da Paul Reynaud, fautore della resistenza a oltranza, fu costretto a
dimettersi. Divenne presidente del Consiglio l'ottantaquattrenne maresciallo
Philippe Pétain (comandante dell'esercito francese nell'ultima fase della Grande
Guerra), che aprì immediatamente le trattative per l'armistizio.
Invano il generale Charles De Gaulle, sottosegretario alla difesa nel governo
Reynaud, lanciò da Londra, il 18 giugno, un appello ai francesi per incitarli a
continuare a combattere a fianco dei loro alleati.
L'armistizio fu firmato il 22 giugno 1940 nella stessa località (il villaggio di
Rethondes) e nello stesso vagone ferroviario che nel novembre '18 avevano visto
la delegazione tedesca piegarsi ai vincitori di allora.
L'attacco alla Francia
In base all'armistizio il governo, che stabilì la sua sede nella cittadina termale di Vichy, conservava la sua sovranità su una zona corrispondente grosso modo alla metà centromeridionale del paese, oltre che sulle colonie. Il resto della Francia restava sotto l'occupazione tedesca.
Il regime di Vichy
Il crollo militare della Francia e l'avvento di Pétain segnarono anche la
fine della Terza Repubblica, nata settant'anni prima da un'altra catastrofe
bellica (quella subita da Napoleone III contro i prussiani). Il 9 luglio
l'Assemblea nazionale, riunita a Vichy, si spogliava dei suoi poteri, affidando
al presidente del Consiglio il compito di promulgare una nuova Costituzione.
Come molti francesi, Pétain attribuiva la responsabilità della sconfitta non
agli errori dei comandi militari, ma alla classe dirigente repubblicana e al
sistema democratico-parlamentare, considerato troppo permissivo e dunque causa
di rilassamento morale.
La «rivoluzione nazionale» da lui promossa – col diffuso consenso di un'opinione
pubblica passiva e smarrita, desiderosa soprattutto di finirla con la guerra –
si risolse così in un ritorno alle tradizioni dell'ancien régime: culto
dell'autorità, difesa della religione e della famiglia, esaltazione retorica
della piccola proprietà e del lavoro nei campi, organizzazione sociale di stampo
corporativo.
Rotto ogni rapporto con la Gran Bretagna, il regime di Vichy vide
progressivamente restringersi i suoi margini di autonomia e si ridusse al rango
di Stato-satellite della Germania hitleriana.
Churchill
Dal giugno 1940 la Gran Bretagna era rimasta sola a combattere contro la
Germania e i suoi alleati.
A questo punto Hitler sarebbe stato disposto a trattare, a patto di vedersi
riconosciute le sue conquiste. Ma ogni ipotesi di tregua trovò un ostacolo
insuperabile nella volontà di resistenza della classe dirigente e del popolo
britannico.
Interprete e ispiratore di questa linea intransigente fu il primo ministro
conservatore Winston Churchill, da sempre duro oppositore della politica di
appeasement.
Chiamato nel maggio del 1940, dopo le dimissioni di Chamberlain, a guidare un
nuovo governo di coalizione nazionale, Churchill enunciò subito il suo programma
in un celebre discorso: una sola politica, «la guerra per mare, per terra e
nell'aria, con tutte le nostre energie», e un solo obiettivo, «la vittoria a
tutti i costi [ ... ] per quanto lunga e dura possa essere la strada». Ai suoi
concittadini non aveva nulla da offrire «se non sangue, travagli, lacrime e
sudore»
La battaglia d'Inghilterra
I sacrifici annunciati da Churchill divennero ben presto una dura realtà.
All'inizio di luglio, Hitler dava il via al progetto per l'invasione della Gran
Bretagna (l'operazione «Leone marino»).
Premessa essenziale per la riuscita del piano era il dominio dell'aria, che
avrebbe consentito ai tedeschi di compensare la superiorità navale della Gran
Bretagna. Quella scatenata dalla Germania nell'estate del '40 fu la prima grande
battaglia aerea della storia. Per circa tre mesi l'aviazione tedesca (Luftwaffe)
effettuò continue incursioni in territorio britannico, prima contro obiettivi
militari, poi contro i principali centri industriali, compresa Londra, che fu
ripetutamente bombardata.
Gli attacchi furono però efficacemente contrastati dalla contraerea e dagli
aerei da caccia della Royal Air Force (Raf), che si avvaleva fra l'altro
di un ottimo sistema di informazione e di avvistamento radar.
All'inizio dell'autunno apparve chiaro che, nonostante le perdite umane e le
distruzioni materiali subite, la Gran Bretagna non era stata piegata e
l'operazione «Leone marino» fu rinviata a tempo indefinito.
La battaglia d'Inghilterra, tuttavia, aveva dato una tragica dimostrazione delle
potenzialità distruttive del mezzo aereo: i bombardamenti sulle città, le
terrificanti incursioni notturne precedute dal suono delle sirene e dalla fuga
dei civili verso i rifugi antiaerei, gli orrori prodotti dalle bombe incendiarie
sarebbero diventati un elemento ricorrente e un fattore decisivo nelle
successive fasi della guerra.
La tenace resistenza britannica aveva ottenuto comunque un successo
determinante, soprattutto dal punto di vista psicologico, imponendo alla
Germania la prima battuta d'arresto dall'inizio del conflitto.
L'Italia e la "guerra parallela"
Dalla «non belligeranza» alla dichiarazione di guerra
Nell'estate del 1939 l'Italia fu colta di sorpresa dal precipitare della
crisi internazionale. E, allo scoppio della guerra, non poté far altro che
annunciare la propria «non belligeranza» (un'espressione usata per evitare il
termine "neutralità", poco consono alla retorica fascista), giustificando
l'inadempienza agli impegni del «patto d'acciaio» con l'impreparazione ad
affrontare un conflitto di lunga durata.
In effetti l'equipaggiamento delle forze armate, già scarso e antiquato, era
stato ulteriormente impoverito dalle imprese in Etiopia e in Spagna.
Insufficienti erano anche le scorte di materie prime, per le quali l'Italia
dipendeva dalle importazioni estere.
Ma nel maggio 1940, di fronte al crollo della Francia, Mussolini si convinse che
l'esito del conflitto era ormai deciso e vinse le resistenze di quei settori
della classe dirigente (il re, i gerarchi dell'ala "moderata" del fascismo, gli
industriali, gli stessi vertici militari) che fin allora si erano mostrati meno
favorevoli all'entrata in guerra.
Anche l'opinione pubblica, prima avversa all'alleanza con la Germania, cambiò
orientamento di fronte alla prospettiva di una vittoria da ottenersi con
pochissimo sforzo (lo stesso Mussolini, in privato, parlò di «qualche migliaio
di morti da gettare sul tavolo della pace»).
I primi fallimenti
Il 10 giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, il duce annunciò a una
folla plaudente l'entrata in guerra dell'Italia contro Francia e Gran Bretagna.
L'offensiva sulle Alpi contro la Francia, sferrata il 21 giugno in condizioni di
netta superiorità numerica contro un avversario praticamente già sconfitto, si
risolse però in una disastrosa prova di inefficienza.
L'armistizio subito richiesto dalla Francia e firmato il 24 giugno prevedeva
solo qualche minima rettifica di confine, oltre alla smilitarizzazione di una
fascia di territorio francese profonda 50 km.
Non diversamente andarono le cose in Africa settentrionale, dove l'attacco
lanciato in settembre dal territorio libico contro le forze britanniche in
Egitto dovette arrestarsi per l'insufficienza dei mezzi corazzati.
Mussolini, convinto che l'Italia dovesse combattere una sua guerra, parallela e
non subalterna a quella tedesca, rifiutò un'offerta d'aiuto da parte della
Germania, preoccupato di sottrarsi alla tutela del più potente alleato. Si
trattava però di una guerra che le forze armate italiane non erano in grado di
affrontare, come gli avvenimenti dei mesi successivi avrebbero ampiamente
dimostrato.
L'aggressione alla Grecia
Nell'ottobre 1940 l'esercito italiano, muovendo dall'Albania, attaccava
improvvisamente la Grecia.
Questa offensiva, decisa senza adeguata preparazione e senza alcuna
giustificazione plausibile, si scontrò con una resistenza molto più dura del
previsto. Alla fine di novembre i greci passarono al contrattacco e gli italiani
furono costretti a ripiegare in territorio albanese.
L'esito fallimentare della campagna suscitò nel paese sconcerto e
preoccupazione. Le notizie che filtravano dal fronte greco – e parlavano di
disorganizzazione, di carenza di equipaggiamento invernale, di fenomeni di
sbandamento fra le truppe – diedero un primo grave colpo all'immagine guerriera
del regime. Tanto più che quelle notizie si accompagnavano all'eco dei
contemporanei insuccessi in Africa.
Il fronte africano
Nel dicembre '40 i britannici passarono al contrattacco e, grazie anche alla
superiorità dei loro carri armati, in poche settimane conquistarono l'intera
Cirenaica (ossia la parte orientale della Libia) infliggendo agli italiani la
perdita di 140 mila uomini fra morti, feriti e prigionieri.
Per evitare la definitiva cacciata dalla Libia, Mussolini fu costretto questa
volta ad accettare l'aiuto della Germania.
Nel marzo 1941, con l'arrivo dei primi reparti tedeschi, equipaggiati con
moderni mezzi corazzati e comandati da un brillante stratega della guerra di
movimento, il generale Erwin Rommel, le truppe dell'Asse cominciavano una lunga
controffensiva che, già in aprile, portò alla riconquista della Cirenaica.
La guerra parallela
Ma intanto l'Africa orientale italiana (Etiopia, Somalia, Eritrea),
difficilmente difendibile per la sua posizione geografica, stava cadendo nelle
mani degli inglesi: il 6 aprile 1941 fu occupata Addis Abeba, dove pochi giorni
dopo rientrava trionfalmente il negus.
Fu un altro durissimo colpo per il prestigio dell'Italia, ormai costretta a
rinunciare a ogni sogno di "guerra parallela" e ridotta ovunque a recitare il
ruolo dell'alleato subalterno.
L'intervento tedesco nei Balcani
Anche nei Balcani, come in Nord Africa, il fallimento delle iniziative
italiane fini con l'aprire la strada all'intervento in forze della Germania.
Nell'aprile 1941, la Jugoslavia e la Grecia, attaccate simultaneamente da truppe
tedesche e italiane, furono facilmente travolte, mentre i britannici – che in
marzo erano sbarcati in territorio ellenico – erano costretti a ritirarsi,
abbandonando per la seconda volta il continente europeo.
Anche l'Italia, da questo momento, si trovò a svolgere assieme alla Germania il
ruolo di potenza occupante nei Balcani, vedendosi assegnate una parte della
Slovenia (che fu annessa al Regno d'Italia), ampie zone della Croazia, della
Dalmazia e del Montenegro e gran parte del territorio greco.
Pur se meno feroce di quella tedesca, l'occupazione italiana fu segnata da
violenze e rappresaglie che si sovrapposero ai conflitti etnici e politici di un
paese già profondamente diviso.
Nella primavera del '41, restava aperto il solo fronte nordafricano (dove gli
inglesi erano avvantaggiati dalla superiorità navale nel Mediterraneo, oltre che
dall'ampio retroterra di cui disponevano in Africa e in Medio Oriente). Ma
Hitler non aveva più rivali in Europa. E poteva concentrare il grosso delle sue
forze verso l'obiettivo più ambito: la conquista dello «spazio vitale» a est ai
danni dell'Urss.
1941: l'entrata in guerra di Urss e Stati Uniti
L'attacco tedesco all'Unione Sovietica
Che l'Urss costituisse da sempre il principale obiettivo delle mire
espansionistiche di Hitler non era un mistero per nessuno.
Stalin si illuse tuttavia che Hitler non avrebbe mai aggredito la Russia prima
di aver chiuso la partita con la Gran Bretagna. Così, quando il 22 giugno 1941
l'offensiva tedesca – denominata in codice operazione Barbarossa – scattò su un
fronte lungo 1600 km, dal Baltico al Mar Nero, i sovietici furono colti
impreparati (anche perché le "grandi purghe" del '37-38 avevano privato l'Armata
rossa dei suoi migliori ufficiali).
In due settimane le armate del Reich penetrarono in territorio sovietico
per centinaia di chilometri.
L'offensiva – cui prese parte anche un corpo di spedizione italiano inviato in
tutta fretta da Mussolini, ansioso di inserirsi nella crociata antibolscevica –
continuò per tutta l'estate travolgendo ogni resistenza. Ma l'attacco decisivo
verso Mosca fu sferrato troppo tardi, all'inizio di ottobre, e fu bloccato a
poche decine di chilometri dalla capitale dal sopraggiungere del maltempo, che
rese impraticabile la maggior parte delle strade e rallentò il movimento degli
automezzi.
La resistenza dell'Urss
In dicembre i sovietici lanciavano la loro prima controffensiva, allontanando
la minaccia da Mosca. All'inizio dell'inverno, i tedeschi erano ancora padroni
di territori vastissimi e importantissimi dal punto di vista economico
(l'Ucraina, la Bielorussia, le regioni baltiche).
Ma Hitler aveva mancato l'obiettivo di mettere fuori causa l'Urss ed era costretto
a tenere il grosso del suo esercito immobilizzato nelle pianure russe, alle
prese con un terribile inverno e con una resistenza sempre più accanita.
Guidata personalmente da Stalin – che fece appello al sentimento patriottico del
popolo russo – la guerra difensiva dei sovietici risultò infatti più efficace
del previsto. Attingendo a un serbatoio umano che sembrava inesauribile e
riorganizzando la produzione industriale nelle regioni a est del Volga, l'Urss
riuscì infatti a compensare le spaventose perdite subite (3 milioni di uomini,
20 mila carri armati e 15 mila aerei nei primi tre mesi di guerra).
Anche la guerra meccanizzata si trasformava così in una guerra d'usura, in cui
l'elemento decisivo era costituito dalla capacità di compensare rapidamente il
logorio degli uomini e dei materiali. In una guerra del genere – così com'era
accaduto nel primo conflitto mondiale – la Germania era destinata a perdere il
suo vantaggio iniziale, dovuto alla superiorità tecnica e strategica. Tanto più
nel momento in cui la massima potenza industriale del mondo si schierava a
fianco di Gran Bretagna e Urss.
Gli aiuti americani e la Carta atlantica
Allo scoppio del conflitto, gli Stati Uniti avevano ribadito la loro linea
isolazionista di non intervento negli affari europei. Ma, una volta rieletto
alla presidenza per la terza volta nel novembre 1940, Roosevelt si impegnò in
una politica di aperto sostegno economico alla Gran Bretagna, rimasta sola a
combattere contro la Germania.
Nel marzo 1941 fu approvata una legge, detta «degli affitti e prestiti», che
consentiva la fornitura di materiale bellico a condizioni molto favorevoli a
quegli Stati la cui difesa fosse considerata vitale per gli interessi americani.
In maggio gli Stati Uniti ruppero le relazioni diplomatiche con Germania e
Italia.
In giugno la marina militare Usa fu incaricata di scortare fino all'Islanda i
convogli che trasportavano aiuti a nazioni alleate e autorizzata a rispondere a
eventuali attacchi. Questa politica – che tendeva a fare degli Stati Uniti
l'«arsenale delle democrazie» – ebbe il suo suggello ufficiale nell'incontro fra
Roosevelt e Churchill avvenuto il 14 agosto 1941 su una nave da guerra al largo
dell'isola di Terranova.
Frutto dell'incontro fu la cosiddetta Carta atlantica: un documento in otto
punti in cui i due statisti ribadivano la condanna dei regimi fascisti e
fissavano le linee di un nuovo ordine democratico da costruire a guerra finita:
- rispetto dei principi di sovranità popolare e di autodecisione dei popoli,
- libertà dei commerci,
- libertà dei mari,
- cooperazione internazionale,
- rinuncia all'uso della forza nei rapporti fra gli Stati.
Il coinvolgimento degli Usa in quella che sempre più stava diventando una guerra
antifascista sembrava già a questo punto inevitabile.
La guerra nei Pacifico
A trascinare gli Stati Uniti nel conflitto fu però l'aggressione improvvisa
subita nel Pacifico da parte del Giappone: la maggiore potenza dell'emisfero
orientale e il principale alleato asiatico di Germania e Italia, cui era legato,
dal settembre 1940, da un patto di alleanza detto patto tripartito.
Già impegnato dal '37 nella guerra contro la Cina, il Giappone aveva profittato
del conflitto europeo per allargare le sue aspirazioni espansionistiche a tutti
i territori del Sud-est asiatico. Quando, nel luglio 1941, i giapponesi invasero
l'Indocina francese, Stati Uniti e Gran Bretagna reagirono decretando il blocco
delle esportazioni verso il Giappone. L'Impero asiatico si trovò a questo punto
di fronte a una scelta: piegarsi alle richieste delle potenze occidentali (che
esigevano il ritiro delle truppe giapponesi dall'Indocina e dalla Cina) o
scatenare la guerra per conquistare nuovi territori e procurarsi così le materie
prime necessarie alla sua politica di grande potenza.
Il governo giapponese, dominato dalle correnti belliciste, scelse la strada
della guerra.
Il 7 dicembre 1941, l'aviazione giapponese attaccò, senza previa dichiarazione
di guerra, la flotta degli Stati Uniti ancorata a Pearl Harbor, nelle Hawaii, e
la distrusse in buona parte.
Nei mesi successivi, profittando della netta superiorità navale così conquistata
nel Pacifico, i giapponesi raggiunsero di slancio tutti gli obiettivi che si
erano prefissati: nel maggio '42 controllavano le Filippine (strappate agli
Usa), la Malesia e la Birmania britanniche, l'Indonesia olandese ed erano in
grado di minacciare l'Australia e la stessa India, costringendo la Gran Bretagna
a distogliere forze preziose dal Medio Oriente.
Il patto delle Nazioni Unite
Pochi giorni dopo l'attacco a Pearl Harbor, anche Germania e Italia
dichiaravano guerra agli Stati Uniti.
Il conflitto diventava a questo punto veramente mondiale. Gli anglo-americani e
i sovietici, trovatisi a combattere dalla stessa parte più per scelta altrui che
per propria volontà, si posero subito il problema di elaborare una strategia
comune per battere le potenze fasciste. Lo fecero per la prima volta nella
conferenza che si tenne a Washíngton fra il dicembre 1941 e il gennaio 1942,
nella quale tutte le 26 nazioni in guerra contro Germania, Italia e Giappone
(oltre ai "tre grandi" – Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna – c'erano
anche i paesi del Commonwealth e numerosi rappresentanti di Stati occupati dai
tedeschi) sottoscrissero il patto detto «delle Nazioni Unite»: i contraenti –
gli alleati, come da allora sarebbero stati definiti – si impegnavano a tener
fede ai principi della Carta atlantica, a combattere le potenze fasciste, a non
concludere armistizi o paci separate.
L'ordine dei dominatori. Resistenza e collaborazionismo
Il nuovo ordine mondiale
Nella primavera-estate del 1942 le potenze dell'Asse (così veniva anche
chiamata l'alleanza fra gli Stati aderenti al patto tripartito
Roma-Berlino-Tokio) raggiunsero la loro massima espansione territoriale.
Il Giappone dominava su tutto il Sud-est asiatico, su vaste zone della Cina e su
molte isole del Pacifico. In Europa i tedeschi controllavano, direttamente o
indirettamente, un territorio di circa 6 milioni di km2 con oltre 350
milioni di abitanti. Attorno alla Germania e all'Italia ruotavano gli alleati
"minori": Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Croazia e Francia di Vichy.
Spagna, Turchia e Svezia, formalmente neutrali, erano di fatto incluse nella
sfera politico-economica dell'Asse. All'interno di questo blocco l'Italia aveva
un ruolo marginale. Il cuore pulsante del sistema era infatti la Germania, la
cui macchina bellica lavorava a pieno ritmo, grazie anche al lavoro obbligatorio
dei prigionieri di guerra e degli operai prelevati dai paesi occupati.
Sia la Germania sia il Giappone cercarono di costruire nelle zone sotto il loro
controllo un «nuovo ordine» basato sulla supremazia della nazione eletta. Mentre
però il Giappone si appoggiò ai movimenti indipendentisti dei paesi soggetti al
dominio coloniale e fece propria, strumentalmente, la causa della lotta contro
l'imperialismo europeo, la Germania non concesse nulla alle aspirazioni dei
popoli ad essa soggetti. Per le popolazioni considerate razzialmente inferiori,
i progetti hitleriani prevedevano solo la totale subordinazione, se non
addirittura lo sterminio (era questo, come vedremo fra poco, il destino
riservato agli ebrei).
Sfruttamento e terrore
Un trattamento particolarmente duro e inumano fu riservato ai popoli slavi:
nei piani di Hitler tutta l'Europa orientale doveva diventare una colonia
agricola del Reich, ogni traccia di industrializzazione e di
urbanizzazione doveva essere cancellata, ogni forma di istruzione superiore
bandita. Le élite dirigenti e gli intellettuali (a cominciare dai quadri
del Partito comunista in Russia) andavano eliminati fisicamente.
Circa 6 milioni di civili sovietici e 2 milioni e mezzo di polacchi, senza
contare gli ebrei, morirono negli anni dell'occupazione tedesca. Dei quasi 6
milioni di prigionieri di guerra russi, più della metà non fece mai ritorno in
patria.
Le vittorie dell'Asse fino al 1942
Il sistema di sfruttamento, di terrore e di sterminio pianificato e costruito
dai tedeschi nell'Europa occupata portò alla Germania consistenti vantaggi
immediati: una riserva inesauribile di forza-lavoro gratuita, un flusso continuo
di materie prime, un enorme prelievo di ricchezza e di beni di consumo che
permise ai cittadini tedeschi di mantenere, almeno fino al '43, un livello di
vita molto più elevato di quello consentito agli altri popoli europei.
Questo sistema di dominio, ispirato a un cieco fanatismo razziale, costrinse
però i tedeschi a mantenere nei territori occupati forti contingenti di truppe;
suscitò nelle popolazioni soggette moti di ribellione che spesso sarebbero
sfociati in resistenza armata; sollevò infine contro la Germania nazista
un'ondata di odio che avrebbe finito per rivolgersi contro l'intero popolo
tedesco.
I movimenti di resistenza
Episodi di resistenza all'occupazione nazista – in forme che andavano dalla
non collaborazione alla diffusione di materiale propagandistico, alla
trasmissione di informazioni agli alleati, al sabotaggio – si manifestarono già
nella prima fase della guerra in tutti i paesi invasi dai tedeschi.
Protagonisti di questi episodi erano all'inizio piccoli gruppi, legati per lo
più ai governi in esilio o ai movimenti di liberazione (come la Francia libera
di De Gaulle) che avevano trovato ospitalità in Gran Bretagna.
Le file della Resistenza si ingrossarono dopo l'attacco tedesco all'Urss, che
portò i comunisti di tutta Europa a impegnarsi attivamente nella lotta armata
contro il nazismo.
Non sempre le diverse forze che confluivano nella Resistenza riuscirono a
stabilire una linea d'azione comune. I comunisti, nonostante avessero adottato
una strategia che subordinava ogni obiettivo rivoluzionario alla lotta di
liberazione nazionale (in omaggio a questa strategia Stalin, nel maggio 1943,
decise lo scioglimento del Comintern), erano guardati con sospetto dagli
anglo-americani e dalle componenti moderate del fronte antifascista.
Accordi unitari furono ugualmente raggiunti in Francia e in Italia. Ma la
collaborazione si rivelò impossibile in quei paesi dell'Europa orientale e
balcanica dove più fondato era il timore che i partiti comunisti fungessero da
strumento per i piani egemonici dell'Urss. In Jugoslavia in particolare – il
paese in cui il movimento di resistenza assunse più che altrove le dimensioni di
una guerra di popolo – l'esercito partigiano guidato dal comunista Josip Broz
(più noto col nome di battaglia di Tito) si scontrò con i gruppi nazionalistici
e monarchici che pure si opponevano ai tedeschi.
Il collaborazionismo
La resistenza al nazismo rappresentò solo una faccia della realtà dell'Europa
occupata.
In tutti i paesi invasi dalla Germania o da essa controllati, vi fu una parte
più o meno consistente della popolazione che, per opportunismo o per
convinzione, accettò di collaborare con i dominatori. Le forze di occupazione
tedesche trovarono ovunque alleati nella lotta contro la Resistenza, volontari
pronti ad arruolarsi nelle loro file (decine di migliaia di giovani di diversi
paesi furono inquadrati nei reparti combattenti delle SS), leader disposti a
governare in nome e alle dipendenze degli occupanti. In alcuni paesi i tedeschi
si servirono di esponenti dei fascismi locali. In altri trovarono il sostegno di
movimenti separatisti (gli slovacchi, gli ustascia croati) già in lotta contro
gli Stati cui appartenevano o di esponenti della classe dirigente al potere
prima della guerra.
Il caso più importante in questo senso fu quello della Francia di Vichy, la cui
sottomissione ai tedeschi si accentuò nella primavera del '42, quando Pétain
affidò il governo a Pierre Laval, già primo ministro negli anni '30.
La sua accondiscendenza verso la Germania non servì a evitare che, dopo lo
sbarco alleato in Nord Africa alla fine del '42, per prevenire un attacco
angloamericano nella Francia meridionale, i tedeschi occupassero anche la
Francia di Vichy ponendo fine a ogni finzione di autonomia.
La Shoah
Un progetto di sterminio
Ancor prima che il conflitto mondiale avesse inizio, in un discorso tenuto il
30 gennaio 1939, Hitler aveva ribadito la necessità di liberare definitivamente
la Germania dalla presenza degli ebrei e aveva anche profetizzato «la
distruzione della razza ebraica in Europa», come punizione per le presunte
responsabilità della «finanza internazionale ebraica» nello scoppio di una nuova
guerra.
La minaccia hitleriana divenne realtà già nelle prime fasi del conflitto. Prima
i massacri indiscriminati, ma ancora sporadici, nelle comunità ebraiche in
Polonia, dove vivevano oltre 3 milioni di ebrei, progressivamente rinchiusi nei
ghetti istituiti dai nazisti. Quindi, dopo l'invasione dell'Urss nell'estate
1941, cominciò a essere praticata in modo sistematico l'eliminazione fisica
degli ebrei nei territori via via occupati. Cominciava così quell'operazione di
sterminio, di genocidio pianificato che, con un termine ebraico, sarebbe stata
definita Shoah ('catastrofe', 'cataclisma').
Dalle fucilazioni alle camere a gas
Inizialmente furono reparti speciali di SS (gli Einsatzgruppen:
'gruppi operativi'), con l'ausilio di militari dell'esercito regolare e di
collaborazionisti (prevalentemente dei paesi baltici), a eseguire fucilazioni di
massa, come quella del settembre del 1941 quando nella fossa di Babi Yar, in
Ucraina, furono uccisi oltre 33 mila ebrei di Kiev. Ma questa procedura
richiedeva tempi lunghi, era troppo visibile e inadatta ai grandi numeri: in più
poteva provocare qualche resistenza, o qualche cedimento psicologico, tra i
militari.
Dall'inizio di dicembre 1941 a Chefmno, in Polonia, erano state impiegate camere
a gas mobili su autocarri diesel in cui gli ebrei venivano uccisi dall'ossido di
carbonio dei motori, mentre era iniziata a Belzec la costruzione del primo campo
(in tedesco Lager) di sterminio, cui seguirono quelli di Treblinka,
Majdanek e il più noto, quello di Auschwitz-Birkenau, non lontano da Cracovia.
In questi campi vennero avviati non solo gli ebrei polacchi, ucraini, russi ma
anche quelli prelevati negli altri paesi occupati dai nazisti.
Deportare milioni di ebrei costituiva un grosso problema organizzativo che si
provò a risolvere in una riunione dei maggiori responsabili della politica
antiebraica tenuta a Wannsee, un sobborgo residenziale di Berlino, nel gennaio
1942.
Per gli ebrei tedeschi si doveva passare dall'incentivo all'emigrazione alla
deportazione verso est. Egualmente verso est sarebbero stati evacuati gli ebrei
rastrellati nel resto d'Europa (il cui totale ammontava sulla carta a 11
milioni). Il verbale di quella riunione, giunto fino a noi, era volutamente
reticente per quanto riguardava il destino degli ebrei: era chiaro però che i
più deboli sarebbero stati vittime della «selezione naturale» durante i lavori
forzati a cui sarebbero stati destinati, mentre gli elementi più validi
sarebbero stati «opportunamente trattati» (ossia eliminati quando non fossero
più stati in grado di lavorare) per evitare che ricostituissero «la cellula
germinale di una rinascita ebraica».
I numeri dello sterminio
Soprattutto ad Auschwitz cominciarono a giungere, dopo lunghi viaggi nei
carri bestiame piombati, i deportati provenienti da tutta Europa: all'arrivo
veniva compiuta una selezione che divideva gli abili al lavoro dai più deboli,
dagli anziani, dai bambini che venivano immediatamente portati alle camere a gas
alimentate dai fumi sprigionati da un potente insetticida a base di acido
cianidrico (lo Zyklon B). I corpi venivano poi bruciati nei forni crematori o
seppelliti in grandi fosse comuni.
Ad Auschwitz le vittime furono 1,5 milioni, a Treblinka 900 mila. Nel complesso
gli ebrei sterminati – uccisi direttamente o morti di stenti – furono poco meno
di 6 milioni. Il maggiore contributo di vittime fu costituito da 3 milioni di
polacchi (il 90% del totale), 900 mila ucraini, 450 mila ungheresi, 300 mila
romeni per ricordare solo gli appartenenti alle maggiori comunità dell'Europa
orientale. Ma anche nei paesi occidentali le vittime furono numerose in rapporto
alla loro più ridotta presenza: i 54 mila greci e i 105 mila olandesi
rappresentavano più del 70% delle loro comunità di appartenenza. 6800 furono i
deportati dall'Italia, tra i quali solo 837 i sopravvissuti.
Alle vittime ebree si devono aggiungere anche gli zingari, cinti e rom,
anch'essi oggetto dei pregiudizi razziali nazisti, con un numero di uccisi che
oscilla, secondo le stime, tra un minimo di 220 mila e un massimo di 500 mila.
Nei campi affluirono anche molti prigionieri sovietici, in particolare i
commissari politici dell'Armata rossa, e numerosi militari e civili polacchi.
L'ossessione ideologica
Questa gigantesca operazione di sterminio sottrasse truppe e risorse
all'impegno bellico tedesco anche se moltissimi ebrei, come del resto i
prigionieri di guerra, vennero impiegati nelle attività produttive tedesche,
trovando egualmente la morte per malattia o denutrizione.
L'ossessione ideologica antiebraica non si spense nemmeno negli ultimi mesi di
guerra, e con essa non si fermò la macchina dello sterminio, costringendo i
superstiti delle eliminazioni a lunghe marce nel gelo dell'inverno 1945 per
abbandonare i Lager minacciati dall'avanzata sovietica, e anche per occultare
l'infamia che vi era stata perpetrata.
Auschwitz col tempo è diventata l'emblema del male assoluto, un luogo e un
evento su cui misurare quanto la barbarie possa allignare nei popoli civili e
possa alimentarsi della modernità tecnologica del mondo industrializzato. La
condanna di questi orrori sarebbe diventata nel tempo un principio basilare
della coscienza occidentale e avrebbe dato impulso allo sviluppo di una
giustizia penale internazionale capace di colpire i responsabili dei "crimini
contro l'umanità".
Le battaglie decisive
La guerra sui mari
Fra il 1942 e il 1943, l'avanzata delle potenze dell'Asse si arrestò e la
guerra subì una svolta decisiva su tutti i fronti.
I primi segni di un'inversione di tendenza si ebbero nel Pacifico, dove la
spinta offensiva dei giapponesi fu fermata dagli americani – nel maggio-giugno
'42 – nelle due battaglie del Mar dei Coralli, di fronte alle coste della Nuova
Guinea, e delle isole Midway, a ovest delle Hawaii: le prime battaglie navali in
cui le flotte si affrontarono senza vedersi, a decine di chilometri l'una
dall'altra, bombardandosi a vicenda con gli apparecchi che decollavano dalle
portaerei.
Dopo che, nel febbraio '43, le truppe da sbarco americane (i marines)
ebbero conquistato l'isola di Guadalcanal, i giapponesi rinunciarono alle azioni
offensive, limitandosi a difendere le posizioni raggiunte all'inizio della
guerra. Da allora, nonostante la priorità accordata al fronte europeo, gli Stati
Uniti iniziarono una lenta riconquista delle posizioni perdute.
La guerra nel Pacifico '41-'45
Dalla fine del '42, i rapporti di forza cambiarono anche nell'Atlantico, dove
i tedeschi avevano condotto fin allora un'efficace guerra sottomarina contro i
convogli che trasportavano armi e approvvigionamenti dagli Stati Uniti alla Gran
Bretagna.
Gli alleati riuscirono a limitare notevolmente le perdite, grazie a una serie di
innovazioni tecniche (radar più perfezionati, bombe di profondità, razzi
antisommergibile) e grazie a una migliore organizzazione dei trasporti via mare.
El Alamein
A segnare la svolta furono però due grandi battaglie di terra combattute,
quasi contemporaneamente, in Egitto e in Russia.
Nell'estate del 1943, in Nord Africa, le truppe italo-tedesche comandate dal
generale Rommel, avanzando lungo la costa mediterranea, erano arrivate a circa
cento chilometri da Alessan
dria, minacciando la presenza britannica in Egitto e, in prospettiva, in
tutto il Medio Oriente.
Fra luglio e ottobre, nei pressi della cittadina costiera di El Alamein, i due
eserciti si affrontarono in una serie di sanguinosi scontri.
A fine ottobre il generale Montgomery, comandante delle forze britanniche,
poteva lanciare la controffensiva disponendo di una notevole superiorità in
uomini e mezzi. Ai primi di novembre gli italo-tedeschi cominciavano una lunga
ritirata che li avrebbe portati, in tre mesi, a ripercorrere a ritroso tutto il
litorale libico fino alla Tunisia.
Stalingrado
Ancora più decisivo fu lo scontro tra tedeschi e sovietici che ebbe per
centro la città industriale di Stalingrado (cosi battezzata dal 1925 in omaggio
al dittatore), sul Volga, punto nodale della difesa russa nel settore sud-est.
Nell'agosto 1942, le armate tedesche (rinforzate da quelle dei paesi alleati,
fra cui l'Italia) misero sotto assedio la città che, se conquistata, avrebbe
aperto agli invasori la strada del bacino del Don, con le sue risorse minerarie,
e del Caucaso, con i suoi pozzi petroliferi.
In novembre, dopo mesi di durissimi combattimenti, strada per strada, casa per
casa, i sovietici contrattaccarono efficacemente sui fianchi dello schieramento
nemico, e chiusero i tedeschi in una morsa.
Anziché autorizzare la ritirata, Hitler ordinò la resistenza a oltranza,
sacrificando cosi un'intera armata che, all'inizio di febbraio, fu costretta ad
arrendersi.
Per i tedeschi questo fu il più grave rovescio subito dall'inizio della guerra.
Per i sovietici e per gli antifascisti di tutto il mondo, Stalingrado divenne
immediatamente un simbolo di riscossa, il segno più evidente della svolta
intervenuta nel corso del conflitto.
La controffensiva sovietica travolse anche il corpo di spedizione italiano,
schierato nella regione del Don. Male armate e peggio equipaggiate, quasi
sprovviste di mezzi motorizzati, le truppe italiane furono costrette a una
tragica ritirata nell'inverno russo, durante la quale persero circa la metà dei
loro effettivi (oltre 100 mila uomini su poco più di 200 mila).
Lo sbarco in Nord Africa e la conferenza di Casablanca
Frattanto, sempre nel novembre '42, un contingente anglo-americano era sbarcato in Algeria e in Marocco, stringendo le forze dell'Asse in una tenaglia (gli ultimi reparti si sarebbero arresi nel maggio del 1943).
La guerra in Nord Africa
Si apriva ora per gli alleati il problema dell'attacco alla "fortezza
Europa". Su questo punto, però, la strategia di Churchill, che intendeva
chiudere prima di tutto la partita in Africa per poi intervenire in Europa
meridionale, si scontrava con le richieste di Stalin, che avrebbe preferito uno
sbarco immediato nell'Europa del Nord per alleggerire la pressione tedesca
sull'Urss.
Prevalse, in questa fase, il punto di vista inglese. Nella conferenza che si
tenne a Casablanca, in Marocco, nel gennaio 1943, inglesi e americani decisero
che per prima sarebbe stata attaccata l'Italia, considerata l'obiettivo più
facile sia per motivi logistici (la vicinanza della Sicilia alle coste della
Tunisia), sia per ragioni politico-militari (lo stato di crisi in cui versavano
le forze armate italiane e il regime fascista).
Nella stessa conferenza, con una decisione di portata storica che serviva
soprattutto a rassicurare i sovietici sulla serietà dell'impegno alleato, gli
anglo-americani si accordarono sul principio della resa incondizionata da
imporre agli avversari: la guerra sarebbe continuata fino alla vittoria totale,
senza patteggiamenti di sorta con la Germania o con i suoi alleati.
Dallo sbarco in Sicilia allo sbarco in Normandia
La campagna d'Italia
La campagna militare contro l'Italia (il «ventre molle» dell'Asse, secondo la definizione di Churchill) ebbe inizio il 12 giugno 1943 con la conquista alleata dell'isola di Pantelleria. Un mese dopo, il 10 luglio, i primi contingenti anglo-americani sbarcavano in Sicilia e in poche settimane si impadronivano dell'isola, mal difesa da truppe in larga parte convinte dell'inevitabilità della sconfitta. Lo sbarco determinò il crollo del regime fascista, ma anche l'occupazione da parte dei tedeschi dell'Italia centrosettentrionale. E l'avanzata degli alleati rimase a lungo bloccata a Sud di Roma.
L'avanzata dell'Armata rossa
Intanto i sovietici riprendevano l'iniziativa su tutto il fronte orientale.
Dopo aver respinto, nel luglio 1943, l'ultima controffensiva tedesca, l'Armata
rossa iniziò una lenta ma inarrestabile avanzata che si sarebbe conclusa solo
nell'aprile-maggio 1945 con la conquista di Berlino.
Queste vittorie ottenute a prezzo di un eccezionale sforzo organizzativo e di un
enorme sacrificio di vite umane (quasi 10 milioni di militari morti nel corso
della guerra), consentirono all'Unione Sovietica di accrescere notevolmente il
suo peso in seno alla "grande alleanza" antinazista.
Il nuovo ruolo dell'Urss emerse chiaramente nella conferenza interalleata di
Teheran (novembre-dicembre 1943), la prima in cui i "tre grandi" – Roosevelt,
Stalin e Churchill – si incontrarono personalmente.
Questa volta Stalin ottenne dagli anglo-americani l'impegno, da tempo
sollecitato, per uno sbarco in forze sulle coste francesi, da attuarsi nella
primavera del '44.
La liberazione della Francia
Si trattava di un'operazione rischiosa, anche perché i tedeschi avevano
munito tutta la zona costiera con imponenti fortificazioni difensive (il
cosiddetto «vallo atlantico»).
Per attuare il piano, che prevedeva lo sbarco sulle coste settentrionali della
Normandia, furono necessari un lungo lavoro di preparazione, un'accurata
campagna di disinformazione circa il luogo esatto dello sbarco e un eccezionale
spiegamento di mezzi, tale da assicurare agli alleati – che agivano sotto il
comando unificato del generale americano Eisenhower – una schiacciante
superiorità aeronavale.
L'operazione Overlord – questo il nome in codice dello sbarco in Normandia –
scattò all'alba del 6 giugno 1944, preparata da un'impressionante serie di
bombardamenti e da un nutrito lancio di paracadutisti. Nonostante l'accanita
resistenza tedesca, gli attaccanti riuscirono a far sbarcare in territorio
francese, nelle successive quattro settimane, oltre un milione e mezzo di
uomini.
La controffensiva in Europa
Alla fine di luglio, dopo due mesi di combattimenti, gli alleati riuscirono a
sfondare le difese tedesche e a dilagare nel Nord della Francia. Il 25 agosto,
gli anglo-americani e i reparti di De Gaulle entravano a Parigi, già liberata
dai partigiani.
In settembre la Francia era quasi completamente liberata. Poche settimane prima
(20 luglio 1944) Hitler era miracolosamente scampato a un attentato organizzato
da un gruppo di alti ufficiali dell'esercito e di esponenti della vecchia classe
dirigente tedesca, nell'ultimo disperato tentativo di separare le sorti della
Germania da quelle del nazismo e del suo capo.
L'Italia: la caduta del fascismo e l'armistizio
La crisi dei regime e il 25 luglio
Lo sbarco anglo-americano in Sicilia rappresentò il colpo di grazia per un
regime già in profonda crisi, screditato da una lunga serie di insuccessi
militari.
Un segnale allarmante era venuto, nel marzo 1943, dai grandi scioperi operai
che, partendo da Torino, avevano interessato tutti i maggiori centri industriali
del Nord.
A determinare la caduta di Mussolini non furono però le proteste popolari, né le
iniziative dei partiti antifascisti, ancora sconosciute alla maggioranza della
popolazione. Fu invece una sorta di congiura che faceva capo al re e vedeva
tutte le componenti moderate del regime (industriali, militari, gerarchi
dell'ala monarchico-conservatrice) unite ad alcuni esponenti del mondo politico
prefascista, nel tentativo di portare il paese fuori da una guerra ormai perduta
e di assicurare la sopravvivenza della monarchia.
Il pretesto formale per l'intervento del re fu offerto da una riunione del Gran
consiglio del fascismo, tenutasi nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943 e
conclusasi con l'approvazione a forte maggioranza di un ordine del giorno
presentato dall'ex ministro Dino Grandi, che invitava il sovrano a riassumere le
sue funzioni di comandante supremo delle forze armate e suonava quindi come
esplicita sfiducia nei confronti del duce.
Il pomeriggio del 25 luglio, Mussolini era convocato da Vittorio Emanuele III,
invitato a rassegnare le dimissioni e immediatamente arrestato dai carabinieri.
Capo del governo era nominato il maresciallo Pietro Badoglio, già comandante
delle forze armate.
Il crollo del fascismo
L'annuncio della caduta di Mussolini fu accolto dalla popolazione con
incontenibili manifestazioni di esultanza. La gente scese per le strade e sfogò
il suo risentimento contro sedi e simboli del regime. Non vi fu spargimento di
sangue, anche perché il Partito fascista, che per vent'anni aveva riempito la
scena politica italiana, scomparve praticamente nel nulla con tutte le sue
mastodontiche organizzazioni collaterali, prima ancora che Badoglio provvedesse
a scioglierlo d'autorità.
L'entusiasmo popolare era dovuto non tanto alla gioia per la riconquistata
libertà, quanto alla diffusa speranza di una prossima fine della guerra.
L'uscita dal conflitto si sarebbe però rivelata per l'Italia più tragica di
quanto non fosse stata la guerra stessa.
I tedeschi si affrettarono a rafforzare la loro presenza militare per prevenire,
o punire, la ormai prevedibile defezione dell'alleato. Il governo Badoglio, dal
canto suo, proclamò che nulla sarebbe cambiato nell'impegno bellico italiano
(«la guerra continua»). Ma intanto allacciò trattative segretissime con gli
alleati per giungere a una pace separata.
L'armistizio e il disastro dell'8 settembre
Con gli anglo-americani, legati all'impegno della «resa incondizionata»,
c'era però ben poco da trattare.
Quello che l'Italia dovette sottoscrivere fu appunto un atto di resa. Firmato il
3 settembre a Cassibile, in Sicilia, l'armistizio fu reso noto solo l'8
settembre, in coincidenza con lo sbarco di un contingente alleato a Salerno.
L'annuncio dell'armistizio, comunicato da Badoglio al paese con un messaggio
radiofonico, gettò l'Italia nel caos più completo. Mentre il re e il governo
abbandonavano la capitale per riparare a Brindisi, sotto la protezione degli
alleati appena sbarcati in Puglia, i tedeschi procedevano all'occupazione
dell'Italia centro-settentrionale.
Abbandonate a se stesse, con ordini vaghi e contraddittori, le truppe si
sbandarono senza poter opporre ai tedeschi una resistenza organizzata. Roma fu
inutilmente difesa solo da alcuni reparti isolati ai quali si unirono gruppi di
civili armati (gli scontri, che ebbero luogo a Porta San Paolo il 9 settembre,
furono il primo episodio della Resistenza italiana).
Ben 600 mila furono i militari fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in
Germania. Molti soldati fuggirono cercando di tornare alle loro case. La sorte
più tragica toccò ai militari raggiunti dall'annuncio dell'armistizio lontano
dall'Italia: in particolare ai 650 mila che operavano nei Balcani, trattati come
nemici sia dai partigiani jugoslavi e greci sia dai tedeschi, che punirono
spietatamente ogni tentativo di resistenza: l'episodio più grave avvenne
nell'isola greca di Cefalonia dove fu sterminata un'intera divisione italiana
che aveva rifiutato di arrendersi.
Attestatisi su una linea difensiva (la linea Gustav) che andava da Gaeta a
Pescara e aveva il suo punto nodale nella zona di Cassino, i tedeschi riuscirono
a bloccare l'offensiva alleata fino alla primavera dell'anno successivo,
nonostante lo sbarco di un forte contingente angloamericano ad Anzio (circa
cinquanta chilometri a sud di Roma), nel gennaio 1944.
Diventata campo di battaglia per eserciti stranieri, l'Italia doveva affrontare
i momenti più duri di tutta la sua storia unitaria.
L'Italia: Resistenza e guerra civile
L'Italia spezzata in due
A partire dall'autunno 1943, l'Italia fu non solo divisa di fatto da un
fronte, ma anche spezzata in due entità statali distinte, in guerra l'una contro
l'altra.
Mentre nel Sud il vecchio Stato monarchico sopravviveva formalmente col suo
governo e la sua burocrazia, esercitando la sua sovranità sotto il controllo
alleato, nell'Italia settentrionale il fascismo rinasceva dalle sue ceneri sotto
la protezione degli occupanti nazisti.
Il 12 settembre 1943, un commando di aviatori e paracadutisti tedeschi liberò
Mussolini dalla prigionia di Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Pochi giorni
dopo, il duce annunciò la nascita, nell'Italia occupata dai tedeschi, di un
nuovo Stato fascista, che avrebbe preso il nome di Repubblica sociale italiana (Rsi).
La Rsi si proponeva innanzitutto di punire gli artefici del «tradimento» del 25
luglio, monarchici, «badogliani» e fascisti moderati: cinque dei gerarchi che
avevano votato l'ordine del giorno Grandi – fra cui il genero di Mussolini,
Galeazzo Ciano – furono fucilati a Verona nel gennaio '44 dopo un sommario
processo.
Il nuovo Stato repubblicano – o «repubblichino», come fu spregiativamente
chiamato dagli antifascisti – trasferì i suoi uffici e le sue rappresentanze da
Roma, troppo vicina al fronte, al Nord, nella zona del Lago di Garda (donde la
denominazione di Repubblica di Salò).
Il nuovo regime, e il nuovo Partito fascista repubblicano, cercarono di
guadagnare consensi riesumando le parole d'ordine rivoluzionarie del primo
fascismo e lanciando un programma di socializzazione delle imprese industriali,
che non riuscì mai a decollare.
L'occupazione tedesca e la Resistenza
In generale la Repubblica di Mussolini non acquistò mai credibilità per la
sua totale dipendenza dai tedeschi, che si comportavano a tutti gli effetti come
un esercito di occupazione, praticando un intenso sfruttamento delle risorse
economiche e umane dei territori controllati – requisizioni, deportazione di
lavoratori in Germania – e applicandovi le politiche razziali già sperimentate
negli altri paesi occupati.
L'episodio più tragico si verificò il 16 ottobre '43, quando oltre mille ebrei
di Roma (la più antica comunità israelitica d'Europa) furono prelevati dalle
loro case e inviati nel campo di sterminio di Auschwitz, dal quale pochissimi
fecero ritorno.
La principale funzione svolta dal governo di Salò e dalle sue forze armate fu
quella di combattere il movimento di Resistenza contro i tedeschi che stava
nascendo nell'Italia occupata.
Le regioni del Centro-Nord diventavano così teatro di una guerra civile tra
italiani, che si sovrapponeva a quella combattuta dagli eserciti stranieri. Le
prime formazioni armate si raccolsero nelle zone montane dell'Italia
centro-settentrionale subito dopo l'8 settembre e nacquero dall'incontro fra
piccoli nuclei di militanti antifascisti e gruppi di militari sbandati che non
avevano voluto consegnarsi ai tedeschi. I partigiani agivano soprattutto lontano
dai centri abitati, con attacchi improvvisi e con azioni di sabotaggio; ma erano
presenti anche nelle città con i Gruppi di azione patriottica (Gap), piccole
formazioni di tre o quattro elementi (anche donne) che compivano attentati
contro militari o contro singole personalità tedesche e repubblichine.
Gli occupanti risposero con spietate rappresaglie: particolarmente feroce quella
messa in atto a Roma, nel marzo '44, quando, in risposta a un attentato in cui
avevano trovato la morte 33 militari tedeschi, furono fucilati alle Fosse
Ardeatine 335 detenuti, ebrei, antifascisti e militari badogliani (in una
proporzione di 10 a 1, con 5 in più aggiunti per errore).
La rinascita dei partiti
Dopo una prima fase di aggregazione spontanea, le bande partigiane si
andarono organizzando in base all'orientamento politico prevalente fra i loro
membri: le Brigate Garibaldi, le più numerose e attive, erano formate in
maggioranza da comunisti; le formazioni di Giustizia e Libertà si ricollegavano
all'omonimo movimento antifascista degli anni '30; le Brigate Matteotti erano
legate ai socialisti; vi erano poi formazioni cattoliche e liberali e bande
"autonome" composte per lo più da militari di orientamento monarchico.
Fin dall'inizio, dunque, le vicende della Resistenza si intrecciarono
strettamente con quelle dei partiti antifascisti, ricostituiti in clandestinità
o riemersi alla luce dopo la caduta del fascismo.
Nell'estate del 1942 era sorto, dalla confluenza di diversi gruppi che si
collocavano in area intermedia fra il liberalismo progressista e il socialismo,
il Partito d'azione (Pda).
In ottobre numerosi esponenti cattolici avevano elaborato il programma di una
nuova formazione destinata a raccogliere l'eredità del Partito popolare: la
Democrazia cristiana (Dc).
Subito dopo il 25 luglio, fu costituito il Partito liberale (Pli) e rinacquero
il Partito repubblicano (Pri) e quello socialista, col nome di Partito
socialista di unità proletaria (Psiup).
Quanto ai comunisti, da sempre presenti nel paese coi loro nuclei clandestini e
già attivi negli scioperi di marzo, riuscirono a ricostituire buona parte del
loro gruppo dirigente, soprattutto dopo la liberazione, avvenuta in agosto, di
molti leader dal carcere o dal confino.
Il Cln e il governo Badoglio
Fra il 9 e il 10 settembre, i rappresentanti di sei partiti (Pci, Psiup, Dc,
Pli, Pda, oltre alla Democrazia del lavoro, appena fondata dall'ex presidente
del Consiglio Ivanoe Bonomi) si riunirono a Roma e si costituirono in Comitato
di liberazione nazionale (Cln), incitando la popolazione «alla lotta e alla
resistenza [ ... ] per riconquistare all'Italia il posto che le compete nel
consesso delle libere nazioni».
I partiti antifascisti si proponevano così come guida e rappresentanza
dell'Italia democratica, in contrapposizione non solo agli occupanti tedeschi e
ai loro collaboratori fascisti, ma anche a Badoglio e allo stesso sovrano,
corresponsabile della dittatura e della guerra.
Privi di una base di massa nell'Italia liberata, i partiti del Cln non avevano
però la forza per imporsi al governo Badoglio, che godeva della fiducia degli
alleati, in quanto garante degli impegni assunti con l'armistizio.
Nell'ottobre '43 il governo dichiarò guerra alla Germania e ottenne per l'Italia
la qualifica di «cobelligerante»; un piccolo Corpo italiano di liberazione
combatté in effetti a fianco degli anglo-americani, in rappresentanza del
ricostituito esercito italiano.
Togliatti e la «svolta di Salerno»
Il contrasto tra Cln e governo fu sbloccato solo nel marzo 1944
dall'iniziativa del leader comunista Palmiro Togliatti, giunto in Italia
dall'Urss dopo un esilio durato quasi vent'anni.
Appena sbarcato a Napoli, Togliatti, scavalcando la posizione ufficiale del Cln,
propose di accantonare ogni pregiudiziale contro il re o contro Badoglio e di
formare un governo di unità nazionale capace di concentrare le sue energie sulla
lotta contro il nazifascismo. La «svolta di Salerno» (così chiamata perché
Salerno era allora la capitale provvisoria del «Regno del Sud») era in armonia
con la linea allora tenuta dell'Urss (che aveva già riconosciuto il governo
Badoglio), ma serviva anche a legittimare il Pci come partito nazionale.
La tregua istituzionale
La scelta togliattiana, criticata da socialisti e azionisti, consentì
comunque di formare, il 24 aprile, il primo governo di unità nazionale,
presieduto sempre da Badoglio e comprendente i rappresentanti dei partiti del
Cln.
L'accordo prevedeva anche che Vittorio Emanuele III si facesse da parte,
trasmettendo i suoi poteri al figlio Umberto, in attesa che, a guerra finita,
fosse il popolo a decidere la sorte dell'istituzione monarchica.
Nel giugno 1944, dopo che Roma era stata liberata dagli alleati, Umberto assunse
la luogotenenza generale del Regno. Badoglio si dimise e lasciò il posto a un
nuovo governo guidato da Ivanoe Bonomi, presidente del Cln.
Riprendeva intanto, dopo la liberazione di Roma, l'avanzata alleata nelle
regioni centrali. La base di reclutamento delle formazioni partigiane si
allargò, anche per l'afflusso di molti giovani renitenti alla leva decretata dal
governo di Salò. Le azioni militari dei partigiani divennero più ampie e
frequenti, nonostante le continue rappresaglie tedesche (la più terribile, in
questa fase, fu quella messa in atto a Marzabotto, nell'Appennino bolognese,
dove, nel settembre '44, furono uccisi 770 civili).
Molte città, fra cui Firenze, furono liberate prima dell'arrivo degli alleati.
Un difficile inverno
Questa attività – che testimoniava l'esistenza di un'Italia decisa a rompere
i ponti col fascismo e a dare un contributo attivo alla causa alleata – aveva
però un valore simbolico molto superiore alla sua forza militare.
L'efficacia dell'azione partigiana era infatti limitata sia dai contrasti fra le
diverse componenti politiche (che talvolta sfociarono in aperto conflitto), sia,
soprattutto, dall'obiettiva difficoltà di coinvolgere una popolazione
preoccupata soprattutto della propria sopravvivenza e quindi incline a non
schierarsi in uno scontro il cui esito restava affidato essenzialmente
all'azione delle armate anglo-americane.
L'Italia dal '43 al '45
Nell'autunno del '44, l'offensiva alleata sul fronte italiano – diventato
secondario nel quadro della strategia alleata dopo lo sbarco in Normandia – si
bloccò lungo la nuova linea difensiva tedesca (la linea gotica, fra Rimini e La
Spezia). La Resistenza visse allora il suo momento più difficile, soprattutto
dopo il proclama del comando alleato, che, nel novembre '44, invitava i
partigiani a sospendere le operazioni su vasta scala in attesa dell'ultima e
definitiva spallata.
Il movimento partigiano riuscì tuttavia a mantenersi attivo e a sopravvivere al
difficile inverno '44-45.
Nella primavera del '45, con la ripresa dell'offensiva alleata, la Resistenza,
forte di 200 mila uomini armati, sarebbe stata pronta a promuovere
l'insurrezione generale contro gli occupanti in ritirata.
La fine della guerra e la bomba atomica
Il dramma della Germania
Nell'autunno 1944 la Germania poteva considerarsi virtualmente sconfitta.
Il fronte dei suoi alleati nella guerra contro l'Urss (dopo l'Italia, si
ritirarono dal conflitto Romania, Bulgaria, Finlandia, Ungheria) si stava
sfaldando.
In ottobre, i sovietici e i partigiani jugoslavi liberarono Belgrado, mentre gli
inglesi sbarcavano in Grecia.
L'offensiva alleata si era momentaneamente arrestata in Francia e in Italia. Ma
la sproporzione di forze fra i due schieramenti era tale da non lasciare alcun
dubbio sull'esito dello scontro. Il territorio del Reich non era ancora
stato toccato da eserciti stranieri, ma era sottoposto a continui bombardamenti
da parte degli alleati che disponevano ormai del dominio dell'aria. L'offensiva
aerea aveva lo scopo non solo di colpire la produzione industriale e il sistema
di comunicazioni, ma anche di "demoralizzare" il popolo tedesco fino a minarne
la capacità di resistenza.
Molte città della Germania (fra cui Amburgo e Dresda) furono ridotte a cumuli di
macerie. In tutto, oltre 600 mila civili perirono sotto i bombardamenti.
Nemmeno i bombardamenti servirono, però, a piegare la feroce determinazione del
Führer, deciso a far sì che l'intero popolo tedesco condividesse fino in fondo
la sorte del regime nazista. Peraltro, Hitler si illuse fino all'ultimo di poter
rovesciare la situazione grazie all'impiego di nuove "armi segrete" (razzi
telecomandati VI e V2 furono in effetti lanciati contro le città inglesi, ma con
risultati tutt'altro che decisivi) o per un'improvvisa rottura dell`innaturale"
alleanza fra l'Urss e le democrazie occidentali.
La "grande alleanza" e gli accordi sul dopoguerra
Questa ipotesi era in realtà del tutto infondata. Nonostante l'accesa
concorrenzialità che si manifestava all'interno della "grande alleanza",
anglo-americani e sovietici continuarono a tener fede agli impegni assunti e a
cercare accordi globali per la sistemazione dell'Europa postbellica.
Nella conferenza di Mosca dell'ottobre '44, Churchill e Stalin abbozzarono una
divisione in sfere d'influenza dei paesi balcanici (Romania e Bulgaria all'Urss,
Grecia alla Gran Bretagna, situazione di equilibrio in Jugoslavia e Ungheria):
un progetto che, in contrasto con le proclamazioni della Carta atlantica, non
teneva in alcun conto la volontà dei popoli interessati.
I tre grandi si incontrarono ancora in Urss, nella cittadina termale di Yalta,
in Crimea, nel febbraio 1945.
In questa occasione fu stabilito, fra l'altro, che la Germania sarebbe stata
divisa in quattro zone di occupazione (una delle quali riservata alla Francia) e
sottoposta a radicali misure di "denazificazione" e che i popoli dei paesi
liberati avrebbero potuto esprimersi mediante libere elezioni.
Dal canto suo, l'Urss si impegnò a entrare in guerra contro il Giappone.
L'ultima offensiva in Europa
Mentre i grandi discutevano a Yalta sulle sorti future dell'Europa, era già
scattata l'offensiva finale che, nel giro di pochi mesi, avrebbe portato al
crollo del Terzo Reich.
A metà gennaio, dopo un'ultima efficace controffensiva tedesca nelle Ardenne,
gli angloamericani riprendevano l'iniziativa sul fronte occidentale.
I sovietici, dopo aver conquistato Varsavia, attraversavano tutto il restante
territorio polacco. In febbraio erano già a poche decine di chilometri da
Berlino (un obiettivo che Stalin voleva raggiungere prima degli angloamericani).
Più a sud l'Armata rossa cacciava i tedeschi dall'Ungheria per poi puntare su
Vienna, che fu raggiunta il 23 aprile, e su Praga, liberata il 4 maggio.
Frattanto gli anglo-americani attaccavano sul Reno, che fu attraversato il 22
marzo, e dilagavano nel cuore della Germania incontrando, per la prima volta
dall'inizio della guerra, una scarsissima resistenza da parte dei soldati
tedeschi, che invece continuavano a combattere con disperato accanimento sul
fronte orientale (al doppio scopo di proteggere la fuga dei civili dalla
devastante avanzata dell'Armata rossa e di ridurre per quanto possibile la zona
di occupazione dell'Urss).
Il 25 aprile le avanguardie alleate raggiungevano l'Elba e si congiungevano coi
sovietici che stavano accerchiando Berlino.
La morte di Mussolini e di Hitler e la resa tedesca
In quegli stessi giorni crollava anche il fronte italiano.
Il 25 aprile, mentre il Cln lanciava l'ordine dell'insurrezione generale contro
il nemico in ritirata, i tedeschi abbandonavano Milano.
Mussolini fu catturato mentre tentava di fuggire in Svizzera e fucilato dai
partigiani il 28, assieme ad altri gerarchi e alla sua giovane amante, Clara
Petacci.
I loro cadaveri, appesi per i piedi, furono esposti per alcune ore a piazzale
Loreto, a Milano.
Il 30 aprile, mentre i sovietici stavano entrando a Berlino, Hitler si suicidò
nel bunker sotterraneo dove era stata trasferita la sede del governo, lasciando
la presidenza del Reich all'ammiraglio Karl Dönitz,
che offrì subito la resa agli alleati.
Il 7 maggio 1945, nel quartier generale alleato a Reims, fu firmato l'atto di
capitolazione delle forze armate tedesche. Le ostilità cessarono nella notte fra
l'8 e il 9 maggio.
La guerra europea si concludeva così, a cinque anni e otto mesi dal suo inizio,
con la morte dei due dittatori che più d'ogni altro avevano contribuito a
scatenarla. Restava aperto, a questo punto, solo il fronte del Pacifico.
La sconfitta del Giappone e la bomba atomica
Nell'estate del '45 gli americani, ormai liberi da impegni bellici in Europa,
erano pronti a portare l'attacco nel territorio del Giappone, ormai isolato e
sottoposto a continui bombardamenti: un nemico che però continuava a combattere
con eccezionale accanimento, rifiutando di arrendersi anche nelle condizioni più
disperate e facendo ampio ricorso all'azione dei kamikaze, aviatori suicidi che
si gettavano sulle navi avversarie con i loro aerei carichi di esplosivo.
Il nuovo presidente americano Harry Truman (Roosevelt era morto il 12 aprile
1945) decise allora di impiegare contro il Giappone la nuova arma "totale", la
bomba a fissione nucleare o bomba atomica, che era stata appena messa a punto da
un gruppo di scienziati e sperimentata per la prima volta in luglio nel deserto
del Nuovo Messico.
La decisione di Truman serviva innanzitutto ad abbreviare una guerra che si
annunciava ancora lunga e sanguinosa, ma aveva anche lo scopo di offrire al
mondo (e soprattutto agli alleati-rivali sovietici) la dimostrazione della
potenza militare americana.
Il 6 agosto 1945, un bombardiere americano sganciava la prima bomba atomica
sulla città di Hiroshima. Tre giorni dopo, l'operazione era ripetuta a Nagasaki.
In entrambi i casi le conseguenze furono spaventose: non solo per il numero dei
morti (100 mila a Hiroshima, 60 mila a Nagasaki) e per la distruzione totale
delle due città, ma anche per gli effetti di lungo periodo su quanti erano stati
contaminati dalle radiazioni.
Il 15 agosto, dopo che l'Urss aveva anch'essa dichiarato guerra al Giappone,
l'imperatore Hirohito offrì agli alleati la resa senza condizioni.
Con la firma dell'armistizio, il 2 settembre 1945, si concludeva così il secondo
conflitto mondiale.
LA GUERRA FREDDA (1945-73)
La nascita dell'ONU
La lezione della guerra
La seconda guerra mondiale si concludeva con un bilancio di perdite umane che
non aveva precedenti nella storia dell'umanità: circa cinquanta milioni furono i
morti (sei volte più che nella Grande Guerra), per due terzi civili, vittime dei
bombardamenti, delle carestie, delle deportazioni e dei massacri indiscriminati.
L'entità dello sterminio, ma anche la sua inedita e sconvolgente "qualità",
colpirono profondamente la coscienza collettiva e conferirono una nuova
dimensione all'orrore per la guerra.
A ciò contribuì, alla fine del conflitto, un duplice trauma morale: da un lato
quello derivante dalle agghiaccianti rivelazioni sui crimini nazisti e sul
genocidio degli ebrei; dall'altro quello provocato dall'apparizione della bomba
atomica, cioè di un'arma non solo dotata di capacità distruttive senza
precedenti, ma addirittura capace di minacciare la sopravvivenza dell'umanità.
La conferenza di San Francisco
Questa terribile lezione produsse allora, come in parte era già accaduto
all'indomani della prima guerra mondiale, un generale desiderio di rifondare su
basi più stabili il sistema delle relazioni internazionali.
Il risultato più importante fu la nascita dell'Organizzazione delle Nazioni
Unite (ONU).
Fondata, soprattutto per iniziativa americana, in una Conferenza tenuta a San
Francisco fra l'aprile e il giugno del 1945, dunque quando la guerra non era
ancora finita, l'ONU si presentava all'inizio come un prolungamento in tempo di
pace di quel "Patto delle nazioni unite" che, dalla fine del 1941, aveva legato
gli Stati in lotta contro le potenze dell'Asse.
L'obiettivo era però quello di dar vita a una organizzazione permanente e a
carattere tendenzialmente universale, che sostituisse la vecchia e screditata
Società delle Nazioni nel compito di «salvare le generazioni future dal flagello
della guerra» e di «promuovere il progresso economico e sociale di tutti i
popoli».
Lo statuto dell'ONU
Ispirato ai princìpi della Carta atlantica, lo statuto dell'ONU portava
l'impronta di due diverse concezioni: da un lato l'utopia democratica wilsoniana,
di cui era ancora imbevuta una parte dell'opinione pubblica americana;
dall'altro l'approccio realistico tipico di Roosevelt, convinto della necessità
di un "direttorio" delle grandi potenze come unico efficace strumento di governo
degli affari mondiali.
I principi dell'universalità dell'organizzazione e dell'uguaglianza fra le
nazioni sono rispecchiati nell'Assemblea generale degli Stati membri, che si
riunisce annualmente e può adottare solo risoluzioni non vincolanti.
Il meccanismo del «direttorio» è riflesso invece nel Consiglio di sicurezza,
organo permanente che, in caso di crisi internazionale, ha il potere di prendere
decisioni vincolanti per gli Stati membri e di adottare misure che possono
giungere fino all'intervento armato.
Altri organi dell'ONU sono il Consiglio economico e sociale, da cui dipendono le
«agenzie specializzate» per la cooperazione nei vari campi (come l'UNESCO per
l'istruzione e la cultura, la FAO per l'alimentazione e l'agricoltura, l'UNICEF
per la tutela dell'infanzia), e la Corte internazionale di giustizia, cui spetta
di dirimere le controversie fra gli Stati che vi si rimettono volontariamente.
Malgrado l'aspirazione a costituire un embrione di governo mondiale, l'ONU è
stata fin dall'inizio lo specchio del carattere conflittuale della comunità
internazionale. Egemonizzata, ma anche esautorata, dalle maggiori potenze,
paralizzata dai loro contrasti sulle questioni più importanti, si è rivelata
spesso inadempiente al suo compito principale: quello di prevenire e contenere
le crisi.
I processi di Norimberga e di Tokyo
Parallelo, e complementare, al progetto di rifondazione dei rapporti fra gli
Stati fu il tentativo, già avviato senza grandi risultati all'indomani della
Grande Guerra, di aggiornare e codificare il diritto internazionale,
includendovi un settore penale, con i suoi reati e le sue sanzioni, in modo da
colpire sia gli Stati sia i singoli individui.
Per questo, gli alleati costituirono, a guerra conclusa, tribunali militari per
giudicare i colpevoli dei crimini più odiosi fra i responsabili delle principali
potenze sconfitte (l'uccisione di Mussolini giustificò l'esclusione
dell'Italia).
I processi che ne seguirono – quello di Norimberga (1945-46) contro i capi
nazisti e quello di Tokyo (1946-48) contro i dirigenti giapponesi – si
conclusero con numerose condanne a morte e destarono grande scalpore in tutto il
mondo. Si trattò di un precedente (e quindi di un deterrente) di notevole
rilievo, nonostante i problemi politici e morali suscitati da un procedimento
intentato e condotto dai vincitori nei confronti dei vinti.
Le istituzioni economiche internazionali
Sotto l'impulso degli Stati Uniti, la rifondazione dei rapporti si estese
anche al campo economico.
L'opera di internazionali riforma fu improntata alla filosofia di fondo e agli
interessi del capitalismo americano, che andavano nel senso di dar vita a un
vasto e vitale mercato mondiale in regime di libera concorrenza. Vennero così
ridimensionati i vincoli protezionistici e le aree preferenziali di commercio, a
cominciare da quella legata al sistema imperiale britannico.
A guerra ancora in corso, con gli accordi di Bretton Woods del luglio 1944, fu
creato il Fondo monetario internazionale, con lo scopo di costituire un adeguato
ammontare di riserve valutarie mondiali, cui gli Stati membri potessero
attingere in caso di necessità, e di assicurare la stabilità dei cambi fra le
monete, ancorandoli non soltanto all'oro, ma anche al dollaro (di cui gli Stati
Uniti si impegnavano a garantire la convertibilità in oro).
Si venne così a consolidare il primato della moneta americana come valuta
internazionale per gli scambi e come valuta di riserva per le banche centrali di
tutto il mondo.
Al Fondo monetario fu affiancata, sempre a Bretton Woods, la Banca mondiale, col
compito di concedere prestiti a medio e lungo termine ai singoli Stati per
favorirne la ricostruzione e lo sviluppo.
Sul piano commerciale, un sistema fondato sul libero scambio fu instaurato
dall'Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (Gatt), stipulato a Ginevra
nell'ottobre '47, che prevedeva un generale abbassamento dei dazi doganali.
Concepiti all'inizio come strumenti di governo dell'economia mondiale, questi
organismi videro in parte compromessa la loro rappresentatività dalla mancata
adesione dell'Urss (che pure aveva partecipato alla Conferenza di Bretton Woods)
e poi degli altri regimi comunisti che, come si vedrà, si affermarono nei paesi
dell'Europa orientale: un effetto non secondario della divisione del mondo in
blocchi che si era cominciata a profilare già nella fase finale della guerra.
I nuovi equilibri mondiali
Le nuove superpotenze
Il verdetto del secondo conflitto mondiale non si esaurì nella sconfitta
della Germania hitleriana e dei suoi alleati e nella liquidazione del
nazifascismo. La guerra segnò anche un mutamento irreversibile degli equilibri
internazionali.
Le antiche grandi potenze – compresa la Gran Bretagna che aveva combattuto
contro Hitler dal primo all'ultimo giorno di guerra, e compresa anche la Francia
che era stata subito sconfitta e poi generosamente riammessa al tavolo dei
vincitori – dovettero presto rendersi conto di non poter più mantenere le
proprie posizioni di dominio.
L'Europa, già esaurita dallo scontro fratricida della guerra '14-'18, perse
definitivamente la sua centralità e il suo ruolo mondiale. A quel ruolo,
infatti, potevano ormai aspirare due soli Stati, due superpotenze continentali e
multietniche, molto diverse dai vecchi Stati-nazione: gli Stati Uniti, che
vantavano una schiacciante superiorità economica (nel 1945 la loro produzione
industriale risultava raddoppiata rispetto al 1939) e una netta supremazia
militare, esaltata dal possesso dell'arma atomica; e l'Unione Sovietica, che
disponeva di un imponente apparato industriale e militare e occupava con le sue
truppe la metà orientale del continente europeo.
La crisi della "grande alleanza" Usa-Urss
A partire dal 1941, Usa e Urss avevano combattuto assieme contro le potenze
fasciste, offrendo il contributo più consistente alla "grande alleanza"
anti-hitleriana. E, nell'ultimo anno di guerra, avevano provato insieme a
gettare le basi di un nuovo ordine internazionale centrato sulla creazione
dell'ONU.
Ma, proprio in quella fase, erano emerse tra i futuri vincitori divergenze
profonde sul futuro del mondo e in particolare dell'Europa.
Gli Stati Uniti puntavano a una ricostruzione nel segno dell'economia di mercato
e della libertà degli scambi internazionali, come contesto ideale per far valere
la loro egemonia.
L'Unione Sovietica, che aveva pagato un prezzo altissimo in distruzioni
materiali e perdite umane, pretendeva la punizione degli Stati aggressori,
adeguate riparazioni economiche e soprattutto garanzie territoriali contro ogni
possibile attacco lanciato da Occidente, sulle orme di Napoleone, di Guglielmo
II e di Hitler. Questa esigenza di sicurezza, che in Stalin assunse tratti quasi
ossessivi, si traduceva per l'Urss nella richiesta di spingere le proprie
frontiere il più possibile a Ovest e di non avere regimi ostili negli Stati
confinanti.
Gli alleati occidentali erano in parte disposti ad accogliere queste richieste,
vuoi per realismo politico, come nel caso di Churchill, vuoi perché convinti,
come Roosevelt, che una Unione Sovietica appagata nelle sue legittime
aspirazioni (e magari gradualmente democratizzata) potesse rappresentare un
fattore di stabilizzazione nell'irrequieto scacchiere dell'Europa orientale.
Ma nell'aprile del 1945 Roosevelt mori, pochi mesi dopo essere stato eletto per
la quarta volta (caso unico nella storia degli Stati Uniti); e con lui tramontò
il "grande disegno" di cooperazione fra Occidente e Urss.
Il successore di Roosevelt, Harry Truman, si mostrò subito meno aperto alle
istanze di Stalin, che era portato già di suo – soprattutto dopo il lancio
dell'atomica americana sul Giappone – a una diffidenza quasi paranoica nei
confronti degli alleati occidentali.
L'Urss e il controllo dell'Europa orientale
Il primo e fondamentale banco di prova del contrasto fra le potenze
vincitrici fu l'Europa orientale. Nei paesi occupati dall'Armata rossa –
Germania Est, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria – le
possibilità che l'influenza sovietica si affermasse nel rispetto della volontà
popolare erano praticamente nulle. Per imporsi in un contesto ostile, l'Urss non
trovò così altro mezzo, come vedremo meglio, che puntare sui partiti comunisti
locali, per lo più privi di larghe basi di consenso, e portarli al potere in
spregio a qualsiasi principio democratico.
I contrasti emersero chiaramente già nella conferenza interalleata che si tenne
a Potsdam, presso Berlino, fra luglio e agosto del 1945.
Sei mesi dopo, nel marzo 1946, Churchill (che aveva perso pochi mesi prima la
guida del governo, ma conservava intatto il suo prestigio personale) pronunciò a
Fulton, negli Stati Uniti, un discorso che ebbe un'enorme risonanza, in cui
denunciava il comportamento dei sovietici in Europa orientale: «Da Stettino, sul
Baltico, a Trieste, sull'Adriatico, una cortina di ferro è calata sul
continente. [ ... ] Questa non è certo l'Europa liberata per costruire la quale
abbiamo combattuto».
Stalin replicò dando a Churchill del guerrafondaio e paragonandolo a Hitler.
La «grande alleanza» era ormai in frantumi e il processo negoziale sui trattati
di pace ne subì le conseguenze.
La conferenza di Pace
Infatti, i lavori della conferenza della pace, che si aprirono a Parigi nel
luglio 1946, si interruppero tre mesi dopo senza che su molti punti fossero
state raggiunte conclusioni definitive.
Nonostante l'assenza di un accordo generale, furono fissati i nuovi confini fra
Urss, Polonia e Germania: l'Unione Sovietica incamerava le ex repubbliche
baltiche (Estonia, Lituania e Lettonia), parte della Polonia dell'Est e della
Prussia orientale; la Polonia, a sua volta, si rifaceva a ovest a spese della
Germania, portando il suo confine alla linea segnata dai fiumi Oder e Neisse.
La Polonia alla fine del secondo conflitto
La "dottrina Truman"
La conferenza di Parigi fu l'ultimo atto della cooperazione postbellica fra
Urss e potenze occidentali.
Fra il 1946 e il 1947 i contrasti si approfondirono.
Gli Stati Uniti – i soli a poterlo fare, dopo la rinuncia della Gran Bretagna
alle sue ambizioni imperiali – si dichiararono, allora, pronti a intervenire
militarmente in sostegno di quei paesi che si sentissero minacciati da nuove
mire espansioniste dell'Urss o da tentativi rivoluzionari da essa ispirati.
Esposta in un discorso presidenziale nel marzo 1947, la "dottrina Truman" – che
da allora avrebbe costituito la base della politica estera Usa – non metteva in
discussione gli assetti raggiunti alla fine della guerra, ma mirava a impedire
che l'Urss li modificasse a proprio vantaggio, in Europa e nel resto del mondo
(si parlò per questo di «teoria del contenimento»).
La guerra fredda
L'equilibrio Usa-Urss prodotto dal conflitto mondiale si trasformava così
stabilmente in un rapporto conflittuale tra le due superpotenze, che avrebbe
dato origine a un nuovo sistema mondiale "bipolare" imperniato su due blocchi
contrapposti: un blocco "occidentale", che riconosceva l'egemonia politica e
culturale degli Usa e si ispirava agli ideali della democrazia rappresentativa e
del libero scambio, e uno "orientale" guidato dall'Urss e organizzato secondo i
principi del comunismo e dell'economia pianificata.
Cominciava quella che, con una formula destinata a grande fortuna, il
giornalista americano Walter Lippmann definì «guerra fredda»: una guerra non
guerreggiata fra i due blocchi che non solo erano portatori di interessi
divergenti e di strategie contrapposte, ma rappresentavano anche due diversi
modelli di governo, due sistemi ideologici, due messaggi fra loro incompatibili.
Il deterrente nucleare
Nella lunga stagione della guerra fredda, le due superpotenze non si
combatterono mai direttamente: anche perché, dal momento in cui, nel 1949, anche
l'Urss si dotò dell'arma nucleare, fu chiaro a tutti che un conflitto atomico
avrebbe avuto conseguenze terrificanti e minacciato la stessa sopravvivenza
dell'umanità.
Ma non mancarono le occasioni di scontro e le guerre per interposta persona, per
lo più in aree periferiche del pianeta.
Risorse immense vennero profuse dalle due superpotenze nella corsa agli
armamenti e nella ricerca a fini militari. E l'incubo dello sterminio nucleare,
magari frutto di un errore o di un calcolo azzardato, pesò a lungo, e in parte
continua a pesare, nella coscienza dei contemporanei.
La sfida globale Usa-Urss
La contrapposizione globale fra Usa e Urss non si limitò a tracciare un
confine invalicabile fra i due blocchi, ma ebbe effetti di lungo periodo sulla
vita dei singoli Stati: soprattutto in Europa, dove la linea divisoria fra area
"socialista" e area "capitalista" rispecchiava in larga misura le posizioni
raggiunte alla fine delle ostilità dai due maggiori eserciti occupanti.
Dall'una e dall'altra parte – anche se in misura e con modalità molto diverse –
il vincolo di politica estera, ossia la subordinazione di ogni altra istanza
alla compattezza dei rispettivi blocchi, divenne prioritario e strutturale.
Ovunque, anche la lotta politica interna fu largamente condizionata dalle
logiche della guerra fredda e lo stesso dibattito culturale restò a lungo
bloccato nella gabbia delle opposte ortodossie.
Mentre nei paesi occupati dall'Armata rossa le forze non comuniste erano ridotte
al silenzio, in Europa occidentale i partiti legati all'Urss venivano esclusi
dalle coalizioni di governo ed erano nel contempo costretti ad accantonare i
progetti rivoluzionari. Unica eccezione la i Grecia, dove, fra il 1946 e il
1949, si combatté una sanguinosa guerra civile tra comunisti e forze di governo
filo-occidentali conclusasi con la vittoria delle seconde.
Ricostruzione e riforme nell'Europa occidentale
Il mito americano
Fra la situazione dell'Europa occidentale e quella dei paesi dell'Est c'era
però una differenza sostanziale.
Mentre il controllo sovietico si esercitava per lo più con mezzi coercitivi,
l'influenza degli Stati Uniti, sostenuta da grandi risorse economiche e da un
imponente apparato propagandistico, assumeva anche le forme di una egemonia
culturale. In questi anni, l'imitazione dei modelli di vita d'oltreoceano – già
incarnati dalle truppe di occupazione e poi veicolati attraverso la musica, la
letteratura e soprattutto il cinema – diede corpo a un rapporto complesso e
ambivalente, ma comunque intenso, fra le due sponde dell'Atlantico: all'indomani
della più terribile delle guerre, il mito americano parve incarnare le speranze
e le aspettative di benessere di molti europei costretti a confrontarsi con i
problemi di una difficile ricostruzione.
Gli aiuti economici del piano Marshall
Su un piano più concreto, gli Stati Uniti si impegnarono
massicciamente per rilanciare le economie dei paesi europei.
Nel giugno 1947 fu lanciato un vasto programma di aiuti economici all'Europa,
che prese il nome di European Recovery Program (Erp) o, più comunemente, di
piano Marshall, dal nome del segretario di Stato americano che ne assunse
l'iniziativa.
Il Piano Marshall
Fra il 1948 e il 1951, il piano Marshall riversò sulle economie dell'Europa occidentale ben 13 miliardi di dollari fra prestiti a condizioni di favore e aiuti materiali d'ogni genere, soprattutto macchinari e grano. L'effetto fu non solo di permettere la ricostruzione, ma anche di avviare una forte ripresa delle economie dell'Europa occidentale, che già tra la fine degli anni '40 e l'inizio dei '50, raggiunsero e superarono largamente i livelli produttivi dell'anteguerra.
La spinta riformatrice
Pur realizzandosi complessivamente in un quadro economico liberista, il
processo di ricostruzione si accompagnò, almeno in una prima fase, a una forte
spinta verso le riforme sociali e a un diffuso ricorso all'intervento statale
che riprendeva e ampliava pratiche già sperimentate nel corso degli anni '30.
In Francia, ad esempio, nazionalizzazioni e politiche sociali furono varati dal
governo provvisorio presieduto da De Gaulle fra il 1944 e il 1945 e dai
successivi governi di coalizione basati sull'accordo fra i partiti di massa.
Il caso più emblematico fu però quello della Gran Bretagna, dove, nelle elezioni
del luglio 1945, Churchill fu inaspettatamente battuto dai laburisti di Clement
Attlee. Il nuovo governo nazionalizzò le industrie elettriche e carbonifere, la
siderurgia e i trasporti; introdusse il salario minimo e il Servizio sanitario
nazionale, che prevedeva la completa gratuità delle prestazioni mediche; riformò
in senso progressivo la fiscalità ed estese il sistema di sicurezza sociale.
Complessivamente furono gettate le basi di uno Stato sociale o Welfare State
(letteralmente 'Stato del benessere') che aveva l'ambizione di assistere il
cittadino «dalla culla alla tomba».
Ispirato in parte alle riforme attuate dai socialdemocratici in Svezia, e poi
negli altri paesi scandinavi, fin dagli anni '30, il Welfare State si basava sul
presupposto che la collettività dovesse farsi carico dei rischi ai quali
l'individuo è esposto nel corso della sua esistenza, a partire dalle fasi della
vita più difficili (infanzia, anzianità), dalle condizioni di maggiore disagio
(malattia, invalidità, disoccupazione) e dai settori sociali potenzialmente più
svantaggiati.
Le riforme inglesi avrebbero costituito da allora un modello per molti paesi
industrializzati dell'Occidente.
L'Urss e l'Europa orientale
L'Urss e il rifiuto del Piano Marshall
Il lancio del piano Marshall, se da un lato facilitò la ripresa economica
europea, dall'altro ebbe l'effetto immediato di irrigidire le contrapposizioni
dell'incipiente guerra fredda. Nella sua originaria formulazione, il piano aveva
infatti come destinatari tutti i paesi europei, compresi quelli dell'Est. Ma i
sovietici, convinti che l'aiuto promesso fosse un cavallo di Troia per affermare
l'egemonia americana all'interno della propria area di influenza, respinsero il
progetto e imposero di fare altrettanto ai paesi dell'Europa orientale.
Anche i comunisti dell'Occidente si mobilitarono contro il piano, il che provocò
fra l'altro, in Francia e in Italia, la rottura delle coalizioni di governo di
cui ancora facevano parte. Per coordinare l'azione dei partiti "fratelli",
Stalin decise, nel settembre 1947, la formazione del Cominform (Ufficio
d'informazione dei partiti comunisti): una sorta di riedizione su scala ridotta
(ne facevano parte i partiti comunisti italiano e francese, oltre a quelli
dell'Europa orientale) della Terza Internazionale che era stata sciolta nel '43
in omaggio all'alleanza con le potenze democratiche.
La sovietizzazione dell'Europa dell'Est
Procedeva frattanto a tappe forzate l'imposizione del modello politico ed
economico sovietico ai paesi occupati dall'Armata rossa. L'operazione fu
realizzata attraverso una serie di crescenti forzature delle istituzioni
democratiche, che formalmente sopravvivevano (tant'è che i nuovi regimi si
definivano «democrazie popolari»), ma venivano di fatto svuotate
dall'attribuzione ai comunisti di tutte le posizioni-chiave (ministero degli
Interni, vertici della polizia e dell'esercito).
Gli altri partiti (socialisti, liberaldemocratici, partiti dei contadini),
presenti in una prima fase nei governi di coalizione antifascista, furono
gradualmente emarginati, perseguitati e infine sciolti o ridotti a una funzione
puramente decorativa. Le stesse elezioni furono condizionate e manipolate, fino
a trasformarsi in plebisciti dall'esito scontato.
Il meccanismo, sperimentato dapprima in Polonia e in Germania orientale, fu
successivamente applicato in Ungheria, Romania, Bulgaria e Albania.
La Cecoslovacchia e il colpo di Stato del '48
Un caso a parte fu quello della Cecoslovacchia, paese economicamente e
socialmente sviluppato, di solida tradizione democratica, che in politica estera
seguiva una linea non ostile all'Urss e in cui i comunisti avevano ottenuto la
maggioranza relativa nelle libere elezioni del maggio '46.
Il governo formatosi a seguito delle elezioni era guidato dal leader comunista
Klement Gottwald e si fondava sull'alleanza fra i partiti di sinistra. La
coalizione si ruppe però all'inizio del '48, quando si trattò di decidere circa
l'accettazione degli aiuti del piano Marshall, sostenuta dalla maggioranza dei
socialisti e dalle forze borghesi e osteggiata dai comunisti.
Per imporre il loro punto di vista i comunisti lanciarono una violenta campagna
contro le altre forze politiche, costringendo, sotto la minaccia della guerra
civile, il presidente della Repubblica Eduard Beneš ad affidare il potere a un
nuovo governo da loro completamente controllato.
In marzo, il ministro degli Esteri socialista Jan Masaryk, l'unica personalità
non comunista del nuovo ministero, mori cadendo dalla finestra in circostanze
mai chiarite.
Nel maggio 1948, le elezioni si tennero col sistema della lista unica e il
presidente Beneš si dimise per non dover firmare la nuova costituzione che
trasformava definitivamente il paese in una «democrazia popolare».
La Jugoslavia di Tito
Ancora diverso fu il caso della Jugoslavia.
Qui i comunisti, sotto la guida di Tito (divenuto nel '45 presidente della nuova
Repubblica jugoslava), si imposero da soli al potere con ampio uso della forza,
ma anche grazie all'autorità e al prestigio guadagnati durante la Resistenza,
che aveva liberato il paese dall'occupazione nazista senza l'ausilio dell'Armata
rossa.
Fu proprio la forza della leadership jugoslava, che aveva consentito al paese di
superare o soffocare i tradizionali conflitti etnici e religiosi, a porre un
ostacolo al pieno dispiegarsi del dominio dell'Urss. La rottura si consumò nel
giugno 1948, quando si manifestarono le ambizioni jugoslave di svolgere un
ruolo-guida fra i paesi balcanici e di perseguire una via autonoma allo sviluppo
industriale: accusati da Stalin di «deviazionismo» e di collusione con
l'imperialismo, i comunisti iugoslavi furono espulsi dal Cominform.
Completamente isolata dal mondo comunista (che si schierò compatto con Stalin),
la dirigenza jugoslava resistette alle pressioni sovietiche e cominciò a
sperimentare una linea autonoma in politica estera, basata sull'equidistanza fra
i due blocchi, e un nuovo corso in politica economica, volto alla ricerca di un
difficile equilibrio fra statizzazione e autonomia gestionale delle imprese.
In realtà, sul piano dell'organizzazione politica, il modello jugoslavo non si
differenziava da quello delle altre democrazie popolari, basato com'era sulla
ferrea dittatura del Partito comunista. Eppure l'esperienza jugoslava suscitò
interesse in Occidente, perché rappresentò in quegli anni l'unica seria
ribellione al dominio sovietico in Europa orientale, proprio nel momento in cui
le tensioni della guerra fredda conoscevano la loro fase più acuta con il
riproporsi della questione tedesca.
Il blocco di Berlino e le due Germanie
Dalla fine della guerra, la Germania era divisa in quattro zone di
occupazione (americana, britannica, francese e sovietica). La capitale Berlino,
che si trovava all'interno dell'area sovietica, era a sua volta divisa in
quattro zone.
Saltata ogni possibilità di intesa con i sovietici sul futuro del paese, Stati
Uniti e Gran Bretagna avviarono, nel 1947, l'integrazione delle loro zone,
introducendo una nuova moneta, liberalizzando l'economia e rivitalizzandola poi
con gli aiuti del piano Marshall.
Di fronte a quella che ormai si profilava chiaramente come la rinascita di un
forte Stato tedesco integrato nel blocco occidentale, Stalin reagì con la prova
di forza del blocco di Berlino. Nel giugno 1948, l'Urss chiuse gli accessi alla
città impedendone il rifornimento, nella speranza di indurre gli occidentali ad
abbandonare la zona ovest da loro occupata.
L'Europa sembrò nuovamente sull'orlo del conflitto.
La crisi si risolse tuttavia senza uno scontro militare. Gli americani
organizzarono un gigantesco ponte aereo per rifornire la città, finché, nel
maggio '49, i sovietici si risolsero a togliere il blocco, rivelatosi
inefficace.
Nello stesso mese furono unificate tutte e tre le zone occidentali della
Germania e fu proclamata la Repubblica federale tedesca (Bundesrepublik
Deutschland, Brd) con capitale Bonn.
La risposta sovietica fu la creazione, nella parte orientale del paese, di una
Repubblica democratica tedesca (Deutsche Demokratik Republik, Ddr), che
aveva la sua capitale a Pankow, un sobborgo di Berlino.
La Germania e Berlino, 1946-48
Il Patto atlantico e il Patto di Varsavia
A questo punto la divisione dell'Europa in due blocchi contrapposti era
compiuta.
Nell'aprile 1949, mentre era ancora aperta la crisi di Berlino, fu firmato a
Washington il Patto atlantico, alleanza difensiva fra i paesi dell'Europa
occidentale (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Norvegia,
Danimarca, Islanda, Portogallo e Italia), gli Stati Uniti e il Canada.
Il patto, che si fondava su una comune professione di fede nella «civiltà
occidentale», prevedeva un dispositivo militare integrato composto da
contingenti dei singoli paesi membri: la Nato (Organizzazione del trattato del
Nord Atlantico).
Nel 1951 aderirono al patto la Grecia e la Turchia, nel 1955 anche la Germania
federale, fulcro della difesa avanzata contro un possibile attacco sovietico.
Sempre nel '55, proprio a seguito dell'adesione tedesca, l'Urss rispose
stringendo con i paesi satelliti un'alleanza, il Patto di Varsavia, basata
anch'essa su un'organizzazione militare integrata.
Rivoluzione in Cina, guerra in Corea
Mentre in Europa il confine fra i due blocchi si andava stabilizzando, il teatro del confronto fra mondo socialista e mondo capitalistico si allargava al continente asiatico, intrecciandosi con le vicende della lunga e sanguinosa guerra civile che da decenni si stava combattendo in Cina.
La guerra civile
Dopo la sconfitta del Giappone e la fine del conflitto mondiale, la
Repubblica cinese era diventata formalmente una potenza vincitrice; ma era
sempre più lacerata dallo scontro fra il governo "nazionalista" di Chang
Kai-shek e i comunisti di Mao Zedong, che occupavano e amministravano ampie zone
dell'ex impero.
Fallito ogni tentativo di accordo fra i contendenti, il governo lanciò, fra il
1946 e il 1947, una violenta offensiva militare, contando sul sostegno degli
Stati Uniti.
I comunisti, dopo un primo arretramento, riuscirono ancora una volta a
riorganizzarsi e a contrattaccare, puntando sull'appoggio delle masse contadine,
attratte dalla promessa di una radicale riforma agraria. Il fronte nazionalista,
sempre più identificato con la causa dei proprietari terrieri e screditato dalla
diffusa corruzione, si andò invece sfaldando di fronte all'efficace guerriglia
condotta dalle forze maoiste.
La vittoria dei comunisti
Nel febbraio 1949, i comunisti entrarono a Pechino. Due mesi dopo cadeva
Nanchino, capitale della Cina nazionalista.
Chang Kai-shek, con quanto restava del governo e dell'esercito, riparò, sotto la
protezione della flotta americana, nell'isola di Taiwan (Formosa), da dove non
cessò mai di sognare la riconquista.
Il 1° ottobre 1949 fu proclamata a Pechino la nascita della Repubblica popolare
cinese, subito riconosciuta dall'Urss e dalla Gran Bretagna, ma non dagli Stati
Uniti, che continuarono a considerare come legittimo governo cinese quello di
Taiwan (che occupò, fino al 1971, il seggio della Cina all'Onu).
La nuova Repubblica a guida comunista procedette subito a misure radicali: le
banche e le grandi e medie industrie furono nazionalizzate, così come il
commercio con l'estero, mentre la terra fu distribuita fra i contadini.
Una nuova potenza comunista
L'Urss, che durante la guerra civile aveva fornito ai comunisti cinesi solo
aiuti limitati, continuando fino all'ultimo a riconoscere il regime di Chang
Kai-shek, stipulò subito col nuovo regime un trattato di amicizia e di mutua
assistenza. Ma la dirigenza sovietica guardò con qualche preoccupazione
all'emergere di una nuova potenza (comprendente da sola un quarto della
popolazione mondiale) capace di contestare all'Urss il suo ruolo di Stato-guida
e di proporsi come modello di società comunista distinto da quello sovietico e
destinato a esercitare una certa attrazione sui paesi ex coloniali.
Il contrasto sarebbe emerso da lì a pochi anni. Sul momento, però, il successo
della rivoluzione nello Stato più popoloso del mondo, fu visto come un
allargamento del "campo socialista" e dunque come una nuova e radicale sfida
lanciata al blocco occidentale e in particolare agli Stati Uniti.
Le due Coree in guerra
La prova più drammatica delle nuove dimensioni mondiali del confronto fra i
due blocchi si ebbe nel 1950 in Corea.
Alla fine del secondo conflitto mondiale, la Corea (a lungo contesa fra Cina e
Giappone e annessa all'impero giapponese dal 1910), in base agli accordi tra gli
alleati, era stata divisa in due zone, delimitate dal 38° parallelo.
Analogamente a quanto era accaduto in Germania, una delle due zone – la Corea
del Nord – era governata da un regime comunista guidato da Kim Il Sung, mentre
nell'altra – la Corea del Sud – si era insediato un governo nazionalista
appoggiato dagli americani.
Dopo una serie di incidenti di frontiera, nel giugno 1950 le forze nordcoreane,
armate dall'Urss, invasero il Sud.
Di fronte a quella che appariva come una clamorosa conferma delle mire
espansionistiche del blocco comunista, gli Stati Uniti reagirono inviando in
Corea un forte contingente, che agiva sotto la bandiera dell'Onu, in quanto il
Consiglio di sicurezza, assente il delegato sovietico (che intendeva così
protestare contro la mancata assegnazione del seggio alla Cina comunista), aveva
condannato la Corea del Nord e autorizzato l'invio di truppe.
I nordcoreani furono respinti e in ottobre gli americani oltrepassarono il 38°
parallelo. A questo punto, però, fu la Cina di Mao a intervenire in difesa dei
comunisti, con un massiccio invio di «volontari», che in poche settimane
respinsero gli americani sulle posizioni di partenza.
Le due Coree
Nell'aprile 1951 Truman accettò di aprire trattative con la Corea del Nord. I
negoziati — e con essi la guerra — si trascinarono per altri due anni, per
concludersi infine nel 1953 con il ritorno alla situazione precedente, con la
Corea divisa in due e il confine sul 38° parallelo.
Gli effetti della crisi coreana furono di ampia portata. Anche in assenza di un
coinvolgimento diretto dell'Urss, l'eventualità di uno scontro fra le
superpotenze era apparsa vicina e lo spettro di una guerra nucleare concreto
come non mai.
Da qui presero corpo un vasto riarmo americano, un'accresciuta sensibilità degli
Stati Uniti alla minaccia comunista nel Pacifico, un rafforzamento dei loro
legami militari con gli alleati asiatici ed europei.
Il Giappone da nemico ad alleato
La tutela americana
La vittoria dei comunisti in Cina e la guerra in Corea resero sempre più
essenziale, nel sistema di alleanze degli Stati Uniti, il ruolo del Giappone:
nemico irriducibile fino all'agosto 1945, sottoposto dopo la sconfitta a un duro
regime di occupazione affidato al generale Mac Arthur, il paese dovette non solo
rinunciare alle sue ambizioni espansionistiche, ma anche adeguare le sue
istituzioni ai modelli occidentali.
La nuova costituzione approvata nel 1946, in realtà scritta da funzionari
americani, trasformava l'autocrazia imperiale in una monarchia parlamentare (a
questo patto l'imperatore Hirohito poté conservare il trono). Sempre nel '46 fu
inoltre varata una vasta riforma agraria.
L'azione di rinnovamento imposta dagli Stati Uniti ebbe un effetto durevole nel
rimodellare su nuove basi la realtà del paese. Tuttavia essa incontrò un freno
nella necessità di non indebolire troppo quei ceti conservatori su cui gli
occupanti contavano per legare a sé il paese e per farne un bastione del "mondo
capitalistico" in Asia.
La ripresa economica
Questo orientamento si accentuò quando, con la guerra di Corea, il Giappone
divenne base logistica e fornitore dell'esercito americano.
A partire dagli anni '50 le grandi imprese sarebbero diventate il motore
principale di una rapidissima ripresa economica, favorita dall'assistenza degli
Stati Uniti, oltre che da una stabilità politica che si fondava sull'egemonia
dei gruppi moderati, raccolti nel Partito liberal-democratico.
La premesse del "miracolo"
La quasi completa assenza di spese militari imposta dal trattato di pace,
assieme a una politica economica fondata sul contenimento dei consumi, consentì
negli anni '50 un tasso di investimento elevatissimo, pari a un terzo del
prodotto nazionale. Inoltre il sistema delle imprese – basato sulla compresenza
di pochi grandissimi complessi industrial-finanziari (come la Honda, la
Mitsubishi, la Sony e la Panasonic) e di una miriade di piccole e medie aziende
– si rivelò particolarmente adatto a cogliere le occasioni di sviluppo.
Merito della classe imprenditoriale fu quello di puntare sui settori in crescita
– la siderurgia, la cantieristica, l'automobile, la meccanica di precisione e
poi soprattutto l'elettronica – e sulle tecnologie d'avanguardia.
Tutto ciò permise al Giappone di mantenere per tutto il ventennio '50-70 un
tasso di sviluppo medio del 15% annuo (il triplo di quello dell'Occidente
industrializzato), di invadere il mondo con i prodotti della sua industria,
compensando ampiamente le importazioni di materie prime e mantenendo in perenne
attivo la bilancia commerciale, e di diventare, già nel corso degli anni '60, la
terza potenza economica mondiale dopo Usa e Urss.
Come la Germania, il Giappone trovava così nell'alleanza con l'ex nemico la base
per uno spettacoloso rilancio che gli avrebbe consentito di ottenere con mezzi
pacifici gli obiettivi egemonici prima perseguiti attraverso la guerra.
Guerra fredda e coesistenza pacifica
Gli anni della massima tensione
Il quinquennio che va dalla crisi di Berlino del 1948 alla fine del conflitto
in Corea fu il periodo più buio della guerra fredda.
La minaccia di un conflitto nucleare imminente non solo gettò un'ombra di ansia
e di pessimismo sul clima psicologico dei paesi che faticosamente si stavano
riprendendo dai traumi della guerra appena conclusa, ma condizionò negativamente
la politica interna delle maggiori potenze coinvolte.
In Urss Stalin rispose alle necessità della ricostruzione e alle sfide poste dal
confronto con l'Occidente accentuando i connotati autocratici e repressivi del
suo regime. Le purghe tornarono a colpire quadri del partito e comuni cittadini,
mentre i condizionamenti sulla vita intellettuale e artistica si fecero ancora
più soffocanti.
Negli Stati Uniti, soprattutto a partire dal '49 – in coincidenza con
l'esplosione dell'atomica sovietica – , si scatenò una campagna anticomunista
che prese a tratti la forma di una "caccia alle streghe" e che ebbe il suo
principale ispiratore nel senatore repubblicano Joseph McCarthy (donde
l'espressione «maccartismo»), presidente di una commissione parlamentare
istituita per reprimere le «attività antiamericane».
Nel 1950, il Congresso adottò l'Internal Security Act ('legge per la
sicurezza interna'), che costituì lo strumento giuridico per emarginare o
epurare quanti, nella pubblica amministrazione o nel mondo della cultura e dello
spettacolo, fossero sospettati di filocomunismo o di simpatie di sinistra.
Una nuova fase
Nelle elezioni presidenziali del novembre 1952, Truman non si ripresentò e la
vittoria andò al candidato repubblicano, il generale Eisenhower. Nel marzo 1953
Stalin morì all'improvviso, celebrato e pianto dai comunisti di tutto il mondo.
L'uscita di scena dei principali protagonisti della guerra fredda non portò, in
un primo tempo, mutamenti significativi nei due blocchi. Eppure, proprio in
questi anni di tensione, venne maturando un atteggiamento di accettazione
reciproca, che, pur non comportando alcuna tregua nel confronto ideologico o
alcuna pausa nella corsa agli armamenti, costituiva almeno la premessa per una
coesistenza pacifica.
Se i sovietici avevano di fronte lo spettacolo di crescente prosperità offerto
dal blocco occidentale, gli Stati Uniti erano costretti a prendere atto del
consolidamento dell'Urss e del continuo rafforzamento del suo apparato militare:
nell'agosto 1953 l'esplosione della bomba all'idrogeno (o bomba H) sovietica, un
anno dopo il primo analogo esperimento americano, mostrava che in questo campo
il divario tecnologico fra le due superpotenze andava scomparendo.
In questa nuova fase, Usa e Urss rinunciarono ad agire militarmente fuori delle
rispettive aree di influenza. E addirittura arrivarono a collaborare per il
mantenimento dello status quo: accadde durante la "crisi di Suez" dell'estate
1956, quando le due potenze, dopo una breve fase di tensione, si trovarono
sostanzialmente d'accordo nel bloccare l'azione anglo-francese contro l'Egitto.
Ma proprio gli eventi di quel cruciale 1956 mostrarono come il prezzo da pagare
per la stabilità e la pace fosse per l'Occidente la rinuncia a mettere in
discussione le forme del controllo sovietico sull'Europa dell'Est.
L'ascesa di Kruscëv
Infatti, la «direzione collegiale» succeduta a Stalin alla guida dell'Urss
non aveva allentato la presa sui paesi satelliti: quando, nel giugno 1953, gli
operai di Berlino Est scesero in piazza per protestare contro le dure condizioni
di vita imposte dal regime comunista, la rivolta fu sanguinosamente repressa
dalle truppe sovietiche.
Qualcosa parve cambiare quando il segretario del Pcus, Nikita Kruscëv, si impose
come leader indiscusso dell'Unione Sovietica.
Personaggio vivace ed estroverso (molto diverso in questo da Stalin), dotato di
una forte carica di comunicativa popolaresca, Kruscëv si fece promotore di
alcune significative aperture in politica interna: la svolta non comportò
mutamenti sostanziali nella struttura del potere sovietico e nella gestione
centralizzata dell'economia, ma segnò la fine delle "grandi purghe", un rilancio
dell'agricoltura e una maggiore attenzione alle condizioni di vita dei
cittadini.
La denuncia dei crimini di Stalin
Per rendere irreversibile la svolta, Kruscëv non esitò a compiere
un'operazione traumatica: la demolizione della figura di Stalin attraverso una
sistematica denuncia degli orrori e dei crimini commessi in Unione Sovietica a
partire dagli anni '30.
Nel febbraio 1956, in un rapporto al XX congresso del Pcus, Kruscëv pronunciò
una durissima requisitoria contro il leader scomparso, rievocando senza
reticenze gli arresti in massa e le deportazioni, le torture e i processi-farsa
e riabilitando implicitamente le vittime del terrore staliniano (con l'eccezione
di Trotzkij).
Il rapporto Kruscëv – che fu letto ai soli dirigenti e non fu mai pubblicato in
Urss, ma fu presto conosciuto in tutto il mondo occidentale – non metteva in
discussione la validità del modello sovietico e della dottrina leniniana. Gli
errori e le deviazioni erano attribuiti alle scelte di Stalin, al «culto della
personalità» che lo aveva circondato, all'eccessivo potere della burocrazia e
alle troppo frequenti violazioni della «legalità socialista».
Le ripercussioni nell'Europa dell'Est
La denuncia ebbe ugualmente effetti traumatizzanti.
I partiti comunisti occidentali si allinearono al nuovo corso non senza
imbarazzi e riserve.
Ma le conseguenze più esplosive della destalinizzazione si ebbero nell'Europa
dell'Est, in particolare in Polonia e in Ungheria. In questi paesi, il rapporto
Kruscëv fece nascere l'illusione che l'egemonia dell'Urss sui suoi satelliti
potesse assumere forme più blande o essere cancellata del tutto.
In Polonia, dopo una serie di agitazioni operaie iniziate in giugno e culminate
in autunno in un generale moto di protesta, i sovietici favorirono il ritorno al
potere del leader comunista Wladyslaw Gomulka, vittima delle epurazioni
staliniste. Gomulka promosse una politica di cauta liberalizzazione e di
parziale riconciliazione con la Chiesa, impegnandosi per contro a non mettere in
discussione l'alleanza con l'Urss.
L'insurrezione ungherese
In Ungheria gli avvenimenti del '56 seguirono all'inizio un corso analogo.
Vi furono, per tutta l'estate, agitazioni e proteste animate soprattutto da
intellettuali e studenti. In ottobre le proteste sfociarono in una vera e
propria insurrezione, con ampia partecipazione dei lavoratori. In tutte le
fabbriche si formarono consigli operai, autonomi dalle organizzazioni ufficiali.
A capo del governo fu chiamato Imre Nagy, comunista dell'ala "liberale", già
espulso dal partito. Alla fine del mese le truppe sovietiche si ritirarono
dall'Ungheria.
A questo punto, però, il regime di piena libertà instauratosi nel paese aprì
larghi spazi alle forze antisovietiche e i comunisti persero il controllo della
situazione. Quando, il 1° novembre, Nagy annunciò l'uscita dell'Ungheria dal
Patto di Varsavia, il segretario del Partito comunista Janos Kadar invocò
l'intervento sovietico. Reparti dell'Armata rossa occuparono Budapest e, con i
carri armati, stroncarono in pochi giorni la resistenza delle milizie popolari.
Pochi mesi dopo, Nagy fu fucilato, mentre Kadar assumeva la guida del paese.
L'intervento sovietico – che suonava come una brutale smentita alle speranze
suscitate dalla destalinizzazione – provocò sdegno e proteste in Occidente e
suscitò non poche crisi di coscienza fra i comunisti di tutto il mondo, già
colpiti dal trauma del rapporto Kruscëv.
Ma, sul piano dei rapporti di forza, la "rioccupazione" dell'Ungheria
rappresentò una conferma del controllo sovietico sui paesi satelliti e
dell'immutabilità dell'assetto europeo uscito dalla seconda guerra mondiale.
Le democrazie europee e l'avvio dell'integrazione economica
Mentre l'Europa orientale vedeva riaffermata la sua subordinazione all'Urss, mentre la Gran Bretagna si dedicava alla costruzione di un sistema di sicurezza sociale che la avvicinava alle democrazie scandinave, e nella Penisola iberica sopravvivevano i regimi autoritari di Spagna e Portogallo (rimasti neutrali nel conflitto mondiale), nella parte centro-occidentale del continente che aveva sofferto i traumi e le distruzioni della guerra ma aveva mantenuto o recuperato le istituzioni democratiche, la ricostruzione e il rilancio produttivo si accompagnavano al primo avvio di un processo di integrazione economica tra gli Stati.
Il «miracolo tedesco»
La ripresa più spettacolare, soprattutto se si tiene conto delle condizioni
di partenza, fu quella della Germania federale, dove i governi postbellici
applicarono un modello di economia sociale di mercato che combinava un sistema
avanzato di protezione sociale con un'ispirazione di fondo liberistica e
produttivistica.
Il prodotto nazionale tedesco crebbe negli anni '50 al ritmo del 6% annuo; la
disoccupazione fu quasi completamente riassorbita, il marco divenne la più forte
fra le monete europee e la bilancia commerciale rimase sempre in attivo.
Diversi furono i fattori alla base del «miracolo tedesco»: fra gli altri la
disponibilità di una numerosa manodopera fornita dai profughi (a quelli
provenienti dai territori perduti se ne aggiunsero, nel decennio '50-60, altri 3
milioni fuggiti dalla Germania orientale) e la notevole stabilità politica:
quest'ultima dovuta anche alla Costituzione varata nel '49 sotto la tutela delle
autorità di occupazione alleate, che prevedeva meccanismi atti a penalizzare i
piccoli partiti e a evitare le troppo frequenti crisi parlamentari che avevano
indebolito la Repubblica di Weimar.
L'Unione cristiano-democratica (che aveva raccolto l'eredità del vecchio Centro
cattolico) mantenne ininterrottamente fino al '63 la guida del governo con
Konrad Adenauer, per lo più in coalizione con il Partito liberale. Il Partito
socialdemocratico svolse il ruolo di opposizione costituzionale, abbandonando
ufficialmente, nel congresso di Bad Godesberg del 1959, l'antica base teorica
marxista, in favore di una piattaforma democratico-riformista.
La Germania federale si ricandidava così a svolgere un ruolo di rilievo nello
scacchiere europeo, puntando però questa volta su una prospettiva di
collaborazione e di integrazione.
La spinta all'integrazione
Del resto, gli Stati-nazione dell'Europa occidentale, per il fatto stesso di
aver perduto la posizione centrale a suo tempo occupata nel mondo, di essere
inseriti nella stessa alleanza e retti da regimi parlamentari molto simili fra
loro, vedevano svanire i vecchi motivi di rivalità e crescere gli elementi di
affinità reciproca (diverso era il caso della Gran Bretagna che continuava a
privilegiare i legami col Commonwealth).
L'ideale di un'Europa unita nel segno della pace, della democrazia e della
cooperazione economica fu fatto proprio, nell'immediato dopoguerra, da
autorevoli uomini politici di diversi paesi: soprattutto, cattolici come De
Gasperi, Adenauer e il francese Robert Schuman.
Favorevoli al processo di integrazione erano anche gli Stati Uniti, interessati
soprattutto a inserire la Germania occidentale nel dispositivo militare
atlantico.
La Ceca e la Ced
La prima realizzazione concreta sul cammino dell'unità si ebbe nel 1951 con
la creazione della Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca), che aveva
il compito di coordinare produzione e prezzi in quelli che erano ancora i
settori chiave della grande industria continentale.
Il successo della Ceca incoraggiò i governi dei paesi membri (Francia, Germania
federale, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo) a proseguire sulla strada
dell'integrazione. Ma il progetto di una Comunità europea di difesa (Ced),
ovvero di un'organizzazione militare integrata che avrebbe dovuto porre le
premesse per una vera e propria comunità politica, fallì nel 1954 per il voto
contrario del Parlamento francese.
La Cee
A questo punto, i governanti europei ripiegarono su un obiettivo più
realistico: un accordo che consentisse la creazione di un'area di libero scambio
e il coordinamento delle politiche economiche, predisponendo almeno le strutture
di base per una futura integrazione politica.
Nel marzo 1957 i sei paesi membri della Ceca giunsero così alla firma del
trattato di Roma, che istituiva la Comunità economica europea (Cee). Lo scopo
primario era quello di creare un Mercato comune (Mec), mediante il graduale
abbassamento delle tariffe doganali e la libera circolazione della forza-lavoro
e dei capitali, ma anche attraverso il coordinamento delle politiche industriali
e agricole e l'intervento delle autorità comunitarie in favore delle aree
depresse e dei settori in crisi.
Organi principali della Cee erano:
- la Commissione, organismo tecnico che aveva il compito di proporre i piani di
intervento e di disporne l'attuazione;
- il Consiglio, formato da delegati dei governi dei paesi membri;
- la Corte di giustizia, incaricata di dirimere le controversie fra Stato e
Stato;
- il Parlamento europeo, con funzioni puramente consultive, composto
inizialmente da rappresentanti dei parlamenti nazionali, poi (dal '79) eletto
direttamente dai cittadini.
Sul piano economico, il Mercato comune ottenne buoni risultati, dando un forte
stimolo alle economie dei paesi associati. Sul piano politico, però, la spinta
all'integrazione si esaurì nel giro di pochi anni. E le scelte più importanti
continuarono a essere prerogativa dei governi e dei parlamenti nazionali.
La quarta Repubblica in Francia
Nel complesso, le democrazie europee mantennero in questo periodo una
notevole stabilità delle istituzioni, nonostante le tensioni della guerra
fredda.
Fece eccezione la Francia, che già nell'immediato dopoguerra aveva vissuto una
difficile fase costituente, conclusasi nel 1946 col varo di una nuova
Costituzione voluta dai tre partiti di massa allora insieme al governo –
comunisti, socialisti e cattolici del Movimento repubblicano popolare (Mrp) – e
avversata dal generale De Gaulle, che si ritirò dalla politica attiva.
Il sistema politico della "Quarta Repubblica" non si differenziava molto da
quello della terza (abbattuta dall'invasione tedesca e cancellata dal regime di
Pétain), anzi ne accentuava i difetti, a cominciare dalla frammentazione
politica e dalla conseguente instabilità dei governi di coalizione.
La crisi algerina e la nascita della V Repubblica
Già fragile di per sé, la Quarta Repubblica non resse alle tensioni provocate
dalla smobilitazione dell'Impero coloniale francese, la cui conservazione si
rivelava sempre più insostenibile, ma il cui abbandono era osteggiato da forti
correnti dell'opinione pubblica.
Nel maggio '58 giunse al culmine la crisi legata al problema algerino, con la
minaccia di un colpo di Stato da parte dei coloni e dei militari di stanza ad
Algeri, contrari a ogni ipotesi di trattativa con il movimento indipendentista.
Nel pieno della crisi, con una procedura del tutto anomala, il generale De
Gaulle, che da anni si era ritirato in orgoglioso isolamento, fu chiamato a
formare un nuovo governo di coalizione. Il Parlamento concesse al governo poteri
straordinari e avviò un processo di revisione costituzionale, come richiesto dal
generale.
La nuova costituzione – con cui nasceva la Quinta Repubblica – si distingueva
dalla precedente soprattutto per il rafforzamento delle prerogative del
presidente della Repubblica, che diventava il vero capo dell'esecutivo. Il
presidente – in un primo tempo eletto dal Parlamento, poi, dal '62, direttamente
dal popolo – aveva il potere di nominare il primo ministro (che doveva però
ottenere anche la fiducia del Parlamento), di sciogliere le Camere quando lo
ritenesse opportuno e di sottoporre a referendum le questioni da lui considerate
più importanti.
La costituzione stessa fu sottoposta a referendum e approvata, nel settembre
'58, dall'80% dei francesi.
La politica di De Gaulle
Eletto alla presidenza della Repubblica nel dicembre dello stesso anno, De
Gaulle deluse le aspettative della destra colonialista che pure ne aveva accolto
con favore l'avvento al potere: avviò alla sua logica soluzione l'affare
algerino, riconoscendo l'indipendenza all'ex colonia (con gli accordi di Evian
del 1962), e stroncò i tentativi di sedizione da parte degli oppositori più
radicali, che diedero vita a un gruppo clandestino armato (l'Oas, Organisation
de l'Armée secrète).
D'altra parte, obbedendo alla sua vocazione nazionalista, De Gaulle cercò di
risollevare il prestigio internazionale del paese, facendosi promotore di una
politica estera che tendeva a svincolare la Francia da legami troppo stretti con
gli Stati Uniti e a proporla come guida di una futura Europa indipendente dai
due blocchi.
Il presidente volle dunque che la Francia si dotasse di una propria «forza
d'urto» nucleare; ritirò nel '66 le truppe francesi dall'organizzazione militare
della Nato, pur senza mettere in discussione l'alleanza atlantica; e si oppose
ai progetti di integrazione politica fra i paesi della Cee, ponendo il veto
all'ingresso della Gran Bretagna nel mercato comune.
Distensione e confronto: gli anni di Kennedy e Kruscëv
Gli anni dell'ottimismo
La pace armata che seguì la fase più acuta della guerra fredda coincise, per
le democrazie occidentali, con una stagione di crescita demografica, di
innovazione tecnologica e di intenso sviluppo produttivo.
Soprattutto nei primi anni '60, questo quadro positivo contribuì ad alimentare
un clima di diffuso ottimismo, fondato sulla speranza che il progresso economico
potesse rendere meno aspro il confronto ideologico e militare e che la stessa
contrapposizione fra i blocchi si trasferisse sul terreno della pacifica
competizione economica.
In realtà, al di là delle rappresentazioni convenzionali, il clima dei rapporti
internazionali fu in questi anni piuttosto agitato. Non mancarono le crisi
locali e la coesistenza si consolidò solo attraverso momenti di scontro, a
tratti anche drammatico.
Kennedy e la «nuova frontiera»
Le speranze e le contraddizioni di questa stagione furono ben incarnate dalle
figure dei due leader che si trovarono allora alla testa delle due superpotenze.
Il segretario del Pcus Nikita Kruscëv e il
presidente degli Stati Uniti, il democratico John Fitzgerald Kennedy, eletto nel
novembre 1960, a 44 anni, e primo cattolico a entrare alla Casa Bianca.
Assistito da un nutrito gruppo di intellettuali, Kennedy suscitò immediatamente
ampi consensi attorno alla sua persona, riallacciandosi alla tradizione
progressista di Wilson e Roosevelt e aggiornandola col riferimento a una «nuova
frontiera»: una frontiera non più materiale come quella dei pionieri dell'800,
ma spirituale, culturale e scientifica.
In politica interna lo slancio riformatore kennediano si tradusse in un forte
incremento della spesa pubblica, assorbito in parte dai programmi sociali e in
parte dalle esplorazioni spaziali, ma anche nel tentativo di imporre
l'integrazione razziale in quegli Stati del Sud che ancora praticavano forme di
discriminazione nei confronti dei neri.
Il problema di Berlino
In politica estera, la presidenza Kennedy seguì una linea ambivalente, in cui
l'enfasi sui temi della pace e della distensione con l'Est si univa a una
sostanziale intransigenza sulle questioni ritenute essenziali.
Il primo incontro fra Kennedy e Kruscëv,
avvenuto a Vienna nel giugno '61 e dedicato al problema di Berlino Ovest (che
gli americani consideravano parte della Germania federale, mentre i sovietici
avrebbero voluto trasformarla in «città libera»), si risolse in un fallimento.
I sovietici risposero innalzando un muro che separava le due parti della città,
chiudendo l'unico varco praticabile attraverso la cortina di ferro e rendendo
pressoché impossibili le fughe, fin allora molto frequenti, dal settore
orientale a quello occidentale. Il muro di Berlino sarebbe diventato da allora
il simbolo più visibile della divisione della Germania – e dell'Europa e del
mondo – secondo le linee già segnate dalla guerra fredda.
Cuba e la crisi dei missili
Ma in questo periodo il confronto più drammatico fra le due superpotenze ebbe
per teatro l'isola di Cuba, dove si era affermato il regime socialista di Fidel
Castro.
La presenza di un regime ostile a meno di duecento chilometri dalle coste della
Florida fu sentita negli Stati Uniti come una seria minaccia alla sicurezza del
paese. Per questo, all'inizio della sua presidenza, Kennedy tentò di soffocare
il regime castrista, sia boicottandolo economicamente, sia appoggiando i gruppi
di esuli anticastristi che tentarono, nell'aprile 1961, una spedizione armata
nell'isola. Lo sbarco, che ebbe luogo in una località chiamata Baia dei porci e
che, nei progetti americani, avrebbe dovuto suscitare un'insurrezione contro
Castro, si risolse però in un totale fallimento e in un gravissimo scacco per
l'amministrazione Kennedy.
Nella tensione così creatasi si inserì l'Unione Sovietica, che non solo offrì ai
cubani assistenza economica e militare, ma iniziò l'installazione nell'isola di
alcune basi di lancio per missili nucleari.
Quando, nell'ottobre 1962, le basi furono scoperte da aerei-spia americani,
Kennedy ordinò un blocco navale attorno a Cuba per impedire alle navi sovietiche
di raggiungere l'isola. Per sette drammatici giorni (22-28 ottobre) il mondo fu
vicino a un conflitto generale: mai l'incubo della guerra nucleare era apparso
così concreto e vicino. Ma alla fine Kruscëv cedette e acconsentì a smantellare
le basi missilistiche. In cambio gli Stati Uniti si impegnavano ad astenersi da
azioni militari contro Cuba e a ritirare i loro missili nucleari dalle basi Nato
in Turchia.
Il dialogo Usa-Urss
Lo scontro mancato dell'ottobre 1962 riaprì la strada del dialogo fra le superpotenze. Nell'agosto del 1963 Usa e Urss firmarono un trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell'atmosfera (continuarono invece quelli sotterranei, meno pericolosi per l'equilibrio ambientale). Nello stesso periodo entrò in funzione una linea diretta di telescriventi (la linea rossa) fra la Casa Bianca e il Cremlino, che serviva a scongiurare il pericolo di una guerra «per errore».
La caduta di Kruscëv e la morte di Kennedy
Nell'ottobre del 1964, Kruscëv fu estromesso da tutte le sue cariche e
sostituito da una nuova "direzione collegiale".
Pesarono nel suo siluramento le rivalità interne al gruppo dirigente. Ma pesò
soprattutto il fallimento dell'incauta sfida lanciata al mondo occidentale dal
leader sovietico, che era giunto a promettere al suo popolo il raggiungimento,
nel giro di un decennio, di un livello di vita superiore a quello dei paesi
capitalistici più sviluppati.
Un anno prima era scomparso tragicamente l'altro protagonista della scena
internazionale dei primi anni '60. Il 22 novembre 1963 Kennedy fu ucciso a
Dallas, nel Texas, in un attentato di cui non si giunse mai a scoprire i
mandanti: fu il primo di una serie di misteriosi omicidi politici (nel '68
furono uccisi Robert Kennedy, fratello di John e probabile candidato democratico
alla presidenza, e il pastore nero Martin Luther King, leader del movimento
antisegregazionista) che contribuirono a imprimere un segno di inquietante
violenza su tutta una fase della storia degli Stati Uniti.
A Kennedy subentrò - e fu poi rieletto nel '64 - il vicepresidente Lyndon
Johnson, che ebbe il merito di tradurre in atto e di ampliare molti progetti di
legislazione sociale avviati in epoca kennediana. Johnson finì però, come
vedremo, col legare il suo nome soprattutto all'impegno americano nella guerra
del Vietnam.
Nuove tensioni nei due blocchi: guerra del Vietnam e crisi cecoslovacca
L'intervento militare americano in Vietnam
Per oltre dieci anni – fra il 1964 e il 1975 – gli Stati Uniti furono
coinvolti in una guerra, questa volta guerreggiata, nel lontano Vietnam. Un
conflitto combattuto sempre nel nome della lotta contro il comunismo, che logorò
la superpotenza americana economicamente e militarmente, ne sfigurò l'immagine e
ne spaccò profondamente l'opinione pubblica.
Dopo il ritiro della Francia dalla Penisola indocinese, gli accordi di Ginevra
del '54 avevano diviso
il Vietnam in due repubbliche: quella del Nord, retta dai comunisti di Ho Chi-minh; e quella del Sud, governata da un regime semidittatoriale appoggiato
dagli americani che cercavano di sostituire la loro influenza a quella francese.
Contro il governo del Sud, inviso alla maggioranza buddista della popolazione,
si sviluppò un movimento di guerriglia (il Vietcong) guidato dai comunisti e
sostenuto dallo Stato nordvietnamita. Preoccupati dalla prospettiva di un'Indocina
comunista, gli Stati Uniti inviarono nel Vietnam del Sud un contingente di
«consiglieri militari» che, durante la presidenza Kennedy, si ingrossò fino a
raggiungere la consistenza di 30 mila uomini.
Sotto la presidenza Johnson la
presenza Usa in Vietnam compì un salto qualitativo, trasformandosi in aperto
intervento bellico. Nell'estate del 1964, in risposta a un attacco subito da due
navi da guerra statunitensi nel golfo del Tonchino, il presidente, con
l'autorizzazione del Congresso, ordinò il bombardamento di alcuni obiettivi
militari nel Vietnam del Nord. In seguito i bombardamenti divennero sistematici,
mentre crescevano continuamente le dimensioni del corpo di spedizione impegnato
nel Sud, che giunse a contare, nel 1967, oltre mezzo milione di uomini.
La continua dilatazione dell'impegno militare americano (l'escalation,
ossia graduale intensificazione, come fu definita negli Stati Uniti) non fu però
sufficiente a domare la lotta dei vietcong, che godevano di vasti appoggi
fra le masse contadine, né a piegare la resistenza della Repubblica
nordvietnamita che, aiutata da Russia e Cina, continuò ad alimentare la
guerriglia con armi e uomini. Di fronte a un nemico inafferrabile, l'esercito
statunitense entrò in una profonda crisi, originata non solo da fattori tecnici
(le difficoltà di un esercito moderno, addestrato alla guerra meccanizzata,
nell'affrontare una guerriglia partigiana), ma anche da un crescente disagio
morale.
La protesta contro la guerra
Negli Stati Uniti, infatti, il conflitto vietnamita – le cui immagini
venivano quotidianamente diffuse dalla televisione e le cui vicende erano
oggetto di un acceso dibattito – apparve ai settori più progressisti
dell'opinione pubblica come una guerra fondamentalmente ingiusta (una «sporca
guerra»), contraria alle tradizioni della democrazia americana.
Vi furono imponenti manifestazioni di protesta (che spesso si intrecciavano con
la mobilitazione dei neri sulla questione razziale) e molti giovani in età di
leva rifiutarono di indossare la divisa.
Anche fuori dagli Usa le ripercussioni furono vastissime. Per i movimenti
rivoluzionari di tutto il mondo le vicende vietnamite dimostravano che la più
grande macchina militare poteva essere tenuta in scacco da una guerra di popolo.
I successi dei vietcong
All'inizio del '68, i vietcong lanciarono contro le principali città
del Sud una grande offensiva che, pur non ottenendo risultati decisivi, mostrò
tutta la vitalità della guerriglia.
In marzo Johnson decise la sospensione dei bombardamenti sul Nord e annunciò
contemporaneamente la sua intenzione di non ripresentarsi alle elezioni di
quell'anno. Il suo successore, il repubblicano Richard Nixon, avviò negoziati
ufficiali con il Vietnam del Nord e con i rappresentanti del Vietcong, e
ridusse progressivamente l'impegno militare americano. Ma nel contempo allargò
le operazioni belliche agli Stati confinanti, il Laos e la Cambogia, dove pure
erano attivi movimenti di guerriglia comunisti, nel tentativo di tagliare ai
vietcong le vie di rifornimento.
La sconfitta degli Usa e l'Indocina comunista
Solo nel gennaio 1973, americani e nordvietnamiti firmarono a Parigi un
armistizio che prevedeva il graduale ritiro delle forze statunitensi.
Dopo l'inizio del ritiro americano, la guerra continuò per oltre due anni: fino
a che, il 30 aprile 1975, i vietcong e le truppe nordvietnamite entrarono
a Saigon, capitale del Sud, mentre i membri del governo, assieme agli ultimi
consiglieri e al personale dell'ambasciata Usa, abbandonavano precipitosamente
la città.
L'Indocina dal 1972 al 1975
Pochi giorni prima, i guerriglieri comunisti (khmer rossi) avevano
conquistato Phnom Penh, capitale della Cambogia, cacciandone il governo
filoamericano.
Tre mesi dopo (agosto '75) era il Laos a cadere nella mani dei partigiani del
Pathet Lao. Tutta l'Indocina era così diventata comunista. Gli Stati Uniti, che
avevano combattuto proprio per impedire questo esito, dovettero registrare la
prima grave sconfitta di tutta la loro storia.
L'Urss di Breznev
Mentre la superpotenza americana era coinvolta nell'avventura vietnamita, l'Unione Sovietica doveva ancora una volta confrontarsi con le inquietudini dei paesi satelliti dell'Europa orientale. Il gruppo dirigente salito al potere dopo l'allontanamento di Kruscëv, guidato dal nuovo segretario del Pcus Leonid Breznev, accentuò, pur senza mai raggiungere i livelli di brutalità dell'era staliniana, la repressione di ogni forma di dissenso, che colpì in particolare gli intellettuali. Ma soprattutto ribadì con i fatti il vincolo di subordinazione che doveva legare allo Stato-guida i paesi satelliti dell'Europa orientale. Il banco di prova fu questa volta la Cecoslovacchia.
La «primavera di Praga»
Nel gennaio 1968 salì alla segreteria del Partito comunista cecoslovacco
Aleksander Dubček, leader dell'ala innovatrice. Premuto da un'opinione pubblica
in fermento, appoggiato con entusiasmo dagli intellettuali, dagli studenti e
dagli stessi operai, Dubček varò un programma che cercava di conciliare il
mantenimento del sistema economico socialista con l'introduzione di elementi di
pluralismo economico e soprattutto politico (compresa la presenza di diversi
partiti) e con la più ampia libertà di stampa e di opinione.
Fra la primavera e l'estate del '68, la Cecoslovacchia visse una stagione di
radicale rinnovamento politico e di grande fermento intellettuale. A differenza
del moto ungherese del '56, l'esperienza cecoslovacca del '68 fu sempre
controllata dai comunisti e non mise mai in discussione la collocazione del
paese nel sistema di alleanze sovietico. E tuttavia fu sentita come una minaccia
intollerabile per l'Urss, preoccupata dagli effetti di contagio che quel
processo avrebbe potuto avere sugli altri Stati del blocco orientale.
L'intervento sovietico e la "normalizzazione"
Il 21 agosto 1968, reparti corazzati dell'Urss e di altri paesi del Patto di
Varsavia occuparono Praga e il resto del paese.
Non vi fu in questo caso una reazione armata, ma solo una efficace resistenza
passiva contro gli occupanti, mentre un congresso clandestino del partito tenuto
in una fabbrica di Praga confermava nel loro ruolo i dirigenti riformisti,
vanificando il tentativo sovietico di insediare un nuovo gruppo dirigente.
Ma fu un successo apparente: costretti in un primo tempo a mantenere i loro
incarichi sotto il controllo delle forze di occupazione, gli uomini della
«primavera di Praga» furono progressivamente emarginati, costretti a emigrare o
a cercarsi un lavoro manuale, e sostituiti con elementi fidati. Con questa opera
di "normalizzazione", si chiuse ogni residuo spazio di libertà.
La Cina maoista
La sfida cinese
Mentre la superpotenza americana sembrava affondare nella palude
vietnamita e quella sovietica doveva tenere insieme con la forza (e con grave
danno di immagine) il suo "impero" europeo, la seconda potenza comunista, la
Cina di Mao Zedong, accentuava i tratti radicali del suo regime e si proponeva,
in concorrenza con l'Urss, come guida e modello per i movimenti rivoluzionari di
tutto il mondo, in particolare per quelli dei paesi che si stavano emancipando
dal dominio coloniale.
L'esperimento si sarebbe risolto in una colossale tragedia umana, economica e
politica. Ma, come era avvenuto per quello sovietico degli anni '30, il "modello
cinese" esercitò un notevole fascino su molti intellettuali e sui gruppi di
estrema sinistra che si andavano formando in Occidente.
Industrializzazione e collettivizzazione
Nel corso degli anni '50 il regime comunista aveva nazionalizzato i
settori industriale e commerciale e aveva compiuto uno sforzo notevole per
dotarsi di una propria industria pesante, giovandosi dell'aiuto di tecnici
sovietici.
Nel settore agricolo (dove erano occupati oltre tre quarti della popolazione)
aveva dapprima, con la riforma agraria del 1950, distribuito le terre fra i
contadini, creando così una miriade di piccole aziende agricole. Quindi aveva
obbligato le aziende familiari a riunirsi in cooperative, controllate dalle
autorità statali.
Mentre nel settore industriale si era ottenuta, partendo quasi da zero, una
crescita molto rapida (con ritmi di poco inferiori al 20% annuo), molto meno
soddisfacenti erano stati i risultati nel settore agricolo, sul quale incombeva
l'onere di sfamare una popolazione in continuo aumento (oltre mezzo miliardo nel
'49, quasi 600 milioni cinque anni dopo).
Le comuni popolari
Per accelerare il rilancio della produzione agricola, la dirigenza
comunista varò, nel maggio 1958, una nuova strategia che fu definita del «grande
balzo in avanti». Le cooperative furono riunite in unità più grandi, le comuni
popolari, ciascuna delle quali doveva tendere all'autosufficienza economica,
producendo in proprio quanto le era necessario (dunque anche le macchine e, in
qualche caso, persino l'acciaio).
L'intera popolazione fu sottoposta a un controllo sempre più stretto e
mobilitata con una martellante campagna propagandistica. I risultati furono però
fallimentari: la produzione agricola crollò, provocando una spaventosa carestia
(stime recenti parlano di 30 milioni di morti) e costringendo la Cina a massicce
importazioni di cereali. Un'altra conseguenza fu quella di far precipitare i
rapporti con l'Urss.
La rottura con l'Urss
I sovietici criticarono aspramente la linea del «grande balzo in
avanti» e, fra il '59 e il '60, richiamarono i loro tecnici, infliggendo un duro
colpo alla già provata economia cinese.
Contemporaneamente, l'Urss rifiutò di fornire qualsiasi assistenza nel campo
nucleare (il che non avrebbe impedito alla Cina di far esplodere, nel '64, la
sua prima bomba atomica), motivando il rifiuto con accuse di «avventurismo». I
cinesi replicarono con accuse di «revisionismo» e di acquiescenza
all'imperialismo (giudicato invece da Mao come una «tigre di carta», ossia uno
spauracchio da cui non bisognava farsi intimidire); e, in un crescendo di scambi
polemici, giunsero a rimettere in discussione i confini fra Cina e Russia
definiti nel '600.
Nel 1969 la tensione sarebbe sfociata addirittura in episodici scontri armati
lungo il fiume Ussuri, ai confini fra la Siberia e la Manciuria.
La rivoluzione culturale
Il fallimento del «grande balzo in avanti» diede spazio alle componenti
meno antisovietiche del gruppo dirigente comunista (rappresentate soprattutto
dal presidente della Repubblica Liu Shao-chi).
Non disponendo di un controllo dell'apparato tale da consentirgli una rapida
epurazione dei suoi avversari, Mao ricorse a una forma di lotta inedita in un
regime comunista: avvalendosi del sostegno dell'esercito, controllato dal
ministro della Difesa Lin Piao, si appellò ai giovani, esortandoli a ribellarsi
contro i dirigenti sospettati di percorrere la «via capitalistica».
Si scatenò così una rivolta generazionale apparentemente spontanea, ma in realtà
orchestrata dall'alto, che, richiamandosi all'«autentico» pensiero di Mao,
contestava ogni potere burocratico e ogni autorità basata sulla competenza
tecnica. Nelle scuole e nei luoghi di lavoro, nel partito e negli organi di
governo locale, gruppi di giovani guardie rosse, in maggioranza studenti,
mettevano sotto accusa insegnanti e dirigenti politici, intellettuali e
funzionari: molti di questi furono internati in «campi di rieducazione» e
sottoposti a torture fisiche e psicologiche, alle quali spesso non
sopravvissero. L'intento era quello di promuovere un radicale mutamento nella
cultura e nella mentalità collettiva (da qui il nome di «rivoluzione culturale»)
e di superare in questo modo tutti gli ostacoli che si frapponevano alla
realizzazione del comunismo.
Anche in paesi molto lontani dalla Cina, soprattutto in Europa occidentale, si
formarono gruppi e movimenti giovanili ispirati all'esempio delle guardie rosse
e al pensiero di Mao.
Il ritorno all'ordine
La rivoluzione culturale si esaurì nel giro di due o tre anni:
quanti furono necessari per eliminare i dirigenti contrari alla linea maoista.
A partire dal '68, lo stesso Mao Zedong cominciò a porre un freno al movimento
da lui suscitato, che – al di là dei suoi pesantissimi costi umani (almeno un
milione di morti) – stava provocando profonde spaccature nella base comunista e
rischiava di gettare nel caos l'economia.
Le guardie rosse furono allontanate dalle città. I leader più radicali furono
emarginati, mentre riacquistarono peso tecnici ed esperti. Un ruolo importante
in questa fase fu svolto da Chou En-lai, il più autorevole dopo Mao fra i capi
comunisti cinesi, che ricoprì ininterrottamente dal 1949 la carica di primo
ministro e che rappresentò, anche negli anni più agitati, la continuità del
potere istituzionale.
La svolta in politica estera
Fu Chou En-lai ad avviare, all'inizio degli anni '70, una linea di
normalizzazione anche in campo internazionale, resa necessaria dall'isolamento
economico e diplomatico in cui il paese si trovava.
Dal momento che i rapporti con l'Urss restavano pessimi, la nuova linea si
tradusse in una clamorosa apertura agli Stati Uniti, sancita, nell'estate '72,
da un viaggio del presidente americano Richard Nixon a Pechino e dall'ammissione
all'Onu della Cina comunista (che prese il posto occupato fin allora dalla
Repubblica «nazionalista» di Chang Kai-shek).
Nell'autunno 1971 il maresciallo Lin Piao, protagonista della rivoluzione
culturale e delfino designato di Mao, scomparve in un incidente aereo e fu
successivamente accusato di aver tentato di fuggire in Urss dopo un fallito
complotto antimaoista. Con questo misterioso episodio, il periodo della
rivoluzione culturale si chiudeva definitivamente.
Cominciava una fase di transizione destinata a sfociare, dopo la morte di Mao e
di Chou En-lai (scomparsi entrambi nel 1976), in un radicale mutamento di rotta
anche sul piano interno.
LA DECOLONIZZAZIONE
Il crollo degli imperi
Una trasformazione epocale
Per oltre quarant'anni, dalla conclusione della seconda guerra mondiale fino
agli anni '80 del '900, la scena internazionale fu dominata dal confronto
"bipolare" fra i due grandi blocchi a guida americana e sovietica.
Negli stessi anni, però, a questa realtà tendenzialmente statica si aggiunse e
si sovrappose un processo di rapida e profonda trasformazione che ebbe per
protagonisti i paesi asiatici e africani sin allora rimasti, con poche
eccezioni, fuori dai circuiti del potere mondiale, vuoi perché oggetto del
dominio coloniale, vuoi perché, anche se formalmente indipendenti, sotto
l'influenza delle potenze maggiori.
Per avere un'idea delle dimensioni di questo processo, basta guardare una carta
politica del mondo nel 1945: si vedrà come vaste zone dell'Asia e buona parte
dell'Africa fossero ancora possedimenti della Gran Bretagna e della Francia.
Le colonie nel 1945
Una trentina di anni dopo gli imperi coloniali erano scomparsi e il numero degli Stati indipendenti era cresciuto vertiginosamente (oggi sono circa duecento).
Decolonizzazione e guerre mondiali
Preparato già negli anni fra le due guerre con lo sviluppo di movimenti
indipendentisti, il processo di decolonizzazione – cioè lo smantellamento del
sistema coloniale e l'accesso all'indipendenza dei popoli euroasiatici –
ricevette la spinta decisiva dal secondo conflitto mondiale: nei fronti
extraeuropei i gruppi nazionalisti si impegnarono a fianco dell'uno o dell'altro
schieramento e, a guerra finita, rimasero mobilitati politicamente e
militarmente per battersi contro il dominio coloniale.
Un fenomeno analogo si era in parte verificato già durante il primo conflitto
mondiale, ma, in sede di conferenza della pace, le promesse di emancipazione
implicite nel messaggio wilsoniano erano state largamente disattese dalle grandi
potenze europee, ancora titolari di immensi imperi d'oltremare.
Il principio di autodeterminazione
Nel secondo dopoguerra la situazione era molto diversa.
Le due superpotenze vincitrici – gli Usa, nati da una rivoluzione anticoloniale
e l'Urss da sempre impegnata contro l'imperialismo – erano divise su quasi
tutto, ma trovavano un terreno di oggettiva convergenza nell'opporsi alla
perpetuazione del vecchio sistema di dominio.
Per volontà soprattutto degli Stati Uniti, gli alleati avevano proclamato,
ancora in piena guerra mondiale, con la Carta atlantica del 1941, il «diritto di
tutti i popoli a scegliere la forma di governo da cui intendono essere retti».
Il principio di autodeterminazione dei popoli, che avrebbe ispirato l'intera
attività dell'Onu, si impose così come base di un nuovo codice etico-politico
internazionale, a cui le potenze coloniali, uscite esauste dalla guerra, non
potevano certo sottrarsi: tanto più che i benefici del colonialismo compensavano
sempre meno i costi politici, militari e finanziari del mantenimento degli
imperi.
L'Asia nel 1975
Due vie alla decolonizzazione
Se la linea di tendenza era già chiara alla fine della guerra, non mancarono
tuttavia le resistenze nella fase di attuazione.
Il processo di decolonizzazione si compì attraverso vicende alterne, che
risentirono sia della natura dei nazionalismi locali, sia della consistenza
numerica della colonizzazione bianca, sia delle politiche dei paesi europei.
La Gran Bretagna, che aveva sempre praticato forme di dominio "indiretto", avviò
nella maggior parte dei casi un ritiro graduale, preparando i popoli soggetti
all'indipendenza (mediante la concessione di costituzioni e di organismi
rappresentativi) e cercando di trasformare l'Impero in una comunità di nazioni
sovrane, liberamente associate nel Commonwealth (un vincolo che peraltro sarebbe
diventato puramente simbolico).
La Francia, invece, oppose una tenace resistenza ai movimenti indipendentisti e
praticò fino all'ultimo una politica «assimilatrice», che pretendeva di riunire
la madrepatria e le colonie in un'unica compagine politica e concedeva ai popoli
soggetti una formale parità di diritti.
Sia nel caso dei domini britannici sia in quello dei possedimenti francesi (e
delle potenze coloniali minori), lo sbocco obbligato fu l'indipendenza.
L'eredità coloniale
Il rapporto con l'Europa, che nel bene e nel male era stato per i popoli
afroasiatici un fattore decisivo di modernizzazione, rimase comunque importante,
soprattutto per le nuove classi dirigenti che si erano formate nelle scuole,
nelle università o nelle accademie militari dei paesi colonizzatori.
Nonostante la polemica ricorrente contro alcuni aspetti della cultura
occidentale, l'eredità coloniale lasciò tracce durevoli non solo sul piano
materiale, ma anche su quello delle abitudini, della cultura, della lingua (si
pensi al caso dell'India, dove l'inglese continuò a svolgere la funzione di
lingua nazionale). Sul piano delle istituzioni politiche, però, la democrazia
parlamentare di tipo europeo si affermò solo in pochi paesi.
Le ragioni furono molteplici: il peso di una tradizione diversa; il fatto che
l'Europa aveva mostrato in Africa e in Asia non il suo volto liberale, ma quello
autoritario del governo coloniale; il carattere delle dirigenze locali,
espressione di clan o di élites numericamente esigue e spesso corrotte;
la difficoltà di avviare un processo di sviluppo partendo da condizioni di grave
arretratezza economica.
Il risultato fu quasi ovunque la prevalenza di regimi autoritari.
L'indipendenza dell'India
Il percorso di emancipazione dei popoli colonizzati ebbe la sua prima e fondamentale tappa nel 1947, quando la Gran Bretagna accettò di privarsi del pezzo più importante del suo impero: il sub-continente indiano, sede di antiche e raffinate civiltà e di religioni millenarie (induismo, buddismo, islamismo), ma anche terminale di scambi commerciali che avevano svolto un ruolo decisivo nell'affermazione della Gran Bretagna come potenza industriale.
II movimento indipendentista
Negli anni fra le due guerre era cresciuto in India un forte movimento
indipendentista, organizzato nel Partito del Congresso, sotto la guida
carismatica del mahatma Gandhi. Durante il secondo conflitto mondiale, la
maggioranza degli indiani aveva contribuito lealmente allo sforzo bellico
britannico, mettendo in campo un esercito volontario che fu impegnato su tutti i
fronti di guerra e giunse a contare due milioni e mezzo di uomini.
Nel contempo, il Partito del Congresso – guidato, dal 1941, da Jawaharlal Nehru,
uno dei più stretti collaboratori di Gandhi – aveva continuato a promuovere il
movimento di resistenza non violenta alla dominazione britannica, strappando la
promessa di concedere all'India la condizione di dominion (quella di cui
godevano Canada, Australia e Sudafrica), che equivaleva a una indipendenza di
fatto.
La nascita di India e Pakistan
A guerra finita si aprirono i negoziati per il trasferimento della sovranità,
che si conclusero nell'agosto del 1947. Ma l'esito fu diverso da quello
auspicato da Gandhi, che si era battuto per uno Stato unitario laico dove
potessero convivere i diversi gruppi religiosi.
La componente musulmana reclamò la creazione di un proprio Stato, che fu infine
accordata dagli inglesi dopo gravi conflitti tra le due comunità. Così,
nell'agosto 1947, nacquero due Stati: l'Unione Indiana, a maggioranza indù, e il
Pakistan musulmano, geograficamente diviso in due tronconi situati alle opposte
estremità della Penisola indiana.
Una separazione cruenta
La creazione dei due Stati non impedì, soprattutto nelle zone miste, il moltiplicarsi degli scontri fra le due comunità, che assunsero a tratti le proporzioni di una vera e propria guerra.
India e Pakistan nel 1947
Così le vicende di un movimento di liberazione nazionale affermatosi con
mezzi pacifici si conclusero con oltre 200 mila morti e con il trasferimento da
uno Stato all'altro di 17 milioni di persone, senza contare le conseguenze delle
due guerre che India e Pakistan combatterono successivamente (nel 1948 e nel
1965) per il controllo della regione del Kashmir, musulmano ma assegnato
all'Unione Indiana.
Lo stesso Gandhi fu vittima di quel clima di violenza e di odio religioso che
tanto aveva combattuto: giudicato troppo arrendevole verso i musulmani, fu
assassinato da un estremista indù nel gennaio 1948.
L'India democratica
Primo capo del governo dell'India indipendente, Nehru rimase fino alla sua
morte (1964) alla guida di un paese sempre gravato da immensi problemi interni:
la povertà cronica delle campagne; l'eccezionale sovraccarico demografico (fra
il 1951 e il 1981 la popolazione quasi raddoppiò, passando da 362 a 683
milioni); le tensioni fra i diversi gruppi etnici e religiosi che convivevano
nell'Unione (tendenze separatiste si manifestarono soprattutto nella setta dei
sikh, concentrata nella regione del Punjab); la permanenza di abiti
mentali arcaici e di divisioni legate al vecchio sistema delle caste.
Tuttavia, malgrado alcuni aspetti autoritari e personalistici del potere
esercitato prima da Nehru, poi da sua figlia Indira Gandhi – primo ministro dal
1966 al 1977 e dal 1981 al 1984, quando fu uccisa da due militanti sikh
–, le istituzioni democratico-parlamentari lasciate in eredità dalla dominazione
britannica riuscirono progressivamente a consolidarsi.
Pakistan e Bangladesh
Assai più travagliata fu la vicenda politica del Pakistan, dove la vita democratica fu prima a lungo interrotta da dittature militari e, in anni più recenti, minacciata dalla crescita delle correnti islamiche integraliste. Nel 1971, inoltre, lo Stato nato nel '47 dovette subire la secessione della sua parte orientale che, dopo un nuovo sanguinoso conflitto, diede vita alla repubblica del Bangladesh.
Le guerre d'Indocina
Nazionalisti e comunisti nel Sud-est asiatico
In tutto il Sud-est asiatico il processo di emancipazione si intrecciò con lo
scontro fra le forze "nazionaliste", alleate con l'Occidente, e i movimenti
comunisti che avevano, come in Cina, la loro base principale nelle campagne.
Il confronto ebbe esiti diversi. In Birmania (oggi Myanmar) e in Malesia
(Malaysia), entrambe colonie britanniche, indipendenti rispettivamente nel 1948
e nel 1957, prevalsero le forze nazionaliste e la guerriglia comunista fu
sconfitta.
In Indonesia il movimento nazionalista guidato da Ahmed Sukarno ottenne
l'indipendenza dall'Olanda nel 1949 e cercò di seguire una politica autonoma
rispetto ai due blocchi, resistendo alle pressioni contrapposte della destra
militare e dei comunisti. Nel 1965, a seguito di un fallito tentativo
rivoluzionario dei comunisti risoltosi con un massacro di militanti del partito,
Sukarno fu costretto a cedere il potere ai militari del generale Suharto.
Nel Regno di Thailandia – l'ex Siam, unico fra gli Stati della regione ad aver
sempre mantenuto l'indipendenza – le forze moderate mantennero il potere in un
alternarsi di regimi militari e governi civili.
Nelle Filippine, cui gli Stati Uniti concessero l'indipendenza nel 1946
conservando tuttavia ampi privilegi economici e basi militari, governi di
carattere spesso autoritario – come quello di Ferdinand Marcos, al potere dal
'65 all'86 – dovettero fronteggiare la guerriglia condotta dai comunisti e dalle
forze separatiste musulmane.
L'indipendenza del Vietnam
Una netta prevalenza dei comunisti si ebbe invece negli Stati sorti dalla dissoluzione dell'impero francese in Indocina.
L'Indocina nel 1954
Nel Vietnam i comunisti, sotto la guida di Ho Chi-minh, avevano assunto un
ruolo preminente nella Lega per l'indipendenza (Vietminh), che era stata
costituita nel 1941 per combattere la dominazione francese.
Nel 1945, Ho Chi-minh proclamò nella capitale Hanoi l'indipendenza dalla Francia
e la nascita della Repubblica democratica del Vietnam. Ma i francesi non
riconobbero il nuovo Stato e occuparono la parte meridionale del paese. Nel 1946
cominciò un lungo scontro tra i francesi e le forze del Vietminh, che riuscirono
a logorare gli avversari con una sanguinosa guerriglia: il conflitto si concluse
nel maggio 1954, quando la piazzaforte di Dien Bien Phu, dove era concentrato il
grosso delle forze francesi, fu costretta a capitolare dopo tre mesi di assedio.
Gli accordi di Ginevra del luglio dello stesso anno sancirono il ritiro dei
francesi da tutta la Penisola indocinese — dunque anche dal Laos e dalla
Cambogia — e la divisione provvisoria del Vietnam in due Stati: uno comunista al
Nord, l'altro filo-occidentale al Sud.
Ma a questo punto, come già era accaduto in Corea, la crisi indocinese veniva a
inserirsi nel contrasto Est-Ovest, portando i germi di quel conflitto che si
sarebbe concluso con la storica sconfitta degli Stati Uniti.
Il mondo arabo e la nascita di Israele
Il nazionalismo arabo
Dall'inizio del '900, in tutti paesi del Medio Oriente e della sponda Sud del
Mediterraneo, si era sviluppato un movimento nazionale arabo, in lotta prima
contro la dominazione turca, poi contro l'influenza europea.
Già nel corso della Grande Guerra, come si è visto, le vicende di questo
movimento si erano intrecciate con quelle delle potenze coloniali e col loro
tentativo di subentrare nel controllo dell'area al moribondo Impero ottomano.
Durante il secondo conflitto mondiale l'intreccio divenne più stretto: anche
perché la regione mediorientale aveva visto crescere la sua importanza
strategica, a causa delle sue ingenti risorse petrolifere. I tedeschi, in
particolare, tentarono di giocare la carta dell'appoggio ai movimenti nazionali
arabi contro Gran Bretagna e Francia, che controllavano la regione in virtù del
mandato coloniale ricevuto all'indomani della Grande Guerra.
I nuovi Stati indipendenti
A guerra finita, le potenze "mandatarie" decisero di rinunciare ai loro possessi mediorientale, tentando però di mantenere su di essi qualche forma di controllo e appoggiandosi ai regimi monarchici e conservatori che loro stessi avevano contribuito a insediare. Così, nel 1946 la Gran Bretagna riconobbe l'indipendenza della Transgiordania e la Francia ritirò le sue truppe dalla Siria e dal Libano. L'Iraq aveva ottenuto l'indipendenza dagli inglesi già nel '32. Insieme all'Egitto, all'Arabia Saudita e allo Yemen, questi paesi formarono, nel 1945, la Lega degli Stati arabi (o Lega araba), con scopi di cooperazione politica ed economica e con ambizioni di integrazione federale che sarebbero peraltro rimaste sulla carta.
L'immigrazione ebraica
Restava da sciogliere il nodo della Palestina, contesa fra arabi ed ebrei.
Negli anni della guerra, la pressione del movimento sionista per la creazione di
uno Stato ebraico si fece sempre più forte, alimentata dall'immigrazione degli
ebrei europei che fuggivano dal terrore nazista (nel 1945 c'erano in Palestina
550 mila ebrei, contro 1 milione e 250 mila arabi); e l'aspirazione a un
«focolare nazionale» ricevette una nuova, potente legittimazione presso
l'opinione pubblica democratica dopo le rivelazioni sugli orrori dei campi di
sterminio.
La causa sionista fu sostenuta dagli Stati Uniti, dove la comunità ebraica era
numerosa e influente, ma fu ostacolata dalle autorità inglesi, preoccupate di
inimicarsi gli Stati arabi.
Mentre i leader sionisti chiedevano la libertà di immigrazione, le
organizzazioni militari ebraiche in Palestina passavano alla lotta armata non
più solo contro gli arabi, ma contro gli stessi inglesi.
La prima guerra arabo-israeliana
Trovatasi di fronte a una situazione incontrollabile, e avendo constatato
l'impossibilità di formare uno Stato binazionale, la Gran Bretagna si tirò fuori
dal conflitto: nel 1947 il governo inglese annunciò che avrebbe ritirato le sue
truppe dalla Palestina alla mezzanotte del 15 maggio 1948 e rimise alle Nazioni
Unite il compito di trovare una soluzione al problema.
L'Onu approvò un piano di spartizione in due Stati, che venne però respinto
dagli arabi.
Nel maggio '48, all'atto della partenza degli inglesi, gli ebrei proclamarono la
nascita dello Stato di Israele e gli Stati della Lega araba reagirono subito
attaccandolo militarmente. L'esito dello scontro sembrava scontato, vista la
sproporzione delle forze in campo. Invece la prima guerra arabo-israeliana
(maggio '48-gennaio '49) si risolse in una catastrofe per le forze arabe, mal
equipaggiate e mal coordinate fra loro, e segnò la definitiva affermazione del
nuovo Stato ebraico, mostrandone la determinazione e la combattività.
Lo Stato d'israele
Il piano ONU di divisione della Palestina
Stato moderno, ispirato ai modelli delle democrazie occidentali, dotato di strutture sociali e civili molto avanzate – che contrastavano con la complessiva arretratezza dell'area mediorientale – e di un'organizzazione economica in cui il capitalismo industriale conviveva con l'esperimento cooperativistico delle comunità agricole (kibbutzim) create dai pionieri sionisti fin dall'inizio del secolo, Israele rivelò fin dai primi anni una forza insospettata rispetto alle sue piccole dimensioni: una forza che gli derivava non solo dalle risorse provenienti dall'esterno (le comunità ebraiche europee e soprattutto americane), ma anche dalla preparazione e dall'intraprendenza dei suoi dirigenti – in particolare dei leader laburisti, come David Ben Gurion e Golda Meir –, che guidarono il paese dopo l'indipendenza) e dalla forte motivazione patriottica dei suoi cittadini.
Il dramma palestinese
Con la guerra del '48, lo Stato ebraico si ingrandì rispetto al piano di
spartizione dell'Onu, occupando anche la parte occidentale di Gerusalemme, che
nei piani dell'Onu sarebbe dovuta restare sotto controllo internazionale e che
invece restò divisa in due fino al 1967.
La Transgiordania, che mutò il suo nome in quello di Giordania, incamerò i
territori occupati dalle sue truppe durante il conflitto (la West Bank, ovvero
la riva occidentale del Giordano), sottraendoli all'ipotizzato Stato arabo di
Palestina che non vide mai la luce.
Circa 750 mila arabi abbandonarono, per scelta o per costrizione, le terre che
abitavano e ripararono nei paesi vicini, per lo più in Giordania, dove furono
ammassati in campi-profughi, vivendo grazie agli aiuti dell'Onu e delle
organizzazioni umanitarie, senza alcuna possibilità di integrarsi, e coltivando
il sogno di un rapido ritorno alle loro case. Cominciò così il dramma
palestinese, sul quale si sarebbe da allora incentrato il conflitto
arabo-israeliano.
L'Egitto di Nasser e la crisi di Suez
Tradizionalismo e nazionalismo
La disastrosa sconfitta subita nella guerra contro Israele (che sarebbe stata
ricordata come la nakbah, "la catastrofe") contribuì a radicalizzare le
correnti nazionaliste e a far crescere nel mondo arabo il risentimento verso
l'Occidente.
In questo processo confluivano due diverse componenti: quella tradizionalista,
rappresentata dal movimento dei Fratelli musulmani (fondato alla fine degli anni
'20 da un intellettuale egiziano, Hassan al-Banna, e poi diffusosi in tutta
l'area mediorientale), puntava a una «reislamizzazione» della società mediante
l'applicazione integrale dei precetti coranici; quella laica e nazionalista era
incarnata soprattutto dai militari, più attenti alle istanze di modernizzazione
e di sviluppo economico. Questa seconda tendenza, che traeva ispirazione dalle
esperienze occidentali, mescolando spunti socialisti con temi presi a prestito
dai regimi autoritari di destra, si affermò negli anni '50, trovando il suo
centro e la sua guida nell'Egitto, il più importante degli Stati arabi per
popolazione e per storia.
La rivoluzione nasseriana in Egitto
Formalmente indipendente dal 1922, l'Egitto era retto da un regime monarchico
strettamente legato alla Gran Bretagna, che manteneva sul paese una sorta di
protettorato e conservava, assieme alla Francia, il controllo della Compagnia
del Canale di Suez.
Nel luglio 1952, la monarchia fu rovesciata da un colpo di Stato militare e il
potere fu assunto da un "Comitato di ufficiali liberi" guidato da Mohammed
Neguib e da Gamal Abdel Nasser.
Nel 1954, Nasser allontanò il più moderato Neguib e si impose come unico leader
del paese, instaurando di fatto una dittatura personale.
Il nuovo regime avviò subito una serie di riforme in senso socialista (redistribuzione
della terra, nazionalizzazione delle principali attività economiche) e tentò di
promuovere un processo di industrializzazione. In politica estera, Nasser si
propose come guida nella lotta dei paesi arabi contro Israele e si mosse con
decisione per liberare il paese da ogni condizionamento da parte delle potenze
ex coloniali: ottenne così lo sgombero delle truppe inglesi dalla zona del
Canale e stipulò accordi con l'Urss per aiuti economici e militari.
La crisi di Suez
Reagendo a quello che appariva come uno scivolamento verso posizioni
filosovietiche, gli Stati Uniti bloccarono il finanziamento da parte della Banca
mondiale della grande diga di Assuan, sull'alto Nilo, necessaria per
l'elettrificazione del paese. Nasser rispose nazionalizzando la Compagnia del
Canale di Suez. Si apri a questo punto una crisi internazionale di vasta
portata. Nell'ottobre 1956, d'intesa con i governi di Londra e Parigi, Israele
attaccò l'Egitto e lo sconfisse, penetrando in profondità nella Penisola del
Sinai, mentre truppe paracadutate francesi e inglesi occupavano la zona del
Canale.
A far fallire l'operazione fu soprattutto l'atteggiamento delle due
superpotenze: gli Stati Uniti non diedero alcun appoggio all'impresa, anzi la
condannarono apertamente; l'Urss inviò addirittura un ultimatum a Francia, Gran
Bretagna e Israele. Prive dell'appoggio americano, le due potenze coloniali
dovettero cedere. Mentre Israele si ritirava dal Sinai, le truppe franco-inglesi
abbandonavano la zona del Canale.
La diffusione dei nasserismo in Medio Oriente
Molte e importanti furono le conseguenze di questa crisi.
Innanzitutto essa sancì simbolicamente la fine dell'era coloniale e la perdita
di peso delle potenze che ne erano state protagoniste, Gran Bretagna e Francia.
L'effetto più immediato fu però quello di rafforzare la posizione dell'Egitto,
che pure era stato nuovamente sconfitto sul campo, e quella personale di Nasser.
Rilanciando la causa del panarabismo (ossia dell'unità fra tutti i popoli arabi)
e legandola a un progetto di modernizzazione fortemente osteggiato dai
tradizionalisti, il leader egiziano acquistò un immenso prestigio presso le
masse popolari e la borghesia intellettuale di tutto il mondo islamico.
Ideali e programmi simili a quelli del dittatore egiziano furono fatti propri,
in Siria e in Iraq, dal partito socialista arabo Baath (in arabo 'Resurrezione'),
che trovò consensi soprattutto fra i militari.
Già nel '54 in Siria si era affermato un regime militare di ispirazione panaraba.
Nel '58, militari legati al Baath presero il potere in Iraq, rovesciando la
monarchia Hashemita.
Ma i sogni di unità panaraba si scontrarono ben presto con la realtà delle
gelosie nazionali e delle divisioni ideologiche. E il progetto di un socialismo
islamico capace di conciliare tradizione e modernità si risolse in una sequenza
di colpi di Stato e di dittature militari. Tuttavia il richiamo del nasserismo
rimase molto forte ed ebbe un'influenza decisiva anche sulle vicende dei paesi
del Maghreb (ossia la parte occidentale del Nord Africa), in lotta contro il
dominio coloniale francese.
L'indipendenza del Maghreb
Marocco eTunisia
Sia il Marocco sia la Tunisia, dove la Francia esercitava il suo dominio in forma di protettorato e dove sussistevano forme di limitato autogoverno, avevano visto nascere, già all'inizio del secolo, forti movimenti indipendentisti. Nel dopoguerra la guida di questi movimenti fu assunta da forze di ispirazione nazionalista e laica: nel primo paese l'Istiqlal, appoggiato dal sultano Ben Youssef, nel secondo il Neo-Destur, guidato da Habib Burghiba. Nel 1956 i francesi, dopo aver cercato di reprimere l'agitazione indipendentista, furono costretti a concedere la piena indipendenza a entrambi i paesi, che negli anni successivi avrebbero mantenuto una posizione moderata e filo-occidentale in politica estera.
La guerra di Algeria
Ben più drammatica e cruenta fu la lotta di liberazione in Algeria,
dove la presenza francese aveva radici più profonde (la conquista risaliva al
1830) e maggiore consistenza.
I coloni residenti erano oltre un milione all'inizio degli anni '50 e si
consideravano parte integrante della nazione francese, del cui territorio
l'Algeria faceva parte a tutti gli effetti: il che rendeva particolarmente
rigida la posizione delle autorità e della stessa opinione pubblica in Francia.
Gli otto milioni di algerini musulmani erano anch'essi cittadini francesi dal
1945, ma non godevano di pieni diritti politici e non erano rappresentati nel
Parlamento di Parigi né avevano voce nel governo locale.
A partire dal 1954, il movimento nazionalista algerino, già attivo negli anni
fra le due guerre, si organizzò nel Fronte di liberazione nazionale (Fln)
guidato da Mohammed Ben Bella, un'organizzazione clandestina radicata
soprattutto nelle città. Cominciava così uno scontro che avrebbe assunto il
valore di un modello per i movimenti rivoluzionari delle ex colonie.
Lo scontro culminò nel 1957 con la battaglia di Algeri, che durò quasi nove mesi
e vide la parte araba della città mobilitata a sostegno dei combattenti del Fln.
I francesi riuscirono a piegare l'insurrezione con un massiccio invio di reparti
speciali e con una repressione particolarmente brutale, suscitando proteste
anche in una parte dell'opinione pubblica nazionale.
La vittoria degli indipendentisti
Nel maggio 1958, la minaccia di un colpo di Stato da parte dei militari e dei
coloni più oltranzisti provocò la crisi della Quarta Repubblica e favori il
ritorno al potere di De Gaulle.
Il generale, inizialmente favorevole al mantenimento di una presenza nella
colonia, capì ben presto che la causa dell'«Algeria francese» era ormai perduta
e agì con determinazione per far uscire il paese da una guerra sempre più
difficile e costosa. Si apriva così la strada all'indipendenza algerina che fu
sancita dagli accordi di Evian del marzo 1962.
Prima sotto la guida di Ben Bella, poi (dal '65 al '79) sotto quella del più
moderato Huari Bumedien, l'Algeria si diede un ordinamento interno fortemente
autoritario e centralizzato, con un'economia in buona parte statalizzata, e
assunse una posizione di punta nello schieramento dei paesi arabi.
Gheddafi al potere in Libia
Di ispirazione nazionalista, anche se con connotati particolari di ortodossia
islamica, fu la rivoluzione che, nel 1969, depose la monarchia in Libia – l'ex
colonia italiana, indipendente dal 1951 – e portò al potere i militari guidati
dal giovane colonnello Muhammar Gheddafi.
Il regime di Gheddafi – che fra i suoi primi atti nazionalizzò le compagnie
petrolifere straniere ed espulse la numerosa comunità italiana ancora residente
nel paese – si sarebbe in seguito caratterizzato per il tentativo di realizzare
una sua speciale versione del socialismo islamico e soprattutto per il dinamismo
a tratti avventuroso della sua politica estera: una politica che lo avrebbe
portato ad appoggiare i movimenti di guerriglia anti-occidentali e a inserirsi
nei conflitti interni di vari paesi africani, creando uno stato di permanente
tensione con i regimi arabi moderati e soprattutto con gli Stati Uniti.
Le guerre arabo-israeliane
La «guerra dei sei giorni»
Dopo la crisi di Suez del 1956, il Medio Oriente continuò a rappresentare non
solo un pericoloso focolaio di tensione locale, a causa della permanente
ostilità fra Israele e i paesi arabi – che rifiutavano di riconoscere lo Stato
ebraico –, ma anche un terreno di scontro fra l'Unione Sovietica, divenuta
grande protettrice dell'Egitto, e gli Stati Uniti, che sostenevano con decisione
Israele.
Nel 1967 Nasser proclamò la chiusura del golfo di Aqaba, vitale per gli
approvvigionamenti israeliani, e strinse un patto militare con la Giordania. Gli
israeliani risposero sferrando, il 5 giugno, un attacco preventivo contro
Egitto, Giordania e Siria.
La guerra durò appena sei giorni, ma il suo esito venne deciso fin dalle prime
ore, con la distruzione dell'intera aviazione egiziana prima ancora che
decollasse, e fu disastroso per gli arabi. L'Egitto perse la Penisola del Sinai,
la Giordania perse tutti i territori della riva occidentale del Giordano,
inclusa la parte orientale di Gerusalemme (la città venne successivamente
annessa dallo Stato ebraico e proclamata sua capitale), la Siria perse le alture
del Golan.
Gli arabi contarono più di 30 mila morti, gli israeliani poche centinaia. Altri 400 mila palestinesi ripararono in Giordania e negli altri paesi arabi, dove andarono a ingrossare le file dei rifugiati nei campi profughi.
Arafat e l'olp
La disfatta della «guerra dei sei giorni» ebbe per gli arabi conseguenze di
vasta portata: segnò il declino di Nasser e della sua politica di oltranzismo
panarabo; indusse a un atteggiamento più prudente la Giordania e gli altri Stati
moderati della zona; determinò il distacco dei movimenti di resistenza
palestinese, riuniti nell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp),
dalla tutela dei regimi arabi.
Guidata, a partire dal 1969, da Yasser Arafat, già leader del gruppo principale,
quello di Al Fatah, l'Olp pose le sue basi in Giordania, creandovi una specie di
Stato nello Stato.
Il re di Giordania Hussein, esposto alle rappresaglie israeliane a causa degli
attentati terroristici dei feddayn ('combattenti') palestinesi, reagì con
una sanguinosa prova di forza. Nel settembre 1970 – il cosiddetto «settembre
nero» – mobilitò le sue truppe contro i feddayn e i profughi palestinesi,
che, dopo aver contato migliaia di morti, furono costretti a riparare nel vicino
Libano.
Da allora l'Olp avrebbe esteso la lotta terroristica sul piano internazionale,
con una serie di dirottamenti aerei e di attentati clamorosi, come quello
attuato a Monaco contro gli atleti israeliani, durante le Olimpiadi del 1972.
La «guerra del Kippur»
Nel 1970 Nasser morì. Il suo successore, Anwar Sadat, cercò di dare
alla politica egiziana un'impronta più realistica e meno condizionata
dall'ideologia.
Deciso a recuperare il Sinai, preparò accuratamente il confronto con Israele. Il
6 ottobre 1973, giorno della festa ebraica dello Yom Kippur, le truppe egiziane
investirono di sorpresa le linee israeliane sul canale di Suez e dilagarono nel
Sinai, mentre i siriani attaccavano nel Golan. Ma Israele riuscì a respingere
gli attaccanti e a passare all'offensiva, penetrando in territorio egiziano.
Quando, con la mediazione degli Stati Uniti, si giunse a un "cessate il fuoco",
la guerra si chiuse senza vincitori né vinti. Gravi furono invece le conseguenze
a livello internazionale: la chiusura per due anni del Canale di Suez e il
blocco petrolifero, decretato dagli Stati arabi (fra i quali si annoveravano
alcuni fra i maggiori produttori mondiali, come l'Arabia Saudita, l'Iraq, il
Kuwait) contro i paesi occidentali amici di Israele, diedero alla crisi una
dimensione globale, con conseguenze di vasta portata sulle economie di tutto il
mondo.
Sul piano degli equilibri locali, i successi iniziali ottenuti con l'attacco nel
Sinai, per quanto vanificati dalla controffensiva israeliana, diedero agli
egiziani la sensazione di aver lavato l'onta del 1967 e scossero il mito
dell'invincibilità dello Stato ebraico.
La pace fra Egitto e Israele
Sadat si era comunque convinto della necessità di trovare una soluzione
pacifica al conflitto con Israele.
La premessa della svolta fu il riavvicinamento agli Stati Uniti: nel 1974-75,
l'Egitto attuò un clamoroso rovesciamento di alleanze, espellendo i tecnici
sovietici, congelando i rapporti con l'Urss e imprimendo alla sua politica
estera un segno filo-occidentale.
Nel novembre 1977 il presidente egiziano si recò in visita a Gerusalemme e
formulò personalmente, in un discorso al Parlamento israeliano, la sua offerta
di pace. Il governo israeliano, allora guidato dal leader della destra
nazionalista, Menachem Begin, accolse la proposta.
Si giunse così, con la mediazione del presidente americano Carter, agli accordi
di Camp David del settembre 1978, grazie ai quali l'Egitto ottenne la
restituzione della Penisola del Sinai, occupata da Israele nel '67, e stipulò,
nel marzo del '79, un trattato di pace con lo Stato ebraico: una svolta storica,
che rompeva per la prima volta l'isolamento di Israele dai suoi vicini arabi e
sembrava porre le premesse per una soluzione generale basata sulla formula «pace
in cambio di territori».
La questione palestinese
Gli accordi di Camp David prevedevano infatti ulteriori negoziati per la
soluzione del problema palestinese. Ma le cose andarono diversamente: la scelta
di Sadat fu condannata dagli altri paesi arabi e il presidente egiziano,
nell'ottobre 1981, fu ucciso al Cairo in un attentato organizzato da un gruppo
integralista islamico.
Successivamente, gli Stati arabi «moderati» (in particolare Giordania e Arabia
Saudita) e la stessa dirigenza dell'Olp assunsero una posizione più morbida e,
sfidando la condanna del cosiddetto «fronte del rifiuto» (Siria, Iraq, Libia e
l'ala radicale delle organizzazioni palestinesi), si dissero disposti a trattare
con Israele e a riconoscerne l'esistenza in cambio del suo ritiro dai territori
occupati (Cisgiordania e striscia di Gaza), dove sarebbe dovuto sorgere uno
Stato palestinese. A questo punto, però, furono i dirigenti dello Stato ebraico
– che aveva frattanto avviato una parziale «colonizzazione» dei territori
occupati – a rifiutare la trattativa con l'Olp di Arafat, considerata
un'organizzazione terroristica. A partire dal 1987 si sviluppò nei territori
occupati una lunga e diffusa rivolta popolare, detta intifada (in arabo
'sussulto' o `risveglio'), che creò non pochi problemi alle autorità
israeliane.
LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI (1973-89)
Crisi delle ideologie, riflusso, terrorismo
Nell'ultimo decennio del secolo XX si ruppero, in tempi inaspettatamente brevi, gli assetti internazionali che, dalla fine della seconda guerra mondiale, erano rimasti bloccati nell'equilibrio bipolare della guerra fredda. Questa rottura fu però preceduta, e in qualche modo annunciata, già a partire dagli anni '70, da una serie di mutamenti politici, sociali e prima ancora culturali: mutamenti che si collegavano al trauma della crisi petrolifera e alla caduta delle illusioni dell'«età dell'oro».
I mutamenti culturali
Negli anni '60 e nei primi anni '70 la cultura politica di sinistra aveva
goduto, soprattutto fra i giovani, di larga influenza, se non di una vera
egemonia: sia nella versione riformista, che accettava la "società del
benessere" e cercava di guidarla verso traguardi di maggiore giustizia sociale;
sia nella versione rivoluzionaria, che rifiutava in blocco quella società e
contestava il gradualismo dei riformisti. Entrambe le versioni, tuttavia, si
basavano sul presupposto di un'illimitata capacità espansiva del sistema
economico e sulla possibilità di controllare i processi sociali con gli
strumenti della politica.
A partire dagli anni dello "shock petrolifero", queste certezze cominciarono a
venir meno. La crisi energetica metteva in discussione la prospettiva di uno
sviluppo industriale continuo. Le trasformazioni economiche e le nuove
tecnologie ridimensionavano il peso numerico e politico della classe operaia.
Nei paesi democratici, i costi del Welfare crescevano e i governi facevano
fatica a coprirli con le tasse.
Tutto questo suscitava, in vasti settori dell'opinione pubblica e del mondo
economico, un crescendo di critiche contro lo Stato assistenziale e contro
l'intervento pubblico in economia e un parallelo ritorno in auge delle teorie
liberiste e del monetarismo.
L'avvento al potere dei conservatori in Gran Bretagna, con Margaret Thatcher
(1979) e l'elezione alla presidenza Usa del repubblicano Ronald Reagan (1980) –
l'una e l'altro presentatisi agli elettori con la promessa di tagli delle spese
e delle tasse – furono anche il prodotto di questo mutamento di clima.
Il declino dei regimi comunisti
Intanto le vicende dei paesi comunisti mostravano l'incapacità dei regimi
ispirati al modello leninista e collettivista di offrire soluzioni accettabili
ai problemi della società contemporanea. L'Unione Sovietica, in particolare,
vide la sua immagine – già incrinata dai fatti di Praga del '68 – deteriorarsi
progressivamente: sia per le continue denunce degli esuli e dei dissidenti
riguardo alla repressione interna praticata dal regime, sia per gli insuccessi
in campo economico. Gli stessi partiti comunisti dell'Europa occidentale
accentuarono in questo periodo le prese di distanza dall'Urss.
Delusioni non meno gravi vennero ai militanti di sinistra da quei regimi
comunisti che erano sembrati offrire, negli anni '60, esempi più attraenti e più
dinamici rispetto all'Unione Sovietica, dalla Cina a Cuba, dal Vietnam alla
Cambogia: quei regimi che in precedenza erano stati dipinti come modelli di
impegno rivoluzionario e come tappe di avvicinamento alla costruzione della
società comunista mostravano, se osservati senza le lenti dell'ideologia, i loro
caratteri dispotici e spesso sanguinari e si rivelavano simili a immense
prigioni da cui moltissimi cercavano di fuggire.
La crisi delle ideologie
Il «grande riflusso» – questo il termine usato In Italia per indicare la caduta dei più ambiziosi progetti di trasformazione politica e sociale e il ripiegamento nel privato, dopo una stagione caratterizzata da un diffuso impegno politico attivo – era un fenomeno vasto. Ciò che veniva messo in discussione non era solo la validità di questo o quel progetto politico, ma la stessa capacità dei grandi sistemi ideologici, in particolare di quelli orientati alla trasformazione rivoluzionaria della società, di fornire risposte valide alle esigenze reali dei cittadini.
I gruppi terroristi
La generale caduta della tensione politica finì col lasciare isolate e
scoperte – ma proprio per questo più esasperate e incontrollabili – le
componenti estremiste e violente dei movimenti di contestazione giovanile attivi
alla fine degli anni '60. Si assisté così, in alcuni paesi dell'Europa
occidentale, a una drammatica esplosione di terrorismo politico. Un terrorismo
attuato da piccoli gruppi clandestini fortemente militarizzati (le Brigate
rosse in Italia, la Raf, ossia Frazione dell'Armata rossa,
attiva in Germania, il gruppo di Action directe in Francia) che agivano
per lo più sulla base di parole d'ordine ispirate a una versione estremizzata
del marxismo-leninismo e colpivano con gesti "esemplari" (omicidi, ferimenti,
sequestri) quei personaggi o quelle istituzioni che ai loro occhi più si
identificavano col sistema da abbattere.
Un terrorismo ispirato – e in qualche caso anche collegato – ai movimenti
rivoluzionari del Terzo Mondo o a quelli nati dalle lotte delle minoranze
etniche nella stessa Europa (come l'Ira in Irlanda del Nord o i
separatisti baschi dell'Eta in Spagna), però privo della base di consenso
di cui quei movimenti si giovavano.
Poco seguiti dalle masse lavoratrici in nome delle quali affermavano di agire, i
gruppi terroristici furono sconfitti prima politicamente, per il fallimento del
loro tentativo di mobilitare la classe operaia, poi sul piano dell'azione
repressiva, con l'arresto di buona parte dei loro componenti, tra la fine degli
anni '70 e l'inizio degli anni '80.
Ma il terrorismo come fenomeno internazionale – ispirato a ideologie diverse e
spesso finanziato e strumentalizzato da Stati contro altri Stati – non
scomparve, e si espresse attraverso una serie di azioni sanguinose.
La più grave e clamorosa ebbe luogo il 13 maggio 1981, quando il papa Giovanni
Paolo II fu gravemente ferito in piazza San Pietro da un terrorista turco, Ali
Agca, affiliato a un gruppo nazionalista di estrema destra, ma sospettato anche
di legami con i servizi segreti dell'Europa dell'Est.
Gli Stati Uniti: da Nixon a Reagan
Negli anni '70 del '900, gli Stati Uniti attraversarono una delle
fasi più difficili della loro storia.
All'instabilità economica evidenziata dalla crisi del dollaro nel 1971 si
unirono le delusioni e le proteste suscitate dallo sfortunato impegno militare
nella guerra del Vietnam. A tutto questo si aggiunse la crisi di credibilità
vissuta in quegli anni dalla massima istituzione nazionale, la presidenza degli
Stati Uniti.
Il caso Watergate
Come già accennato, il repubblicano Richard Nixon, eletto per la
seconda volta con largo margine nel 1972, firmò nel 1973 l'armistizio che
sanciva il ritiro delle truppe americane in Vietnam, ma fu travolto, l'anno
successivo, da uno scandalo legato proprio alla campagna elettorale: il caso
Watergate, così chiamato dal nome dell'albergo di Washington dove alcuni
collaboratori del presidente avevano messo in atto un'operazione di spionaggio
ai danni del Partito democratico.
Messo sotto accusa da un'efficace campagna di stampa, Nixon fu costretto a
dimettersi e a lasciare il posto al suo vicepresidente Gerald Ford.
Da Carter a Reagan
Nelle elezioni del 1976, i democratici riconquistarono la
presidenza con Jimmy Carter.
Uomo del Sud, profondamente religioso, Carter cercò di promuovere una politica
di tipo "wilsoniano", fondata sulla difesa dei diritti umani in ogni parte del
mondo.
Questa linea – opposta a quella tutta improntata al realismo praticata da Nixon
e dal suo segretario di Stato (ossia il ministro degli Esteri) Henry Kissinger –
fu però portata avanti in modo incerto e velleitario: se da un lato essa
contribuì a rendere tesi i rapporti con l'Urss, che vedeva nelle campagne in
favore del diritto al dissenso un'intromissione nei suoi affari interni,
dall'altro fu criticata perché lasciava spazio all'affermazione di regimi ostili
agli Stati Uniti in Africa, in America Latina e in Medio Oriente, nel caso
specifico in Iran.
Furono proprio le vicende della rivoluzione iraniana – culminate nel fallito
tentativo di liberare un gruppo di diplomatici e funzionari americani tenuti in
ostaggio dal nuovo regime – a dare il colpo
definitivo alla popolarità del presidente.
Nelle elezioni del 1980, Carter fu nettamente sconfitto da Ronald Reagan,
anziano ex attore esponente dell'ala destra del Partito repubblicano e già
governatore della California. Reagan si presentò con un programma economico
liberista, fondato sulla riduzione delle tasse e sul contenimento della spesa
pubblica (in particolare di quella sociale); in politica estera promise di
adottare una linea più dura nei confronti dell'Urss (da lui definita «l'impero
del male») e di tutti i nemici dell'America, incarnando l'orgoglio patriottico e
il desiderio di rivincita di larghi strati dell'opinione pubblica.
Un messaggio sostanzialmente conservatore, capace però di toccare le corde
profonde del sentimento nazionale, anche perché sostenuto da un efficiente
apparato di comunicazione.
La "rivoluzione reaganiana"
Il successo della presidenza Reagan, che fu confermato con ampio
margine nelle elezioni dell'84, si dovette anche al buon andamento dell'economia
che, fra l'83 e l'86, riprese a marciare a pieno ritmo grazie soprattutto allo
sviluppo dei settori di punta, in particolare quelli legati all'elettronica e
alle produzioni militari.
La crescita economica degli anni '80 non fu priva di ombre: alcuni settori
industriali – quelli tecnologicamente più "maturi", legati cioè alle precedenti
fasi dello sviluppo industriale, come la siderurgia e la meccanica – conobbero
un netto declino e numerose imprese agricole entrarono in crisi perché private
di qualsiasi sussidio pubblico. Le disuguaglianze sociali – e le stesse fratture
fra i gruppi etnici nelle grandi metropoli – si accentuarono in seguito al
taglio delle spese per l'assistenza e per le pensioni. In compenso, però,
l'inflazione fu contenuta, la disoccupazione in parte riassorbita, il dollaro
tornò a essere la moneta forte dell'economia mondiale nonostante il permanere di
un vistoso deficit nel bilancio dello Stato, dovuto alla continua crescita della
spesa militare.
Le iniziative internazionali
Il mantenimento di un alto livello di armamenti costituì del resto un
elemento essenziale nella strategia di Reagan, tesa a far valere il peso
militare degli Stati Uniti sia per mantenere una posizione di forza nel
confronto con l'Unione Sovietica, sia per far sentire la presenza americana in
tutti i punti caldi del pianeta.
Sotto il primo aspetto, va ricordato l'appoggio di Reagan all'Iniziativa di
difesa strategica (Sdi), un avveniristico quanto costoso progetto mirante a
creare una sorta di scudo elettronico spaziale capace di neutralizzare, mediante
raggi laser, qualsiasi minaccia missilistica (e, in prospettiva, rendere
obsoleti gli stessi ordigni nucleari): un progetto criticato sia per la sua
problematica realizzabilità, sia perché rischiava di mettere in moto una nuova
spirale di spese militari in entrambe le superpotenze.
Nel contempo gli Stati Uniti intensificarono la fornitura di armi e materiali ai
gruppi armati che combattevano contro i regimi filocomunisti (in Nicaragua come
in Afghanistan) e promossero azioni spettacolari nei confronti dei paesi
accusati di favorire il terrorismo internazionale: così gli attacchi aerei
lanciati nel marzo-aprile 1986 contro la Libia di Gheddafi, in risposta a un
attentato in cui erano rimasti vittima alcuni militari americani a Berlino.
Il dialogo con l'Urss
La linea interventista e ostentatamente aggressiva seguita da Reagan – e, dopo la fine del suo secondo mandato nel 1988, dal suo vicepresidente e successore, George Bush – non impedì però che, proprio durante la sua presidenza, si avviasse un fruttuoso dialogo con l'avversario di sempre: l'Unione Sovietica, dove, a metà degli anni '80, si stava profilando una nuova e radicale svolta politica.
L'Unione Sovietica: da Breznev a Gorbačëv
Stagnazione e repressione
Tra la fine degli anni '60 e la prima metà degli anni '80, gli anni del
potere incontrastato del segretario del Pcus Leonid Breznev, l'Unione Sovietica
vide accentuarsi il declino economico e politico in atto ormai da tempo: un
settore agricolo inefficiente, incapace di sopperire al fabbisogno alimentare
del paese (e costretto per questo a importare ingenti quantitativi di cereali
dall'Occidente); un apparato industriale mastodontico e invecchiato, orientato
principalmente a obiettivi militari e inadeguato a tenere il passo con la
domanda di beni di consumo; una burocrazia invasiva e soffocante, che tentava di
controllare ogni aspetto della vita sociale e non consentiva alcun reale spazio
di dibattito.
Si inasprì, in questo periodo, l'attività repressiva nei confronti degli
intellettuali dissidenti, molti dei quali furono confinati in luoghi sperduti o
condannati a pene detentive o addirittura internati in cliniche psichiatriche.
Alcuni, fra cui il celebre scrittore Aleksandr Solíenitsyn, poterono emigrare in
Occidente da dove alimentarono una vivace polemica contro il regime comunista.
La seconda «guerra fredda»
Eppure, proprio in questi anni, l'Urss riuscì a profittare della relativa debolezza degli Stati Uniti per avvantaggiarsi nella corsa agli armamenti e per ampliare la sua sfera di influenza in tutti i continenti: dall'America Latina (Nicaragua) all'Africa (Etiopia, Angola, Mozambico) al Medio Oriente. Col risultato di riacutizzare le tensioni internazionali, in quella che allora fu chiamata «seconda guerra fredda» e che culminò, alla fine degli anni '70, nella decisione sovietica di istallare nuovi missili a media gittata (gli SS 20) puntati verso l'Europa: decisione a cui i membri europei della Nato risposero con lo spiegamento di armi analoghe (gli «euromissili») nel loro territorio.
L'invasione dell'Afghanistan
Un intervento militare pagato a caro prezzo fu quello attuato dall'Urss in
Afghanistan, paese situato in posizione strategica nel cuore dell'Asia musulmana
fra l'Iran, il Pakistan e la stessa Unione Sovietica.
Per imporre nel paese, fin allora schierato su posizioni di non allineamento, un
governo fedele alle loro direttive, i sovietici inviarono in Afghanistan, alla
fine del 1979, un forte contingente di truppe che si dovette scontrare, per
quasi dieci anni, contro l'accanita resistenza dei gruppi guerriglieri islamici
(sostenuti dal Pakistan, dall'Iran e dagli Stati Uniti, che si trovarono così ad
armare e a finanziare i propri futuri nemici).
Per l'Urss fu un'impresa controproducente che – per il suo altissimo costo in
vite umane, per le sue ripercussioni psicologiche, e anche per le sue
conseguenze di lungo periodo – può essere paragonata all'intervento americano in
Vietnam.
Gorbačëv
La svolta, per l'Unione Sovietica e per l'intero mondo comunista, arrivò,
inaspettata, a metà degli anni '80.
Nel 1985, dopo la morte di Breznev (1982) e dopo un breve interregno che vide
salire alla guida del partito e dello Stato gli anziani Yuri Andropov e
Kostantin Cernenko – entrambi deceduti per malattia poco dopo la loro ascesa al
vertice –, la segreteria del Pcus fu assunta da Michail Gorbačëv.
Più giovane (54 anni) e più dinamico dei suoi predecessori, rappresentante di
una generazione che non era stata direttamente coinvolta nello stalinismo, Gorbačëv
si mostrò subito deciso a introdurre una serie di radicali novità nella politica
sovietica, sia sul piano interno sia su quello internazionale.
Riforme e trasparenza
In politica economica il nuovo segretario legò il suo nome alla parola
d'ordine della perestroika (ossia 'riforma'), proponendo una serie di
interventi volti a introdurre nel sistema socialista elementi di economia di
mercato.
Sul terreno delle istituzioni Gorbačëv si
fece promotore, nel 1988, di una nuova Costituzione che, senza intaccare il
sistema del partito unico, lasciava spazio a un limitato pluralismo distinguendo
più chiaramente le strutture dello Stato da quelle del partito, comunque unite
al vertice nella persona del segretario-presidente.
Le elezioni del Congresso dei soviet tenutesi nel marzo '89 inaugurarono
un sistema di candidature plurime – ma sempre su lista unica – e consentirono
l'ingresso nel massimo organo rappresentativo di alcuni esponenti del dissenso,
fra i quali il fisico Andrej Sacharov, già perseguitato nel periodo brezneviano.
Nel maggio '90 il Congresso elesse a larghissima maggioranza Gorbačëv
presidente dell'Urss.
Ancora più importante delle singole riforme – che per lo più si dimostrarono
inadeguate e furono regolarmente scavalcate dall'incalzare della crisi
dell'intero sistema – fu l'avvio di un processo di liberalizzazione interna
condotto all'insegna della glasnost ('pubblicità', 'trasparenza', in
senso più ampio Iibertà d'espressione'): un processo che consentì lo svilupparsi
di un dibattito politico-culturale impensabile fino a pochi anni prima.
Contraddizioni e difficoltà
Le riforme economiche e la liberalizzazione interna giovarono indubbiamente
all'immagine dell'Urss e del suo nuovo leader, ma evidenziarono e acutizzarono
alcune contraddizioni che erano rimaste fin allora nascoste nella stagnazione
dell'età di Breznev.
I tentativi di riforma dell'economia, innestandosi su una realtà poco preparata
ad accoglierli, perché ormai non più abituata alla logica della competizione e
dell'efficienza, finirono per suscitare non pochi malumori e per accentuare il
dissesto di un sistema tradizionalmente inefficiente.
L'apertura di nuovi spazi di dibattito politico mise in moto tensioni non
facilmente controllabili, anche per l'emergere di movimenti autonomisti e
indipendentisti fra le popolazioni non russe già inglobate a forza nell'Urss.Tali
contraddizioni sarebbero esplose nel giro di pochi anni, determinando il
fallimento del progetto riformista di Gorbačëv.
I negoziati sul disarmo
Il dialogo Usa-Urss
Conseguenza – e insieme presupposto – delle aperture riformiste di Gorbačëv
fu il rilancio del dialogo con l'Occidente, rimasto pressoché congelato negli
anni della «seconda guerra fredda»: un rilancio imposto anche dall'incapacità
del sistema sovietico di rispondere alla sfida globale lanciata da Reagan e
dalla necessità di frenare la corsa agli armamenti per poter destinare maggiori
risorse ai consumi individuali.
La disponibilità di Gorbačëv al negoziato
trovò un interlocutore interessato in un Reagan desideroso di concludere in
bellezza il suo secondo mandato presidenziale e di dimostrare al mondo che
l'ostentazione di forza di cui era stato protagonista – soprattutto in materia
di armamenti – non portava necessariamente allo scontro, ma al contrario poteva
costituire la miglior base per una nuova trattativa globale con l'Urss.
Due successivi incontri fra Reagan e Gorbačëv
(a Ginevra nel novembre '85 e a Reykjavik nell'ottobre '86), pur non
raggiungendo risultati conclusivi, segnarono la fine di una lunga stagione di
incomunicabilità e inaugurarono un clima più disteso nei rapporti Usa-Urss. Un
terzo vertice (a Washington nel dicembre '87) portò a uno storico accordo sulla
riduzione degli armamenti missilistici in Europa: un'intesa che, al di là della
sua limitata portata pratica, ebbe un alto valore simbolico, perché per la prima
volta prevedeva la distruzione concordata di armi nucleari.
Verso un nuove ordine mondiale
Nell'aprile 1988 l'Urss si impegnò a ritirare le sue truppe dall'Afghanistan:
nel gennaio 1989 gli ultimi soldati lasciarono il paese.
Nel clima determinato dai rivolgimenti politici dell'Europa orientale, nuovi
incontri al vertice fra Gorbačëv e il nuovo
presidente Usa Bush consentirono di porre le basi per ulteriori accordi sulla
riduzione degli armamenti strategici. La rinnovata collaborazione fra le due
superpotenze fece nascere molte speranze sulle prospettive di un nuovo ordine
internazionale basato non soltanto sull'«equilibrio del terrore».
Questo nuovo ordine ebbe un inizio di attuazione quando a Parigi, nel novembre
1990, nell'ambito di una riunione della Conferenza per la sicurezza e la
cooperazione in Europa, i paesi della Nato e del Patto di Varsavia firmarono un
trattato di non aggressione e di riduzione degli armamenti convenzionali. A
questo punto era però la stessa idea di un ordine internazionale basato sul
condominio fra Usa e Urss a entrare in crisi per l'improvviso collasso di uno
dei due partner, l'Urss.
Mutamenti politici in Europa occidentale
Negli anni '60 e '70, i paesi dell'Europa occidentale conobbero importanti
mutamenti politici.
Se in Francia i gruppi legati a De Gaulle mantennero la guida del governo anche
dopo l'uscita di scena del generale (che si ritirò nel '69 e morì l'anno
seguente), in Germania occidentale, in Gran Bretagna e in Italia, questa fase
coincise con l'entrata al governo dei socialisti, da soli o in coalizione con
altri partiti.
La Germania federale: grande coalizione e Ostpolitik
Nella Repubblica federale tedesca il quasi-monopolio governativo dei
cristiano-democratici si interruppe nel 1966, quando il partito di maggioranza,
non trovando un accordo coi liberali, formò una grande coalizione insieme ai
socialdemocratici guidati dall'ex borgomastro (sindaco) di Berlino Ovest Willy
Brandt.
Nel 1969, i socialdemocratici ruppero la grande coalizione e formarono un
governo assieme ai liberali.
La stagione dei governi socialdemocratico-liberali — che si sarebbe prolungata
per un quindicennio — si caratterizzò soprattutto per una nuova e coraggiosa
linea di politica estera, volta alla normalizzazione nei rapporti fra la
Germania federale e i paesi del blocco comunista, compresa la Germania Est.
Veniva così riproposta implicitamente, pur senza mettere in discussione la
fedeltà all'alleanza atlantica, la prospettiva di una futura riunificazione fra
le due Germanie attraverso un graduale superamento dei blocchi.
Questa 'politica orientale' (Ostpolitik) si concretizzò nell'instaurazione di
rapporti diplomatici coi paesi comunisti, nel riconoscimento, sancito da
trattati con la Polonia e con l'Urss, dei confini fissati dopo la seconda guerra
mondiale e in un primo scambio ufficiale di contatti con i tedeschi dell'Est.
La Gran Bretagna: la questione irlandese e l'adesione alla Cee
Più breve e sfortunata fu l'esperienza di governo dei laburisti inglesi,
tornati al potere con Harold Wilson nel novembre 1964.
Trovatosi a gestire una congiuntura economica difficile e costretto quindi ad
attuare un'impopolare politica di austerità, il governo Wilson dovette anche
fronteggiare il riacutizzarsi della mai risolta questione irlandese.
Nell'Ulster, la minoranza cattolica, la parte più povera della popolazione,
diede vita, alla fine degli anni '60, a una serie di violente agitazioni, in cui
la rivendicazione dell'unità irlandese si mescolava alla protesta sociale.
Le difficoltà economiche e politiche, che si accompagnarono all'abbandono
degli ultimi resti dell'Impero (Malta, Singapore, Aden), ebbero l'effetto di
attenuare la riluttanza della classe dirigente e dell'opinione pubblica,
soprattutto di parte laburista, nei confronti dell'adesione britannica alla
Comunità europea.
Nel '67 il governo Wilson — sotto la pressione degli ambienti imprenditoriali
— apri un difficile negoziato che si concluse solo nel 1972 (dopo che i
conservatori erano tornati al potere) con l'ingresso della Gran Bretagna
(insieme a Irlanda e Danimarca) nella Cee.
La crisi in Europa
Gli anni che seguirono la crisi petrolifera del 1973 furono, anche per
l'Europa occidentale, anni di serie difficoltà economiche.
Tutti i paesi della Cee (con la parziale eccezione della Gran Bretagna che
cominciava a sfruttare i giacimenti appena scoperti nel Mare del Nord) furono
duramente colpiti dal rincaro del petrolio. E tutti dovettero affrontare i
problemi legati al declino di alcuni settori industriali (il minerario e
soprattutto il siderurgico) un tempo centrali nell'economia del vecchio
continente.
Ne risultarono inasprite le tensioni sociali e accentuate le tentazioni
protezionistiche e le spinte centrifughe nei confronti di un processo di
integrazione che già stentava a decollare.
Gli anni '80 in Gran Bretagna: il governoThatcher
La crisi di metà anni '70 mise in difficoltà soprattutto le socialdemocrazie
dell'Europa settentrionale.
La partita decisiva si giocò in Gran Bretagna, dove i laburisti furono duramente
sconfitti dai conservatori nelle elezioni del 1979. Il governo di Margaret
Thatcher, presentatosi su una piattaforma di intransigente liberismo, lanciò un
duro attacco contro il potere dei sindacati; mise in discussione i fondamenti e
la stessa filosofia del Welfare State (senza però toccarne le prestazioni
fondamentali in materia di pensioni e di assistenza medica) e privatizzò settori
importanti dell'industria pubblica, dalle ferrovie e dai trasporti locali,
dall'elettricità alle telecomunicazioni.
Questa linea fu premiata dagli elettori, che per due volte confermarono la
maggioranza ai conservatori: sia nell'83 – grazie anche alla vittoria nella
guerra delle Falkland – sia nelle successive elezioni dell'87.
Nel 1990, però, dopo ben undici anni di ininterrotta presenza al governo, la
«lady di ferro» (così venne chiamata Margaret Thatcher) dovette lasciare la
guida dell'esecutivo in seguito alla ribellione del suo stesso partito, che non
approvava alcune impopolari misure fiscali decise dal primo ministro e non
condivideva la sua ostinata opposizione ai progetti di integrazione europea.
Le difficoltà delle socialdemocrazie
Negli anni '80, anche nei paesi scandinavi (Svezia, Danimarca, Norvegia), le socialdemocrazie videro minacciato o interrotto un dominio che durava incontrastato da oltre un trentennio. In Germania federale, infine, l'era dei governi socialdemocratici, guidati prima da Willy Brandt poi da Helmut Schmidt, si concluse nel 1983, con la rottura dell'alleanza coi liberali e con l'ascesa al governo del cristiano-democratico Helmut Kohl, futuro protagonista della riunificazione tedesca.
La vittoria di Mitterrand
Mentre perdevano terreno nelle tradizionali roccheforti dell'Europa
del Nord, i partiti socialisti si affermavano largamente nell'area mediterranea.
In Francia l'Unione delle sinistre, che già aveva sfiorato il successo nel '74,
si impose nelle elezioni dell'81, portando alla presidenza il socialista
François Mitterrand.
Partita fra grandi entusiasmi, con ambiziosi programmi di nazionalizzazioni,
riforme sociali e aumenti salariali, l'esperienza dell'Unione delle sinistre
fini in parte col deludere le attese dei suoi sostenitori. Le difficoltà
dell'economia indussero i socialisti ad accantonare i progetti di riforma più
ambiziosi e ad adottare una serie di misure restrittive: il che contribuì a
provocare la rottura con un Partito comunista schierato su posizioni di
intransigenza (ma in forte calo elettorale).
La rottura non impedì a Mitterrand di ottenere nell'88 il suo secondo mandato
presidenziale, né al Partito socialista di governare per oltre un decennio.
Integrazione europea e nuove democrazie
La fine dei salazarismo in Portogallo
All'inizio degli anni '80, governi a guida socialista si affermarono nelle
nuove democrazie dell'Europa meridionale (Portogallo, Grecia, Spagna),
protagoniste, a metà del decennio precedente, di rapidi e quasi simultanei
processi di fuoriuscita da regimi autoritari.
La prima a cadere fra le superstiti dittature del vecchio continente fu la più
antica di tutte, quella portoghese, sopravvissuta per pochi anni alla morte del
suo fondatore Salazar (1970).
L'uscita dalla dittatura, accelerata dall'insofferenza dell'opinione pubblica e
degli stessi militari nei confronti di una costosa guerra coloniale contro i
movimenti indipendentisti dell'Angola e del Mozambico, seguì un copione inedito.
Furono i militari, nella primavera del '74, ad abbattere il vecchio regime con
un incruento colpo di Stato. Il potere fu assunto dapprima dall'ala moderata
delle forze armate, poi da un gruppo di ufficiali di sinistra appoggiati dal
Partito comunista.
Ma dall'autunno del '75 – dopo la concessione dell'indipendenza alle colonie – i
militari più radicali vennero emarginati e il paese fu restituito a un normale
regime parlamentare e pluripartitico, che vide da allora i socialisti di Mario
Soares alternarsi al potere con i gruppi moderati di centro-destra.
La caduta dei colonnelli in Grecia
Molto diversa fu la vicenda della Grecia.
Qui erano stati i militari, nel 1967, a rovesciare con un colpo di Stato il
regime liberale vigente dalla fine della guerra, attuando poi una durissima
repressione ai danni dell'opposizione democratica.
A porre fine alla dittatura dei colonnelli fu, nel 1974, l'esito disastroso di
un colpo di mano mirante a ottenere l'annessione alla Grecia dell'isola di
Cipro, da sempre divisa fra una comunità greca e una turca. La Turchia,
militarmente più forte, reagì occupando una parte dell'isola (che da allora
sarebbe rimasta politicamente divisa in due).
Travolti dall'insuccesso, i militari dovettero lasciare il potere ai partiti
democratici: la Nuova democrazia di Costantin Karamanlis, espressione della
destra moderata, e il Partito socialista di Andreas Papandreu, da allora
alternatisi al governo.
Sempre nel 1974 un referendum popolare aveva sancito la fine della monarchia,
peraltro già estromessa di fatto dalla dittatura dei colonnelli.
II ritorno alla democrazia in Spagna
Un ruolo importante nella transizione alla democrazia fu invece svolto dalla
monarchia in Spagna.
Il re Juan Carlos di Borbone, insediato su un trono vacante dal 1931, dopo la
morte, nel 1975, del generale Franco, come erede designato dal dittatore, seppe
pilotare con abilità il passaggio alla democrazia di un paese che, fin dagli
anni '60, aveva conosciuto un rapido sviluppo economico e che non si riconosceva
più nelle strutture del regime clerical-autoritario.
Il re chiamò alla guida del governo Adolfo Suarez, un giovane uomo politico
cresciuto nelle file del franchismo ma convinto della necessità di un radicale
rinnovamento, legalizzò i partiti (compreso quello comunista) e i sindacati
liberi e fece approvare per referendum, nel '78, una costituzione democratica.
Nonostante l'intensificarsi delle azioni terroristiche dei separatisti baschi la
democrazia spagnola si consolidò rapidamente e sopportò senza scosse il cambio
di potere verificatosi nell'82 con la vittoria elettorale dei socialisti di
Felipe Gonzáles.
L'allargamento della Cee
Il ritorno alla democrazia di Spagna, Portogallo e Grecia rappresentò certamente una delle novità più positive nell'Europa di fine '900. E consenti un ulteriore allargamento della Cee, cui aderirono tutti e tre i paesi: la Grecia nell'81, la Spagna e il Portogallo nell'86. Nei due decenni successivi, il crollo dell'Urss e del sistema di potere sovietico in Europa orientale avrebbe aperto le porte dell'integrazione anche alle ex "democrazie popolari" dell'Est, cancellando definitivamente la «cortina di ferro» che per quasi mezzo secolo aveva diviso in due il vecchio continente.
I progressi dell'integrazione
Nelle intenzioni dei suoi fondatori, la Comunità europea nata dai trattati di
Roma del 1957, pur avendo come principale ragion d'essere l'integrazione
economica, avrebbe dovuto costituire la premessa per una graduale integrazione
politica. Ma i progressi in questa direzione furono lenti e faticosi.
Nel 1974, in un vertice tenutosi a Parigi, si decise che i capi di governo dei
paesi membri si sarebbero incontrati non occasionalmente, ma a scadenze
regolari, dando vita di fatto a un nuovo organismo, il Consiglio europeo, che
avrebbe da allora avuto la responsabilità di tracciare le linee-guida del
processo di integrazione (mentre alla Commissione europea restavano affidati i
compiti operativi, come l'attuazione dei singoli provvedimenti e la gestione
delle risorse finanziarie).
Contemporaneamente si stabilì che il Parlamento europeo, anziché essere
composto, come era stato sin allora, da rappresentanze dei Parlamenti nazionali,
sarebbe stato eletto direttamente dai cittadini, con scadenza quinquennale, in
base alle leggi elettorali vigenti nei singoli paesi. I poteri del Parlamento,
con sede a Strasburgo e a Bruxelles, non mutarono significativamente, ma
l'elezione popolare e la stessa organizzazione per correnti politiche
(socialisti, popolari, liberali, ambientalisti), anziché per gruppi nazionali,
conferirono all'organismo un maggiore peso, avvicinandolo ai cittadini.
Le prime elezioni per il Parlamento europeo si tennero nel 1979. In quello
stesso anno, al fine di rilanciare il processo di integrazione economica in
parte compromesso dalla crisi petrolifera, e di proteggere le economie nazionali
dall'instabilità valutaria, entrò in funzione il Sistema monetario europeo (Sme):
un sistema di cambi fissi (o oscillanti entro margini prestabiliti) fra le
monete dei paesi membri, cui aderirono otto degli allora nove partner della Cee,
compresa l'Italia, mentre restava fuori la Gran Bretagna.
I conflitti nell'Asia comunista
Nell'età della decolonizzazione, la vittoriosa guerriglia dei popoli dell'Indocina, prima per l'indipendenza dalla Francia, poi contro la presenza americana nel Sud-Est asiatico, aveva rappresentato un punto di riferimento, quasi un mito positivo, per i rivoluzionari di tutto il mondo e per buona parte della sinistra occidentale. Tanto più amara fu la delusione dell'opinione pubblica progressista di fronte alle vicende che seguirono la presa del potere da parte dei comunisti in Vietnam, Cambogia e Laos.
La dittatura comunista in Vietnam
Infatti, dopo la conquista, nel 1975, di Saigon, ribattezzata «città Ho
Chi-minh», i nordvietnamiti ignorarono tutte le promesse di autodeterminazione e
di riconciliazione fra le due metà del paese, attuando una politica di puro e
semplice assorbimento del Sud nel Nord e di sistematica emarginazione, non solo
dei sostenitori del vecchio regime, ma anche dei capi della lotta di liberazione
nel Sud.
L'economia fu interamente collettivizzata. Nella primavera del 1978, la numerosa
comunità di origine cinese – formata in gran parte da commercianti – fu
improvvisamente espropriata dei suoi averi. Centinaia di migliaia di persone
abbandonarono il paese, per lo più su piccole imbarcazioni, e molti persero la
vita durante la fuga.
La Cambogia di Pol Pot
Ancora più tragiche furono le vicende della vicina Cambogia, dove i
guerriglieri comunisti (i khmer rossi), sotto la guida del loro capo, Pol
Pot, misero in atto, fra il '76 e il '78, uno dei più radicali e sanguinari
esperimenti di rivoluzione sociale mai tentati nella storia.
Nell'intento di cancellare ogni traccia della vecchia società e di costruirne
una nuova partendo da zero, i comunisti cambogiani consumarono uno spaventoso
massacro, non solo eliminando fisicamente coloro che avevano servito sotto il
regime precedente, ma provocando anche la morte per fame e per stenti di circa
un milione e mezzo di comuni cittadini (su una popolazione di nemmeno sette
milioni), costretti da un giorno all'altro a evacuare le città e a trasferirsi
nelle campagne in omaggio all'utopia di uno spietato comunismo agrario.
Il denaro fu abolito. Templi buddisti, biblioteche e istituzioni d'ogni genere
furono materialmente distrutti in quanto testimonianza di un passato da
cancellare.
L'invasione vietnamita e l'intervento cinese
Geloso della propria indipendenza, e appoggiato dalla Cina, il regime di Pol
Pot costituiva un ostacolo per i piani del Vietnam, che intendeva ridurre
l'intera Indocina sotto la sua influenza (e lo stava già facendo col Laos). Nel
dicembre 1978, 200 mila soldati vietnamiti, assieme a gruppi di esuli
cambogiani, invadevano il paese e vi installavano un governo "amico" rovesciando
quello dei khmer rossi (i quali, col sostegno della Cina, avrebbero continuato
per parecchi anni a dar vita a un'ostinata guerriglia).
Nel febbraio '79 i cinesi effettuarono una spedizione punitiva nel Vietnam del
Nord, infliggendo notevoli danni al paese, senza però raggiungere lo scopo di costringere
il governo vietnamita a ritirare le truppe di occupazione dalla Cambogia.
Solo nel 1988, grazie alla mediazione dell'Onu, le forze vietnamite cominciarono
a ritirarsi dalla Cambogia. E solo nel '91 si giunse a un accordo fra tutte le
fazioni in lotta, che avrebbe portato, due anni dopo, alla restaurazione della
monarchia e alla convocazione di libere elezioni.
La Cina post-maoista
L'ascesa di Deng Xiaoping
Dopo la morte di Mao Zedong, nel 1976, si aprì nella Cina comunista un
processo di revisione interna – ideologica, economica e politica – simile per
alcuni aspetti a quello avviato in Urss dopo la morte di Stalin, ma con esiti
assai più radicali. Artefice principale della "demaoizzazione" fu Deng Xiaoping,
anziano esponente del gruppo dirigente storico del comunismo cinese, emarginato
ai tempi della rivoluzione culturale perché fautore di una linea moderata.
Riabilitato e reinserito nei vertici del partito per iniziativa del primo
ministro Chou En-lai, Deng emerse progressivamente come il vero leader del paese
e condusse la lotta contro gli ultimi eredi politici della rivoluzione
culturale, prima di assumere ufficialmente, nel 1981, la guida del partito e
dello Stato.
Le riforme economiche
Nel giro di pochi anni, Deng Xiaoping capovolse la linea
rigorosamente collettivista ed egualitaria di Mao Zedong e promosse una serie di
profonde modifiche nella gestione dell'economia: furono reintrodotte le
differenze salariali e aumentati gli incentivi per i lavoratori; la direzione
delle aziende fu ricondotta a criteri di efficienza; fu incoraggiata
l'importazione di tecnologia dai paesi più sviluppati; i contadini ebbero la
possibilità di coltivare i propri fondi e di venderne i prodotti sul mercato
libero; in generale, furono introdotti nel sistema elementi di economia di
mercato.
Una trasformazione profonda, che provocò notevoli mutamenti nella
stratificazione sociale — si formarono, come nell'Urss ai tempi della Nep, nuovi
strati privilegiati di manager, piccoli imprenditori agricoli, tecnici e
commercianti — e anche nella mentalità e nel costume, con la penetrazione di
modelli di tipo "consumistico" soprattutto fra le generazioni più giovani.
Contestazione e repressione
Proprio il contrasto fra una modernizzazione economica per molti
aspetti traumatica (e non priva di costi sociali, in termini di disoccupazione e
di migrazioni interne) e il mantenimento della struttura burocratico-autoritaria
del potere fu all'origine, alla fine degli anni '80, di un vasto e spontaneo
fenomeno di contestazione.
Protagonisti della protesta — cui certo non era estranea l'eco dei processi
riformatori in atto nell'Urss di Gorbačëv —
furono gli studenti dell'Università di Pechino, che diedero vita, nella
primavera dell'89, a una serie di imponenti e pacifiche manifestazioni di piazza
per chiedere più libertà e più democrazia.
Dopo qualche vano tentativo di dialogo, il gruppo dirigente comunista,
preoccupato anche per l'estendersi delle manifestazioni ad altre città della
Cina, rispose con una brutale repressione militare e con l'epurazione degli
elementi riformisti dai vertici del partito. Nel giugno 1989, l'intervento
dell'esercito contro i manifestanti riuniti nella più grande piazza della
capitale (Piazza Tienanmen, ossia 'Della pace celeste') si risolse in un
massacro, che suscitò reazioni sdegnate in tutto il mondo democratico.
Autoritarismo e mercato
La protesta, però, influì solo marginalmente nei rapporti commerciali fra la Cina e l'Occidente: troppo forte era l'interesse dei paesi industrializzati nei confronti di un mercato potenzialmente enorme e di un'economia che, già nel decennio '80-90, conobbe una fase di intenso sviluppo. Il regime cinese sarebbe riuscito così a sopravvivere al grande ciclone che avrebbe investito l'intero mondo comunista alla fine degli anni '80. E il paese più popoloso del mondo sarebbe diventato il teatro di un inedito esperimento di rilancio dell'economia di mercato all'interno di un regime autoritario che si continuava a proclamare comunista e in cui il partito unico deteneva il monopolio del potere politico.
La rivoluzione khomeinista in Iran
La rinascita del fondamentalismo
Alla fine del secolo XX, quando la crisi dei regimi comunisti sembrava aprire
nuove prospettive di pace e offrire nuove possibilità di espansione alle
istituzioni liberali e all'economia di mercato, le democrazie occidentali, ma
anche i regimi post-comunisti, si trovarono a fronteggiare una nuova sfida
globale: quella dell'Islam radicale e fondamentalista: un fenomeno fin allora
minoritario e fortemente osteggiato dai governi degli stessi paesi musulmani.
La rinascita del fondamentalismo prese le mosse da due eventi verificatisi
entrambi nel 1979: l'intervento sovietico in Afghanistan, che provocò per
reazione una mobilitazione internazionale di combattenti islamici, appoggiata
dagli Stati Uniti ma destinata a rivolgersi contro l'Occidente; e la rivoluzione
scoppiata in Iran, che, dopo aver deposto lo scià, portò al potere l'ala più
intransigente del clero musulmano di osservanza sciita.
Il regime dello scià
Governato con metodi autoritari dallo scià (imperatore) Reza Pahlavi, dopo la
fine dell'esperimento riformatore del primo ministro Mossadeq, l'Iran era stato
sin allora un pilastro fondamentale della presenza occidentale in Medio Oriente
e un importante fornitore di petrolio.
A partire dagli anni '60 lo scià aveva avviato una politica di modernizzazione
accelerata, e per molti aspetti traumatica, che mirava a trasformare il paese in
una grande potenza militare, senza però riuscire ad assicurare significativi
progressi nella condizione di vita delle masse.
Questa politica suscitò una crescente opposizione sia da parte dei gruppi di
sinistra che agivano per lo più in clandestinità, sia da parte del clero
islamico tradizionalista che assunse, nel 1978, la guida di un vasto movimento
di protesta popolare.
La Repubblica islamica
Lo scià tentò di fermare la rivolta prima con sanguinose repressioni, poi
chiamando al governo esponenti dell'opposizione moderata. Ma, nel gennaio 1979,
abbandonato anche dagli Stati Uniti, dovette lasciare il paese. Sempre in
gennaio, rientrava nella capitale Teheran l'ayatollah Ruhollah Khomeini, massima
autorità spirituale dei musulmani sciiti, che aveva ispirato dal suo esilio di
Parigi l'opposizione religiosa al regime dello scià.
Le componenti laiche e di sinistra, che avevano partecipato alla rivoluzione e
avevano espresso i primi governi del dopo-scià, furono subito emarginate. In
Iran si instaurò così una Repubblica islamica di stampo teocratico, ispirata a
un vago riformismo sociale basato sui dettami del Corano e guidata di fatto dal
clero sciita, anche dopo la morte, nel 1989, della «guida suprema» Khomeini.
Rigidamente tradizionalista e oscurantista in materia di costumi e di controllo
sulla vita privata, violentemente antioccidentale e antiamericano, il nuovo
regime entrò subito in contrasto con gli Stati Uniti, accusati di aver sostenuto
lo scià e di avergli offerto ospitalità dopo la sua fuga. Per oltre un anno (dal
novembre '79 al gennaio '81) il personale dell'ambasciata Usa a Teheran fu
tenuto prigioniero da un gruppo di militanti islamici che agivano col pieno
appoggio delle autorità. Gli ostaggi furono liberati solo dopo una lunga
trattativa e dopo il fallimento, nell'aprile '80, di una azione di forza
ordinata dal presidente statunitense Carter.
Ma gli Stati Uniti dovevano registrare l'affermazione di un altro regime ostile
in un'area per molti aspetti strategica (per il Golfo Persico passava il 30%
della produzione petrolifera mondiale).
La Guerra con l'Iraq
Isolato internazionalmente e gravemente dissestato nell'economia, l'Iran fu
attaccato, nel settembre 1980, dal vicino Iraq, che, appoggiato in questa
circostanza dagli Stati Uniti, cercò di profittare della situazione per
impadronirsi di alcuni territori da tempo contesi fra i due paesi.
La guerra si protrasse con fasi alterne per ben otto anni e si risolse in una
spaventosa quanto inutile carneficina (circa un milione di morti): il cessate il
fuoco stabilito, grazie alla mediazione dell'Onu, nel luglio 1988, trovò infatti
i contendenti sulle stesse posizioni dell'inizio del conflitto.
Ma intanto le vicende della rivoluzione e della guerra avevano dato un forte
contributo alla destabilizzazione dell'intera area mediorientale, approfondendo
sia la frattura con l'Occidente sia le divisioni interne al mondo islamico.
L'ITALIA DELLA PRIMA REPUBBLICA (1945-89)
L'Italia nel 1945
Nel giro di pochi anni, fra il 1945 e il 1949, l'Italia si lasciò alle spalle
l'esperienza della dittatura fascista ed entrò in una nuova fase della sua
storia unitaria. Guidata dai partiti che si erano opposti al regime mussoliniano,
si diede un nuovo ordinamento repubblicano, una nuova Costituzione democratica e
un nuovo sistema politico destinato a durare per quasi mezzo secolo e a dar
forma a quella che, a partire dalle trasformazioni di fine '900, è stata
definita «Prima Repubblica».
Una vicenda lunga e complessa, segnata da forti elementi di continuità, nella
quale però possiamo distinguere cinque fasi, scandite da importanti mutamenti
politici:
- 1945-1948: la nascita della Repubblica, la Costituente e il trattato di pace;
- 1948-1963: l'egemonia democristiana, il centrismo, il «miracolo economico»;
- 1963-1975: il centro-sinistra, le riforme, i movimenti;
- 1975-1979: la solidarietà nazionale e il terrorismo;
- 1979-1989: l'inizio della crisi.
Prima di ripercorrere le tappe principali di questa vicenda, sarà utile vedere
quali fossero le condizioni del paese a guerra appena terminata e quali le forze
che si candidavano a governarlo.
Le distruzioni materiali
Con la fine del secondo conflitto mondiale, l'Italia aveva recuperato libertà
e unità territoriale, anche se sotto la stretta tutela delle autorità di
occupazione alleate. Ma la sua situazione era quella di un paese materialmente
devastato.
La produzione industriale era scesa a meno di un terzo di quella
dell'anteguerra, quella agricola era più che dimezzata e il patrimonio
zootecnico distrutto per tre quarti. La quantità media giornaliera di calorie a
disposizione di ogni cittadino era meno della metà di quella del '38. I prezzi
al consumo erano cresciuti di 18 volte in sei anni, polverizzando i risparmi e
ridimensionando drasticamente i salari reali. Il sistema dei trasporti era in
buona parte disarticolato. Circa tre milioni di vani di abitazioni erano stati
distrutti dai bombardamenti; i molti italiani rimasti senza casa erano costretti
a coabitazioni forzate o cercavano rifugio nelle scuole e in altri edifici
pubblici, trasformati in dormitori per gli "sfollati".
I problemi dell'ordine pubblico
La fame, la mancanza di alloggi e l'elevata disoccupazione contribuivano a
rendere precaria la situazione dell'ordine pubblico.
La fine della guerra aveva ridato slancio a una conflittualità sociale che gli
stessi leader della sinistra faticavano a tenere a freno. Un serio problema era
poi costituito dagli ex partigiani, spesso inclini ad adottare misure di
giustizia sommaria nei confronti dei fascisti.
Nelle regioni del Centro-sud, fin dalla primavera del '44, contadini e
braccianti avevano ripreso, come nel primo dopoguerra, a occupare terre incolte
e latifondi.
Ma la minaccia più grave, nel Mezzogiorno e nelle isole, veniva dalla malavita
comune, in buona parte legata al contrabbando e alla borsa nera (ossia al
commercio clandestino di generi razionati).
La frattura Nord-Sud
Le vicende seguite all'armistizio avevano fortemente appannato l'immagine del
potere statale e avevano scavato nella compagine nazionale una profonda frattura
che ricalcava le tradizionali spaccature fra Nord e Sud. A partire dal
settembre '43, le due metà del paese avevano infatti vissuto due esperienze
diverse.
Da una parte, al Sud, l'occupazione alleata, la continuità istituzionale sotto
il segno della monarchia, la sostanziale tenuta dei vecchi equilibri sociali.
Dall'altra, nel Centro-nord, l'occupazione tedesca, la guerra civile,
un'insurrezione popolare in cui la lotta di liberazione nazionale si intrecciava
alle istanze rivoluzionarie.
Queste spinte al cambiamento si scontravano, inoltre, con la situazione
obiettiva del paese nel contesto internazionale. L'Italia era una nazione
sconfitta e occupata militarmente, dipendeva dagli aiuti alleati e non poteva
dunque considerarsi completamente arbitra del proprio destino.
I partiti di sinistra
Il compito di affrontare questi problemi spettava in primo luogo ai partiti
che si erano raccolti nel Comitato di liberazione nazionale e che già
esercitavano di fatto un ruolo di governo.
Il ritorno alla vita democratica si era accompagnato a un'impetuosa crescita
della partecipazione politica, che di per sé favoriva le forze organizzate su
basi di massa. I più attrezzati da questo punto di vista erano i due partiti
della Sinistra operaia.
Il Partito socialista, che portava allora il nome di Psiup, assunto nel '43, ed
era guidato da Pietro Nenni, era però diviso ancora una volta fra la tradizione
riformista e le spinte rivoluzionarie, che portavano a mantenere uno stretto
legame coi comunisti. Giocava inoltre a sfavore del Psiup il ruolo non di primo
piano svolto nella Resistenza.
Il Partito comunista, al contrario, traeva forza e
credibilità proprio dal contributo offerto alla lotta antifascista. Il partito
nuovo che Palmiro Togliatti aveva cercato di costruire dopo la «svolta di
Salerno» era un autentico partito di massa e aspirava a mantenere un
ruolo di governo, senza però rinnegare il suo legame con l'Urss e senza cessare
di incarnare le aspettative rivoluzionarie della classe operaia.
La Dc
Fra gli altri partiti, l'unico in grado di competere con le sinistre sul
piano dell'organizzazione di massa era la Democrazia cristiana.
La Dc si richiamava all'esperienza del Partito popolare di Sturzo e ne ricalcava
il programma, ispirato alla dottrina sociale cattolica. Anche il gruppo
dirigente, a cominciare dal segretario Alcide De Gasperi, veniva in buona parte
da quel partito, ma era stato rafforzato dall'afflusso delle nuove leve
cresciute politicamente durante il ventennio nelle file dell'Azione cattolica.
La Dc godeva inoltre dell'appoggio della Chiesa, che aveva visto crescere il suo
ruolo negli anni della guerra e poi della dissoluzione del potere statale; e
anche per questo si presentava come il principale perno del fronte moderato.
Liberali e democratici
Il Partito liberale, che raccoglieva nelle sue file gran parte della classe
dirigente prefascista, poteva contare su una serie di adesioni illustri (come
quelle di Luigi Einaudi e Benedetto Croce), oltre che sul sostegno della grande
industria e dei proprietari terrieri. Ma il rapporto personale e clientelare fra
i leader e la loro base elettorale era ormai definitivamente compromesso.
Fra i partiti laici, il Partito repubblicano si distingueva per l'intransigenza
sulla questione istituzionale (aveva infatti respinto ogni compromesso con la
monarchia, rifiutando persino di partecipare al Cln).
In una posizione particolare, al confine fra l'area liberal-democratica e quella
socialista, si collocava il Partito d'azione. Forte del prestigio che gli veniva
dal notevole contributo dato alla lotta partigiana, il Pda si faceva promotore
di ampie riforme sociali, ma era privo di una base massa e faticava a trovare
una sua identità, diviso com'era fra un'ala socialista un'ala
liberal-democratica.
Le destre
Quanto alla destra vera e propria, essa appariva politicamente fuori gioco
nel clima del dopo-liberazione.
Assente ancora un movimento neofascista organizzato (solo nel dicembre '46 si
sarebbe costituito Msi, Movimento sociale italiano), i gruppi di destra si
raccolsero in parte sotto bandiere monarchiche e in parte contribuirono
all'affermazione di un nuovo movimento: l'Uomo qualunque. Fondato nel '45 dal
commediografo Guglielmo Giannini il movimento qualunquista rifiutava qualsiasi
caratterizzazione ideologica e si limitava ad assumere le difese del cittadino
medio (dell'«uomo qualunque», appunto) oppresso dalle tasse e dalla nuova
"dittatura" dei partiti del Cln. Il movimento riscosse notevoli consensi,
soprattutto presso la piccola e media borghesia del Centro-sud. Ma presto
sarebbe entrato in crisi, soprattutto per la confluenza dell'opinione pubblica
moderata attorno alla Democrazia cristiana.
Da Parri a De Gasperi
La prima occasione di confronto fra i partiti del Cln all'indomani della
liberazione si presentò al momento di scegliere il nuovo capo del governo.
L'accordo fu trovato sul nome di Ferruccio Parri, leader del Partito d'azione e
già capo militare della Resistenza. Parri cercò promuovere la normalizzazione
del paese e mise all'ordine del giorno lo spinoso problema dell'epurazione dei
funzionari statali più compromessi col fascismo. Enunciò inoltre una serie di
provvedimenti volti a colpire con forti tasse le grandi imprese e a favorire le
piccole e medie aziende.
Ma in questo modo si attirò l'opposizione delle forze moderate, in particolare
del Pli, che nel novembre '45 tolse la fiducia al governo, determinandone la
caduta. La Dc riuscì allora a imporre la candidatura del suo leader Alcide De
Gasperi.
Il nuovo governo si reggeva sempre sulla partecipazione di tutti i
partiti del Cln, ma inaugurava una svolta di segno moderato destinata a
rivelarsi irreversibile.
La Repubblica e la Costituente
Elezioni e referendum
All'inizio del 1946, dopo molti rinvii dovuti alla difficile
situazione del paese (collegamenti precari, mancato ritorno di molti militari
dai campi di prigionia), il governo fissò al 2 giugno la data per le elezioni
dell'Assemblea costituente, che sarebbe stata incaricata di scrivere la nuova
costituzione italiana. Erano le prime consultazioni politiche libere dopo
venticinque anni, e le prime in cui avevano diritto a votare anche le donne.
Si stabilì inoltre che in quello stesso giorno gli italiani e le italiane
sarebbero stati chiamati a decidere direttamente, mediante referendum, se
mantenere in vita l'istituto monarchico o fare dell'Italia una repubblica.
Il 9 maggio, quando mancavano poche settimane al voto, Vittorio Emanuele III
tentò di risollevare le sorti della dinastia sabauda, screditata dalla sua lunga
collaborazione col regime fascista, e abdicò in favore del figlio Umberto II. Ma
la mossa non ottenne gli effetti sperati. Nelle votazioni del 2 giugno,
caratterizzate da un'affluenza senza precedenti nella storia delle elezioni
libere in Italia (circa il 90% degli aventi diritto), la repubblica prevalse con
un margine abbastanza netto: 12.700.000 voti circa contro 10.700.000 per la
monarchia.
Il 13 giugno, dopo un vano tentativo dei monarchici di contestare la regolarità
formale del voto, Umberto II partì per l'esilio in Portogallo.
Si spezzava così definitivamente il legame fra l'Italia e la monarchia sabauda,
che tanta parte aveva avuto nel processo di unificazione. Nelle elezioni per la
Costituente, la Dc si affermò come il primo partito col 35,2% dei voti, seguita
a notevole distanza dal Psiup (20,7) e subito dopo dal Pci (19). L'Unione
democratica nazionale, che raccoglieva i maggiori esponenti della classe
dirigente liberale, ebbe un risultato modesto, come i qualunquisti e i
monarchici. Il Partito d'azione raccolse solo 1'1,5% dei voti.
Nuovi equilibri e vecchie divisioni
Rispetto alle ultime elezioni prefasciste, era evidente la crisi
dei vecchi gruppi liberal-democratici, ormai sostituiti dalla Dc nella
rappresentanza dell'Italia moderata.
La sinistra risultava complessivamente rafforzata, ma non tanto da diventare
maggioritaria; e vedeva mutati i rapporti di forza al suo interno, col Psiup
insidiato da vicino dal Pci.
Nel complesso, i risultati mostravano che gli elettori italiani avevano voltato
pagina rispetto all'esperienza fascista. Quegli stessi risultati, però, se
analizzati regione per regione, rivelavano che la vittoria della Repubblica nel
referendum si reggeva tutta sul voto del Centro-nord e che anche il voto
politico vedeva la sinistra in vantaggio nel Nord, ma debolissima nel
Mezzogiorno.
La crisi dell'unità antifascista e la scissione socialista
Dopo le elezioni per la Costituente, democristiani, socialisti e
comunisti continuarono a governare insieme, accordandosi sull'elezione del
primo, e provvisorio, presidente della Repubblica, il liberale Enrico De Nicola.
Ma la coabitazione al governo non eliminava i contrasti, originati, da un lato,
dall'inasprirsi dello scontro sociale, dall'altro dal profilarsi della guerra
fredda.
A fare le spese di questa radicalizzazione fu soprattutto il Partito socialista.
Nel gennaio 1947, in un congresso a Roma, l'ala guidata da Giuseppe Saragat,
contraria a una stretta collaborazione con i comunisti, abbandonò il Psiup (che
riassunse il vecchio nome di Psi) e diede vita al Partito socialista dei
lavoratori italiani (Psli) che, qualche anno più tardi, avrebbe assunto il nome
di Partito socialdemocratico italiano (Psdi).
In maggio, traendo spunto dai contrasti in seno alla coalizione, De Gasperi
diede le dimissioni e formò un nuovo governo di soli democristiani, rafforzato
dall'apporto di "tecnici" di area liberal-democratica (come Luigi Einaudi al
Bilancio e Carlo Sforza agli Esteri).
Si chiudeva così, con i cattolici al potere e le sinistre all'opposizione, la
fase della collaborazione governativa fra i tre partiti di massa.
La Costituzione e il trattato di pace
Genesi e caratteri della Costituzione
I contrasti politici culminati con l'esclusione delle sinistre dal
governo non impedirono ai partiti antifascisti di mantenere quel minimo di
solidarietà che era necessaria alla Repubblica per il varo della Costituzione
repubblicana.
L'Assemblea incaricata di dare al paese una nuova legge fondamentale, dopo lo
Statuto albertino di cento anni prima, cominciò i suoi lavori il 24 giugno 1946
e li concluse il 22 dicembre 1947 con l'approvazione a larghissima maggioranza
del testo costituzionale, che entrò in vigore dal 1° gennaio 1948.
La Costituzione repubblicana si ispirava ai modelli democratici ottocenteschi
per la parte riguardante le istituzioni e i diritti politici: essa dava vita a
un sistema parlamentare, col governo responsabile di fronte alle due Camere (la
Camera dei deputati e il Senato della Repubblica), titolari del potere
legislativo (senza apprezzabili differenze di funzioni).
Alle Camere, elette a suffragio universale, spettava il compito di scegliere, in
seduta congiunta, un presidente della Repubblica con mandato settennale e con
funzioni di garanzia e di rappresentanza dell'unità nazionale.
Era inoltre previsto che un Consiglio superiore della magistratura assicurasse
l'autonomia dell'ordine giudiziario, che una Corte costituzionale vigilasse
sulla conformità delle leggi alla Costituzione, che le leggi potessero essere
sottoposte a referendum abrogativo – diretto cioè all'annullamento di una legge
o di alcune sue disposizioni – dietro richiesta di almeno 500 mila cittadini,
che la vecchia struttura centralistica dello Stato fosse spezzata grazie al
nuovo istituto della regione, dotato di ampi poteri (anche legislativi).
Le norme relative al Consiglio superiore della magistratura, alla Corte
costituzionale, al referendum e alle regioni erano però destinate a restare
inattuate per molti anni.
Non sempre, inoltre, avrebbero trovato riscontro nella realtà alcune
affermazioni di principio in materia di diritti sociali, che erano il risultato
della convergenza fra la Dc e i partiti di sinistra e che rappresentavano la
maggiore novità rispetto ai modelli costituzionali ottocenteschi: fra l'altro,
era sancito il «diritto al lavoro» ed era stabilito che il diritto di proprietà
potesse essere limitato a vantaggio del benessere collettivo.
Il compromesso costituente
Nel complesso, i costituenti – preoccupati di allontanarsi il più
possibile dall'esempio negativo dell'autoritarismo fascista – sentirono più
l'esigenza di garantire spazi di rappresentanza a tutte le forze politiche,
grandi e piccole, che non quella di assicurare stabilità al potere esecutivo. La
scelta in favore di un modello parlamentare – unita a un sistema elettorale
proporzionale (in cui ad ogni partito viene assegnato un numero di seggi
proporzionale ai voti raccolti) – faceva infatti dei partiti i primi destinatari
del consenso e dunque gli arbitri della politica italiana.
Nel complesso, tuttavia, la Costituzione rappresentò un compromesso equilibrato
fra le istanze delle diverse forze che avevano contribuito a realizzarla. Fu
merito dei costituenti l'aver raggiunto questo risultato nonostante l'asprezza
dei contrasti che si aprirono su singole questioni.
Lo scontro più clamoroso si verificò nel marzo '47, quando si discusse la
proposta democristiana di inserire nella Costituzione un articolo (l'articolo 7)
in cui si stabiliva che i rapporti fra Stato e Chiesa erano regolati dal
concordato stipulato nel 1929 fra Santa Sede e regime fascista. La proposta
sembrava destinata a essere respinta. Ma all'ultimo momento, con una decisione
che destò scalpore, Togliatti annunciò il voto favorevole del Pci, motivando la
sua scelta con la volontà di rispettare il sentimento religioso della
popolazione italiana e di non creare fratture in seno alle masse.
L'articolo 7 fu così approvato, nonostante l'opposizione dei socialisti e degli
altri partiti laici.
Il trattato di pace
Nel luglio di quello stesso 1947, l'Assemblea Costituente fu chiamata
ad affrontare un'altra importante scadenza: la ratifica del trattato di pace che
il governo aveva firmato in febbraio a Parigi con gli Stati vincitori della
guerra mondiale. Non fu una decisione facile.
L'Italia, nonostante gli sforzi del governo per veder riconosciuto il contributo
fornito agli alleati fra il '43 e il '45, fu trattata a tutti gli effetti come
una nazione sconfitta: si impegnò a pagare riparazioni agli Stati che aveva
attaccato (Russia, Grecia, Jugoslavia, Albania, Etiopia), dovette ridurre la
consistenza delle sue forze armate e perse tutte le sue colonie (anche se, nel
1950, avrebbe ottenuto per un decennio l'amministrazione fiduciaria della
Somalia).
Il dramma del confine orientale
Più dolorose furono le mutilazioni territoriali: se a ovest l'Italia non subì
perdite di rilievo, salvo alcune rettifiche secondarie a favore della Francia,
se a Nord poté avvantaggiarsi della posizione di inferiorità dell'Austria per
mantenere l'Alto Adige (impegnandosi però a concedere ampie autonomie
amministrative e linguistiche alla provincia di Bolzano), sul confine orientale
la situazione era già largamente compromessa alla fine della guerra.
L'esercito di liberazione jugoslavo comandato dal maresciallo Tito aveva infatti
occupato l'Istria e rivendicava il possesso di Trieste. L'occupazione fece
riesplodere il conflitto fra italiani e slavi (sloveni e croati), esasperato
durante il fascismo dalla dura repressione condotta dal regime contro le
minoranze etniche.
Nella primavera-estate del 1945 migliaia di italiani, a Trieste, a Gorizia e in
molti centri dell'Istria furono uccisi o deportati, con la generica accusa di
complicità col fascismo. Molti di loro furono gettati, vivi o morti, nelle
foibe, profonde cavità naturali dell'altopiano carsico comunemente usate come
discariche. Anche a seguito di queste violenze, un gran numero di italiani della
Venezia Giulia e della Dalmazia (fra i due e i trecentomila) lasciarono le loro
terre e ripararono in Italia, contribuendo a tener desta la polemica contro il
trattato di pace.
Il dramma del confine orientale divenne così un fattore di mobilitazione per
l'opinione pubblica di destra, intrecciandosi con le divisioni create dalla
guerra fredda.
La questione di Trieste
Alla fine del '46 fu attuata una sistemazione provvisoria, che lasciava alla
Jugoslavia la Penisola istriana, eccettuata una striscia comprendente Trieste e
Capodistria, che avrebbe dovuto costituire il Territorio libero di Trieste.
Il Territorio fu a sua volta diviso in una zona A (Trieste e dintorni) occupata
dagli alleati e in una zona B tenuta dagli jugoslavi.
La situazione dell'Istria tra il 1945 e il 1954
Solo nell'ottobre 1954, dopo momenti di forte tensione fra Italia e Jugoslavia, si giunse a una spartizione di fatto, che sanciva il controllo jugoslavo sulla zona B e il passaggio dall'amministrazione alleata a quella italiana della zona A, ossia di Trieste, che veniva così riunita all'Italia.
Il tempo delle scelte
Il varo della Costituzione repubblicana fu l'ultima manifestazione
significativa della collaborazione tra le forze antifasciste.
Dall'inizio del '48, i partiti si impegnarono in una gara sempre più accanita in
vista delle elezioni politiche, convocate per il 18 aprile di quell'anno, che
avrebbero dato alla Repubblica il suo primo Parlamento.
Caratteristica di questa campagna elettorale fu la polarizzazione fra due
schieramenti contrapposti: quello governativo, guidato dalla Dc e comprendente
anche i partiti laici minori (liberali, socialdemocratici e repubblicani); e
quello di opposizione, in cui Psi e Pci si presentavano uniti sotto l'insegna
del Fronte popolare.
La campagna elettorale
Nella sua campagna elettorale il partito di De Gasperi poté giovarsi
dell'aiuto di due potenti alleati. La Chiesa, a cominciare dal pontefice Pio XII,
si impegnò in una vera crociata anticomunista e mobilitò tutte le sue
organizzazioni in una propaganda spesso grossolana, ma indubbiamente efficace, a
sostegno della Dc. Decisivo fu anche l'appoggio degli Stati Uniti, che consentì
ai democristiani di presentarsi come i più accreditati rappresentanti della
massima potenza mondiale e di agitare la concreta minaccia di una sospensione
degli aiuti del piano Marshall in caso di vittoria delle sinistre.
Socialisti e comunisti risposero facendo appello ai lavoratori e insistendo sui
toni democratici e populisti (il ritratto di Garibaldi fu scelto come
contrassegno delle liste del Fronte) rispetto a quelli classisti e
rivoluzionari. Ma la loro propaganda fu fortemente danneggiata da una stretta
adesione alla causa dell'Urss e alla politica estera di Stalin, in un momento in
cui l'immagine del comunismo sovietico era inevitabilmente associata a quanto
stava accadendo nell'Europa dell'Est, in particolare in Cecoslovacchia.
Giocavano invece a favore della Dc le prospettive di sviluppo e di benessere,
associate nella stessa mentalità popolare al legame cogli Stati Uniti, la paura
di mutamenti radicali, il tradizionale ossequio alla Chiesa di Roma.
La vittoria della Dc
Le elezioni si risolsero così in un travolgente successo del partito
cattolico, che ottenne il 48,5% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi
alla Camera, attirando sulle sue liste i suffragi dell'elettorato moderato.
Bruciante fu la sconfitta di socialisti e comunisti, che uniti ottennero il 31%
contro il 40% del 1946. Il peso della sconfitta ricadeva per intero sul Psi, che
vedeva più che dimezzata la sua rappresentanza parlamentare e pagava così
l'allineamento sulle posizioni del Pci.
Cadevano le speranze della sinistra di guidare la trasformazione della società,
mentre si rafforzava l'egemonia del partito cattolico, già delineatasi con
l'avvento al governo di De Gasperi e ora sancita in modo inequivocabile dal
responso delle urne.
L'attentato a Togliatti
La delusione dei militanti di sinistra per questo risultato si
espresse tre mesi dopo le elezioni, quando uno studente di destra sparò al
segretario comunista Togliatti e lo ferì gravemente. Alla notizia
dell'attentato, in tutte le principali città, militanti dei partiti di sinistra
scesero in piazza, scontrandosi con le forze dell'ordine. L'agitazione si esaurì
in pochi giorni, anche per il comportamento prudente dei dirigenti comunisti. Ma
le tensioni nel paese risultarono ulteriormente esasperate.
Un'altra conseguenza delle giornate del luglio '48 fu la rottura all'interno
della Cgil (Confederazione generale italiana del lavoro), che era stata
ricostituita nel 1944 su basi unitarie. La decisione della maggioranza
social-comunista del sindacato di proclamare uno sciopero generale per protesta
contro l'attentato a Togliatti fornì infatti alla componente cattolica
l'occasione per dar vita a una nuova confederazione, la Cisl (Confederazione
italiana sindacati lavoratori).
Pochi mesi dopo anche i sindacalisti repubblicani e socialdemocratici
abbandonarono la Cgil, fondando una terza organizzazione, la Uil (Unioni
italiana del lavoro).
Le scelte di politica economica
Con le elezioni del 18 aprile '48, gli elettori italiani non solo
scelsero il partito che avrebbe governato il paese negli anni a venire, ma si
espressero anche in favore di un sistema economico e di una collocazione
internazionale.
Sul terreno della politica economica, i governi dell'immediato dopoguerra non
introdussero riforme strutturali di rilievo: anche perché la corrente di
pensiero dominante vedeva nella pianificazione economica un prodotto dei regimi
autoritari. I partiti di sinistra, finché restarono al governo, si limitarono
sostanzialmente a un'azione di difesa dei salari e dell'occupazione. Anche
questa linea di resistenza cadde però con l'estromissione delle sinistre dal
governo e la formazione del nuovo gabinetto De Gasperi, in cui il ministero del
Bilancio era tenuto dall'economista liberale Luigi Einaudi.
Mentre le sinistre si impegnavano in un'impopolare battaglia contro il piano
Marshall, Einaudi attuò una manovra economica che aveva come scopi principali la
fine dell'inflazione, il ritorno alla stabilità monetaria e il risanamento del
bilancio statale. Nel complesso, la "linea Einaudi" ottenne i risultati che si
era prefissa: la lira recuperò potere d'acquisto, i capitali esportati
rientrarono in Italia (soprattutto dopo le elezioni del '48), i ceti medi
risparmiatori riacquistarono fiducia, gli stessi salariati si giovarono del calo
dei prezzi.
L'operazione ebbe forti costi sociali, soprattutto sul versante della
disoccupazione. Ma la durezza dello scontro che segnò questi anni non impedì al
paese di trovare lo slancio necessario per una ricostruzione più rapida del
previsto: nel 1950 furono infatti raggiunti i livelli produttivi
dell'anteguerra.
L'adesione alla Nato
L'adozione di un modello di sviluppo fondato sull'iniziativa
privata, sia pur corretta dall'intervento pubblico, era anche il risultato di
una crescente integrazione con le economie dell'Occidente capitalistico. E
questa scelta non poteva non riflettersi sulla collocazione internazionale del
paese.
Per una nazione sconfitta, priva di adeguata forza militare, il problema
capitale era infatti quello della scelta di campo fra i due blocchi che si
fronteggiavano in Europa. Così, quando, alla fine del '48, furono gettate le
basi per il Patto atlantico, il governo italiano, per volontà soprattutto di De
Gasperi e del ministro degli Esteri Sforza, decise di accettare la proposta di
adesione che era stata rivolta all'Italia, nonostante l'opposizione di
socialisti e comunisti e le perplessità di una parte del mondo cattolico.
L'adesione al Patto atlantico fu approvata dal Parlamento, dopo un acceso
dibattito, nel marzo 1949. Col passare degli anni, la scelta sarebbe stata
accettata anche da molte delle forze che l'avevano inizialmente contestata e
sarebbe rimasta un punto fermo della politica estera italiana.
De Gasperi e il centrismo
I governi De Gasperi
I cinque anni della prima legislatura repubblicana (1948-53) segnarono il
periodo di massima egemonia della Democrazia cristiana sulla vita politica
nazionale.
Nonostante potesse contare sulla maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, la
Dc mantenne l'alleanza coi partiti laici minori; appoggiò la candidatura alla
presidenza della Repubblica del liberale Luigi Einaudi, eletto nel maggio 1948;
associò ai suoi governi, sempre presieduti da De Gasperi, rappresentanti del Pli,
del Pri e del Psdi.
Fu questa la formula del centrismo, che vedeva una Dc molto forte occupare il
centro dello schieramento politico, lasciando fuori della maggioranza sia la
sinistra social-comunista, sia la destra monarchica e neofascista. Componente
essenziale della politica centrista era una moderata dose di riformismo che
conservasse al governo una rilevante quota di consenso popolare.
La riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno
Da questo punto di vista, l'iniziativa più importante fu la riforma agraria
del 1950, che prevedeva l'esproprio e il frazionamento di parte delle grandi
proprietà terriere in ampie aree geografiche del Mezzogiorno e delle isole e
anche del Centro-nord (il delta del Po e la Maremma). La riforma costituiva il
primo tentativo di profonda modifica dell'assetto fondiario mai attuato nella
storia dell'Italia unita e andava incontro alle attese delle masse rurali del
Centro-sud, protagoniste, ancora alla fine degli anni '40, di alcuni drammatici
episodi di lotta per la terra.
Gli obiettivi a più lungo termine erano l'incremento della piccola impresa
agricola e il rafforzamento del ceto dei contadini indipendenti,
tradizionalmente considerato un fattore di stabilità sociale. Questi obiettivi
si sarebbero però rivelati illusori. E la riforma non servì a contenere quel
fenomeno di migrazione dalle campagne che, cominciato all'inizio degli anni '50,
avrebbe assunto proporzioni imponenti alla fine del decennio.
Nell'agosto 1950, contemporaneamente alla riforma agraria, fu varata un'altra
legge importante: quella che istituiva la Cassa per il Mezzogiorno, un nuovo
ente pubblico che aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo economico e civile
delle regioni meridionali attraverso il finanziamento statale per le
infrastrutture (strade, acquedotti, centrali elettriche) e il credito agevolato
alle industrie localizzate nelle aree depresse. Un intervento che ebbe indubbi
effetti positivi sull'economia meridionale e sul tenore di vita della
popolazione, anche se non bastò a mettere in moto un autonomo processo di
modernizzazione al livello della società civile.
Le resistenze della destra e l'opposizione delle sinistre
Le riforme varate dai governi centristi – accanto a quelle già citate si
devono ricordare la legge Fanfani sul finanziamento alle case popolari e la
riforma tributaria Vanoni, che introduceva per la prima volta l'obbligo della
dichiarazione annuale dei redditi – furono fortemente avversate dalla destra:
gli stessi liberali si ritirarono dal governo nel '50 in quanto contrari alla
riforma agraria.
D'altro canto le sinistre continuarono a condurre contro i governi De Gasperi
un'opposizione dura, motivata anche dallo stato di disagio in cui ancora
versavano le classi lavoratrici.
Nonostante la forte ripresa produttiva iniziata nei primi anni '50, la
disoccupazione si mantenne su livelli elevati e i salari restarono bassi. I
partiti di sinistra e la Cgil reagirono mobilitando le masse operaie in una
serie di scioperi e manifestazioni, che spesso si concludevano in scontri con le
forze dell'ordine. A sua volta, il governo intensificò l'uso dei mezzi
repressivi.
La «Legge truffa»
Costretti a fronteggiare la pressione della sinistra e minacciati dalla
crescita della destra, De Gasperi e i suoi alleati tentarono, nell'imminenza
delle elezioni del '53, di rendere inattaccabile la coalizione centrista
attraverso una modifica dei meccanismi elettorali.
Il sistema scelto fu quello di assegnare il 65% dei seggi alla Camera a quel
gruppo di partiti "apparentati" (ossia uniti da una preventiva dichiarazione di
alleanza) che ottenesse almeno la metà più uno dei voti. Dal momento che né
l'opposizione di sinistra né quella di destra potevano aspirare a raggiungere un
simile risultato, il sistema sembrava costruito su misura per la maggioranza. Da
qui le violente polemiche che accompagnarono la discussione in Parlamento della
riforma elettorale, ribattezzata dalle sinistre «legge truffa».
La legge fu approvata nel marzo '53, dopo una durissima battaglia parlamentare.
Nelle elezioni che si tennero in giugno, però, la coalizione di governo fu
sorprendentemente sconfitta: sia la Dc sia i suoi alleati persero voti rispetto
al '48, mancando per poche decine di migliaia di voti l'obiettivo del 50%. Il
premio di maggioranza non scattò e dopo le elezioni la legge fu abrogata.
Sviluppo e riforme
Uscito di scena De Gasperi, che si dimise nel '53 e morì un anno dopo, i
successivi governi a guida democristiana continuarono ad appoggiarsi sulla ormai
esigua maggioranza centrista, rafforzata in qualche caso dall'apporto di voti
monarchici e neofascisti.
Frattanto, però, significative novità andavano maturando nelle istituzioni e nel
governo dell'economia. La crescita economica si consolidava. E si rafforzavano
di pari passo i legami con l'Europa più avanzata, che sarebbero poi stati
ribaditi, nel marzo 1957, dall'adesione italiana alla Comunità europea.
Nell'estate 1955 fu presentato in Parlamento il cosiddetto piano Vanoni (dal
nome dell'allora ministro del Bilancio), che indicava fra gli obiettivi
prioritari della politica economica l'assorbimento della disoccupazione e la
cancellazione del divario fra Nord e Sud.
Un'altra novità importante di questi anni, sul piano delle istituzioni, fu
l'insediamento, nell'aprile '56, della Corte costituzionale.
Composta in parte da magistrati e in parte da membri nominati dal Parlamento e
dal presidente della Repubblica, la Corte avrebbe svolto una funzione importante
nell'adeguare la vecchia legislazione ai principi costituzionali e nel far
cadere alcune fra le norme più autoritarie varate in periodo fascista.
Due anni dopo si sarebbe insediato anche il Consiglio superiore della
magistratura, anch'esso previsto dalla Costituzione.
Verso nuovi equilibri
Cambiamenti importanti si registrarono anche nei principali partiti. Nella
Democrazia cristiana emergeva la nuova generazione cresciuta nell'Azione
cattolica degli anni '20 e '30, legata alle problematiche del cattolicesimo
sociale e favorevole all'intervento statale nell'economia.
Il principale esponente di questa generazione, Amintore Fanfani, divenuto
segretario nel 1954, cercò di rafforzare la struttura organizzativa del partito
e di svincolarlo dai condizionamenti dell'industria privata, collegandolo più
strettamente all'industria di Stato: in particolare all'Eni (Ente nazionale
idrocarburi, azienda pubblica attiva nel settore del petrolio e dei gas
naturali) di Enrico Mattei, un abile e dinamico manager che esercitò in questi
anni una notevole influenza sul mondo politico.
Soprattutto dopo le elezioni presidenziali del 1955 – che videro la vittoria di
Giovanni Gronchi, democristiano di sinistra, votato anche da socialisti e
comunisti – si manifestò nel partito una nuova attenzione a quanto stava
cambiando nella sinistra.
Un passaggio importante verso nuovi equilibri fu rappresentato dalle
ripercussioni dei fatti d'Ungheria del 1956. Mentre il Pci approvò l'intervento
sovietico, il Psi lo condannò. Fu Pietro Nenni a guidare la svolta autonomista,
con cui il Psi si rendeva disponibile a una collaborazione con la Dc e i partiti
laici.
Si creavano così le premesse politiche per una apertura a sinistra. Né mancavano
i margini economici per una politica di riforme, dato che il paese stava
cominciando a vivere il più rapido boom industriale della sua storia.
Il miracolo economico
Il boom industriale
Già dall'inizio degli anni '50, una volta esaurite le urgenze della
ricostruzione, l'economia italiana aveva cominciato a crescere a ritmi mai
conosciuti in passato.
Questo processo giunse al culmine fra il 1958 e il 1963: gli anni del «miracolo
economico», in cui l'Italia, con un tasso di sviluppo inferiore in Europa solo a
quello tedesco, ridusse significativamente il divario che la separava dalla
maggior parte dei paesi industrializzati. Il prodotto interno lordo, che fra il
'51 e il '58 era cresciuto a un tasso medio annuo del 5,3%, nel quinquennio
successivo progredì ulteriormente a un ritmo del 6,5%. Fra il '51 e il '63, il
prodotto pro capite crebbe mediamente del 5,8% all'anno.
Lo sviluppo interessò soprattutto l'industria manifatturiera, che nel '61 giunse
a triplicare la sua produzione rispetto al periodo prebellico: un incremento
particolarmente significativo si verificò nei settori siderurgico, meccanico e
chimico, dove più ampio fu il rinnovamento degli impianti e delle tecnologie.
La crescita industriale fu alimentata dallo sviluppo delle esportazioni,
soprattutto nei settori degli elettrodomestici e dell'abbigliamento.
La diffusione dei prodotti italiani, la solidità della lira, la stabilità dei
prezzi, ma anche alcuni eventi extraeconomici, come il successo organizzativo
delle Olimpiadi di Roma nel 1960 o le celebrazioni del centenario dell'unità nel
1961, improntati a un generale ottimismo circa l'avvenire del paese: tutto
contribuiva a rafforzare l'immagine di un'Italia ormai avviata verso nuove
prospettive di benessere.
I fattori del miracolo
Molti furono i fattori all'origine del miracolo: innanzitutto l'Italia poté
inserirsi nella fase di crescita delle economie occidentali; contarono poi la
politica di libero scambio avviata negli anni '50, la modesta entità del
prelievo fiscale e, soprattutto, lo scarto fra l'aumento della produttività e il
basso livello dei salari che consentì alti profitti e tassi di investimento
molto elevati.
La compressione salariale era il risultato di una larga disponibilità di
manodopera a basso costo, dovuta, a sua volta, al costante flusso migratorio
dalle zone depresse a quelle più progredite. L'agricoltura, che nel '51
assorbiva ancora quasi il 45% degli occupati, passava dieci anni dopo al 30% (e
la percentuale sarebbe scesa ulteriormente negli anni successivi). Nello stesso
periodo l'industria saliva dal 29 al 37% e i servizi dal 27 al 32%. Fu allora
che, anche sotto questo aspetto, l'Italia divenne un paese industriale.
Una battuta d'arresto
La crescita economica, favorita all'inizio dal basso livello delle
retribuzioni, si accompagnò, nella sua fase più intensa, a un netto
miglioramento delle condizioni dei lavoratori.
Il calo della disoccupazione, conseguenza dello stesso sviluppo industriale,
accrebbe la capacità contrattuale dei sindacati, che riuscirono a ottenere
notevoli miglioramenti salariali. Questi aumenti, necessari anche per sviluppare
il mercato interno, ebbero però l'effetto di ridurre i margini di profitto e di
mettere in moto un processo inflazionistico. Così, nel 1963-64, il miracolo
italiano conobbe una battuta d'arresto.
La crescita riprese a partire dal '66, anche se a ritmi più lenti.
Migrazioni e urbanizzazione
Negli anni del boom, la società italiana subì una serie di profonde
trasformazioni, che cambiarono il volto del paese e le abitudini dei suoi
cittadini forse più di quanto non fosse avvenuto nei precedenti cent'anni di
storia unitaria. Col «miracolo economico» l'Italia si lasciò alle spalle le
strutture e i valori della società contadina ed entrò nella civiltà dei consumi.
Vi entrò disordinatamente, senza aver superato i suoi storici squilibri
territoriali, che anzi nell'immediato apparvero aggravati.
Il fenomeno più importante e più vistoso di questi anni fu il massiccio esodo
dal Sud verso il Nord e dalle campagne verso le città. Fra il '51 e il '61,
circa 2 milioni di persone abbandonarono il Mezzogiorno.
In tutto il paese il ceto dei coltivatori diretti subì una drastica riduzione,
mentre aumentavano la piccola borghesia urbana e la classe operaia. Sempre fra
il '51 e il '61, la popolazione residente in città con più di 300 mila abitanti
passò da 6.847.000 a 9.190.000. La popolazione di Milano crebbe del 22%, quella
di Roma del 27%, quella di Torino (sede della maggior industria nazionale, la
Fiat) di circa il 40%. La crescita delle città, anche di quelle non industriali,
si accompagnò fra il '51 e il '63 a un fortissimo incremento dell'occupazione
nei settori del commercio (+100%) e dell'edilizia (+84%). Nello stesso periodo
l'occupazione nell'industria manifatturiera aumentò del 40%.
I costi della modernizzazione
Le grandi migrazioni interne e la rapida urbanizzazione erano indubbiamente
il segno di un progresso economico del paese: l'emigrazione verso l'estero,
ancora molto elevata per tutti gli anni '50, si ridusse fino a scomparire, i
livelli di istruzione migliorarono significativamente e la dieta degli italiani
divenne più ricca, soprattutto per quanto riguardava il consumo di carne.
Ma i costi umani e sociali furono pesanti. L'espansione delle città avvenne
spesso in forme caotiche, senza un adeguato intervento dei poteri pubblici. Il
difficile inserimento degli immigrati meridionali nelle grandi città industriali
mise in evidenza il divario – che investiva anche i modi di vita e i modelli
culturali – fra il Nord e il Sud del paese.
Tuttavia, in quegli stessi anni, le differenze nei comportamenti sociali
cominciarono ad attenuarsi: ebbe inizio un processo di integrazione legato alle
comuni esperienze lavorative, ma favorito anche, per le generazioni più giovani,
dalla scolarizzazione e, per l'insieme della popolazione, dalla diffusione di
alcuni consumi di massa.
Televisione e automobile
La televisione e l'automobile furono gli strumenti e i simboli principali di
questo cambiamento. I primi apparecchi televisivi entrarono nelle case degli
italiani a partire dal 1954, con l'inizio di regolari trasmissioni da parte
della Rai, l'ente di Stato che già deteneva il monopolio dell'emittenza
radiofonica. Ma il boom della televisione cominciò alla fine del decennio, in
coincidenza col «miracolo economico»: nel 1955 c'erano 4 apparecchi ogni 1000
abitanti, nel '60 43, nel '65 117.
La televisione non era solo un nuovo e pervasivo mezzo di svago: era anche un
veicolo attraverso cui passavano una lingua comune (la lingua nazionale, che
solo in questi anni si affermò nell'uso parlato, a scapito dei dialetti) e nuovi
modelli culturali di massa.
Anche il boom della motorizzazione privata cominciò nella seconda metà degli
anni '50; e coincise col grande successo delle nuove utilitarie prodotte dalla
Fiat: la Seicento e la Cinquecento. Dalle 18 automobili ogni 1000 abitanti del
1955 si passò alle 105 di dieci anni dopo.
L'espansione dell'industria automobilistica nazionale fu incoraggiata anche
dallo Stato, attraverso la costruzione di una grande rete autostradale che
sarebbe stata completata a metà degli anni '70.
Il centro-sinistra
La crisi Tambroni
Nella primavera 1960 il democristiano Fernando Tambroni formò un governo
"monocolore" formato solo da ministri Dc, con l'appoggio determinante del
Movimento sociale.
Quando, alla fine di giugno, il governo autorizzò il Msi a tenere il suo
congresso nazionale a Genova, città di tradizioni antifasciste, la decisione fu
interpretata come un prezzo pagato per l'appoggio parlamentare dei neofascisti e
suscitò un'autentica rivolta cittadina: per tre giorni (30 giugno-2 luglio 1960)
operai e militanti di sinistra si scontrarono con la polizia. Alla fine il
governo cedette e il congresso fu rinviato. Ma altre manifestazioni in molte
città, fra cui Roma, furono represse duramente, provocando una decina di morti
(cinque nella sola Reggio Emilia).
In un clima di sollevazione dell'opinione pubblica di sinistra, Tambroni fu
sconfessato dalla stessa Dc e costretto a dimettersi. Con lui cadde ogni ipotesi
di governo appoggiato dall'estrema destra.
I governi Fanfani e le riforme
Per superare la crisi, fu formato, nell'agosto '60, un nuovo governo
monocolore presieduto da Fanfani, che ottenne l'astensione dei socialisti nel
voto di fiducia in Parlamento, aprendo così la stagione politica del
centro-sinistra. La svolta fu sancita dal congresso della Dc, nel gennaio '62,
grazie alla regia del segretario Aldo Moro, che riuscì a far accettare la scelta
al grosso del suo partito.
Un nuovo governo Fanfani, formatosi nel marzo '62 e composto da Dc, Pri e Psdi,
si presentò con un programma concordato col Psi.
Fu proprio in questa fase (in cui i socialisti non facevano ancora parte del
governo) che la politica di centro-sinistra conseguì i risultati più avanzati.
Il programma prevedeva infatti la realizzazione della scuola media unificata
(con l'abolizione degli istituti di avviamento professionale, destinati a coloro
che non avevano la possibilità di proseguire gli studi), l'attuazione
dell'ordinamento regionale previsto dalla Costituzione e la nazionalizzazione
dell'industria elettrica.
Queste due ultime riforme si inquadravano nel tentativo di dare avvio a una
programmazione economica: un disegno che mirava a potenziare gli strumenti
dell'intervento statale sull'economia, al fine di ridurre gli squilibri della
società italiana.
La nazionalizzazione dell'industria elettrica fu portata a compimento, nel
novembre 1962, con la creazione dell'Ente nazionale per l'energia elettrica
(Enel).
Nel dicembre 1962 fu approvata la legge che istituiva la scuola media unica.
L'attuazione delle regioni, temuta dalla Dc perché avrebbe rafforzato le
sinistre al livello del potere locale, fu rinviata. Quanto alla politica di
programmazione, essa non riuscì mai a tradursi compiutamente in pratica e rimase
il simbolo più evidente dell'utopia riformatrice del primo centro-sinistra.
Moro e il centro-sinistra «organico»
I contrasti nella maggioranza furono esasperati dall'esito delle elezioni
dell'aprile '63. La perdita di voti della Dc e del Psi, il successo dei
liberali, che si erano opposti all'apertura a sinistra, e il rafforzamento dei
comunisti accentuarono le divisioni interne e le resistenze nella Dc e nel Psi.
Un governo "organico" di centro-sinistra (cioè con la partecipazione di ministri
socialisti accanto a quelli democristiani, socialdemocratici e repubblicani) si
formò solo nel dicembre 1963 sotto la presidenza di Moro e nacque su basi più
moderate rispetto al precedente governo Fanfani.
Da allora il processo riformatore rimase bloccato per diversi anni, anche per il
manifestarsi dei primi segni di rallentamento dello sviluppo. Inoltre, si faceva
sentire il peso delle forze ostili al centro-sinistra, che annoveravano tra le
loro file, oltre alla destra economica, anche le alte gerarchie militari e lo
stesso presidente della Repubblica, il democristiano Antonio Segni. Ma gli
ostacoli venivano anche dall'interno della coalizione governativa, in
particolare dall'esigenza della Dc di tranquillizzare la sua base moderata.
Le divisioni nella sinistra
Se la Dc riuscì in questo modo a mantenere la sua unità, il Psi pagò la
partecipazione al governo con una nuova scissione: nel gennaio 1964 la minoranza
di sinistra, che si opponeva alla scelta governativa, diede vita al Partito
socialista di unità proletaria (Psiup). Una perdita solo in parte compensata
dalla riunificazione col Psdi (ottobre 1966), che peraltro durò poco: i due
partiti si sarebbero nuovamente separati tre anni dopo, in seguito all'esito
deludente delle elezioni del 1968.
All'indebolimento dei socialisti faceva riscontro la lenta ma regolare crescita
del Pci. Nell'agosto 1964 Togliatti morì durante un soggiorno in Urss. I suoi
funerali, che si tennero a Roma, furono un esempio emblematico del largo seguito
di un partito che, con oltre il 25% dei voti, restava tuttavia in una posizione
di marcato isolamento. Un isolamento non attenuato dal contributo determinante
dei voti comunisti all'elezione alla presidenza della Repubblica del leader
socialdemocratico Giuseppe Saragat, nel dicembre '64.
Nonostante le difficoltà incontrate fin dai suoi esordi, la formula di
centro-sinistra sarebbe durata, con fasi alterne e interruzioni, per oltre un
decennio. Progressivamente, però, si sarebbe esaurita, rivelandosi inadeguata a
fronteggiare i problemi di una società sempre più articolata e percorsa da
un'elevata conflittualità politica e sindacale.
Il movimento studentesco
La fine degli anni '60 fu infatti caratterizzata da una radicalizzazione
dello scontro sociale che ebbe come protagonisti prima gli studenti, poi la
classe operaia.
La mobilitazione degli studenti universitari, iniziata nel '67 e cresciuta nei
primi mesi del '68, portò all'occupazione di numerose facoltà universitarie, a
grandi manifestazioni di piazza e a frequenti scontri con le forze dell'ordine.
La contestazione giovanile, mentre riprendeva temi e obiettivi già presenti
negli altri movimenti studenteschi dei paesi occidentali (l'anti-imperialismo e
la protesta contro la guerra del Vietnam, l'antiautoritarismo e l'avversione
alla civiltà dei consumi), si caratterizzò in Italia per una forte
ideologizzazione in senso marxista. E, a partire dall'autunno '68, individuò il
suo interlocutore privilegiato nella classe operaia.
L'operaismo fu anche il tratto distintivo di alcuni fra i nuovi gruppi politici
(tutti destinati a vita breve) che nacquero fra il '68 e il '70 sull'onda del
movimento studentesco e che, per sottolineare il distacco dai partiti
tradizionali rappresentati in Parlamento, furono chiamati «extraparlamentari»:
Potere operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia.
Caratteristiche ideologiche diverse ebbe invece l'Unione dei marxisti-leninisti,
che si ispirava all'esperienza della Cina di Mao e della rivoluzione culturale.
L'«autunno caldo» e i sindacati
La riscoperta della centralità operaia da parte del movimento degli studenti
coincise con un'intensa stagione di lotte dei lavoratori dell'industria,
iniziata nei primi mesi del '69 e culminata, alla fine di quell'anno, nel
cosiddetto «autunno caldo».
Avviatesi in modo spontaneo in alcune grandi fabbriche del Nord, le lotte si
caratterizzarono per l'elevato grado di partecipazione e per la radicalità delle
richieste, incentrate sull'egualitarismo (contro le disparità salariali legate
alle differenti tipologie e qualifiche degli operai e alla diversa collocazione
geografica delle imprese) e sulla messa in discussione dell'organizzazione e dei
ritmi del lavoro in fabbrica.
Per quanto colte di sorpresa dal movimento, le tre maggiori organizzazioni
sindacali (Cgil, Cisl, Uil) riuscirono a prendere in mano la direzione delle
lotte e a pilotarle verso la conclusione di una serie di contratti nazionali che
assicurarono ai lavoratori dell'industria cospicui vantaggi salariali.
Cominciò allora una fase in cui i sindacati assunsero un peso crescente nella
vita del paese, trattando direttamente col governo anche questioni non strettamente attinenti ai rapporti di lavoro (fisco, pensioni, sanità, tariffe
pubbliche).
Il nuovo peso delle organizzazioni sindacali fu sancito dal varo, nella
primavera del 1970, dello Statuto dei lavoratori: una serie di norme che
garantivano le libertà sindacali e i diritti dei lavoratori all'interno delle
aziende.
Le regioni e il divorzio
Di fronte alle lotte degli studenti e degli operai, la classe dirigente non
riuscì a esprimere un coerente disegno riformatore. Furono tuttavia varate in
questo periodo alcune leggi importanti, destinate a incidere profondamente nelle
istituzioni e nella società.
Oltre allo Statuto dei lavoratori, furono approvati i provvedimenti relativi
all'istituzione delle regioni e, nel giugno 1970, si tennero le prime elezioni
regionali.
Nel dicembre dello stesso anno, con l'appoggio delle sinistre e dei partiti
laici e nonostante l'opposizione della Dc, fu approvata in Parlamento la legge
Fortuna-Baslini che introduceva in Italia l'istituto del divorzio.
Violenza politica e crisi economica
La strage di piazza Fontana
Il 12 dicembre 1969, in pieno «autunno caldo», una bomba esplosa a Milano, in
Piazza Fontana, nella sede della Banca nazionale dell'agricoltura, provocò 17
morti e oltre 100 feriti. Un evento traumatico e inatteso che aprì per l'Italia
una lunga stagione di violenze e di attentati, dalla dinamica spesso oscura.
L'opinione pubblica e la stampa di sinistra individuarono nell'estrema destra
fascista la matrice politica della strage e denunciarono le responsabilità dei
servizi di sicurezza nel deviare le indagini verso un'improbabile «pista
anarchica».
Si parlò allora di una «strategia della tensione» messa in atto dalla destra
eversiva per incrinare le basi dello Stato democratico e favorire soluzioni
autoritarie. La conferma dei pericoli corsi dalle istituzioni venne, nell'estate
1970, dalla rivolta di Reggio Calabria, che vide un'intera città, esasperata per
non essere stata designata come capoluogo dell'appena istituita regione,
esplodere in una serie di violente dimostrazioni guidate da esponenti del
Movimento sociale.
Difficoltà politiche e scandali
L'impotenza dimostrata, in questa come in altre occasioni, dai poteri
pubblici rifletteva anche profonde divisioni all'interno dello schieramento di
governo. Mentre ampi settori della Dc e del Psdi tendevano a farsi interpreti di
un'opinione pubblica moderata (la cosiddetta "maggioranza silenziosa")
spaventata dalle agitazioni operaie e studentesche e a spostare dunque verso
destra l'asse politico della maggioranza, il Psi mirava apertamente al
coinvolgimento del Pci nelle responsabilità di governo.
Dopo le elezioni politiche anticipate del maggio 1972, si tentò il ritorno alla
formula centrista (Dc, Psdi e Pli), con il governo guidato da Giulio Andreotti.
Ma l'esperimento ebbe breve durata.
Intanto, la situazione economica tornava preoccupante, soprattutto per le
conseguenze della crisi petrolifera, che provocò, in Italia come altrove, un
calo della produzione industriale e l'avvio di un processo inflazionistico.
A tutto questo si aggiungeva un crescente disagio morale, provocato da una serie
di scandali in cui furono coinvolti numerosi esponenti dei partiti di governo,
messi sotto accusa per aver riscosso tangenti destinate a finanziare i
rispettivi partiti. La rapida adozione, nell'aprile 1974, di una legge sul
finanziamento pubblico dei partiti non servì a sanare la frattura che si andava
allargando tra società politica e società civile.
Il referendum sul divorzio
Mentre cresceva la sfiducia nella classe politica, si accentuava l'impegno
dei cittadini sul terreno dei diritti civili. Quando, nel 1974, la nuova legge
sul divorzio fu sottoposta a referendum abrogativo per iniziativa di gruppi
cattolici appoggiati dalla Dc e dal Msi, si assistette a una grande
mobilitazione che era appoggiata dalle forze laiche (in particolare dal piccolo
Partito radicale di Marco Pannella), ma che non sempre seguiva i canali
partitici.
Il netto successo dei divorzisti – nel referendum, che si tenne in maggio, i no
all'abrogazione della legge furono quasi il 60% – mostrò chiaramente che la
società italiana era cambiata e che il peso della Chiesa come guida della vita
privata dell'individuo era fortemente ridimensionato.
Questi mutamenti trovarono ulteriore riscontro in due leggi del 1975: la riforma
del diritto di famiglia, che sanciva la parità giuridica fra i coniugi; e
l'abbassamento della maggiore età (cui era legato il diritto di voto) da ventuno
a diciotto anni.
Tre anni più tardi (giugno '78), dopo un lungo e acceso dibattito che vide
ancora una volta la Dc opporsi alle sinistre e ai partiti laici, il Parlamento
approvò una nuova legge sull'aborto, che legalizzava e disciplinava
l'interruzione volontaria della gravidanza.
Berlinguer e il «compromesso storico»
A cogliere i frutti politici di questa stagione fu soprattutto il Pci, che
già nel '68 aveva dato di sé un'immagine diversa da quella tradizionale con la
condanna dell'intervento sovietico in Cecoslovacchia. Nel 1973, il segretario,
Enrico Berlinguer, sostenne la necessità di giungere a un «compromesso storico»,
ossia a un accordo di lungo periodo tra le forze comuniste, socialiste e
cattoliche (compresa dunque la Dc), come unica via per scongiurare i rischi nel
paese di soluzioni autoritarie e per allargare le basi dell'azione riformatrice.
In seguito il Pci stabilì contatti con i comunisti francesi e spagnoli per
avviare una politica comune in Europa occidentale, con connotati diversi da
quelli del comunismo sovietico (si parlò allora di eurocomunismo). Il carattere
moderato e rassicurante della proposta di Berlinguer, unito alla persistente
"diversità" che derivava dalle origini rivoluzionarie del partito (e che fin
allora aveva rappresentato un limite alla sua espansione), fecero del Pci, in
questa fase, il punto di convergenza delle istanze di trasformazione della
società italiana. Lo si vide nelle elezioni regionali e locali del giugno 1975
(le prime cui parteciparono i diciottenni) e poi nelle politiche del 1976, dove
il Pci toccò il suo massimo storico (34,4%), avvicinandosi alle percentuali
della Dc (38,7), mentre il Psi restò sotto il 10%.
La sconfitta dei socialisti portò alla crisi del vecchio gruppo dirigente e
all'ascesa alla segreteria di Bettino Craxi, leader della corrente autonomista.
Terrorismo e «solidarietà nazionale»
L'emergenza-terrorismo
L'esito delle elezioni del giugno 1976 lasciava aperto il problema di una
nuova formula di governo. Visto che i socialisti non erano disponibili a una
riedizione del centro-sinistra, l'unica soluzione praticabile stava in un
coinvolgimento del Pci nella maggioranza. Si giunse così, in agosto, alla
costituzione di un governo monocolore democristiano guidato da Andreotti, che
ottenne l'astensione in Parlamento di tutti gli altri partiti, esclusi il Msi e
i radicali. Cominciava così la breve stagione dei governi di «solidarietà
nazionale», basati cioè su maggioranze allargate anche al Pci: una risposta
unitaria della classe politica a una situazione resa sempre più preoccupante
dalla crisi economica e soprattutto dal dilatarsi del fenomeno terrorista, ora
anche di sinistra.
Opposti nella loro matrice ideologica, i due terrorismi, quello nero (di destra)
e quello rosso (di sinistra), erano diversi anche nel modo di operare.
Il terrorismo di destra
Il tratto distintivo del terrorismo di destra fu il ricorso ad attentati
dinamitardi in luoghi pubblici, che provocavano stragi indiscriminate, col
probabile scopo di diffondere il panico nel paese e di favorire una svolta
autoritaria. Dopo la strage di Piazza Fontana, vi furono le bombe in Piazza
della Loggia a Brescia nel maggio '74. Sei anni dopo, l'attentato più terribile
e per molti aspetti inspiegabile: quello del 2 agosto 1980 alla stazione di
Bologna, con oltre 80 morti.
La convinzione di larga parte dell'opinione pubblica, che attribuì le stragi a
esponenti della destra eversiva, con la complicità di elementi dei servizi
segreti, pur confortata da molti riscontri investigativi, non trovò, nella
maggior parte dei casi, la conferma della magistratura giudicante.
Restava la responsabilità del potere politico per non aver saputo indirizzare
l'azione dei servizi di sicurezza e di non aver posto rimedio alle loro
inefficienza o alle loro deviazioni dai compiti istituzionali.
Il terrorismo di sinistra
L'immagine di uno Stato debole e minato dalla corruzione politica, la
presenza di un terrorismo di destra e la psicosi di un colpo di Stato (che
alimentava in alcuni settori la giustificazione di una risposta violenta) furono
tra i fattori che contribuirono alla nascita del terrorismo di sinistra.
In realtà, il principio della "lotta armata" come strumento per conquistare il
potere era da tempo un elemento portante di tutte le ideologie rivoluzionarie
che il movimento del '68 aveva contribuito a mitizzare e a divulgare. Ma allora
per la prima volta – anche per la suggestione dei modelli della guerriglia
latino-americana e del terrorismo palestinese – si formarono nuclei organizzati
pronti a passare dalle parole ai fatti.
Per i terroristi – in gran parte giovani o giovanissimi provenienti per lo più
dalla militanza nelle file del movimento studentesco, dei gruppi
extraparlamentari e degli stessi partiti della sinistra storica – l'azione
armata si presentava come un atto esemplare, destinato essenzialmente alla
classe operaia, al fine di mobilitarla per il rovesciamento del sistema
capitalistico e dello Stato borghese.
Ai primi isolati attentati incendiari contro fabbriche o sedi di partito,
seguirono, fra il '72 e il '75, sequestri di dirigenti industriali e di
magistrati. Nel 1976, con l'uccisione del procuratore generale di Genova
Francesco Coco e dei due uomini della sua scorta, si giunse all'assassinio
programmato. Gli autori di queste azioni appartenevano alle Brigate rosse, il
primo e il più pericoloso gruppo terrorista di sinistra. A esso si affiancarono,
fra il '75 e il '76, i Nuclei armati proletari e Prima linea.
Crisi e inflazione
Negli stessi anni in cui doveva fronteggiare il salto di qualità compiuto dal terrorismo di sinistra, il governo si confrontò con la crisi economica. Nel 1975 il prodotto interno si ridusse del 3,6%. A partire dall'anno successivo si ebbe una limitata ripresa, ma il tasso di inflazione rimase molto elevato, oscillando fra il 17 e il 19% (tra i più alti dei paesi industrializzati). L'inflazione era dovuta all'aumento del prezzo del petrolio, ma anche alla dilatazione dei consumi e alla crescita della spesa pubblica.
Il movimento del '77
Nei primi mesi del 1977, un nuovo movimento di studenti universitari e medi
diede luogo a occupazioni di università e a violenti scontri di piazza, che
videro per la prima volta l'uso frequente di armi da fuoco da parte dei
dimostranti. Protagonisti degli scontri furono i gruppi di Autonomia operaia,
che raccoglievano in forme estremizzate l'eredità dell'operaismo sessantottesco.
Bersaglio principale della contestazione fu la sinistra tradizionale,
soprattutto il Pci e i sindacati: clamorosa fu l'aggressione di un gruppo di
autonomi a un comizio del segretario della Cgil Luciano Lama, avvenuta in
febbraio all'Università di Roma. L'inevitabile riflusso del movimento spinse non
pochi giovani verso la scelta terrorista e fu probabilmente all'origine di una
brusca impennata del numero degli attentati (circa 800 nel solo 1979).
Il sequestro e l'assassinio di Moro
Nel 1978 le Brigate rosse, consapevoli di disporre di una più diffusa rete di
consensi, misero in atto il loro progetto più ambizioso. Il 16 marzo – il giorno
stesso della presentazione in Parlamento di un nuovo governo, un monocolore
democristiano sempre presieduto da Andreotti, ma questa volta sostenuto anche
dal voto favorevole del Pci – un commando brigatista rapì Aldo Moro, presidente
della Dc e principale artefice della politica di «solidarietà nazionale»,
uccidendo i cinque uomini della sua scorta.
A quella giornata, vissuta dal paese con sorpresa e sgomento, seguirono 55
giorni di attesa e di polemiche di fronte alla sofferta decisione del governo di
non trattare con i terroristi per il rilascio di Moro: decisione appoggiata dal
Pci e contrastata, per motivi politici e umanitari, dal Psi e da altri gruppi
minori della sinistra.
Il 9 maggio Moro fu ucciso e il suo cadavere abbandonato in una strada del
centro di Roma. Questo delitto evidenziò come nessun altro la gravità del
fenomeno terroristico, ma contemporaneamente avviò una progressiva presa di
distanza dall'area eversiva da parte di quanti avevano coltivato fin allora
ambigue solidarietà.
Austerità e riforme
Nel non facile clima politico creatosi dopo l'assassinio di Moro, il governo
cercò di avviare il risanamento dell'economia, aiutato in questo
dall'atteggiamento dei comunisti, che si fecero sostenitori di una linea di
austerità, e da una relativa moderazione delle richieste sindacali.
Nel '78 l'inflazione scese di qualche punto. La situazione finanziaria diede
segni di miglioramento, grazie all'adozione di nuove imposte. Ma, sul fronte
delle riforme, la difficoltà di conciliare tutti gli interessi rappresentati
nella coalizione portò a risultati discutibili.
La legge del '78 sull'equo canone, che aveva lo scopo di regolare il livello
degli affitti, avrebbe prodotto risultati disastrosi, creando un doppio mercato
degli alloggi, soprattutto nelle grandi città.
La riforma sanitaria varata nello stesso anno – che creava un Servizio sanitario
nazionale e sanciva la gratuità delle cure per tutti – si sarebbe rivelata,
nell'applicazione concreta, fonte di inefficienza e di sprechi.
La fine della «solidarietà nazionale»
Nel complesso la politica di solidarietà nazionale non produsse risultati
adeguati all'ampiezza delle forze impegnate e alle attese dell'opinione pubblica
di sinistra. In questi anni continuarono a verificarsi, soprattutto negli enti
locali e nelle imprese a partecipazione statale, episodi di cattiva gestione o
di vera e propria corruzione politica. Gli scandali giunsero a toccare la
presidenza della Repubblica, costringendo alle dimissioni, nel giugno 1978, il
capo dello Stato, il democristiano Giovanni Leone (eletto nel '71 da una
maggioranza di centro-destra), accusato ingiustamente di connivenze con gruppi
affaristici. Al suo posto fu eletto, col voto di tutti i partiti dell'arco
costituzionale, il socialista Sandro Pertini, ottantaduenne, figura di
indiscusso prestigio morale, che seppe conquistarsi in breve tempo una
vastissima popolarità.
Si andava frattanto esaurendo l'esperienza della «solidarietà nazionale». Il
nuovo corso impresso da Craxi alla politica socialista — centrato sul recupero
della tradizione riformista in aperta polemica col Pci — creava le condizioni
per una ripresa dell'alleanza fra il Psi e i partiti di centro.
Nel gennaio '79 il Pci, in contrasto con gli altri partiti anche su problemi di
politica estera ed economica, abbandonò la maggioranza.
Gli anni '80
Il declino dei partiti maggiori
I risultati delle elezioni del '79, e quelli delle successive consultazioni
del giugno'83, segnarono alcuni significativi mutamenti nel panorama politico.
Il Pci registrò una forte perdita di consensi. La Dc, stabile nel '79, subì una
netta sconfitta nelle elezioni dell'83. Il Psi, nonostante il dinamismo di Craxi
e del nuovo gruppo dirigente, raccolse risultati deludenti, comunque non
adeguati all'aspirazione a diventare il centro propulsore del sistema politico.
Chiusa la parentesi della solidarietà nazionale, l'unica strada praticabile fu
il ritorno alla coalizione di centro-sinistra (Dc, Psi, Pri, Psdi), allargata, a
partire dall'81, anche al Partito liberale. Ma la novità più importante non fu
tanto la formula di governo (definita «pentapartito»), quanto il fatto che, per
la prima volta dopo il 1945, la Dc cedette la guida del governo, affidata
nell'81-82 al segretario repubblicano Giovanni Spadolini e, dopo le elezioni
dell'83, al leader socialista Bettino Craxi. Una presidenza, quella di Craxi,
che si sarebbe caratterizzata per il tentativo di potenziare il ruolo
dell'esecutivo e di affermare una più incisiva presenza dell'Italia nella
politica internazionale.
Fra gli atti più significativi del governo Craxi, va ricordata la firma, nel
febbraio 1984, di un nuovo concordato con la Santa Sede, che ritoccava gli
accordi del '29 lasciandone cadere le clausole più anacronistiche.
Per la Dc la perdita della presidenza del Consiglio fu lo sbocco di una fase di
debolezza e di disorientamento seguita all'uccisione di Moro.
Anche per il Pci i primi anni '80 furono segnati dall'emergere di gravi
problemi, legati alla difficoltà di spingere a fondo il processo di revisione
ideologica e di elaborare una piattaforma programmatica più vicina a quella
delle socialdemocrazie europee.
Il ridimensionamento dei sindacati
All'inizio degli anni '80 si registrò un'altra profonda trasformazione degli
assetti politico-sociali, anch'essa legata al generale riflusso della spinta a
sinistra che aveva caratterizzato buona parte degli anni '70. Nell'autunno 1980
i sindacati subirono la loro prima grave sconfitta, dopo l'«autunno caldo» del
'69, nella vertenza apertasi con la Fiat sul problema della riduzione della
manodopera.
Mentre il Pci appoggiò gli operai in sciopero, l'azienda torinese riuscì a
imporre le proprie scelte di razionalizzazione produttiva, e l'allontanamento
dei responsabili di violenze in fabbrica, con l'imprevisto aiuto di una
mobilitazione di piazza dei quadri aziendali intermedi (la cosiddetta «marcia
dei quarantamila» dell'ottobre 1980) che sfilarono in corteo a Torino chiedendo
il ritorno all'ordine.
Da quell'episodio ebbe inizio un progressivo ridimensionamento del ruolo del
sindacato, che di lì a pochi anni avrebbe registrato una nuova sconfitta.
Il contrasto riguardò il costo del lavoro, in particolare il meccanismo di
"scala mobile" introdotto nel '75 da un accordo fra sindacati e Confindustria,
che adeguava automaticamente i salari al costo della vita alimentando così
l'inflazione. Nel 1984, quando il governo Craxi varò un decreto-legge che
modificava il meccanismo in senso sfavorevole ai lavoratori, che fu approvato
dopo una lunga battaglia parlamentare, i comunisti promossero un referendum
abrogativo, che si tenne nel giugno '85, ma ne uscirono sconfitti, seppur di
misura.
Spesa pubblica e ripresa produttiva
Restava irrisolta la questione del controllo della spesa pubblica e delle
forme dell'intervento statale, ampliatosi notevolmente, negli anni '70, nei
settori della sanità, della previdenza e dell'istruzione, ma ancora
caratterizzato da inefficienza e costi elevati. Anche in Italia, come in tutto
il mondo occidentale, gli anni '80 videro svilupparsi una polemica che, partendo
dalla denuncia degli eccessi di "assistenzialismo", giungeva a mettere in
discussione alcune strutture portanti del Welfare State (come la gratuità delle
cure mediche o la semigratuità dell'istruzione).
Queste difficoltà vennero in parte compensate da una certa ripresa dell'economia
che, a partire dall'84, superava la fase recessiva grazie all'aumento delle
esportazioni e al profondo rinnovamento tecnologico di alcuni settori
industriali sia privati (a cominciare da quello automobilistico) sia pubblici
(come il siderurgico).
Gran parte delle trasformazioni operate nell'industria pubblica e privata
finirono però col gravare sulla collettività, sia in termini di accresciuta
disoccupazione, sia in termini di spesa dello Stato per la Cassa integrazione
guadagni (l'istituzione che garantisce un salario provvisorio ai lavoratori
privati del posto).
L'economia sommersa e il terziario
Nel complesso il sistema economico italiano manifestava nel decennio '80-90 –
anche nei momenti di crisi più acuta – una vitalità notevole, al di là di quanto
non apparisse dai dati ufficiali sull'andamento della produzione e del reddito.
Il fenomeno si spiegava soprattutto con la crescita della cosiddetta «economia
sommersa». Un'espansione molto articolata. dal punto di vista della varietà
delle forme di impiego, caratterizzò anche il settore terziario, ormai al primo
posto anche in Italia per numero di addetti (54,2%, rispetto al 33,7
dell'industria e all'11,7 dell'agricoltura nel 1985).
Lo sviluppo del terziario, il dinamismo di alcuni settori produttivi e la
rinnovata competitività dei prodotti italiani sui mercati internazionali erano
indubbiamente sintomi di vitalità del tessuto sociale. Essi furono però
accompagnati da gravi fattori degenerativi.
Corruzione e criminalità
Il fenomeno della corruzione politica rivelò un nuovo inquietante volto
all'inizio degli anni '80 con lo scandalo della Loggia P2: una specie di branca
segreta della Massoneria, ben inserita nel mondo politico, nella burocrazia e
nei vertici militari e sospettata di perseguire – oltre a scopi di lucro e di
carriera per i suoi associati – anche il fine di una ristrutturazione
autoritaria dello Stato. Lo scioglimento della Loggia, decretato nell'81 dal
governo Spadolini, non cancellò l'immagine di una connessione, sia pur
indiretta, fra alcuni settori della classe politica e la malavita comune.
Il dilagare delle organizzazioni criminali – soprattutto la diffusione della
mafia e della camorra anche al di là delle tradizionali aree meridionali di
insediamento – si configurava come la minaccia più grave alla convivenza civile.
Il fenomeno mafioso, in particolare, conosceva sviluppi abnormi, in aperta sfida
ai poteri dello Stato. L'episodio più drammatico in questo senso fu, nel
settembre 1982, l'assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, già
protagonista della lotta al terrorismo, inviato come prefetto a Palermo per
coordinare il contrasto alla mafia.
La sconfitta del terrorismo di sinistra
Esiti ben più positivi ottenne la lotta contro il terrorismo di sinistra.
La svolta in questo senso si delineò nel 1980, quando alcuni terroristi
arrestati decisero di abiurare la lotta armata e di denunciare i compagni in
libertà. Il numero dei pentiti – così furono impropriamente chiamati coloro che
accettavano di collaborare con la giustizia – andò da allora sempre aumentando,
grazie anche a una legge dell'80 che concedeva forti sconti di pena come
compenso per il contributo fornito dagli imputati allo svolgimento delle
indagini. Il numero degli attentati, ancora molto alto nell'81, calò rapidamente
negli anni successivi e i principali gruppi clandestini cessarono praticamente
di esistere.
La crisi dei sistema politico
La polemica contro ì partiti
L'esaurirsi delle ideologie e dei sistemi di valori fondati sul primato
dell'impegno politico, se da un lato toglieva spazio alle ipotesi eversive,
dall'altro contribuiva ad approfondire il distacco fra classe politica e società
civile, a rafforzare la diffidenza nei confronti dei partiti, veri detentori del
potere nell'Italia repubblicana, e ad accentuare la polemica contro le
disfunzioni del sistema: la lentezza delle procedure parlamentari e
l'instabilità di una maggioranza troppo composita e logorata da continue
polemiche interne.
L'accordo che, nel luglio '85, consentì l'elezione alla presidenza della
Repubblica del democristiano Francesco Cossiga non evitò il riproporsi dei
contrasti fra socialisti e democristiani, questi ultimi decisi a rivendicare, in
quanto partito di maggioranza relativa, la guida del governo.
Le nuove forze politiche
Si giunse così, nella primavera del 1987, alla crisi del governo Craxi.
Le elezioni (giugno '87) segnarono una discreta affermazione del Psi e un nuovo
calo dei comunisti, cui fece riscontro una lieve ripresa della Dc. Ma la
maggiore novità fu l'apparizione di nuovi gruppi, estranei ai partiti
tradizionali: gli ambientalisti (i Verdi) e le Leghe regionali (presenti
soprattutto in Veneto e in Lombardia). Queste ultime, impostando la loro
propaganda sulla polemica contro il centralismo statale e la pressione fiscale e
sulla rivendicazione di una identità separata per le regioni del Nord – ma
facendo anche leva su pregiudizi antimeridionalisti e sulle preoccupazioni
suscitate dal fenomeno immigratorio – avrebbero ottenuto notevoli successi nelle
consultazioni amministrative dell'anno successivo.
La domanda di riforme
Dopo le elezioni, la maggioranza di pentapartito si ricostituì faticosamente,
consentendo la formazione di nuovi governi a guida democristiana. Ma né quello
formato nell'88 dallo stesso segretario della Dc, Ciriaco De Mita (poi
sostituito alla guida del partito e costretto a lasciare anche quella del
governo), né quello costituito un anno dopo dall'esperto Giulio Andreotti,
fondato su un difficile equilibrio fra i socialisti e l'ala più moderata della
Dc, riuscirono a condurre in porto quelle significative riforme politiche che
ormai erano reclamate da gran parte dell'opinione pubblica.
Al di là della tradizionale denuncia del malcostume, era il sistema nel suo
insieme a essere messo sotto accusa.
Le radici della crisi furono individuate, più che nelle manchevolezze di singoli
leader o di singoli partiti, nel meccanismo elettorale proporzionale, nella
debolezza dell'esecutivo, nell'impossibile alternanza al governo di schieramenti
contrapposti. Sarebbero stati tuttavia elementi esterni al sistema
– il mutamento del quadro internazionale, le
sollecitazioni indotte da nuove forze politiche, unitamente a una serie di
imprevedibili iniziative giudiziarie – ad
accelerare una crisi da tempo latente e alla quale i partiti di governo, in
primo luogo Dc e Psi, non avevano saputo porre rimedio.
LA FINE DEL BIPOLARISMO
Un impero in crisi
Le cause del collasso
Nell'ultimo decennio del '900, l'equilibrio internazionale basato sul
condominio, e sulla competizione, fra le due superpotenze mondiali, Usa e Urss,
si ruppe definitivamente, causa il cedimento repentino di uno dei pilastri su
cui si fondava.
Già a partire dagli anni '70, l'immagine dell'Unione Sovietica – e in generale
del sistema comunista come alternativa globale al capitalismo – aveva subìto un
inesorabile declino. Eppure, in Occidente pochi immaginavano che il declino
potesse in tempi brevi trasformarsi in collasso. Se il collasso si verificò, ciò
fu dovuto all'oggettiva irriformabilità di un sistema che si era sin allora
tenuto in piedi grazie al suo carattere "chiuso" e soprattutto al potere
deterrente dell'apparato repressivo e della forza militare sovietica.
Nel momento in cui il riformismo di Gorbačëv
aprì le prime brecce nel sistema, cercando di introdurvi dosi controllate di
pluralismo e rinunciando all'uso della forza nei confronti dei paesi satelliti,
l'intera costruzione crollò. E crollarono nel contempo gli equilibri
internazionali nati dalla seconda guerra mondiale.
La Polonia e il sindacato indipendente
Gli effetti del nuovo atteggiamento dell'Urss si fecero sentire in tutta
l'Europa orientale. Ma a profittarne per prima, e in misura più rilevante, fu la
Polonia, che quei mutamenti aveva in parte anticipato.
Già fra il 1980 e il 1981 era infatti nato e si era sviluppato con grande
rapidità un sindacato indipendente a forte base operaia, e di dichiarata
ispirazione cattolica, chiamato Solidarnosc ('solidarietà'), guidato da
un leader diventato subito popolarissimo, Lech Walesa. Paese compattamente
cattolico, la Polonia era sempre stata, fra le "democrazie popolari" dell'Est,
la più refrattaria all'imposizione del modello comunista. E il clero aveva
svolto, pur fra molte difficoltà, una funzione di salvaguardia dell'identità
nazionale e di riferimento per le correnti di opposizione.
Questa funzione risultò rafforzata con l'ascesa del polacco Karol Wojtyla al
soglio pontificio (1978), e ciò spiega l'iniziale tolleranza manifestata dalle
autorità comuniste nei confronti del sindacato indipendente e degli imponenti
scioperi da esso organizzati nelle principali aree industriali, in particolare
nei cantieri di Danzica.
La Polonia: dal golpe alle elezioni libere
La tolleranza aveva tuttavia dei limiti invalicabili. Nell'estate del 1981 un
generale, Wojciek Jaruzelski, assunse la guida del governo e del Poup, il
Partito operaio polacco (l'equivalente del Partito comunista).
Di fronte al ruolo politico crescente di Solidarnosc, nel dicembre dello stesso
anno, anche per prevenire la concreta minaccia di un intervento dell'Urss,
Jaruzelski assunse i pieni poteri in base alla legge marziale (si parlò di «autogolpe»)
e mise fuori legge Solidarnosc, i cui maggiori dirigenti furono arrestati.
In seguito, tuttavia, lo stesso Jaruzelski allentò le misure repressive e cercò
di riallacciare il dialogo con la Chiesa e con lo stesso sindacato indipendente,
che continuava a operare in semiclandestinità e il cui ruolo fu ulteriormente
rafforzato da due successive visite del papa in Polonia (1983 e 1987).
Dopo la svolta di Gorbačëv in Unione
Sovietica, il dialogo si intensificò, fino all'apertura, all'inizio dell'89, di
un tavolo ufficiale di negoziato.
Ne uscì, nell'aprile, un accordo su una riforma costituzionale che prevedeva lo
svolgimento di libere elezioni, le prime in un paese comunista. Le elezioni si
tennero nel giugno dell'89 e videro la schiacciante vittoria di Solidarnosc,
aprendo la strada alla nascita di un governo di coalizione (con i comunisti agli
Interni e alla Difesa) presieduto da un uomo vicino al sindacato indipendente,
l'economista cattolico Tadeusz Mazowiecki.
Jaruzelski restò alla presidenza della Repubblica, da cui si dimise un anno
dopo, quando ormai il fragile compromesso dell'89 era stato travolto dalla
generale ondata di democratizzazione che aveva investito l'Europa dell'Est.
Le riforme in Ungheria
Gli avvenimenti polacchi diedero avvio a una reazione a catena che, nel giro
di pochi mesi, fra il 1989 e il 1990, avrebbe messo in crisi l'intero sistema
delle «democrazie popolari».
Il primo paese a seguire la Polonia sulla via delle riforme fu l'Ungheria dove,
all'inizio dell'89, era stato deposto il vecchio Kadar, protagonista della
repressione del '56, ma anche del successivo trentennio di relativo benessere e
di timida liberalizzazione.
Sempre nell'89, i nuovi dirigenti comunisti, decisi a spingere il processo
riformatore fino alle ultime conseguenze, riabilitarono solennemente i
protagonisti della rivolta del '56, legalizzarono i partiti e indissero libere
elezioni per l'anno successivo. Ma la decisione più importante e più gravida di
conseguenze fu la rimozione dei controlli polizieschi e delle barriere di filo
spinato al confine con l'Austria: per la prima volta si apriva una breccia nella
«cortina di ferro» che da quasi mezzo secolo impediva la libera circolazione
delle persone fra le due Europe.
Il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca
La caduta del Muro
Naturalmente non furono solo gli ungheresi a profittare dell'opportunità
offerta dall'apertura dei loro confini. A partire dall'estate dell'89, decine di
migliaia di cittadini della Germania orientale abbandonarono il loro paese per
raggiungere la Repubblica federale tedesca attraverso l'Ungheria e l'Austria.
La fuga in massa, accompagnata da imponenti manifestazioni nelle principali
città tedesco-orientali, mise in crisi il regime comunista, costringendo alle
dimissioni il vecchio segretario del partito Erich Honecker.
I nuovi dirigenti, con l'avallo di Gorbačëv,
avviarono un processo di riforme interne e quindi liberalizzarono la concessione
dei visti d'uscita dal paese e dei permessi di espatrio. Anche in questo caso il
processo, una volta messo in moto, si rivelò incontrollabile.
La sera del 9 novembre 1989, dopo che un portavoce del governo tedesco-orientale
aveva annunciato il ripristino della libera circolazione fra le due metà di
Berlino, divise a partire dal 1961 da un muro di separazione, un numero
crescente di berlinesi si riversò nei varchi aperti, li oltrepassò e infine, in
un'atmosfera di festa e di riconciliazione, cominciò a smantellare materialmente
il Muro (che di lì a poco sarebbe stato completamente abbattuto) e a portarsene
i pezzi a casa come ricordo.
Le elezioni in Germania Est
Il crollo del Muro, che coincise con l'apertura dei confini fra le due
Germanie, non solo rappresentò il simbolo della fine della guerra fredda e della
divisione in due dell'Europa, ma rilanciò implicitamente il tema dell'unità
tedesca, impossibile da affrontare nell'epoca della guerra fredda. Ancora una
volta gli eventi si consumarono in tempi più rapidi del previsto.
Nel marzo 1990 si tennero libere elezioni nella Germania dell'Est: risultarono
puniti non solo gli ex comunisti, ma anche i socialdemocratici e gli altri
gruppi di sinistra, mostratisi troppo timidi di fronte alla prospettiva di
un'immediata unificazione nel segno dell'economia di mercato e della democrazia
liberale.
La vittoria andò così ai cristiano-democratici che, in pieno accordo coi loro
omologhi dell'Ovest, accelerarono i tempi per la liquidazione di una entità
statale, la Repubblica democratica tedesca, ormai privata di ogni legittimità e
svuotata di qualsiasi funzione storica.
La riunificazione
In questa situazione si inserì con grande efficacia l'azione del governo
Kohl, che riuscì a preparare in pochi mesi un'operazione tecnicamente e
politicamente complessa come la riunificazione del paese e a fare accettare
anche all'Urss la nuova realtà di una Germania unita e integrata nell'Alleanza
atlantica.
In maggio i due governi tedeschi firmarono un trattato per l'unificazione
economica e monetaria.
Il 3 ottobre 1990, dopo che il leader sovietico Gorbačëv
aveva dato il suo assenso all'operazione e dopo che la Polonia era stata
tranquillizzata da una solenne dichiarazione dei due Parlamenti tedeschi circa
l'inviolabilità delle frontiere uscite dal secondo conflitto mondiale, entrò in
vigore il vero e proprio trattato di unificazione politica, accettato dalle
quattro ex potenze occupanti (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Urss).
Si trattava in realtà di un assorbimento dell'ormai dissolta Repubblica
democratica nelle strutture istituzionali della Repubblica federale.
Non fu varata una nuova costituzione e non vi fu bisogno di una nuova moneta: ai
tedeschi orientali fu consentito di convertire la loro valuta in marchi a un
tasso di cambio molto favorevole. Fu una decisione costosa per la Repubblica
federale, come faticosa fu l'integrazione delle aree orientali e delle loro
industrie tecnologicamente arretrate nella ben più dinamica economia dell'Ovest.
L'operazione comunque riuscì: nei due decenni successivi alla riunificazione, il
divario fra le due parti del paese si sarebbe progressivamente ridotto.
Dopo oltre un quarantennio di divisione, la Germania tornava a essere uno Stato
unitario, il più forte economicamente e politicamente dell'intero continente
europeo.
La fine delle "democrazie popolari"
La caduta dei regimi comunisti
Com'era prevedibile, l'abbattimento della cortina di ferro provocò la caduta,
quasi in contemporanea, di tutti i regimi comunisti dell'Europa orientale.
In Cecoslovacchia, nel novembre 1989, una serie di imponenti manifestazioni
popolari, che videro tornare sulla scena Dubček
e gli altri protagonisti della «primavera di Praga», costrinse alle dimissioni
il gruppo dirigente comunista legato alla «normalizzazione» del dopo '68. In
dicembre il Parlamento elesse alla presidenza della Repubblica lo scrittore
Václav Havel, un democratico già perseguitato dal regime comunista.
Il passaggio di potere si realizzò senza spargimento di sangue (si parlò di
«rivoluzione di velluto»). Così come complessivamente pacifico fu il processo di
democratizzazione nella maggior parte delle ex democrazie popolari: oltre alla
Polonia, l'Ungheria, la Bulgaria e, poco più tardi, l'Albania, ultima roccaforte
dell'ortodossia marxista-leninista in Europa.
Fece eccezione in questo quadro la Romania, dove la dittatura personale di
Nicolae Ceauşescu fu travolta, nel dicembre
'89, da un'insurrezione popolare. Dopo un sanguinoso tentativo di repressione,
Ceauşescu fu catturato e messo a morte
insieme con la moglie Elena il 25 dicembre.
Un caso ancora diverso fu quello della Jugoslavia, dove, già dal 1980 (data
della morte di Tito), si era aperta una grave crisi economica e istituzionale e
si erano fatti più difficili i rapporti fra i diversi gruppi etnici.
Una difficile transizione
Passata l'euforia per la libertà riconquistata, i paesi ex satelliti
dell'Urss dovettero affrontare i problemi legati alla riconversione
dell'apparato produttivo in funzione del mercato (con la chiusura di molte
imprese di Stato e la conseguente crescita della disoccupazione) e, in generale,
al venir meno delle certezze assicurate dai vecchi regimi sul piano della
stabilità e della sicurezza sociale, pur nel quadro di economie arretrate e
stagnanti.
Sul piano politico, il ritorno alla democrazia portò con sé l'immediata
proliferazione di forze politiche, vecchie e più spesso nuove (come il Forum
democratico in Ungheria e il Forum civico in Cecoslovacchia). I gruppi dirigenti
di formazione comunista, che quasi ovunque avevano gestito la fuoriuscita dal
vecchio sistema, furono per lo più sconfitti nelle prime elezioni libere, ma in
molti casi (Polonia, Romania, Ungheria) ritornarono successivamente al potere
sotto nuove denominazioni.
Le istituzioni democratiche non furono comunque rimesse in discussione,
nonostante le asprezze e le turbolenze che spesso caratterizzarono la lotta
politica.
La dissoluzione dell'Urss
Le spinte centrifughe
Nel giro di nemmeno due anni, l'Unione Sovietica perse così il suo "impero
esterno", ossia quella cintura protettiva di paesi satelliti che Stalin aveva
imposto all'Europa orientale dopo la vittoria in guerra. Ma l'Urss non era solo
lo Stato-guida del mondo comunista: era essa stessa un impero, anzi la più
grande compagine multietnica mai apparsa sulla faccia della Terra.
Le riforme di Gorbačëv avevano prodotto una
serie di spinte centrifughe, aprendo spazi, oltre che alla manifestazione del
dissenso politico, anche alle rivendicazioni nazionali dei territori non russi
dell'ex Impero zarista.
Le prime a muoversi in questo senso, rivendicando la piena indipendenza, furono
le repubbliche baltiche (Lettonia, Estonia, Lituania), che erano state inglobate
nell'Urss nel 1939. Ma movimenti analoghi si svilupparono anche nelle
repubbliche caucasiche (Armenia, Georgia, Azerbaigian) e in quelle musulmane
dell'Asia centrale.
Nel 1990 la stessa Repubblica russa – la più grande e la più popolosa
dell'Unione, guida e centro motore dell'intero sistema sovietico – rivendicò la
propria autonomia dal potere federale ed elesse alla propria presidenza il
riformista radicale Boris Eltsin, confermato, nel giugno dell'anno seguente, da
un'elezione popolare a suffragio diretto.
La crisi si acutizzò fra il '90 e il '91, in concomitanza con l'aggravarsi della
situazione economica. Gorbačëv cercò di
mediare fra le spinte liberalizzatrici e le pressioni dell'ala intransigente del
partito, alternando concessioni e interventi repressivi e proponendo un nuovo
patto federativo che allargasse gli spazi di autonomia delle repubbliche
sovietiche.
Il colpo di Stato del 1991
Questo fragile equilibrio, però, si ruppe nell'agosto 1991, quando un gruppo
di esponenti di primo piano della dirigenza sovietica (fra questi il primo
ministro, i ministri degli Interni e della Difesa, il vicepresidente dell'Urss e
il capo dei servizi segreti) tentò la carta del colpo di Stato per bloccare il
processo di rinnovamento.
I congiurati, che contavano di sfruttare il malcontento diffuso nel paese a
causa delle difficoltà economiche, sequestrarono lo stesso Gorbačëv
nella sua casa di vacanza in Crimea, forse sperando di strappargli un'adesione
al progetto di restaurazione del vecchio regime. Ma i calcoli si rivelarono
errati e il colpo, organizzato senza adeguata preparazione, falli clamorosamente
di fronte a un'inattesa protesta popolare e al mancato sostegno delle forze
armate: a Mosca, fra il 19 e il 20 agosto, una grande folla si raccolse a
presidio delle libere istituzioni appena conquistate, ponendo i golpisti di
fronte alla scelta fra una sanguinosa repressione e un'ingloriosa ritirata.
Decisivo fu, in questa occasione, il ruolo del presidente della Repubblica russa
Eltsin che, dopo aver capeggiato la resistenza popolare e aver imposto la
liberazione di Gorbačëv, si propose come il
vero detentore del potere, relegando in secondo piano lo stesso presidente
sovietico.
Lo smembramento dell'Unione Sovietica
Il fallimento del golpe di agosto da un lato valse a spazzare via quanto
restava del potere comunista (il Pcus, un tempo onnipotente, vide sospese le sue
attività e requisiti i suoi averi), dall'altro accelerò ulteriormente la crisi
dell'autorità centrale.
La riforma economica non riusciva a decollare, mentre il sistema degli scambi
all'interno dell'Unione entrava in crisi aggravando i problemi di distribuzione
delle merci (soprattutto delle derrate alimentari). Frattanto le spinte
separatiste si accentuavano: dopo le tre repubbliche baltiche – la cui
indipendenza era ormai fuori discussione – anche la Georgia, l'Armenia,
l'Azerbaigian e la Moldavia (strappata alla Romania dopo il secondo conflitto
mondiale), oltre alle cinque repubbliche asiatiche, proclamarono unilateralmente
la loro secessione dall'Unione Sovietica; e lo stesso fecero l'Ucraina e la
Bielorussia, pur legate alla Russia da antichi vincoli storico-culturali oltre
che da stretti rapporti di interdipendenza economica.
Gorbačëv tentò di bloccare questo processo
rilanciando l'idea di un nuovo trattato di unione che assicurasse almeno
l'esistenza dell'Urss come entità militare e come soggetto di politica
internazionale. La sua iniziativa fu però scavalcata da quella dei presidenti
delle tre repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia), che si accordarono
sull'ipotesi di una comunità di Stati sovrani ottenendo il consenso delle altre
repubbliche ex sovietiche.
Il 21 dicembre 1991, ad Alma Ata, capitale del Kazakistan, i rappresentanti di
undici repubbliche (sulle quindici già facenti parte dell'Urss) diedero vita a
una Comunità degli Stati indipendenti (Csi) e sancirono la morte dell'Unione
Sovietica.
La dissoluzione dell'URSS
Il 25 dicembre Gorbačëv trasse le logiche conseguenze da quanto era accaduto e annunciò in un discorso televisivo le sue dimissioni. Il giorno stesso, la bandiera sovietica fu ammainata dal Cremlino di Mosca (storica sede del governo) e sostituita da quella russa.
La crisi jugoslava
Il risorgere dei nazionalismi
La fine del sistema di potere sovietico non portò all'Europa orientale solo
libertà e democrazia. Dal vuoto politico e ideologico creatosi con la scomparsa
dell'Urss emersero, con forza insospettata, vecchi e nuovi nazionalismi rimasti
a lungo soffocati e ora pronti a scontrarsi fra loro.
Nei territori dell'ex Unione Sovietica nacquero, o risorsero, movimenti
indipendentisti (come quello dei ceceni), si accesero conflitti per il possesso
di territori contesi (per esempio fra Armenia e Azerbaigian nel 1988, e fra
Russia e Georgia venti anni dopo).
Anche nelle ex "democrazie popolari" si manifestarono irredentismi e i contrasti
a sfondo etnico, che ebbero esiti dirompenti in due fra gli Stati nati alla fine
della prima guerra mondiale dalla dissoluzione dell'Impero austro-ungarico. In
Cecoslovacchia, le aspirazioni separatiste della minoranza slovacca portarono
nel 1992 a una sorta di separazione consensuale e alla creazione di due
repubbliche: una ceca, comprendente Boemia e Moravia e governata dai partiti di
ispirazione liberale, e una slovacca, egemonizzata dai gruppi ex comunisti.
I conflitti etnici in Jugoslavia
Drammatico e cruento fu invece il processo di disgregazione della Jugoslavia,
dove la crisi del regime a partito unico fece saltare gli equilibri fra le
nazionalità su cui il paese si reggeva dalla fine della seconda guerra mondiale.
L'esito delle prime elezioni libere, che si tennero nel 1990, accentuò le spinte
centrifughe già operanti all'interno dello Stato federativo: mentre infatti le
repubbliche di Slovenia e Croazia, le più sviluppate economicamente e le più
vicine al Centro Europa per tradizioni e per collocazione geografica, davano la
vittoria ai partiti autonomisti, in Serbia prevaleva il neo-comunismo
nazionalista di Slobodan Milošević,
deciso a riaffermare il ruolo egemone dei serbi in una Jugoslavia unita.
La dissoluzione della Jugoslavia
Nel 1991, prima la Slovenia poi la Croazia proclamarono la propria
indipendenza, facendola sanzionare da plebisciti. Lo stesso fece la Repubblica
di Macedonia, che occupava la parte meridionale, e più arretrata, della
Jugoslavia.
Il governo federale, controllato dalla componente serba, accettò il fatto
compiuto dell'indipendenza slovena e macedone, ma reagì duramente all'analoga
iniziativa della Repubblica croata (che ospitava nei suoi confini consistenti
minoranze serbe) mobilitando forze armate e milizie irregolari. Ne nacque una
guerra che non risparmiava le popolazioni civili ed era alimentata dai due
contrapposti nazionalismi, serbo e croato. Sistematico fu il ricorso a
operazioni di "pulizia etnica", ossia a persecuzioni e violenze rivolte contro
le minoranze per costringerle ad abbandonare le aree contese.
La guerra in Bosnia
A partire dalla primavera del 1992 il centro del conflitto si spostò nella
Bosnia, una delle ex repubbliche jugoslave, che in marzo si era anch'essa
dichiarata indipendente. La secessione della Bosnia – abitata da una popolazione
mista, composta da musulmani (la componente più numerosa), croati cattolici e
serbi ortodossi – provocò ancora una volta la reazione della componente serba,
attivamente appoggiata dal regime di Milošević.
Una guerra nella guerra, costellata di massacri (il più terribile fu quello di
Srebrenica, dove circa 8000 civili musulmani furono sterminati dalle milizie
serbe), di deportazioni e di altri orrori che l'Europa non aveva più conosciuto
dai tempi del secondo conflitto mondiale.
La stessa capitale bosniaca, Sarajevo, fu sottoposta dai serbi a un lunghissimo
assedio.
Fallite le iniziative della Comunità europea e dell'Onu – che impose l'embargo
alla Serbia e inviò in Bosnia contingenti di pace –, per porre fine al conflitto
fu necessario l'impegno diretto degli Stati Uniti, che agirono sotto la
copertura dell'Alleanza atlantica. Fra maggio e settembre del 1995 la Nato attuò
una serie di attacchi aerei contro le posizioni dei serbi di Bosnia (alle azioni
parteciparono anche piloti italiani). In ottobre, grazie agli sforzi della
diplomazia statunitense, fu imposto il "cessate il fuoco" e vennero infine
avviate trattative dirette fra i governanti della Serbia, della Croazia e della
Bosnia musulmana. In novembre fu siglato a Dayton, negli Stati Uniti, un accordo
di pace che prevedeva il mantenimento di uno Stato bosniaco, diviso però in una
repubblica serba e in una federazione croato-musulmana.
Anche la guerra con la Croazia si chiudeva intanto con la sconfitta della
Serbia: nell'estate del '95 l'esercito croato lanciò un'offensiva nelle zone
contese ed espulse con la forza circa 200 mila serbi che vi abitavano.
La crisi del Kosovo e la sconfitta della Serbia
Nel 1998, un altro focolaio di tensione si sviluppò nel Kosovo, una regione
autonoma all'interno della Serbia, abitata da una popolazione albanese, dove si
era sviluppato un movimento di guerriglia indipendentista. Ancora una volta la
repressione serba provocò l'intervento militare dei paesi della Nato, fra cui
l'Italia. Per oltre due mesi, fra marzo e giugno del 1999, il territorio della
Serbia fu sistematicamente bombardato. L'intervento, giustificato con l'esigenza
di proteggere i diritti della popolazione del Kosovo (si parlò a questo
proposito di «ingerenza umanitaria»), fu apertamente criticato dalla Russia,
tradizionale alleata dei serbi, e suscitò forti discussioni nell'opinione
pubblica dei paesi occidentali. Ma alla fine lo scopo fu raggiunto: ai primi di
giugno, Milošević
ritirò le sue truppe dal Kosovo.
Indebolito dalla sconfitta, il dittatore serbo, oggetto di una pesante
contestazione in patria, resistette per poco più di un anno. Nel settembre 2000
fu sconfitto nelle elezioni presidenziali e fu costretto ad abbandonare il
potere. Milošević
venne successivamente arrestato, consegnato al Tribunale internazionale dell'Aja
e processato per crimini contro l'umanità: sarebbe morto in carcere nel 2006,
prima della conclusione del processo.
In quello stesso anno lo Stato serbo dovette subire una nuova amputazione, in
seguito alla dichiarazione di indipendenza della Repubblica del Montenegro,
proclamata in maggio sulla base di un referendum.
Nel 2008, anche l'indipendenza del Kosovo fu riconosciuta dai principali Stati
occidentali. La Serbia pagava così duramente il tentativo di conservare con la
forza la sua posizione egemonica nell'area jugoslava: un'area ora occupata da
una pluralità di piccoli Stati indipendenti, per lo più instabili all'interno e
divisi da conflitti territoriali irrisolti.
Crisi e stabilizzazione in Albania
Vicende agitate furono in questo periodo anche quelle vissute dalla vicina
Albania.
Il passaggio alla democrazia si accompagnò in una prima fase a una grave crisi
economica e finanziaria, che fu all'origine di un imponente flusso migratorio,
soprattutto verso l'Italia. Ne segui, all'inizio del '97, una fase di
semi-anarchia, interrotta dall'intervento dell'Onu che, in marzo, inviò nel
paese un contingente di pace (in cui la parte più importante fu assunta
dall'Italia) col compito di favorire il ritorno all'ordine e alla normalità
politica.
Da allora fu avviato un percorso di ripresa e di stabilizzazione, che, se non
risolse tutti i problemi del paese, consentì almeno il consolidamento dello
Stato e l'avvicendamento al potere di forze moderate e progressiste.
La Russia post-comunista
I conflitti interni
Dopo la fine dell'impero sovietico, la Russia di Eltsin cercò di accreditarsi
come l'erede del ruolo di grande potenza già svolto dall'Urss. In questo, venne
appoggiata dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale che le riconobbero
il diritto di occupare il seggio dell'Unione Sovietica in seno al Consiglio di
sicurezza dell'Onu.
Questa aspirazione – non più sostenuta dalla forza di penetrazione
dell'ideologia comunista – era però contraddetta dall'oggettiva debolezza della
Russia, che non riusciva nemmeno a imporre la sua egemonia sulle altre
repubbliche ex sovietiche, spesso in lotta fra loro e lacerate da conflitti
interni. La stessa Repubblica russa, che era ordinata anch'essa in forma di
federazione e comprendeva nei suoi confini etnie e culture diverse, era
minacciata da movimenti separatisti e stentava a trovare uno stabile equilibrio
istituzionale.
Il risultato fu l'emergere di forti opposizioni al nuovo corso, che si
esprimevano ora nella richiesta di maggior democrazia, ora nella nostalgia del
regime comunista, ora nel tradizionalismo antioccidentale, e spesso antisemita,
ora in una curiosa miscela fra le diverse tendenze.
Il fronte degli avversari delle riforme trovò un luogo di aggregazione nel
Congresso del popolo, il Parlamento russo, eletto secondo la Costituzione voluta
da Gorbačëv nel 1988.
Il conflitto esplose nel settembre-ottobre 1993 quando Eltsin, non riuscendo a
superare l'ostruzionismo della maggioranza, sciolse l'assemblea elettiva e
indisse nuove elezioni. Il Parlamento rispose destituendo il presidente, che
reagì decretando lo stato di emergenza e facendo occupare il Parlamento da
reparti speciali delle forze armate. Ristabilito l'ordine a prezzo di largo
spargimento di sangue, Eltsin varò, in dicembre, una nuova Costituzione che
rafforzava i poteri del presidente.
La guerra in Cecenia
Alla fine del 1994, per consolidare la sua posizione e per non lasciare spazio ai movimenti nazionalisti, Eltsin decise un intervento militare in Cecenia, una repubblica musulmana situata nella regione del Caucaso, che aveva proclamato l'indipendenza dalla Federazione russa di cui faceva parte. Fortemente contrastata dalla resistenza degli indipendentisti, l'operazione si trasformò in un lungo e logorante conflitto, costellato di cruente azioni di guerriglia e di crudeli rappresaglie sulla popolazione civile. L'esito disastroso dell'intervento era il risultato non solo della scarsa efficienza della macchina militare russa, ma, più in generale, di una profonda crisi dell'intero apparato statale e di una crescente disgregazione della società civile, cui i governanti non riuscivano a trovare risposte efficaci.
La crisi economica
Alle turbolenze politiche si sommava frattanto una drammatica crisi economica
e sociale.
All'origine della crisi, il tentativo di Eltsin – sostenuto e incoraggiato dai
governi occidentali – di accelerare il processo di transizione verso il
capitalismo e l'economia di mercato. Un processo che però non riusciva a
decollare anche per l'assenza di un vero ceto imprenditoriale, e in genere di un
tessuto sociale adatto a sostenere il cambiamento. Il passaggio ai privati di
grandi concentrazioni industriali e finanziarie (spesso gestite da ex funzionari
del periodo sovietico trasformatisi in imprenditori) e la nascita di un
capitalismo dai tratti fortemente speculativi finirono coll'avvantaggiare solo
gruppi ristretti, spesso legati alla malavita, mentre le condizioni di vita
della maggioranza della popolazione peggioravano sensibilmente, sia a causa
dell'inflazione, sia perché lo Stato non disponeva di un efficiente apparato
fiscale e non era quindi in grado di pagare puntualmente gli stipendi ai
dipendenti pubblici.
La crisi giunse al suo culmine nell'estate del 1998, travolgendo il rublo, che
fu svalutato del 60% rispetto alle altre valute, e costringendo il governo a una
dichiarazione di insolvenza sul debito della Russia con l'estero.
Da Eltsin a Putin
Nell'agosto del 1999, Eltsin, malato da tempo oltre che politicamente
logorato, scelse come primo ministro uno sconosciuto dirigente dei servizi
segreti, Vladimir Putin, e lo indicò come suo possibile successore alla
presidenza della Repubblica. Grazie al suo piglio giovanile ed efficientistico,
e soprattutto alla spietata energia con cui affrontò la ribellione cecena, il
nuovo premier guadagnò una notevole popolarità.
Eltsin si dimise alla fine dell'anno e, nelle elezioni presidenziali del marzo
2000, Putin si impose con largo margine. La sua presidenza si sarebbe
caratterizzata per il tentativo di restituire efficienza alla macchina dello
Stato e di ridare slancio all'economia che, pur frenata dai problemi ormai
cronici (corruzione diffusa, incertezza delle norme, disordine del sistema
bancario), cominciò a manifestare segni evidenti di stabilizzazione finanziaria
e di ripresa produttiva, grazie anche all'aumento dei prezzi delle materie prime
di cui la Russia era esportatrice.
Al recupero di efficienza del sistema economico e della macchina statale faceva
però riscontro un crescente autoritarismo, a mala pena mascherato dal formale
rispetto delle regole democratiche: arresti di oppositori, scomparsa in
circostanze mai chiarite di giornalisti e dissidenti, dubbi sulla regolarità
delle elezioni, uso eccessivo della forza nella lotta, alla fine vincente,
contro la guerriglia dei ceceni, di cui peraltro erano evidenti i legami col
fondamentalismo islamico e la propensione al terrorismo indiscriminato: una
guerra che costò moltissime vittime, soprattutto fra i civili e anche fuori dal
territorio ceceno.
Le ambizioni internazionali
Sul fronte della politica estera si assisteva frattanto a una ripresa di
iniziativa della diplomazia russa, in due direzioni diverse e spesso
contraddittorie.
Da un lato il tentativo di presentarsi all'Occidente come interlocutore
affidabile (oltre che prezioso fornitore di gas e petrolio), e anche come
alleato nella lotta contro l'integralismo islamico che minacciava la stessa
Russia. Dall'altro, l'ambizione di raccogliere l'eredità dell'Urss in quanto
unica potenza capace di controbilanciare e limitare l'egemonia degli Stati
Uniti. Da qui una serie di contrasti con l'Occidente sui temi più diversi: il
dispiegamento di nuovi sistemi d'arma da parte della Nato, l'allargamento
dell'Alleanza atlantica ai paesi dell'Europa dell'Est, l'appoggio russo alla
Serbia nelle guerre jugoslave e agli Stati arabi sulla questione palestinese, e
soprattutto le "ingerenze" occidentali sul tema del rispetto dei diritti umani
in Russia.
Il dialogo con gli Stati Uniti non fu interrotto, ma era ugualmente evidente il
ritorno a formule e modalità di azione tipiche degli anni della guerra fredda.
Gli Stati Uniti: la difficile gestione di una vittoria
Le difficoltà economiche
La scomparsa dell'Unione Sovietica – e le difficoltà della Russia
post-comunista – proiettarono gli Stati Uniti nel ruolo di unica superpotenza
mondiale. Un ruolo non previsto e forse non desiderato, che accresceva le
responsabilità internazionali degli Usa in un momento in cui l'economia
americana, e quella dell'intero Occidente industrializzato, mostravano evidenti
segni di difficoltà.
Anche per questo, la storica vittoria ottenuta nel confronto con l'Urss – cui si
era aggiunta nel '91 quella nella guerra contro l'Iraq – non si tradusse in un
rafforzamento della presidenza di George Bush, che subì, al contrario, un calo
di popolarità, dovuto essenzialmente ai problemi economico-sociali lasciati
aperti dalle precedenti amministrazioni repubblicane: crescita della
disoccupazione, servizi sociali insufficienti, aumento delle distanze fra ricchi
e poveri, abbassamento generalizzato del tenore di vita.
Il deficit del bilancio statale costrinse inoltre il presidente ad aumentare la
pressione fiscale, invertendo il corso inaugurato da Reagan e smentendo le
promesse formulate in campagna elettorale.
La presidenza Clinton
Nelle elezioni del novembre 1992, Bush fu seccamente sconfitto dal candidato
democratico Bill Clinton: un politico poco più che quarantenne, privo di
esperienza internazionale, ma abile nello sfruttare le debolezze dell'avversario
e nell'interpretare il diffuso desiderio di cambiamento.
Il nuovo presidente cercò di imprimere alla politica estera americana un segno
più "progressista", in linea con la tradizione del suo partito, e di rilanciare
l'immagine degli Stati Uniti non solo come garanti degli equilibri mondiali, ma
anche come difensori della democrazia in ogni parte del pianeta. Questa
vocazione interventista si scontrava però con la riluttanza dell'opinione
pubblica americana ad accettare gli oneri e i sacrifici derivanti da un impegno
militare troppo esteso.
I maggiori successi diplomatici della presidenza Clinton (l'accordo
israelo-palestinese del '93 e la pacificazione imposta in Bosnia) produssero
così risultati precari.
La ripresa economica
Nel 1996, alla fine del suo primo mandato, Clinton poteva comunque vantare un
bilancio internazionale non del tutto negativo. Ma soprattutto poteva giovarsi –
e questo fu il fattore principale della sua trionfale rielezione – del netto
miglioramento della situazione economica.
A partire dal '96 il sistema americano, alleggerito (sia pure a costi sociali
pesanti) dalla cura liberista degli anni di Reagan e Bush, riacquistò
flessibilità e competitività e si sviluppò con un tasso annuo superiore al 4%,
rafforzando il suo primato, sia nei settori produttivi della "nuova economia"
(quelli legati al boom dell'informatica), sia nei mercati finanziari, dove la
moltiplicazione degli strumenti per far circolare il danaro creò nuove occasioni
di arricchimento (e anche di speculazione).
Nel '97 la disoccupazione scese, secondo i dati ufficiali, sotto il 5%, mentre
il deficit di bilancio si riduceva. Clinton, dal canto suo, riuscì a presentarsi
come il garante di questo corso positivo, accantonando alcuni suoi originari
progetti di riforme sociali (in particolare nel settore della sanità) e
spostando così verso il centro l'asse della sua politica.
L'elezione di George W. Bush
Nel novembre 2000, scaduto il secondo mandato di Clinton, le elezioni
presidenziali si risolsero però in un incredibile "pareggio" fra il
vicepresidente democratico Al Gore e il candidato repubblicano George W. Bush,
figlio del predecessore di Clinton: il risultato finale, a lungo contestato,
vide Bush prevalere per poche centinaia di voti ottenuti nel decisivo Stato
della Florida (di cui era governatore il fratello).
I primi atti della nuova presidenza si ispirarono a una linea tendenzialmente
conservatrice in politica interna (ulteriori tagli alle tasse, contenimento
della spesa pubblica), e orientata, in politica estera, a una più esclusiva
tutela degli interessi nazionali, anche a scapito dell'impegno diretto degli
Stati Uniti nelle zone calde del globo La strategia «neo-isolazionista» di Bush
junior non poté comunque attuarsi appieno: il traumatico attentato alle Twin
Towers di New York dell'11 settembre 2001 avrebbe infatti costretto gli Stati
Uniti a un impegno su scala mondiale, in nome della lotta contro il terrorismo.
Dalla Cee all'Unione europea
L'atto unico europeo
Le grandi trasformazioni degli equilibri di potenza e degli assetti economici
mondiali maturate alla fine del secolo XX posero l'Europa occidentale di fronte
a nuove e difficili sfide. Fu anche per rispondere a queste sfide che i dodici
paesi membri della Comunità europea (sarebbero diventati quindici nel 1995, in
seguito all'adesione di Austria, Svezia e Finlandia) decisero di dare nuovo
impulso al processo di integrazione.
Il primo passo importante in questo senso era stato, nel 1985, la firma degli
accordi di Schengen (in Lussemburgo) che impegnavano gli Stati membri ad abolire
entro dieci anni i controlli alle frontiere sul transito delle persone.
Nel febbraio 1986, sempre in Lussemburgo, fu sottoscritto l'Atto unico europeo,
così chiamato perché affrontava in un unico testo gli aspetti riguardanti
l'economia e quelli relativi al rafforzamento della cooperazione politica. Si
stabiliva fra l'altro che entro il 1992 sarebbero state rimosse le residue
barriere alla circolazione delle merci e dei capitali e si introduceva il voto a
maggioranza qualificata nel Consiglio dei ministri europeo, le cui decisioni sin
allora potevano essere bloccate dal veto di ogni singolo membro.
Il trattato di Maastricht
Le direttive dell'Atto unico divennero esecutive con la firma, nel febbraio 1992, nella città olandese di Maastricht, di un nuovo trattato che istituiva l'Unione europea. Il trattato sanciva la completa unificazione dei mercati dall'inizio dell'anno successivo e allargava l'area di competenza delle istituzioni europee a campi nuovi, fra cui la ricerca e l'istruzione, la sanità pubblica e la tutela dei consumatori. Si prevedeva inoltre una politica estera e di sicurezza comune (Pesc), che però non riuscì a decollare, anche perché qualsiasi decisione doveva raccogliere l'unanimità fra gli Stati membri.
La moneta unica
La decisione più significativa, fra quelle assunte a Maastricht, fu però
l'impegno a realizzare entro il 1999 il progetto di una moneta comune (cui
sarebbe stato dato il nome di euro) e di una Banca centrale europea.
Si stabiliva, infine, come condizione per l'adesione all'Unione monetaria,
l'adeguamento a una serie di parametri comuni (criteri di convergenza) che
avrebbero dovuto garantire la solidità della nuova moneta e la credibilità
finanziaria dell'Unione: tassi di inflazione contenuti, cambi stabili per un
periodo di almeno due anni prima dell'entrata in vigore della moneta unica,
deficit statale annuo non superiore al 3% del prodotto interno lordo e debito
pubblico globale non superiore al 60%.
Le politiche di austerità
All'inizio il cammino così impostato si rivelò irto di difficoltà, anche
perché non era facile coordinare le decisioni dei singoli governi nazionali,
mentre la libertà di circolazione dei capitali favoriva le operazioni
speculative contro le valute deboli. Inoltre gli sforzi dei governi per
adeguarsi ai parametri di Maastricht mediante tagli alla spesa pubblica
(soprattutto nei settori in cui questa tendeva naturalmente a espandersi:
assistenza sanitaria, pensioni, trasferimenti agli enti locali) provocarono
proteste diffuse. Le politiche restrittive aggravavano infatti la crisi dei
sistemi di Welfare e impedivano l'uso della spesa pubblica per combattere la
disoccupazione che, per l'intero decennio, si mantenne su livelli molto elevati:
nel 1997 la media nei paesi dell'Unione arrivava all'11,3%.
In realtà, la cura di austerità finanziaria imposta dal trattato di Maastricht
non fece che mettere a nudo alcuni caratteri distorsivi che da tempo
affliggevano le economie del vecchio continente e le rendevano poco competitive
nel confronto con le più dinamiche realtà del Nord America o dell'Oriente:
l'eccesso di spesa pubblica, che distoglieva risorse dagli impieghi produttivi;
l'insostenibilità finanziaria, sui tempi lunghi, dei sistemi di sicurezza
sociale (che per altri versi costituivano un vanto per la civiltà europea); la
rigidità del mercato del lavoro, orientato più alla tutela dei "garantiti" che
alla creazione di nuove opportunità per giovani e disoccupati.
Il varo dell'euro
Nel maggio 1998, a sei anni dalla firma del trattato di Maastricht, venne
ufficialmente inaugurata l'Unione monetaria europea (Ume) con la partecipazione
di undici Stati: restarono fuori la Grecia, che non aveva raggiunto i parametri
(sarebbe stata ammessa solo nel 2001), e la Gran Bretagna, la Danimarca e la
Svezia, che rinviarono l'adesione per loro scelta.
Contemporaneamente venne istituita la Banca centrale europea (Bce), che
assorbiva alcune delle funzioni principali prima spettanti alle banche centrali
dei singoli Stati membri (come la stampa di carta moneta e il controllo del
tasso di interesse); e si fissò al 1° gennaio 1999 l'entrata in vigore negli
scambi finanziari della moneta unica, destinata tre anni dopo (1° gennaio 2002)
a sostituire interamente le monete nazionali.
La prevalenza dei moderati
Il dibattito sui modi e sui tempi di realizzazione del progetto europeo finì
inevitabilmente col dominare la scena politica dei singoli paesi e col
condizionare le scelte di governi e forze politiche.
In un primo tempo, parve che a fare le spese delle difficoltà inerenti al
processo di integrazione fossero soprattutto i partiti di matrice socialista,
costretti a confrontarsi con problemi e rimedi poco congeniali ai loro
orientamenti di fondo. In Germania la coalizione fra cristiano-democratici e
liberali guidata da Helmut Kohl prevalse (per la quarta volta consecutiva) nelle
elezioni dell'ottobre '94. In Francia, scaduto il secondo mandato di Mitterrand,
la coalizione di centro-destra (già vincitrice nelle politiche del '93) portò
alla presidenza della Repubblica, nel '95, il gaullista Jacques Chirac. In
Spagna, nel marzo '96, i socialisti di González, al potere da quindici anni,
furono sconfitti dai conservatori di José María Aznar.
I successi dei socialisti
Successivamente la tendenza si invertì: le forze di ispirazione progressista
si affermarono in Italia (aprile '96), in Francia (maggio '97) e in Gran
Bretagna, dove, sempre nel maggio '97, i laburisti di Tony Blair prevalsero con
largo margine sui conservatori, al potere da diciotto anni: un successo favorito
dalla grande popolarità di Blair, abile, come Clinton negli Stati Uniti, nel
conquistare l'elettorato moderato conciliando la vocazione sociale del suo
partito con la sostanziale accettazione delle logiche del mercato.
La conferma del mutamento di tendenza veniva, nel settembre '98, dalla Germania,
dove la netta vittoria dei socialdemocratici di Gerhard Schröder
sulla coalizione fra cristiano-democratici e liberali pose fine alla lunga
stagione politica del cancelliere Kohl.
Conservatori e progressisti
Nel decennio successivo, conservatori e progressisti continuarono ad
alternarsi alla guida dei governi europei.
In Francia le elezioni parlamentari del 2002 videro il ritorno al potere dei
gaullisti, che nel 2007 portarono alla presidenza Nicolas Sarkozy. In Spagna, le
elezioni del 2004 riconsegnarono il governo ai socialisti, guidati da José Luis
Rodríguez Zapatero, promotore di radicali riforme laiche nel campo dei diritti
civili. In Germania, nel 2005, il sostanziale equilibrio fra i due partiti
principali portò a un accordo programmatico sulle misure necessarie per il
rilancio dell'economia e alla nascita di un governo di grande coalizione
presieduto dalla cristiano-democratica Angela Merkel. In Gran Bretagna, nel
2007, si concludeva, dopo dieci anni e senza una sconfitta elettorale,
l'esperienza governativa di Tony Blair, che, logorato anche dalla scelta di
schierare la Gran Bretagna a fianco degli Usa nell'impopolare guerra all'Iraq,
si dimise lasciando la carica al suo collega di partito Gordon Brown.
I problemi comuni
È facile notare come, pur nella diversità delle risposte, i governi e gli stessi cittadini europei si trovassero in questo periodo ad affrontare questioni in larga misura comuni: non solo quelle relative all'economia, alla moneta e alla finanza pubblica, o quelle di ordine sociale, come la disoccupazione e il ridimensionamento del Wellare, ma anche quelle in apparenza più attinenti alla sfera delle sovranità nazionali. Primo fra tutti il problema dell'immigrazione (principalmente dall'Europa orientale e dal Nord Africa), diventato un problema europeo da quando l'area dell'Unione era diventata uno spazio aperto.
Il difficile cammino dell'Unione allargata
All'inizio del nuovo secolo, lo slancio che aveva portato i governi europei allo storico traguardo dell'euro parve esaurirsi. E il cammino verso l'integrazione politica tornò a farsi più lento. Nel contempo però, a riprova di una persistente vitalità del progetto unitario, o quanto meno della sua capacità di fungere da polo di attrazione per i paesi vicini, si accelerava il processo di allargamento che, nel giro di pochi anni, avrebbe portato l'Unione a coincidere di fatto con l'Europa geografica (Russia esclusa), cancellando definitivamente, almeno sul piano dell'organizzazione politica, la grande frattura creatasi mezzo secolo prima con l'inizio della guerra fredda.
Le nuove adesioni
Richieste di associazione furono avanzate nel corso degli anni '90 da tutti
gli Stati dell'Europa ex comunista e anche da alcuni paesi della sponda sud del
Mediterraneo, tra cui la Turchia.
Con dodici di questi paesi (Bulgaria, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta,
Romania, Slovacchia, Slovenia, oltre a Polonia, Ungheria e Repubblica ceca, già
membri della Nato) i negoziati per l'adesione ebbero inizio nel luglio 1997 e,
dopo una lunga valutazione dei requisiti, fu deciso l'ingresso di dieci Stati (i
dodici appena citati, meno Bulgaria e Romania) dal maggio 2004, portando così a
25 il numero degli Stati membri. Nel gennaio 2007, furono ammesse Bulgaria e
Romania. Con l'ammissione della Croazia nel 2103 il numero degli stati membri
salì a 28.
L'Europa nel 2013
La Convenzione europea
Questo allargamento pose una serie di questioni sull'organizzazione e sul
funzionamento delle istituzioni comunitarie, sulla gestione delle politiche
economiche e sociali, sul ruolo e sul funzionamento di un organismo politico
destinato a unire e rappresentare quasi tutto il continente.
Nel 2001, proprio allo scopo di riformare l'Unione, i paesi membri decisero di
dar vita a una Convenzione, composta da parlamentari e da rappresentanti dei
governi, con il compito di redigere una carta costituzionale della Ue. La
convenzione, che tenne i suoi lavori a Nizza, presentò nel giugno 2003 un
progetto di costituzione con un elenco dei principi generali dell'Unione e uno
schema di riforma delle istituzioni comunitarie. Nelle intenzioni degli
europeisti, l'approvazione di una Costituzione europea avrebbe dovuto
rappresentare il primo passo verso una piena integrazione politica del
continente.
Le difficoltà del processo di integrazione
Il traguardo tuttavia appariva ancora lontano. Se per un verso l'ingresso dei
nuovi membri dava corpo per la prima volta all'ideale di un'Europa capace di
superare antiche e recenti divisioni ideologiche e politiche e di accogliere
nuove energie e nuove aspirazioni al benessere, per altro verso il progetto
comunitario appariva a molti calato dall'alto e non riusciva a trovare un
adeguato consenso popolare: ne fu testimonianza il basso livello di
partecipazione alle elezioni europee del giugno 2004 registrato in molti paesi.
Un duro colpo per le aspirazioni degli europeisti venne un anno dopo, quando,
tra la fine di maggio e l'inizio di giugno del 2005, gli elettori della Francia
e dell'Olanda (entrambi paesi fondatori della Comunità europea), chiamati a
decidere mediante referendum sulla ratifica della Costituzione, si pronunciarono
per il no con margini piuttosto netti (57% in Francia, 63% in Olanda).
Giocarono, nell'esito del voto, la protesta contro i vincoli di politica
economica imposti dall'appartenenza all'Unione e il timore di un'eccessiva
liberalizzazione intereuropea del mercato del lavoro.
Le resistenze nazionaliste
Altre difficoltà vennero poi dagli stessi paesi dell'Est Europa, a volte
riluttanti ad adeguarsi alle regole imposte dall'Unione e comunque desiderosi di
esercitarvi un peso maggiore.
Fu il caso della Polonia, governata, fra il 2005 e il 2007, da una coalizione
nazionalista e cattolico-conservatrice. L'esperienza si interruppe nell'ottobre
2007, quando le elezioni furono vinte dalle forze di orientamento liberale e
filo-occidentale, che si affermò anche nelle elezioni del 2011.
Il problema si ripropose, in forme ancora più preoccupanti, in Ungheria, dove le
elezioni del 2010 furono vinte dal partito di destra Fidesz (un acronimo che sta
per 'alleanza dei giovani democratici'), sulla base di un programma fortemente
nazionalista, che prevedeva fra l'altro una riforma della Costituzione in senso
autoritario e una serie di misure limitative della libertà di stampa.
Il nuovo trattato
Nell'ottobre del 2007, in coincidenza con la sconfitta delle forze
nazionaliste in Polonia, una nuova spinta al processo di integrazione venne da
un vertice europeo tenuto a Lisbona. In questo vertice i capi di Stato e di
governo dei paesi membri si accordarono sul testo di un nuovo trattato di
riforma, che correggeva in parte, limitandone le ambizioni, la Convenzione di
Nizza, ma allargava le competenze delle autorità europee in materia di energia e
di sviluppo, di immigrazione e di lotta contro la criminalità.
Questa volta però furono gli elettori irlandesi a bocciare di stretta misura il
trattato in un referendum del giugno 2008. Una battuta d'arresto in sé non
grave, ma rivelatrice di un diffuso disagio, di una persistente diffidenza nei
confronti di procedure che apparivano viziate da eccessivo tecnicismo e di
istituzioni non sufficientemente legittimate dal consenso popolare.
ISLAM E OCCIDENTE
Uno scontro di civiltà?
Dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della contrapposizione bipolare tra Est e Ovest, il principale fattore di instabilità del sistema internazionale fu rappresentato dalla crescente tensione tra i paesi dell'Occidente e il mondo islamico. Una vasta area, che andava dal Nord Africa fino all'Asia centrale ed era abitata da popolazioni di religione musulmana, vide crescere il protagonismo di movimenti radicali a carattere religioso. L'epicentro della tensione fu in particolare la zona del Medio Oriente e del Golfo Persico, profondamente segnata dalle conseguenze della rivoluzione iraniana del 1979, dalle due "guerre del Golfo" e dal perdurante conflitto israelo-palestinese.
Il rilancio dell'islam
Già negli anni precedenti, nei paesi islamici, si era andato raf- forzando il sentimento di appartenenza religiosa, soprattutto nei settori meno alfabetizzati e più svantaggiati della società. Un'importante azione di proselitismo era svolta, oltre che dalle tradizionali autorità religiose, da nuovi gruppi che rivendicavano la riscoperta della cultura islamica quale elemento fondante della vita sociale e dell'identità collettiva. Si trattava di un fenomeno molto complesso, in cui confluivano movimenti eterogenei negli obiettivi e nelle modalità d'azione, e tuttavia accomunati dall'opposizione agli orientamenti laici e dal rifiuto della cultura occidentale. Appariva perciò evidente la distanza con il trentennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale, che aveva visto quei paesi vivere un difficile processo di secolarizzazione e contraddittorie aperture a una modernizzazione influenzata dall'Occidente.
Tradizionalismo e fondamentalismo
La divisione fra tradizionalismo religioso e nazionalismo laico era presente nei paesi arabi fin dagli anni fra le due guerre mondiali. A partire dagli anni '50, i movimenti nazionalisti, per lo più guidati dai militari (come nell'Egitto di Nasser), si erano imposti quasi ovunque sull'onda delle lotte contro il dominio europeo e avevano represso, o comunque tenuto sotto controllo, l'attività dei gruppi religiosi tradizionalisti, come i Fratelli musulmani. Furono gli insuccessi dei regimi laici, spesso autoritari e corrotti, a restituire spazio ai gruppi più radicali, che si proclamavano rappresentanti delle masse islamiche e innalzavano la bandiera della "guerra santa" (jihad contro gli eretici, gli infedeli e l'intera civiltà occidentale. Il rilancio dell'Islam prese così, in molti casi, le forme del fondamentalismo.
Scenari di guerra
La diffusione del fondamentalismo, con la sua carica aggressiva nei confronti
delle altre religioni, e più ancora delle società laiche e secolarizzate,
suscitò non poche preoccupazioni in Occidente: tanto da suggerire ai pessimisti
lo scenario di un mondo futuro tutto percorso dalle guerre di religione o diviso
da nuovi e catastrofici scontri tra le diverse culture. Alla metà degli anni '90
alcuni osservatori, preoccupati della crescente tensione che animava le
relazioni tra paesi occidentali e mondo islamico, cominciarono apertamente a
sostenere l'ineluttabilità di uno «scontro di civiltà», in un mondo segnato non
più dalle tradizionali contrapposizioni ideologiche, ma da conflitti a base
identitaria e culturale.
Con l'attentato terroristico alle Torri Gemelle di New York dell'11 settembre
2001, l'idea dello scontro di civiltà uscì dall'ambito ristretto del dibattito
tra esperti di teoria politica e di relazioni internazionali e divenne oggetto
di discussione presso l'opinione pubblica americana ed europea. Anche in quel
difficile frangente, tuttavia, molti criticarono quella prospettiva,
sottolineando come il fondamentalismo fosse una presenza minoritaria e
ricordando che l'Islam incarnava una lunga storia, non riducibile a un'immagine
di arretratezza e intolleranza.
Segnali di dialogo
Gli eventi più recenti sembrano suggerire un quadro articolato e ancora carico di incertezze: da un lato, dopo la «guerra al terrorismo», concretizzatasi in particolare nel conflitto in Afghanistan (2001) e nella seconda guerra del Golfo (2003), i maggiori leader politici americani ed europei hanno privilegiato la linea del dialogo; dall'altro lato, nel mondo islamico l'espansione dei gruppi fondamentalisti ha conosciuto un rallentamento, e si sono potute osservare altre forme di mobilitazione e di espressione del malcontento, diverse dalle rivendicazioni identitarie a carattere religioso.
La prima guerra del Golfo
L'invasione dei Kuwait e la risposta americana
Nell'agosto del 1990, il dittatore dell'Iraq Saddam Hussein, già protagonista
della guerra di aggressione contro l'Iran (e per questo a lungo armato e
rifornito sia dall'Urss sia da molti paesi occidentali), invase il piccolo e
confinante Emirato del Kuwait, affacciato sul Golfo Persico, uno dei maggiori
produttori mondiali di petrolio, tradizionalmente filo-occidentale, e ne
proclamò l'annessione alla Repubblica irachena.
L'invasione – che mirava al controllo dell'intera Penisola arabica, ossia del
40% delle risorse petrolifere mondiali – fu subito condannata dalle Nazioni
Unite. Contemporaneamente, gli Stati Uniti inviavano in Arabia Saudita un corpo
di spedizione, al doppio scopo di difendere gli Stati arabi minacciati e di
premere sull'Iraq per costringerlo al ritiro. Alla spedizione si univano anche
alcuni Stati europei (Gran Bretagna, Francia e, in misura assai più limitata,
l'Italia) e una parte dei paesi arabi fra cui Egitto e Siria. Decisivo fu
l'atteggiamento dell'Urss di Gorbačëv, che
non si oppose all'intervento armato e consentì così alla forza multinazionale di
agire sotto la copertura delle Nazioni Unite.
Il Medio Oriente nel 1990
L'offensiva contro l'Iraq
Alla fine di novembre il Consiglio di sicurezza dell'Onu approvò una
risoluzione che imponeva all'Iraq di ritirarsi dal Kuwait entro il 15 gennaio,
autorizzando in caso contrario l'impiego della forza. Nella notte fra il 16 e il
17 gennaio 1991, la forza multinazionale scatenava un violento attacco aereo
contro obiettivi militari in Iraq e nel Kuwait occupato. Saddam rispondeva
lanciando missili con testate esplosive sulle città dell'Arabia Saudita e di
Israele (che pure era rimasto estraneo al conflitto). Alla fine di febbraio,
scattava l'offensiva di terra contro le forze irachene. Inferiore quanto a
tecnologia bellica e privo della copertura aerea indispensabile in una guerra
nel deserto, l'esercito iracheno cedette di schianto abbandonando
precipitosamente il Kuwait occupato (non prima, però, di averne incendiato gli
impianti petroliferi, con conseguenze gravissime sull'economia e sugli equilibri
ecologici della regione).
Ottenuto lo scopo principale, e ufficiale, dell'intervento (la liberazione del
Kuwait), il presidente George Bush decideva di arrestare l'offensiva della forza
multinazionale, per non coinvolgere gli Usa in un conflitto di lunga durata.
Saddam Hussein, contro tutte le previsioni, sopravviveva politicamente alla
sconfitta, rimanendo saldamente al potere. Ma gli Stati Uniti risultavano
ugualmente trionfatori, essendo riusciti a riscattare il proprio prestigio
militare, ancora appannato dalla vicenda del Vietnam, e a imporsi come primo
garante degli equilibri mondiali.
La questione palestinese
Forte del successo ottenuto, il presidente americano Bush cercò di profittare della situazione favorevole creatasi in seguito alla sconfitta irachena (e al conseguente indebolimento del fronte arabo radicale) per rilanciare il processo di pace in tutta l'area mediorientale e per affrontare il problema ancora irrisolto del conflitto fra Israele e i palestinesi.
La stagione delle trattative
Nell'ottobre 1991, fu convocata a Madrid la prima sessione di una conferenza
di pace sul Medio Oriente, in cui rappresentan- ti del governo israeliano
incontrarono delegazioni dei paesi confinanti (che ancora, con l'eccezione
dell'Egitto, non riconoscevano lo Stato ebraico) ed esponenti palestinesi dei
territori occupati. Il primo ministro laburista, l'ex generale Itzhak Rabin, si
mostrò più propenso dei suoi predecessori a concessioni territoriali in cambio
della pace con i paesi confinanti.
Nel 1993, Rabin e il ministro degli Esteri Shimon Peres presero la sofferta
decisione di trattare direttamente con l'Olp, profittando della disponibilità di
un Arafat indebolito per l'appoggio fornito a Saddam Hussein durante la guerra
del Golfo e isolato all'interno dello stesso mondo arabo. Un lungo negoziato
segreto portò a un primo accordo che fu firmato a Oslo in agosto e prevedeva,
oltre al reciproco riconoscimento, un avvio graduale dell'autogoverno
palestinese nei territori occupati. Nel settembre 1993 l'accordo fu solennemente
sottoscritto a Washington da Rabin e Arafat, sotto gli auspici del nuovo
presidente americano Bill Clinton.
Gli ostacoli alla pace
Sulle prospettive di pace gravavano però molti problemi irrisol- ti: le
forme, i tempi e l'ulteriore estensione dell'autogoverno che i palestinesi
consideravano come la prima tappa per uno Stato indipendente; il destino degli
insediamenti ebraici nei territori; la sorte di Gerusalemme, proclamata
«capitale eterna e indivisibile» di Israele e rivendicata come città santa anche
dai musulmani; l'atteggiamento ostile della Siria e dell'Iran, e soprattutto
dell'ala intransigente dell'Olp.
L'attività terroristica dei gruppi estremisti palestinesi si intensificò, col
frequente ricorso ad attentati suicidi che fecero numerosissime vittime tra le
forze armate e la popolazione civile di Israele. I continui attacchi suscitarono
nella società israeliana un diffuso senso di insicurezza, tradottosi anche nella
crescita di gruppi estremistici a sfondo nazionalistico e religioso. Questa
nuova spirale di violenza e di fanatismo ebbe il suo culmine nell'uccisione del
premier Rabin, avvenuta a Tel Aviv nel novembre 1995 per mano di un giovane
estremista israeliano. Privato della sua guida più autorevole, il Partito
laburista fu sconfitto nelle elezioni politiche del maggio 1996 da una
coalizione di destra guidata da Benjamin Netanyahu (leader del partito del
Likud).
Il fallimento dei negoziati
La vittoria della destra rallentò il processo di pace, ma non ne interruppe il cammino. Nell'ottobre 1998, ancora una volta sot- to la pressione americana, Netanyahu e Arafat firmarono negli Stati Uniti un nuovo accordo che fissava i tempi di un graduale ritiro israeliano dai territori occupati. Nell'estate del 2000, dopo che i laburisti erano tornati al potere in Israele, il presidente americano Clinton, desideroso di concludere il suo secondo mandato con uno storico successo diplomatico, convocò le parti per una nuova tornata di colloqui di pace a Camp David. Questa volta il premier israeliano Ehud Barale si mostrò disposto a trattare anche su problemi fin allora mai affrontati, come quello di Gerusalemme e quello del ritorno dei profughi palestinesi nelle loro terre d'origine. Ma l'accordo per una pace globale saltò ancora una volta, soprattutto per i contrasti relativi alla sovranità sui luoghi santi, ebraici e musulmani, di Gerusalemme. E da una pace mancata per poco si passò in brevissimo tempo a una nuova situazione di scontro generalizzato.
La «seconda intifada»
A innescare lo scontro, alla fine di settembre del 2000, fu una visita compiuta da Ariel Sharon, leader della destra israeliana, alla spianata delle Moschee di Gerusalemme: una provocazione agli occhi dei palestinesi, che reagirono scatenando una nuova rivolta. La «seconda intifada» fu assai più cruenta della prima, sia per la violenza delle manifestazioni sia per la durezza della repressione. Il conflitto divenne cronico e coinvolse non solo Gaza e la Cisgiordania, dove il problema era rappresentato dalla presenza di insediamenti ebraici all'interno dei territori controllati dall'Autorità nazionale palestinese, ma le stesse città israeliane che furono teatro di una serie impressionante di attentati, spesso suicidi, condotti contro i civili dalle organizzazioni estremistiche come Hamas (in arabo 'entusiasmo, zelo religioso'): un movimento islamista rapidamente radicatosi negli strati più poveri della società palestinese, affiancando la pratica del terrorismo alle attività sociali e assistenziali.
Il ritorno della destra
L'inasprirsi dello scontro e il conseguente diffondersi di un senso di paura e di insicurezza nella società israeliana portarono, nel febbraio 2001, a elezioni anticipate e a una nuova vittoria del centro-destra, guidato questa volta proprio da Sharon. Il nuovo governo alzò ulteriormente il livello della risposta militare. Ma né la repressione né i ripetuti tentativi di mediazione condotti soprattutto dagli Stati Uniti riuscirono a riavviare il dialogo fra le parti. Al contrario, la situazione si andò continuamente deteriorando, in un susseguirsi di attentati e rappresaglie, in concomitanza col radicalizzarsi della sfida portata all'Occidente dal terrorismo fondamentalista. La decisione del governo di Gerusalemme, annunciata nella primavera 2002, di costruire una barriera difensiva – un'alta muraglia di cemento che separava Israele dai territori palestinesi –, se da un lato ebbe l'effetto di far calare il numero degli attentati, dall'altro suscitò accese proteste in tutto il mondo arabo e fu condannata da buona parte della comunità internazionale.
Il ritiro da Gaza e la vittoria di Hamas
Fu però proprio il governo Sharon a riaprire i giochi con un'altra decisione
unilaterale: quella di procedere, nell'estate del 2005, al ritiro dell'esercito
e allo smantellamento delle colonie nella striscia di Gaza. La decisione,
attuata con grande risolutezza, fu aspramente contestata dalle organizzazioni
dei coloni e dalla destra del Likud: tanto da indurre Sharon a spaccare il suo
partito e a dar vita a una nuova formazione politica di centro. Intanto, nel
novembre 2004, era morto Arafat, leader storico dei palestinesi. Poco più di un
anno dopo (gennaio 2006), fu Sharon a uscire di scena, per le conseguenze di una
gravissima malattia.
Intanto i nuovi spiragli di dialogo che erano sembrati aprirsi con l'autorità
palestinese, guidata, dopo la morte di Arafat, dal moderato Abu Mazen, furono
vanificati dall'inatteso risultato delle elezioni a Gaza e in Cisgiordania del
gennaio 2006, che videro l'affermazione degli estremisti di Hamas, fermi nel
rifiuto di riconoscere Israele. Dalla striscia di Gaza, non più occupata,
continuarono a partire missili contro lo Stato ebraico, che rispose con pesanti
rappresaglie, mentre Gaza passava sotto il completo controllo degli
integralisti.
La crisi libanese
Tornava frattanto in primo piano il problema del Libano, sottoposto, dalla fine degli anni '80, a una sorta di protettorato da parte della vicina Siria, che vi aveva inviato un contingente militare col pretesto di pacificare il paese dai conflitti etnico-religiosi che l'avevano sconvolto negli anni precedenti. Anche dopo aver ritirato le sue truppe, nel 2005, la Siria continuò a far sentire la sua influenza soprattutto attraverso il movimento integralista sciita Hezbollah ("Partito di Dio"), appoggiato e armato anche dall'Iran. Nell'estate del 2006 Israele reagì con un attacco su vasta scala ai continui lanci di missili sul suo territorio a opera di Hezbollah. Una tregua fu stabilita grazie all'arrivo di un contingente Onu (con la partecipazione determinante dell'Italia).
L'intervento a Gaza
Alla fine del 2008 il centro delle tensioni si spostò alla striscia di Gaza, dove gli integralisti di Hamas avevano ripreso e intensificato il lancio di missili su alcuni centri abitati del Sud di Israele. La risposta delle forze armate israeliane fu violentissima e il bilancio di perdite umane fra i civili palestinesi molto elevato. Solo nel gennaio 2009, dopo tre settimane di combattimenti, si arrivò a una tregua, grazie alla mediazione dell'Egitto. Ma intanto il processo di pace, mai ufficialmente interrotto, continuava a segnare il passo.
La crescita del fondamentalismo
Le tappe dell'offensiva
L'affermazione di Hamas a Gaza fu solo una delle manifestazioni di un fenomeno più generale, che, come abbiamo visto, interes- sò, dalla fine del '900, l'intero mondo islamico, sia sunnita sia sciita: la diffusione delle correnti fondamentaliste. La prima e più importante tappa di questo percorso era stata la rivoluzione khomeinista in Iran. Una ulteriore occasione di rilancio e di visibilità venne dalla vittoriosa resistenza all'occupazione sovietica in Afghanistan, dove erano affluiti volontari da molti paesi musulmani, soprattutto sunniti. Infine, l'intervento delle potenze occidentali contro l'Iraq, nel '91, accrebbe il discredito dei regimi nazionalisti e nel contempo stimolò la protesta contro la presenza militare americana in Arabia Saudita, sede dei principali luoghi santi dell'Islam.
I massacri in Algeria
I fondamentalisti colsero il successo più significativo, perché ottenuto attraverso libere elezioni, in Algeria, dove, già all'inizio degli anni '90, l'egemonia dei gruppi dirigenti di matrice laica e militare, organizzati nell'Fln (Fronte di liberazione nazionale), risultava logorata, soprattutto a causa del diffuso disagio economico. Nel gennaio 1992 le elezioni videro così la vittoria degli integralisti del Fis (Fronte islamico di salvezza). Il governo annullò allora le elezioni, scatenando la reazione dei gruppi islamici. Questa reazione assunse tratti di particolare ferocia, dal momento che le frange estreme del fondamentalismo, sfuggite probabilmente al controllo della stessa dirigenza del Fis, misero in atto una strategia del terrore a base di massacri indiscriminati fra la popolazione civile: strategia che provocò, fra il '92 e il '97, oltre centomila morti (fra cui un gran numero di donne e bambini). I governanti risposero con dure repressioni, cui seguirono proposte di pacificazione; ma le violenze proseguirono, seppur con minore intensità, anche negli anni successivi.
Laici e religiosi in Turchia
Assai meno drammatiche, ma ugualmente indicative di una tendenza, furono le vicende politiche vissute in questi stessi anni dalla Turchia, dove la ripresa delle pratiche religiose tradizionali si scontrava con l'ordinamento laico dello Stato, garantito dai militari. Qui un partito di matrice islamica (il Refah, Partito del benessere) si affermò nelle elezioni del dicembre '95, assumendo la guida del governo. L'esperienza si interruppe nel '97, quando le pressioni dei militari convinsero i partiti laici a formare una nuova maggioranza (e il Refah fu addirittura messo fuori legge). Ma pochi anni dopo (novembre 2002) si affermò nelle elezioni politiche un altro partito di ispirazione islamico-moderata chiamato Giustizia e Sviluppo e guidato da Recep Tayyip Erdogan. In questo caso il passaggio dei poteri si attuò senza particolari traumi e senza ripercussioni sulla collocazione internazionale della Turchia, che faceva parte dell'Alleanza atlantica dal 1952 e, dai primi anni '90, aveva avviato colloqui per un eventuale ingresso nell'Unione europea: ingresso rivelatosi peraltro problematico, sia per le difficoltà di inserimento in Europa di uno Stato geograficamente asiatico e compattamente musulmano, sia per le riserve nutrite da alcuni partner dell'Unione sulle pratiche autoritarie del regime turco (soprattutto nei confronti della minoranza curda).
I talebani in Afghanistan
Fra il '96 e il '97, gruppi fondamentalisti detti talebani (ossia studenti delle scuole coraniche) approfittarono della situazione di anarchia creatasi in Afghanistan dopo il ritiro dei sovietici per di buona parte del paese e imporvi un regime di duro e intollevittime principali furono le donne, cui fu fra l'altro impedito di lavorare e di frequentare le scuole. Intanto il problema del fondamentalismo islamico — o meglio delle sue manifestazioni violente ed estreme — era esploso ben al di là dei confini dei singoli paesi, manifestandosi in Somalia come nel Sudan, in Pakistan come nell'Africa sub-sahariana, interessando lo stesso Occidente attraverso le folte comunità degli immigrati, e profilandosi come un'emergenza internazionale.
L'attacco all'Occidente
L'attentato alle Twin Towers
La mattina dell'11 settembre 2001 due aerei di linea americani si schiantarono contro le Twin Towers ('Torri Gemelle'), gli edifici più alti di New York, sede di uffici e banche, a quell'ora affollatissimi, provocandone l'incendio e il crollo. Un altro aereo, anch'esso carico di passeggeri, si abbatté a Washington sul Pentagono, il ministero della Difesa americano. I tre apparecchi erano stati sequestrati da commandos suicidi e guidati sul bersaglio dagli stessi dirottatori, debitamente addestrati. Un quarto aereo, forse diretto verso la Casa Bianca, precipitò in Pennsylvania dopo una violenta colluttazione fra i dirottatori e alcuni passeggeri. I kamikaze erano tutti provenienti da paesi arabi: di alcuni di loro si accertò l'appartenenza a un'organizzazione terroristica internazionale detta Al Qaeda ('la base, la rete'). Quest'ultima, che aveva la sua principale base operativa nell'Afghanistan dei talebani, si ispirava all'integralismo islamico. A guidarla era un miliardario saudita, Osama bin Laden, da tempo assertore di una guerra santa da condurre in ogni luogo e con ogni mezzo contro i nemici dell'Islam, e in particolare contro gli Stati Uniti, oggetto, già in passato, di attacchi terroristici di analoga matrice: nel '93 le stesse Twin Towers erano state colpite con auto imbottite di esplosivo a opera di gruppi dell'estremismo integralista ed era stata la stessa Al Qaeda a rivendicare altri due sanguinosi attentati nel '98 contro le ambasciate americane in Kenya e in Tanzania. Quanto alla tecnica dei commandos suicidi, essa era stata ampiamente sperimentata, anche se in forme assai meno sofisticate, dagli estremisti palestinesi contro Israele.
Il trauma
L'attentato dell'11 settembre – ripreso in diretta e trasmesso dalle televisioni e dai siti d'informazione di tutto il mondo – provocò migliaia di vittime civili (circa 3000, secondo stime attendibili) e destò ovunque enorme impressione. Gli Stati Uniti, prima potenza mondiale, avevano subìto per la prima volta un attacco sul loro stesso territorio. E l'intero Occidente, oggetto delle minacce di bin Laden, scopriva la propria vulnerabilità di fronte all'offensiva di un nemico che risultava tanto più inafferrabile in quanto non si identificava con un singolo Stato, ma agiva all'interno di società aperte e multietniche. Un senso di paura e di incertezza si diffuse in tutto il mondo, colpendo non solo i settori più direttamente interessati dalla catastrofe (le compagnie aeree, che videro bruscamente calare il numero dei viaggiatori, e le società di assicurazione, costrette a far fronte a un'enorme massa di risarcimenti), ma l'intera economia occidentale, di cui le Twin Towers apparivano come il simbolo e il cuore pulsante. La prospettiva dello scontro di civiltà sembrava farsi improvvisamente più concreta: anche perché l'opinione pubblica americana, ferita e spaventata, esigeva risposte all'altezza della sfida lanciata.
La reazione americana
L'amministrazione americana, in carica da pochi mesi dopo un'elezione incerta e contestata, riuscì però, dopo un primo mo- mento di smarrimento, a riprendere il controllo della situazione, contando anche sulla compattezza patriottica del paese e della sua classe politica. Il presidente Bush junior — che, nelle ore successive agli attentati, era stato costretto ad abbandonare la Casa Bianca e a imbarcarsi sull'aereo presidenziale per sfuggire ad altri eventuali attacchi — si preoccupò innanzitutto di predisporre le condizioni politiche per un'azione militare adeguata, così come Bush padre aveva fatto dieci anni prima con la guerra del Golfo. L'obiettivo primario e obbligato era questa volta l'Afghanistan, che ospitava il capo dei terroristi ed era diventato il riferimento di tutti i gruppi integralisti (gli stessi, paradossalmente, che gli statunitensi avevano armato e finanziato negli anni '80 per la lotta contro l'invasione sovietica).
Le guerre contro il terrorismo
La coalizione antiterrorisrno
Dopo L'l1 settembre, la diplomazia statunitense, assicuratasi l'appoggio degli alleati della Nato e delle potenze ex avversarie (Russia e Cina), si impegnò soprattutto sul fronte dei paesi musulmani. L'obiettivo era quello di isolare i regimi più estremisti e di rinsaldare i rapporti con gli Stati moderati, compresi quei paesi (Arabia Saudita e Pakistan in primo luogo) che, pur essendo formalmente alleati degli Usa, erano sospettati di intrattenere rapporti ambigui con i gruppi integralisti. L'operazione sostanzialmente riuscì. Gli Stati arabi, eccettuato l'Iraq, manifestarono comprensione, se non solidarietà, alla superpotenza. Persino l'Iran mantenne un atteggiamento di prudente neutralità. Il presumibile obiettivo di Osama bin Laden – sollevare le masse arabe contro i regimi moderati in nome della fede islamica e dell'antiamericanismo – fu sostanzialmente fallito: anche se il messaggio apocalittico del capo terrorista (che si atteggiava a nuovo profeta e si esprimeva periodicamente attraverso videocassette registrate) non mancò di fare proseliti fra le masse più radicalizzate del mondo musulmano.
L'intervento in Afghanistan
Il 7 ottobre 2001, quattro settimane dopo l'attentato alle Torri Gemelle, ebbero inizio le operazioni militari contro l'Afghanistan, che videro coinvolti, oltre ai nordamericani, anche reparti britannici e – con compiti prevalentemente logistici – quelli di altri paesi della Nato, fra cui l'Italia. L'impegno degli Stati Uniti e dei loro alleati si limitò, salvo circoscritte azioni dei reparti speciali, ai bombardamenti aerei. Il grosso dell'offensiva di terra fu affidato ai combattenti delle fazioni afghane avverse ai talebani (i mujaheddin), che da anni si battevano contro il regime integralista. Dopo una stasi iniziale, l'offensiva fu rapida e vittoriosa: Kabul fu occupata il 13 novembre e il 7 dicembre cadde Kandahar, ultima roccaforte del regime, mentre il mullah Omar, capo spirituale dei talebani, e Osama bin Laden riuscivano a far perdere le loro tracce. Frattanto gli esponenti delle diverse fazioni vittoriose (divise fra loro in base a linee etniche e tribali oltre che politiche) si accordavano per la formazione di un nuovo governo, presieduto da Hamid Karzai. La cacciata dei talebani rappresentò certamente un successo per l'alleanza a guida americana. Ma assai più difficile si rivelò il consolidamento del nuovo regime. Negli anni successivi, i talebani, giovandosi delle basi di cui continuavano a disporre nel vicino Pakistan e dei proventi del commercio dell'oppio, ripresero il controllo di vaste zone del paese, dando vita a un'ostinata guerriglia e scatenando una campagna terroristica che fece molte vittime fra la popolazione civile. Un'offensiva a cui la coalizione anti-terrorismo, che aveva mantenuto nel paese una forte presenza militare, trovava difficoltà a dare risposta, anche a causa del contemporaneo e pesante impegno militare degli Stati Uniti in Iraq.
L'intervento in Iraq
Dopo aver rovesciato il regime dei talebani, gli Stati Uniti volsero la loro
attenzione all'Iraq di Saddam Hussein, accusato di fiancheggiare il terrorismo
internazionale e di nascondere armi di distruzione di massa (chimiche e
batteriologiche). Nel 1998 il governo iracheno aveva espulso gli ispettori
dell'Onu incaricati di vigilare sugli armamenti iracheni e aveva respinto tutti
i successivi inviti a riaprire il paese alle ispezioni. Dopo un infruttuoso
negoziato tra Onu e Iraq, Stati Uniti e Gran Bretagna cominciarono a preparare
l'operazione militare. A questo punto, però, la comunità internazionale si
divise: Francia, Germania, Russia, Cina e Stati arabi si mostrarono contrari
all'uso immediato della forza e propensi a una soluzione diplomatica. Ma gli
Stati Uniti e la Gran Bretagna erano decisi a risolvere in modo definitivo la
questione irachena. Il 18 marzo 2003 lanciarono un ultimatum a Saddam Hussein:
se non avesse lasciato il paese entro 48 ore, avrebbero sferrato un attacco
militare.
Il 20 marzo i primi missili statunitensi colpirono Baghdad. Nei giorni seguenti
le truppe anglo-americane cominciarono ad avanzare in Iraq dalla frontiera
meridionale. Come nel 1991, la resistenza dell'esercito iracheno fu debole e
male organizzata: il 9 aprile i marines americani conquistarono la capitale e,
pochi giorni dopo, anche le città principali del Nord del paese. Saddam Hussein
fuggì e il regime si sfaldò all'istante: bande senza controllo compirono
saccheggi e razzie negli edifici pubblici, nei negozi e nei musei. Soltanto
alcuni giorni dopo, con molta fatica, le forze di occupazione riuscirono a
riportare un minimo di ordine nel paese.
La mancata stabilizzazione
I progetti americani
Nelle intenzioni della presidenza Usa e degli altri governi che inviarono contingenti militari in Iraq per contribuire al rista- bilimento dell'ordine (fra gli altri Italia, Spagna e Polonia), l'abbattimento della dittatura doveva costituire la premessa per la rapida creazione di un regime democratico: condizione a sua volta per la diffusione della democrazia nel Medio Oriente e per la costruzione di un nuovo equilibrio più favorevole all'Occidente in un'area che restava cruciale per i rifornimenti petroliferi. Nella visione di alcuni collaboratori e consiglieri della presidenza Usa (i cosiddetti neo-con, ovvero neo-conservatori), questo progetto si inquadrava in un'ambiziosa strategia che coniugava il disegno di esportazione della democrazia su scala planetaria – un disegno sin allora patrimonio della tradizione democratica, da Wilson a Roosevelt, più che di quella repubblicana – con un deciso rilancio della politica di potenza americana, anche a prescindere dal consenso della comunità internazionale e degli stessi alleati europei.
Un difficile dopoquerra
In realtà il processo di stabilizzazione che avrebbe dovuto coro- nare e giustificare gli interventi militari degli Stati Uniti e dei loro alleati trovò ostacoli insormontabili. Non solo in Afghanistan, come abbiamo già visto, ma anche nell'Iraq liberato dalla dittatura di Saddam Hussein e posto all'inizio sotto il diretto controllo degli occupanti. Nonostante l'arresto di molti fra i principali esponenti del vecchio regime e dello stesso Saddam Hussein, catturato nel dicembre 2003 e impiccato tre anni dopo, al termine di un discusso processo, i sostenitori del dittatore deposto e i gruppi integralisti arabi ispirati da Al Qaeda diedero inizio a un lungo stillicidio di sanguinosi attentati, per lo più suicidi, contro le truppe di occupazione (in uno di questi attentati, il 12 novembre 2003, morirono diciannove italiani: dodici carabinieri e cinque soldati del contingente militare nella città di Nassiriya e due civili) e contro gli stessi iracheni che collaboravano alla costruzione del nuovo ordine: un processo reso difficile dai continui contrasti fra i diversi gruppi etnico-religiosi (sciiti, sunniti, curdi) che convivevano nel paese.
Elezioni e guerra civile in Iraq
Nel corso del 2005, sembrò che la democrazia in Iraq potesse consolidarsi:
prima le elezioni, in gennaio, per l'Assemblea costituente, che fecero
registrare un'ampia partecipazione popolare e videro l'affermazione della
componente sciita (numericamente maggioritaria, ma discriminata sotto il regime
di Saddam). Quindi, in agosto, il varo, grazie all'accordo fra sciiti e curdi,
di una Costituzione federale successivamente approvata con referendum popolare.
Nemmeno questi progressi servirono però a stabilizzare la situazione nel paese,
dilaniato da una guerra civile strisciante che mieteva ogni giorno decine di
vittime fra la popolazione e metteva a rischio la stessa unità nazionale. Agli
attentati di matrice fondamentalista si aggiungeva infatti la protesta, spesso
violenta, dei gruppi sunniti, dominanti al tempo di Saddam e ora scontenti per
la nuova distribuzione del potere (che vedeva uno sciita a capo del governo e un
curdo alla presidenza della Repubblica) e delle stesse risorse petrolifere,
collocate per lo più in aree sottratte al loro controllo.
Gli attentati in Europa
Frattanto l'Occidente continuava a dividersi sulla linea da adottare nei
confronti della minaccia di un terrorismo islamico sempre più aggressivo e
ramificato, presente in molti paesi europei all'interno delle comunità degli
immigrati.
L'11 marzo 2004, a due anni e mezzo esatti dall'attacco alle due torri di New
York, questa minaccia si concretizzò a Madrid in uno spaventoso attentato che
provocò quasi duecento morti fra i passeggeri di diversi treni. Attribuito in un
primo tempo ai terroristi baschi, l'attentato fu poi rivendicato dagli
integralisti islamici, che dichiaravano di voler punire la Spagna per il suo
impegno in Iraq a fianco degli Usa. Poco più di un anno dopo (7 luglio 2005), il
terrorismo fondamentalista colpi ancora l'Europa con una serie di attentati
suicidi simultanei nella rete dei trasporti urbani di Londra, che provocarono
oltre cinquanta morti. In questo caso lo sgomento dell'opinione pubblica fu
accresciuto dalla scoperta che alcuni degli attentatori erano cittadini
britannici, apparentemente integrati in una società che aveva sempre praticato
l'accoglienza e il multiculturalismo. Il governo inglese non cambiò la sua linea
politica interventista e non venne meno all'alleanza con gli Stati Uniti; ma le
perplessità nell'opinione pubblica si accrebbero.
Gli Usa, l'Iran e il persistere delle tensioni
Anche negli Stati Uniti, dove la guerra continuava a godere del sostegno
della maggioranza dei cittadini – lo si vide nelle elezioni presidenziali del
novembre 2004, quando Bush fu rieletto, con un margine abbastanza netto sul
candidato democratico John Kerry – il prolungarsi del conflitto suscitava
critiche crescenti. Le armi di distruzione di massa non erano state trovate,
così come restavano da dimostrare i legami fra Saddam Hussein e Al Qaeda. Era
invece evidente che il terrorismo fondamentalista di matrice sunnita aveva
trovato nell'Iraq un nuovo terreno di azione; e che, d'altra parte,
l'affermazione della componente sciita apriva nuovi spazi per l'espansione di un
altro fondamentalismo: quello che faceva capo all'Iran, dove, nell'agosto 2005,
in una consultazione condizionata dalle pesanti ingerenze delle gerarchie
religiose, era stato eletto presidente Mahmoud Ahmadinejad.
Ahmadinejad aveva rilanciato il khomeinismo nella sua versione più
intransigente: aveva rivolto pesanti minacce a Israele rilanciando un repertorio
di formule antisemite peraltro assai diffuse nel mondo arabo; e aveva
annunciato, a dispetto della condanna della comunità internazionale e delle
sanzioni votate dall'Onu (dicembre 2006), la sua intenzione di sviluppare un
programma nucleare. Dopo due guerre costose e sanguinose, il conflitto fra il
mondo islamico e l'Occidente, con epicentro nell'area mediorientale, continuava
a rappresentare il principale focolaio di tensione internazionale.
LA SECONDA REPUBBLICA
Una difficile transizione
Speranze e delusioni
Nel linguaggio corrente è ormai consuetudine indicare con l'espressione
"Seconda Repubblica" l'assetto politico determinatosi in Italia nella prima metà
degli anni '90 con il crollo del sistema dei partiti, la nuova legge elettorale
maggioritaria, il profondo rinnovamento della classe politica e infine la
nascita di un sistema tendenzialmente bipolare. Una svolta storica che, nelle
speranze di molti, avrebbe dovuto segnare il passaggio a una democrazia
compiuta, più efficiente nei processi decisionali e al tempo stesso più vicina
alle istanze dei cittadini.
Queste speranze, però, andarono in gran parte deluse. Fin dai suoi inizi, il
nuovo sistema politico si caratterizzò da un lato per l'accesa conflittualità
fra i due schieramenti principali che si alternavano al governo, dall'altro per
la loro frammentazione interna che rendeva sempre precaria (anche se in media
più lunga che nel passato) la vita dei governi. Gli episodi di corruzione e di
cattiva gestione delle risorse pubbliche, fenomeni che si sperava di aver
sconfitto con le inchieste giudiziarie, si riproposero e si intensificarono. Il
tutto in un contesto economico e sociale in cui i segnali di disagio si
aggravavano, anche per il venir meno dei margini finanziari che avevano
consentito nei due decenni precedenti generose politiche di spesa pubblica.
La stasi economica
Segnali negativi venivano innanzitutto dall'economia reale: la crescita del decennio precedente si interruppe a partire dal 1990. Molte imprese italiane, a cominciare dalle maggiori come Fiat e Olivetti, perdevano competitività sui mercati internazionali, anche perché penalizzate (in termini di oneri previdenziali e di inadeguatezza delle infrastrutture) dall'inefficienza della pubblica amministrazione. Il tutto mentre l'inflazione restava ben al di sopra della media europea e mentre il deficit del bilancio statale non accennava a ridursi, anche per il peso degli interessi sul debito: il che costringeva lo Stato a continue emissioni di titoli che attiravano il risparmio, distogliendolo dagli impieghi produttivi.
Le nuove forze politiche
Sul piano della vita politica, la prima importante novità fu la
trasformazione del Pci nel nuovo Partito democratico della sinistra (Pds). La
clamorosa decisione – annunciata alla fine del 1989 dal segretario Achille
Occhetto e tradotta in atto, dopo lunghe polemiche interne, in un congresso
tenutosi a Rimini nel febbraio '91 – avrebbe dovuto "sbloccare" la principale
forza di opposizione e porre le premesse per una ricomposizione della sinistra
italiana nel segno del riformismo democratico. Ma questo progetto si scontrò con
le diffidenze reciproche che permanevano fra il Psi, ancora al governo, e il
nuovo Pds, indebolito dalla scissione dell'ala più legata all'eredità del
vecchio Pci (che diede vita al partito di Rifondazione comunista).
Sull'opposto versante politico si consolidavano, nel Settentrione, le posizioni
della Lega Nord, che intensificava la sua polemica contro lo Stato
centralizzatore, il fisco e l'intero sistema dei partiti. In generale, la
proliferazione di piccoli movimenti, spesso concentrati su problemi specifici,
esasperava la frammentazione dello schieramento parlamentare e rendeva più
difficile la governabilità.
Il dibattito sulle riforme istituzionali
Anche per questo le forze politiche cominciarono a prendere in considerazione l'ipotesi di una nuova legge elettorale capace di dare maggiore stabilità all'esecutivo. A tenere aperto il problema contribuì, nel giugno 1991, lo schiacciante successo di un referendum abrogativo di alcune parti della legge elettorale promosso da un comitato composto da esponenti di diversi partiti e presieduto dal democristiano Mario Segni: un risultato importante non tanto per il suo contenuto specifico (la riduzione a una del numero delle preferenze), quanto per il suo significato di protesta nei confronti del sistema vigente. Un'altra inattesa sollecitazione in direzione delle riforme giungeva addirittura dal vertice dello Stato: il presidente della Repubblica Francesco Cossiga si rendeva protagonista di una serie di accese polemiche con le forze politiche e dichiarava apertamente la sua volontà di contribuire a cambiare il sistema di cui egli stesso era il più alto rappresentante.
Le elezioni del 1992 e la presidenza Scalfaro
Le elezioni, che si tennero il 5-6 aprile 1992, registrarono alcune clamorose novità. Seccamente sconfitti la Dc (che passava dal 34,3% al 29,7% dei voti alla Camera) e il Pds (che con il 16,1% perdeva più del 10% rispetto al Pci, in parte a vantaggio di Rifondazione comunista), in leggera flessione il Psi, crescevano le forze politiche nuove, come la Lega e i Verdi. La coalizione di governo conservava una maggioranza parlamentare ridottissima, pur restando, al momento, priva di alternative. All'indomani delle elezioni, il Parlamento elesse alla presidenza della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, democristiano, presidente della Camera, parlamentare dagli anni della Costituente: una figura che per il suo rigore morale era chiamata a rappresentare la tradizione positiva di una classe politica ormai largamente screditata.
«Tangentopoli»
Da alcuni mesi, infatti, un nuovo gravissimo scandalo stava coinvolgendo un numero crescente di uomini politici accusati di aver preteso e ottenuto tangenti per la concessione di appalti pubblici. L'inchiesta «Mani pulite», avviata dalla magistratura milanese, svelava un diffusissimo sistema di finanziamento illegale dei partiti e dei singoli uomini politici che fu denominato «Tangentopoli». Destinatari principali erano i partiti di maggioranza, in primo luogo la Dc e il Psi (ma non mancarono casi di coinvolgimento del Pci-Pds). Fenomeno non nuovo, materia di precedenti scandali ma tacitamente ammesso e tollerato, il sistema delle tangenti rivelava una diffusione capillare che aggravava la crisi dei partiti e testimoniava della loro incapacità di rinnovarsi. Fra il 1992 e il 1993, numerosi esponenti politici di primo piano, a cominciare dal segretario del Psi Bettino Craxi, furono raggiunti da avvisi di garanzia (ossia da notifiche dell'avvio di indagini emesse dai magistrati inquirenti) e costretti ad abbandonare le responsabilità di partito. Indagato per tangenti risultava anche l'ex segretario della Dc Forlani, mentre lo stesso Andreotti fu accusato da alcuni pentiti di collusioni con la mafia (accuse destinate poi a cadere nel processo, in parte perché giudicate infondate, in parte per l'intervenuta prescrizione del reato).
Le stragi di mafia
Il susseguirsi delle iniziative giudiziarie contro la classe politica si inseriva in una situazione resa drammatica dalla recrude- scenza dell'offensiva mafiosa contro i poteri dello Stato. Il 23 maggio 1992, mentre erano in corso alla Camera le votazioni per la presidenza della Repubblica, un attentato al tritolo lungo l'autostrada fra l'aeroporto di Palermo e la città uccise il magistrato Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, la moglie e tre agenti della scorta. Meno di due mesi dopo, il 19 luglio, il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti furono uccisi da un'autobomba in piena Palermo. Falcone e Borsellino erano stati in prima fila nella lotta alla mafia: la loro morte scosse l'opinione pubblica e stimolò un potenziamento dell'azione di magistratura e polizia, che avrebbe portato, nel gennaio 1993, all'arresto del "capo dei capi" dell'organizzazione mafiosa, Salvatore Riina.
Il governo Amato
Il nuovo governo presieduto dal socialista Giuliano Amato, entrato in carica alla fine di giugno del '92 e sostenuto dai partiti della vecchia maggioranza, si trovò dunque ad affrontare un compito difficilissimo. Alla crisi dei partiti e all'allarme per il dilagare della criminalità organizzata si aggiungevano i problemi della crisi produttiva e della gravissima posizione debitoria dello Stato. Il governo affrontò subito il problema finanziario prima con interventi fiscali (compreso un prelievo sui conti correnti), poi con una più incisiva manovra destinata a contenere le spese. Tali interventi, insieme con quelli annunciati relativi alla privatizzazione di alcune grandi imprese pubbliche, si rendevano tanto più necessari dopo che, in settembre, una ondata di vendite sui mercati valutari aveva investito la lira, deprezzandola di oltre il 20% e costringendo l'Italia a uscire dal Sistema monetario europeo.
Il referendum del 1993
Restava aperto il problema della legge elettorale. Il disaccordo tra le forze politiche spianò ancora una volta la strada a una soluzione imposta da un referendum abrogativo. Il 18 aprile 1993 i cittadini approvarono a larghissima maggioranza il quesito che, attraverso la soppressione di alcune parti della legge vigente, introduceva il sistema maggioritario uninominale al Senato. Il successo del referendum elettorale suonava come una secca sconfitta per il sistema dei partiti, nonostante l'affrettato schierarsi di quasi tutte le formazioni politiche a favore del «sì» all'abrograzione.
Il governo Ciampi
All'indomani dei referendum, Amato rassegnò le dimissioni. Il presidente della Repubblica chiamò allora a formare il nuovo governo il governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, che costituì il mi- nistero muovendosi al di fuori delle logiche partitiche. Il nuovo esecutivo, composto in parte da tecnici, si impegnava a favorire il varo di una riforma elettorale che recepisse il principio maggioritario indicato dal referendum per il Senato (estendendolo a entrambe le Camere) e prometteva di proseguire l'opera di risanamento delle finanze pubbliche. Le nuove leggi elettorali per la Camera e il Senato, approvate ai primi di agosto, estendevano a entrambe le camere il sistema maggioritario uninominale, ma prevedevano una quota di seggi, pari al 25%, da assegnare con il sistema proporzionale.
La "rivoluzione maggioritaria"
Le trasformazioni nei partiti
Col varo del nuovo sistema elettorale si fecero più forti le pressioni per un
ricorso anticipato alle urne che, nelle aspettative di larga parte dell'opinione
pubblica, avrebbe liberato il Parlamento dalla vecchia classe dirigente
compromessa con gli scandali di Tangentopoli e posto le basi per una nuova
repubblica e per un nuovo patto fra cittadini e potere politico. In questa
prospettiva i partiti della vecchia maggioranza cercarono di rinnovarsi,
cambiando, in qualche caso, il simbolo e il nome del partito. Il Psi, dopo che
Craxi era espatriato temendo un arresto, si diede nuovi dirigenti, senza però
riuscire a restaurare la sua immagine. La Dc decise di tornare alle origini e
alla vecchia denominazione del primo partito cattolico – quello fondato da
Sturzo nel 1919 – assumendo, nel gennaio 1994, il nome di Partito popolare
italiano (Ppi). Ma un gruppo di dirigenti ostili al predominio delle correnti di
sinistra nel nuovo partito diede vita a una nuova formazione, il Centro
cristiano democratico (Ccd).
Anche a destra si registrarono significativi mutamenti. Il segretario del Msi
Gianfranco Fini, sospinto dai buoni risultati raggiunti nelle elezioni comunali
e dalla necessità di ottenere una definitiva legittimazione, avviò la
trasformazione del suo partito in Alleanza nazionale: un processo che si sarebbe
concluso nel congresso di fondazione di Fiuggi (gennaio 1995), con una netta
rottura di continuità col passato neofascista.
Berlusconi e le elezioni del 1994
Ma l'elemento di maggior novità nello scenario italiano fu l'in-gresso in politica dell'imprenditore televisivo Silvio Berlusconi. Proprietario delle tre maggiori reti televisive private e del Milan, la società di calcio più forte del momento, industriale impegnato in molti altri settori, dall'edilizia alle assicurazioni, dalla finanza alla pubblicità, Berlusconi scese direttamente «in campo» con il dichiarato obiettivo di arginare un eventuale successo delle sinistre e di ricompattare uno schieramento moderato ormai disperso. Nel giro di qualche mese, Berlusconi riuscì non solo a fondare un proprio partito, Forza Italia, che si presentava con un programma di ispirazione liberale, ma anche a costituire un cartello elettorale con la Lega Nord nell'Italia settentrionale (Polo delle libertà) e con Alleanza nazionale nel Centro-sud (Polo del buon governo). Confluirono in questo schieramento anche i Radicali di Pannella, il Ccd e altri politici di centro. Sul fronte opposto il Pds coagulò intorno a sé (nel cartello dei Progressisti) tutte le forze di sinistra da Rifondazione comunista ai Socialisti, ai Verdi. Più isolati e più deboli apparivano il Ppi e il gruppo di Mario Segni, che si collocavano al centro. Le elezioni politiche del 27-28 marzo 1994 decretarono il successo delle forze raccolte intorno a Berlusconi, che ottennero la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, mancandola di poco al Senato. La neonata Forza Italia si affermò come primo partito col 21% dei voti, seguita dal Pds (20,3%), dal Msi-Alleanza nazionale (13,5%), dal Ppi (11,1%) e dalla Lega Nord (8,4%).
Il difficile avvio dei bipolarismo
Dalle elezioni usciva così un quadro politico radicalmente trasformato: quasi
scomparsi il Psi e i partiti laici minori, drasticamente ridimensionato il
partito cattolico erede della Dc, rientrata in gioco l'ex estrema destra con la
nascita di Alleanza nazionale, si delineava un confronto fra due schieramenti
contrapposti (un centro-destra guidato da Berlusconi e un centro-sinistra
imperniato sul Pds), destinati, come è tipico di un sistema politico bipolare,
ad alternarsi al governo.
Ma la nascita di una "normale" democrazia dell'alternanza simile a quella dei
principali paesi europei si rivelò subito difficile. Troppo aspra era in primo
luogo la contrapposizione fra i due schieramenti principali: mentre Berlusconi
bollava i suoi avversari come eredi del comunismo, la sinistra accusava
Berlusconi di attentare ai fondamenti antifascisti della Repubblica (anche per
la sua alleanza con Fini) e denunciava l'anomalia di un presidente del Consiglio
che era al tempo stesso grande imprenditore e proprietario delle maggiori reti
televisive private. All'esasperata conflittualità fra i due poli del nuovo
sistema si aggiungeva poi l'eterogeneità delle coalizioni che si erano formate
in gran fretta, in vista della prova elettorale. Nel maggio 1994 Berlusconi
formò il nuovo governo con gli alleati della Lega, di Alleanza nazionale, del
Ccd e altri esponenti di centro. Ma l'alleanza si rivelò subito fragile, e non
solo per i contrasti sui provvedimenti da adottare in una situazione finanziaria
sempre difficile. Era soprattutto la Lega – che, grazie alla concentrazione del
suo elettorato nelle popolose regioni del Nord, aveva ottenuto un altissimo
numero di seggi nei collegi uninominali – a manifestare insofferenza nei
confronti di possibili misure di austerità e a voler riprendere la sua libertà
d'azione, scontrandosi con le altre componenti della nuova maggioranza.
Il governo Dini
In novembre, Berlusconi fu raggiunto da un avviso di garanzia della magistratura milanese (il primo di una lunga serie) per una vicenda di tangenti da cui sarebbe uscito prosciolto. Un mese dopo, a poco più di sei mesi dal suo insediamento, il governo fu costretto a dimettersi per il ritiro della fiducia da parte della Lega. Nel gennaio 1995, Lamberto Dini, ministro del Tesoro nel ministero uscente, formò un esecutivo di tecnici con l'obiettivo, ormai obbligato per tutti i governi, di arrestare la crescita della spesa pubblica (in agosto fu varata una riforma delle pensioni, destinata però ad avere effetti solo sul lungo periodo) e di portare in tempi brevi il paese a nuove elezioni. I tempi però si prolungarono; e il governo Dini, nato grazie al voto favorevole del Pds, del Ppi e della Lega e all'astensione di Forza Italia, Alleanza nazionale e Ccd, divenne sempre più espressione del centro-sinistra, mentre il centro-destra passava a una netta opposizione reclamando l'immediato ritorno alle urne.
Prodi, l'Ulivo e le elezioni del 1996
Nell'imminenza delle nuove elezioni – Dini si dimise nel dicembre '95 – i due
schieramenti principali si riorganizzarono, con alcune significative varianti
rispetto a due anni prima. La novità più significativa fu la nascita, già nel
febbraio del 1995, di un nuovo contenitore politico di centro-sinistra (l'Ulivo)
che raccoglieva il Pds, il Ppi e altri gruppi minori attorno alla candidatura di
Romano Prodi, economista di area cattolica ed ex presidente dell'Iri. L'Ulivo
avrebbe poi stipulato un accordo elettorale con Rifondazione comunista.
Sull'altro fronte, la Lega, staccatasi dal Polo e schieratasi con il
centro-sinistra nella maggioranza che sosteneva Dini, decideva di correre da
sola, accentuando le sue posizioni separatiste.
L'unità a sinistra e la divisione del centro-destra furono decisive nel
determinare l'esito del confronto: nelle elezioni del 21 aprile 1996, l'Ulivo si
impose di misura, ottenendo la maggioranza assoluta al Senato e quella relativa
alla Camera, dove diventava determinante l'appoggio di Rifondazione. Sempre di
stretta misura, il Pds (dove, dopo la sconfitta del '94, Massimo D'Alema aveva
sostituito Occhetto alla segreteria) scavalcava Forza Italia affermandosi come
primo partito, mentre guadagnavano consensi Alleanza nazionale, Rifondazione
comunista e la Lega.
Il centro-sinistra e la scelta europea
Il governo Prodi e l'ingresso nell'unione monetaria
Il nuovo governo presieduto da Romano Prodi, entrato in carica nel maggio
1996, schierava nelle sue file esponenti politici e tecnici di peso: Walter
Veltroni vicepresidente del Consiglio, Giorgio Napolitano ministro degli
Interni, Lamberto Dini ministro degli Esteri, Carlo Azeglio Ciampi ministro
delle Finanze. A presiedere il ministero dei Lavori pubblici andava l'ex
pubblico ministero Antonio Di Pietro, il più popolare dei magistrati impegnati
nelle inchieste di Tangentopoli. Al governo Prodi spettava il compito di
equilibrare la necessaria politica di rigore con la tutela dei ceti meno
protetti, di rilanciare l'economia e l'occupazione con la maggiore sistematicità
consentita a un esecutivo che si proponeva di durare un'intera legislatura, ma
con tutte le difficoltà derivanti da una maggioranza eterogenea che si estendeva
dal centro all'estrema sinistra.
Il primo obiettivo, perseguito con particolare determinazione dal ministro
Ciampi, fu quello di ridurre il deficit del bilancio statale entro il rapporto
del 3% con il prodotto interno lordo, il più importante dei parametri fissati a
Maastricht per l'ammissione nel sistema della moneta unica europea. Una serie di
interventi fiscali e di tagli alla spesa pubblica consentivano all'Italia di
rientrare nel Sistema monetario europeo alla fine del '96, di attestarsi, alla
fine del '97, al di sotto dell'obiettivo del 3% e di ottenere, nel maggio '98,
l'ingresso nell'Unione monetaria europea (cui sarebbe seguita l'introduzione a
partire dal 1° gennaio 2002 dell'euro, in sostituzione della lira).
I problemi aperti
Per rendere stabili i risultati raggiunti, occorreva però agire con energia
sul fronte del Welfare, in particolare della spesa previdenziale, in continua
crescita nonostante le misure adottate dal governo Dini (che legava gradualmente
le nuove pensioni non più all'ultima retribuzione percepita, ma alla somma dei
contributi versati nella vita lavorativa). I correttivi da introdurre nel
sistema apparivano necessari per non caricare sulle generazioni future il costo
di un numero elevato di pensionati di cui, a partire dagli anni '70, era stata
favorita l'uscita precoce dal mondo del lavoro. I tentativi di intervento del
governo, solo parzialmente attuati, determinavano le resistenze dei sindacati e
la risoluta opposizione di Rifondazione comunista, il cui apporto era invece
indispensabile al governo per ottenere la maggioranza alla Camera.
Problemi non meno delicati erano quelli legati all'amministrazione della
giustizia. Le inchieste giudiziarie sul sistema delle tangenti, che avevano
avviato il crollo del sistema politico della Prima Repubblica, pur essendosi
tradotte in un numero rilevante di processi, erano ben lungi dall'essere
concluse, mentre rimaneva aperto un contenzioso spesso assai aspro fra settori
dell'ordine giudiziario e una parte della classe politica, che criticava il
ruolo protagonistico assunto dopo Tangentopoli dalla magistratura inquirente: il
contrasto era ulteriormente alimentato dal coinvolgimento in alcune inchieste
del leader dell'opposizione, Berlusconi.
Il governo D'Alema
Nell'ottobre 1998, dopo un ennesimo contrasto sulla politica economica,
Rifondazione comunista negò la fiducia al governo Prodi, che fu costretto a
dimettersi. Si formò rapidamente un nuovo governo di centro-sinistra presieduto
da Massimo D'Alema, leader dei Democratici di sinistra (Ds) – questa la nuova
denominazione assunta nel '98 dal Pds – sostenuto dall'Ulivo e dalla convergenza
di alcuni gruppi minori. Il cambio alla presidenza del Consiglio senza
un'investitura elettorale apparve però come una ripresa delle consuetudini del
vecchio sistema dei partiti e perciò fu duramente contestato dal Polo, ma anche
da una parte del centro-sinistra. L'ascesa alla guida del governo del leader del
maggior partito della coalizione non riuscì a spegnere le microconflittualità
interne alla maggioranza dove ogni raggruppamento, indipendentemente dalle
dimensioni, cercava di far pesare il suo contributo determinante.
In due occasioni, tuttavia, si manifestò un largo consenso tra le forze
politiche: nell'elezione, a larga maggioranza e al primo scrutinio, di Carlo
Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica (maggio 1999) e nel sostegno
alla partecipazione italiana alle operazioni militari contro la Jugoslavia per
il Kosovo, in piena sintonia con gli Stati Uniti e con gli alleati della Nato:
un'ulteriore conferma della scelta europeista dell'Italia.
Il ritorno di Amato e la riforma federalista
In politica interna, il governo D'Alema non resse alla prova delle elezioni
regionali dell'aprile 2000. Dopo il successo del centro-destra, che conquistò
otto regioni su quindici, D'Alema si dimise e al suo posto fu chiamato Giuliano
Amato alla testa di un altro governo di centro-sinistra. La principale
realizzazione di quest'ultima fase della legislatura fu l'approvazione (nel
marzo 2001 in Parlamento e nell'ottobre successivo con un referendum
confermativo) di una legge costituzionale che introduceva alcune importanti
modifiche all'ordinamento italiano in materia di poteri degli enti locali,
ampliando la potestà legislativa delle regioni (per esempio in materia di
sanità, istruzione, lavori pubblici, agricoltura, turismo) e attribuendo ampie
autonomie ai comuni, alle province e alle aree metropolitane (le grandi città
con i piccoli centri ad esse collegati). La riforma costituzionale mirava a
togliere spazio alle rivendicazioni federaliste della Lega (che peraltro si
oppose in nome di un federalismo più spinto); ma fu criticata dal centro-destra,
che contestava il diritto della maggioranza a modificare unilateralmente la
Costituzione.
Fra il 1996 e il 2001 il centro-sinistra aveva guidato l'Italia verso la nuova
dimensione europea, ma il paese sembrava mantenere molte caratteristiche legate
alle specifiche tradizioni della sua vita pubblica e del suo ordinamento
istituzionale: in primo luogo la debolezza dell'esecutivo e la breve durata dei
governi. E tuttavia l'insieme delle novità introdotte nel sistema politico a
partire dai primi anni '90 confermava il passaggio epocale attraversato dal
paese alla fine del secolo.
Le trasformazioni sociali
L'Italia che si presentava all'appuntamento europeo era un paese profondamente diverso da quello che nel 1957 aveva sottoscritto il trattato di Roma e partecipato fra i primi al processo di avvio del Mercato comune.
Demografia e modelli familiari
Con quasi 58 milioni di abitanti nel 2000 e oltre 60 nel 2011, l'Italia
affiancava Gran Bretagna e Francia nel gruppo dei paesi più popolosi dell'Unione
europea dopo la Germania. Ma con un incremento demografico prossimo allo zero,
con il più basso numero medio di figli per donna in età feconda (1,3) e una
percentuale di popolazione sotto i 15 anni (14,1% nel 2005 e 15% nel 2009)
inferiore a ogni altro paese dell'Europa occidentale, l'Italia affidava il
proprio sviluppo demografico alla maggiore prolificità degli immigrati, a cui
era largamente dovuto l'aumento della natalità degli ultimi anni. I matrimoni e
le nascite avevano cominciato a diminuire dalla metà degli anni '60 e verso la
fine dei '70 l'Italia era scesa, con meno di due figli per donna, al di sotto
del tasso di riproduzione della popolazione. Il binomio matrimonio-figli non
sembrava essere più per molti il perno intorno a cui costruire il futuro.
Avevano favorito questa rottura del modello tradizionale il nuovo ruolo della
donna, una sessualità svincolata dalla riproduzione, il controllo consapevole
delle nascite e in genere una complessiva secolarizzazione dei costumi. La
maggiore diffusione di questi fenomeni nelle regioni a più alto reddito e con
migliori servizi sociali suggeriva che nella scala dei valori era ormai salita
la difesa di un livello di benessere da raggiungere e da conservare per sé e per
i figli all'interno di una progettazione razionale e prudente della propria
vita. Accanto a questa trasformazione di fondo, anche in Italia si diffondeva il
fenomeno dei singles, ossia dei nuclei familiari indipendenti formati da
un solo individuo (uomo o donna), mentre si sviluppavano le nuove famiglie
"allargate", nate dalla scomposizione e ricomposizione determinate dai divorzi e
dai secondi matrimoni.
L'omologazione dei consumi
Il benessere e gli stili di vita un tempo riservati alle élite economiche e culturali si erano intanto diffusi in strati sempre più ampi. Le seconde case per vacanze e week-end, la nuova disponibilità per il tempo libero, la capillare motorizzazione a due e a quattro ruote (nel 2008 si contavano 600 autovetture ogni 1000 abitanti), fino alla più recente esplosione dei telefoni cellulari segnalavano modelli di consumo largamente omologati. Accanto a questa omologazione, che si sommava a quella indotta dalla pervasività del linguaggio e del mezzo televisivo, persistevano profonde differenze culturali e di reddito.
Disuguaglianze e difesa dei privilegi
Nel confronto con altri paesi europei come Francia e Germania, l'Italia, pur
in presenza di un'alta scolarizzazione (all'inizio del nuovo secolo il 90% dei
ragazzi si iscriveva alle superiori e il 70% dei diplomati entrava
all'università), registrava percentuali inferiori di laureati e di diplomati,
confermando l'inefficienza e l'improduttività di un sistema formativo che da
decenni cercava invano di riformarsi. La stretta correlazione fra titolo di
studio e reddito era del resto caratteristica del nostro sistema sociale, in
cui, ad esempio, il 10% delle famiglie più ricche deteneva quasi il 45%
dell'intera ricchezza delle famiglie italiane.
In una società in cui la coscienza e la solidarietà di classe si erano
largamente indebolite in seguito al tramonto delle ideologie del socialismo e
del comunismo, in cui la scena appariva dominata dalla articolata configurazione
dei ceti medi, le differenze sociali derivavano soprattutto dalle disuguaglianze
di reddito. E così la difesa dello status raggiunto e dei privilegi dei gruppi
più tutelati era il terreno su cui si manifestava la conflittualità sociale,
reale o sommersa. Le forme più svariate di difesa e di tutela dei privilegi
ostacolavano la mobilità sociale, che trovava alternative ai canali tradizionali
nelle nuove professioni nate dalle tecnologie avanzate e nelle pieghe di un
mercato del lavoro sempre più articolato e frammentato. Anche in Italia, dunque,
erano forti i segni delle trasformazioni legate all'affermarsi della società
postindustriale.
Il deficit di etica pubblica
Contemporaneamente mutavano le forme della partecipazione politica. Gli
italiani tendevano in misura sempre maggiore ad allontanarsi dai partiti e ad
accentuare la loro diffidenza nei confronti della politica, considerata nel suo
insieme come luogo di intrighi e fonte di guadagni illeciti; oppure erano
portati a concentrare i loro consensi e le loro speranze su singole personalità
più che su programmi e scelte collettive: fenomeni, questi, che erano entrambi
alla base del successo elettorale di un personaggio come Berlusconi. Quando i
cittadini si mobilitavano, lo facevano per lo più su questioni settoriali,
legate non tanto alle grandi ideologie, quanto ai concreti disagi originati dai
nuovi assetti della società. Cresceva, in questo clima, anche l'ostilità nei
confronti degli immigrati, giunti nel 2010 a 4 milioni cui si aggiungevano 560
mila irregolari: una presenza indispensabile per il funzionamento della macchina
produttiva – soprattutto nelle piccole imprese – e per l'assistenza degli
anziani, ma responsabile, in alcune frange, di episodi di piccola criminalità.
Il rifiuto nei confronti del diverso emergeva in varie aree del paese e
soprattutto nel Nord, denunciando non solo il crescere dei pregiudizi, spesso
artificiosamente fomentati da alcune forze politiche, ma anche la difficoltà
culturale a misurarsi con una realtà che diventava sempre più multietnica.
Lo scambio virtuoso tra politica e società appariva interrotto da tempo, mentre
si manifestavano, in Italia e fuori, diagnosi pessimistiche incentrate sulla
permanente diversità politico-culturale del nostro paese. In effetti, nel
paragone con il resto dell'Europa, emergeva un deficit di etica pubblica che
appariva arduo recuperare in tempi brevi: alla diffusa corruzione di ampi
settori della politica, dell'amministrazione pubblica e della società, al
persistere di forme di criminalità organizzata in grado di controllare interi
territori (come la camorra nel Napoletano) si aggiungeva quel diffuso disprezzo
delle regole che caratterizzava molti comportamenti pubblici e privati e che
nell'opinione comune era a volte giustificato come espressione di una vitale
creatività. E la classe politica, che già stentava a definire i contorni delle
nuove istituzioni, appariva spesso inadeguata a proporre una nuova «pedagogia
nazionale» all'altezza degli obiettivi imposti dal confronto europeo.
La stagione del centro-destra
Negli anni '90 del '900, lo schieramento a guida berlusconiana, pur essendosi imposto come protagonista della nuova stagione politica, aveva governato solo per pochi mesi (quelli del primo governo Berlusconi nel 1994). Nel primo decennio del nuovo secolo i rapporti di forza cambiarono; e fu il centro-destra a guidare il paese, col solo intervallo di due anni (2006-2008).
Le elezioni del 2001
Rimasta compatta all'opposizione e riconciliatasi con la Lega, l'alleanza di
centro-destra si presentò rafforzata alle elezioni del 2001, contro un
centro-sinistra che invece era uscito logorato dall'esperienza di governo e,
dopo due cambi alla presidenza del Consiglio, si mostrava ancora incerto sul
leader da contrapporre a Berlusconi. Alla fine, la scelta del centro-sinistra
cadde su Francesco Rutelli, sindaco di Roma, già militante dei Radicali e poi
dei Verdi e ora leader della Margherita (la nuova formazione in cui erano
confluiti il Ppi e altri gruppi di centro-sinistra). La coalizione di
centro-sinistra riproponeva in sostanza quella dell'Ulivo, con i Ds, la
Margherita, i Verdi, i socialisti e il Partito dei comunisti italiani (Pdci). Il
gruppo denominato Italia dei valori, che faceva capo all'ex magistrato Di
Pietro, si presentava invece da solo, come Rifondazione comunista. La coalizione
di centro-destra, ora denominata Casa delle libertà (Cdl), era composta, come
nel '94, da Forza Italia, Alleanza nazionale, Lega Nord ed ex democristiani
dell'ala moderata (dal 2002 uniti nell'Udc, Unione dei democratici cristiani e
di centro). Nelle elezioni del 13 maggio 2001, la vittoria della Casa delle
libertà risultò nettissima. Nella quota proporzionale, i partiti dell'Ulivo
ottenevano complessivamente il 35%, mentre quelli della Cdl sfioravano il 50%.
Forza Italia, con il 29,4%, riconquistava la posizione di primo partito
distanziando largamente i Ds scesi al 16,6%. La Lega crollava dal 10 al 4%,
mentre un buon successo conseguiva la Margherita con il 14,5.
Il risultato delle elezioni mostrava come la coalizione di centro-destra avesse
messo solide radici nel paese, grazie soprattutto alla capacità di Berlusconi di
convogliare gran parte del voto moderato, in contrapposizione alla vecchia
politica e alle sue inefficienza, presentate come frutto del malgoverno delle
sinistre. Si consolidavano inoltre, nonostante l'assenza di una riforma
istituzionale, i mutamenti intervenuti nel sistema politico a partire dal
1993-94: dalle urne usciva infatti un premier dotato di un'investitura popolare
(il suo nome era presente nel simbolo della coalizione) e solo formalmente
designato dal presidente della Repubblica.
Il governo Berlusconi
Il nuovo governo formato in giugno da Berlusconi, con Fini vicepresidente e Bossi ministro delle Riforme, incontrò presto una serie di difficoltà. Fra il 20 e il 22 luglio, in occasione del vertice del G8 a Genova, gravi incidenti, con la morte di un manifestante, sollevarono forti critiche sull'operato della polizia. Successivamente, alcune misure varate dal Parlamento, come l'abolizione delle tasse sulle successioni o l'attenuazione delle pene previste per il falso in bilancio, apparvero a parte dell'opinione pubblica troppo mirate a tutelare le posizioni del presidente del Consiglio, che figurava, per di più, ancora imputato in alcuni procedimenti penali. Il "conflitto di interessi" che investiva Berlusconi come proprietario delle maggiori reti televisive private, e in grado ora, in virtù della sua carica, di influenzare quelle pubbliche, non trovava la rapida soluzione più volte promessa.
Tensioni e proteste
A rendere ancora più tesi i rapporti fra i due schieramenti contribuì il
progetto di modifica dello Statuto dei lavoratori presentato nel 2002 dal
governo al fine di rendere più flessibile il mercato del lavoro: il progetto
incontrò l'aspra opposizione della Cgil e dei partiti di sinistra, che diedero
vita a una serie di imponenti dimostrazioni di piazza. Nel tentativo di
inserirsi in questi conflitti, una nuova formazione terroristica che riprendeva
la sigla delle Brigate rosse – e che aveva già colpito a morte nel maggio 1999,
a Roma, il giurista del lavoro Massimo D'Antona – uccise a Bologna, nel marzo
2002, Marco Biagi, uno degli ispiratori della politica governativa nel settore
del lavoro.
Un altro fattore di tensione venne dalla politica estera: il governo Berlusconi
diede un forte sostegno, anche militare, alle iniziative belliche americane in
Afghanistan avviate dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, ottenendo il
sostanziale appoggio del centro-sinistra. Ma questo consenso venne meno nella
primavera del 2003, quando il governo decise la partecipazione italiana al nuovo
intervento militare americano in Iraq, osteggiato duramente dal centro-sinistra.
E le polemiche si intensificarono quando (12 novembre 2003) 19 militari italiani
morirono in un attentato nella città di Nassiriya.
Riforma costituzionale e legge elettorale
Ritornava intanto d'attualità, in seno alla maggioranza, il probledi una
revisione costituzionale, richiesta con forza dalla Lega. Nel novembre del 2005
si giunse quindi a varare una riforma che attribuiva ulteriori competenze alle
regioni, istituiva un Senato federale e ampliava i poteri del presidente del
Consiglio. Ma la riforma, sottoposta al giudizio degli elettori, sarebbe stata
bocciata da un referendum confermativo nel giugno 2006.
Alla fine del 2005, nell'imminenza delle nuove elezioni, la maggioranza di
centro-destra impose anche la riforma della legge elettorale, abolendo i collegi
uninominali e reintroducendo un criterio proporzionale nella distribuzione dei
seggi, bilanciato da un cospicuo premio di maggioranza per la coalizione che
avesse raccolto il maggior numero di voti, indipendentemente dalla percentuale
ottenuta.
Le elezioni del 2006 e il secondo governo Prodi
Gli schieramenti formatisi in vista delle elezioni dell'aprile 2006
confermavano la logica compiutamente bipolare della competizione politica
(nessuna formazione di qualche rilievo si collocò al di fuori dei due poli). Il
centro-destra ripresentava l'alleanza del 2001 (Forza Italia, An, Udc e Lega,
più qualche gruppo minore di centro e di estrema destra); la coalizione di
centro-sinistra, denominata Unione e sempre imperniata sull'alleanza fra Ds e
Margherita, si estendeva su tutto il restante arco dello schieramento politico.
Il centro-destra era dato perdente dai sondaggi, ma Berlusconi si spese con
grande energia riuscendo a mobilitare il suo elettorato. Il centro-sinistra
vinse con uno scarto di 24 mila voti alla Camera e ottenne una ristrettissima
maggioranza al Senato. Primo partito era ancora Forza Italia (23,7%) seguito dai
Ds (17,2%).
Romano Prodi, che si era presentato ancora una volta come candidato premier,
formò il nuovo governo in maggio, dopo che il Parlamento aveva eletto alla
presidenza della Repubblica Giorgio Napolitano, storico dirigente dell'ala
riformista del Pci e poi dei Ds. Ma la frammentazione del centro-sinistra e la
limitata maggioranza di cui il governo disponeva al Senato resero il cammino
dell'esecutivo ancor più faticoso di quanto non fosse stato nel 1996-2001; e
ostacolarono l'attuazione dei soliti ambiziosi progetti di riduzione del deficit
di bilancio e di rilancio dell'economia.
Le nuove aggregazioni: Pd e Pdl
La debolezza del governo fu evidenziata anche dalla nascita, nell'autunno del 2007, del Partito democratico (Pd) – risultato della fusione dei Ds, della Margherita e di altre formazioni minori – che mirava a riunificare in un solo partito le componenti storiche del fronte progressista. Il suo leader Walter Veltroni, sindaco di Roma, aveva deciso di presentarsi nelle future consultazioni elettorali rifiutando il sistema delle alleanze dell'Unione e in particolare la difficile convivenza tra le forze radicali e quelle moderate del centro-sinistra: una scelta che oggettivamente indeboliva il governo, fondato proprio su quel sistema di alleanze. Questa scelta accelerava un processo analogo nel centro-destra con la nascita, promossa da Berlusconi nel novembre del 2007, del Popolo della libertà (Pdl) in cui convergevano Forza Italia e Alleanza nazionale.
Il ritorno del centro-destra
Nel febbraio 2008, la defezione di un piccolo gruppo di centro (l'Udeur del ministro della Giustizia Clemente Mastella) portò alla crisi del governo Prodi e, in aprile, alle elezioni anticipate. Di nuovo scattò la regola dell'alternanza; e il successo del Pdl fu nettissimo. Berlusconi formò rapidamente il suo nuovo governo, promettendo ancora una volta il rilancio dell'economia produttiva attraverso il taglio delle tasse. Questi propositi trovavano però un ostacolo insormontabile nelle condizioni della finanza pubblica e nei vincoli imposti dall'Unione europea, che costrinsero il governo a energici tagli della spesa, soprattutto nei settori dell'istruzione e della sanità. L'obiettivo era quello di contenere il deficit e di cominciare ad abbattere l'enorme montagna di un debito pubblico che non cessava di crescere per il peso degli interessi. Ma intanto cominciavano a farsi sentire gli effetti della crisi economica mondiale, che avrebbe finito col compromettere, assieme alle speranze di ripresa, anche le fortune politiche di Berlusconi e del centro-destra.
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