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LA GRANDE DEPRESSIONE

 

 

FONTI

 

Keynes analizza la crisi del 1929

In questo articolo del 1930 l'economista John Maynard Keynes analizza la situazione economica creatasi nell'anno precedente e propone alcune soluzioni che saranno poi adottate da Roosevelt nel New Deal.
La cosiddetta "dottrina keynesiana" è alla base della rivoluzione economica del Novecento.

La crisi attuale è caratterizzata da una insolita violenza. Nei tre maggiori Stati industriali, Stati Uniti, Regno Unito e Germania, vi sono dieci milioni di disoccupati. Nessuna industria importante guadagna quel tanto che permetta quella espansione normale che è indice del progresso. D'altra parte, le materie prime agricole e minerarie si vendono quasi tutte a prezzi inferiori ai costi. La storia moderna non ricorda una cosi brusca e rapida discesa dei prezzi avente per punto di partenza un livello pressoché normale, quale quella avvenuta nel 1930. Nonostante la inevitabile lentezza con la quale il crollo dei prezzi delle materie prime si ripercuote sulla loro produzione, ci avviciniamo ormai rapidamente a quella fase della crisi che ne vedrà limitata la produzione agricola e mineraria in una misura analoga alla riduzione avvenuta per la produzione industriale. Questa limitazione provocherà a sua volta nuove ripercussioni dannose; la capacità d'acquisto di prodotti manufatti sarà ridotta al minimo; e entreremo in un circolo vizioso senza via d'uscita. [...] Però si tratta [...] non di una diminuzione della ricchezza effettiva, ma di una panne [guasto - ndr.] che ha arrestato la marcia della macchina. Come rimetterla in movimento? Procediamo all'analisi della situazione.
1. La disoccupazione e la stasi industriale esistono perché gli industriali non hanno la possibilità di vendere senza perdita la produzione delle loro officine.
2. L'impossibilità di effettuare vendite redditizie dipende dal fatto che il ribasso dei prezzi è stato più rapido dei costi, i quali sono diminuiti di poco.
3. Se è facile che un tale squilibrio si produca per una data impresa o una data materia prima, il fatto rimane che il complesso dei produttori dovrebbe poter ricuperare un ammontare equivalente agli sborsi da loro fatti, perché in fondo sono le somme da essi sborsate che costituiscono il reddito a disposizione del pubblico, reddito che il pubblico restituisce ai produttori acquistando le loro merci. [...]
4. Disgraziatamente le cose non sono andate così ed eccoci giunti alla radice del male. In periodo di inflazione l'industriale riscuote più di quanto non abbia sborsato per la produzione: in periodo di crisi i costi superano le somme ricavate dalle vendite; ed è un errore credere che gli industriali possano sempre ridurre i loro costi limitando la produzione o riducendo i salari, perché la riduzione delle somme da loro sborsate riduce a sua volta la capacità d'acquisto del pubblico, e riduce in una misura analoga il loro ricavato dalle vendite.
5. E qui sorge la domanda, come mai può darsi che i costi globali della produzione mondiale non trovino il loro corrispettivo nel ricavato dalle vendite? Come spiegare un tale squilibrio? [...] Cominciamo con le merci di consumo offerte all'acquisto. Come si determinano gli utili (o le perdite) dei produttori di queste merci? I costi — che considerati da un altro punto di vista non sono altro che i redditi complessivi della collettività — si ripartiscono secondo una certa percentuale fra merci di consumo e merci di produzione [macchinari, utensili, ecc. - ndr.]. I redditi del pubblico — che non sono altro che i guadagni complessivi della collettività — si ripartiscono anch'essi in una certa misura fra le somme assegnate all'acquisto di merci di consumo e quelle assegnate al risparmio. Ma se una percentuale di redditi assegnata all'acquisto delle merci di consumo fosse inferiore al costo di tali merci, allora i produttori di quelle merci lavorerebbero in perdita, perché è evidente che il ricavato delle vendite, che corrisponde agli acquisti di merci di consumo fatti dal pubblico, sarebbe in tal caso inferiore al loro costo. Viceversa, se l'equilibrio fra le dette percentuali variasse in senso inverso, allora i produttori di merci di consumo otterrebbero guadagni eccezionali. Per conseguenza, i produttori di merci di consumo non potranno vedere ristabilire l'entità dei loro utili che quando il pubblico consacrerà una più forte percentuale dei suoi redditi al loro acquisto (a scapito del risparmio) oppure quando gli industriali stessi aumenteranno la percentuale della loro produzione rappresentata da merci di produzione, riducendo proporzionatamente quella delle merci di consumo. Però la fabbricazione di merci di produzione non può aumentare che se gli industriali vi trovano il loro tornaconto. Ed eccoci al nostro secondo quesito. Da che cosa dipendono gli utili dei fabbricanti di merci di produzione? Essi dipendono dalla preferenza del pubblico per gli investimenti sotto forma di merci di produzione o il loro equivalente, piuttosto che per il risparmio liquido sotto forma di denaro o di valori equivalenti. Se il pubblico si astiene dall'acquisto di merci di produzione, quegli industriali che le fabbricassero lavorerebbero in perdita, e per conseguenza non tarderebbero a ridurne la produzione, e per le ragioni su esposte i produttori di merci di consumo sarebbero anch'essi danneggiati. Insomma, tutte le categorie di produttori si troverebbero a lavorare in perdita, e per conseguenza la disoccupazione si farebbe generale. Ed eccoci al circolo vizioso che inizia tutta una serie di azioni e di reazioni che portano le cose di male in peggio, fintanto che non sopravvenga un avvenimento qualunque che determini un movimento in senso opposto. Ecco una spiegazione semplificata all'estremo di un fenomeno molto complesso, ma che rivela, se non erro, la natura essenziale della situazione.

J.M. Keynes, in "L'information", in F. Catalano, La grande crisi del 1929, Dall'Oglio, Milano 1976, pp. 152-156.

Il piano quinquennale sovietico secondo un giornale dell'epoca

Il processo di sviluppo industriale attraverso i piani quinquennali iniziò in URSS nel 1928.
Essendo svincolata dall'economia del dollaro, l'Unione Sovietica subi minori contraccolpi dalla crisi del 1929; fu però danneggiata dal crollo dei prezzi dei prodotti agricoli.
L'industrializzazione non subi rallentamenti, ma il suo peso gravò sulla popolazione, cui si chiesero sacrifici più pesanti. Il settimanale inglese, "The economist", in un articolo del 1° novembre 1930 sottolineava la grandiosità dello sforzo compiuto, ma anche i dubbi e le perplessità per gli aspetti ideologici che sottomettevano l'individuo alle esigenze della produzione.

Il piano quinquennale può essere considerato sotto molti punti di vista. È possibile scorgere in esso semplicemente un programma di lavoro, uno schema, cioè, di ciò che si è stabilito di fare nel campo delle miniere, dei trasporti, dell'industria edilizia, elettrica, chimica e meccanica, nel campo della silvicoltura e dell'agricoltura. Oppure, esso può essere descritto come uno strumento finanziario, che regola la tassazione, i prestiti, le spese di impianto, gli investimenti. O, ancora, l'accento può essere posto sullo sforzo di elevare il livello di istruzione del paese, attraverso la formazione di migliaia di tecnici, ingegneri e agronomi. È ugualmente possibile soffermarsi sugli aspetti militari di questa preparazione industriale. E vi sono altri punti di vista da cui si potrebbe considerare il piano, come la salvaguardia dell'indipendenza economica della Russia e l'ampliamento delle basi industriali dello stato socialista. Ma questi e altri consimili aspetti del piano non contengono alcun elemento di sconvolgimento rivoluzionario. Neppure la sua dimensione gigantesca, in realtà, gli conferisce un carattere rivoluzionario. La qualità rivoluzionaria non è data né dalle proporzioni dello sforzo, né dalle finalità delle sue applicazioni, né dalla quantità di energia che esso mette in movimento. La caratteristica essenziale del nuovo ordine, che la trasformazione è stata designata a creare, consiste nel fatto che questa trasformazione comporta non solo una nuova tecnica, ma anche un nuovo spirito, non solo macchine moderne, ma anche un mutamento nella disposizione verso le macchine. Il risultato dipenderà dal fattore umano, dalla abilità e dalla volontà delle masse lavoratrici di impiegare queste macchine al limite della loro capacità. Tutto ciò, in Russia, è stato compreso a sufficienza, oggi. E questo è il motivo della propaganda cosi massiccia condotta sulla stampa e nelle fabbriche, che incita a dedicarsi con maggiore entusiasmo al lavoro, e a lavorare meglio e più intensamente. Non è un compito facile enumerare le forme assunte dalla propaganda per stimolare una produttività più alta. Inoltre, come tutta la propaganda russa, questi appelli sono espressi in un gergo militare che rende difficile decifrarne il significato in mezzo alla tediosa terminologia. Si può dare per scontato che una buona parte dell'entusiasmo e della dedizione di cui si parla è fittizia. Ma, giudicando dalle mie esperienze personali e dalle prove fornite dai risultati attuali, direi che il movimento, sebbene nel suo stadio iniziale, è destinato a spingersi lontano. Sono sinceramente convinto che l'antica apatia sognatrice dei lavoratori russi possa essere rimpiazzata da una attiva partecipazione alla vita, e che un lavoro maggiore e più intenso possa essere fatto nelle fabbriche e nei campi. Ma non sono disposto a riconoscere che i metodi usati per accelerare il lavoro siano completamente salutari.

"The Economist", l° novembre 1930.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

Il «grande crollo» e le sue cause

Pierre Léon, storico dell'economia, definisce il 1929 come la più grande crisi che si sia verificata nel mondo capitalistico.
A suo giudizio, la sua durata è anche dovuta all'inefficacia delle politiche adottate che, particolarmente nella fase iniziale, si rivelarono più dannose che utili; le cause non andrebbero poi ricercate in un accavallarsi casuale di singole crisi settoriali, ma neppure in una causa sola e determinante.

La crisi iniziò nell'ottobre del 1929 negli Stati Uniti con una crisi borsistica, assunse rapidamente un carattere mondiale, fu lunga e arrivò al parossismo quando la produzione crollò completamente: in Gran Bretagna nel 1931, nel 1932 in Germania, nel 1933 negli Stati Uniti e nel 1935 in Francia. I diversi ingranaggi della vita economica furono tutti colpiti, uno dopo l'altro; il crac di Wall Street, ad esempio, dette origine a un nuovo crollo dei prezzi dal 1929 al 1932, paragonabile a quello verificatosi nel 1920-21, e in cui nel maggio del 1931 venne a inscriversi una crisi bancaria, e a partire dal settembre dello stesso anno una crisi monetaria. Lungi dal costituire una serie di crisi che si accavallavano casualmente, il cataclisma, nonostante le sue diverse manifestazioni, nasceva da un groviglio di cause. Le divergenze d'interpretazione di questa grande depressione vertono soprattutto sulle sue origini, che per certuni vanno cercate nella sfera della produzione, definita da J. Bouvier i «fatti reali», e secondo altri nei fatti monetari. Senza nulla voler togliere all'importanza delle manifestazioni, nel tale o tal'altro momento, di ciascuna di queste due sfere, l'accento posto sulle concatenazioni cronologiche delle causalità nell'ambito del ciclo depressivo può aiutarci a delineare una prima risposta al problema. L'inefficacia delle politiche «anticrisi» adottate sia a livello nazionale che su scala internazionale, o addirittura i risultati opposti da esse ottenuti, spiegano la durata della depressione; e il fatto stesso che nel secondo semestre del 1937 si ebbe una nuova caduta dei prezzi il cui centro ancora una volta furono gli Stati Uniti, e che la produzione mondiale si risollevò veramente solo grazie alla corsa agli armamenti del 1938, mostra abbastanza chiaramente le difficoltà incontrate dai governi a trovarle una soluzione. Nonostante la varietà degli esperimenti tentati, il risultato più tangibile e questa volta irreversibile fu tuttavia il crescente intervento dello stato nella vita economica e sociale di tutti i paesi. Gli anni Trenta furono un laboratorio di riflessione tanto per la teoria economica quanto per la regolazione pratica del sistema economico, i cui benefici si fecero sentire soltanto nel dopoguerra. La depressione di quegli anni fu senz'altro una delle più gravi crisi del capitalismo e delle sue strutture, ma per il momento i mezzi per salvarlo si trovarono.

P. Léon, Guerre e crisi (1914-1947), t. II, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 341-342.

L'economista americano Chartes P. Kindleberger interpreta la profondità e la lunga durata della depressione mondiale iniziata nel 1929 con l'instabilità del sistema economico e monetario internazionale a causa della mancanza di una guida effettiva.
La Gran Bretagna aveva infatti cessato di assolvere questo compito che aveva svolto per tutto l'Ottocento e gli Stati Uniti non avevano ancora accettato questa responsabilità.
La novità della spiegazione di Kindleberger consiste nel considerare l'economia internazionale come un sistema che ha bisogno di un centro, di una direzione consapevole:

Torniamo alle domande iniziali: che cosa produsse la depressione mondiale del 1929, perché essa ebbe tale estensione, profondità e durata? Ebbe la sua origine negli Stati Uniti, in Europa, nei paesi produttori di materie prime della periferia, nelle relazioni tra questi gruppi? La fatale debolezza era connaturata al sistema capitalistico internazionale, o si trattò delle modalità con cui esso operò, cioè delle politiche perseguite dai vari governi? Tali politiche, per quanto rilevanti, furono frutto di ignoranza, di poca lungimiranza o di cattiva volontà? La profondità e la durata della depressione rifletterono la forza dell'urto rispetto ad un sistema relativamente stabile, o misurarono invece l'instabilità del sistema in presenza di un unico colpo, o di una serie di colpi, di forza normale (comunque misurata)? O, per ritornare alla contrapposizione tra Milton Friedman e Paul Samuelson, la crisi del 1929 fu conseguenza della politica monetaria statunitense, o di una serie di accidenti storici? [...] La spiegazione offerta in questo libro è che la depressione del 1929 ebbe tale estensione, profondità e durata per il fatto che il sistema economico internazionale venne reso instabile dall'incapacità della Gran Bretagna e dalla non disponibilità degli Stati Uniti ad assumersi la responsabilità della stabilizzazione su questi tre piani: a. mantenere un mercato relativamente aperto per le scorte di merci in difficoltà; b. provvedere alla fornitura di prestiti anticiclici a lungo termine; c. sostenere il credito durante la crisi. Le perturbazioni che vennero al sistema dalla sovrapproduzione di certi prodotti primari come il frumento, dalla riduzione dei tassi di interesse statunitensi nel 1927 (se si verificò), dalla cessazione dei prestiti alla Germania nel 1928, o dal crollo della borsa nel 1929, non furono poi cosi forti: perturbazioni altrettanto forti si erano avute con la caduta del mercato dei titoli nella primavera del 1920, e con la recessione del 1927 negli Stati Uniti, ed erano state neutralizzate. Il fatto è che il sistema economico mondiale era destinato all'instabilità a meno che qualche paese non provvedesse a stabilizzarlo, come la Gran Bretagna aveva fatto nel XIX secolo e fino al 1913. Nel 1929, la Gran Bretagna non ne fu più capace e gli Stati Uniti non vollero farlo. E quando ogni paese si volse a proteggere il proprio interesse privato nazionale, l'interesse pubblico mondiale venne messo fuori gioco; e, insieme ad esso, l'interesse privato di tutti.

C.P. Kindleberger, La grande depressione nel mondo 1929-1939, Etas Kompass, Milano 1982, pp. 257-258.

Lo storico David Thomson mette in evidenza, come causa della crisi, l'eccesso di produzione, che provocò la diminuzione dei prezzi e la saturazione dei mercati.
La sfrenata speculazione borsistica e la crisi monetaria si innestarono dunque su un terreno già minato dalla sovrapproduzione. I prezzi dei beni agricoli avevano iniziato la loro discesa già dal 1926, poiché l'Europa aveva incominciato ad avere meno bisogno del grano americano, che, senza mercati di sbocco all'estero, era eccedente rispetto al fabbisogno interno.
Il tracollo dei prezzi dapprima interessò i generi alimentari e le materie prime e poi si propagò al resto dell'attività industriale, poiché il fallimento degli agricoltori significò per loro impossibilità di continuare a comprare i beni dell'industria. In tal modo la crisi si propagò a catena.

Il primo settore dell'economia mondiale su cui venne a ripercuotersi la bufera che s'andava addensando fu, significativamente, l'agricoltura americana e canadese. In tutto il continente nordamericano, i prezzi agricoli avevano incominciato a scendere a partire dal 1926. Il riassestamento dell'agricoltura europea, e i notevoli miglioramenti verificatisi in altri luoghi, resero le enormi fonti di produzione del Nord-America in gran parte superflue alle necessità del vecchio continente. [...] In tali condizioni, l'agricoltore americano fu costretto a diminuire le sue spese, e di questo risenti anche l'industria. Ma fu la bolla di sapone della speculazione a produrre il vero crollo che si abbatté su Wall Street nell'ottobre 1929. Il 23 e il 24 – il «giovedi nero» – si verificò una folle corsa alla svendita da parte degli azionisti. Solo il 24 vennero venduti circa 13 milioni di azioni, e il martedi 29 altri 16 milioni e mezzo. Entro la fine del mese, gli investitori americani avevano perduto quaranta miliardi di dollari. Il crac della borsa di New York provocò il tracollo definitivo dei prezzi agricoli americani e suscitò brividi di apprensione in tutto il mondo. Dopo un temporaneo rialzo all'inizio di novembre, i prezzi ricominciarono a scendere, e continuarono cosi, indifferenti ai tardi sforzi dei banchieri e del governo per controllarli. Le ripercussioni del crollo sulle finanze governative e sull'industria furono parallele al terribile colpo subito dai produttori di generi alimentari e di materie prime. [...] I fattori nordamericani, i frutticoltori e gli allevatori australiani, i piantatori di caffè brasiliani e gli zuccherieri giavanesi trovavano rovinosamente bassi i prezzi mondiali dei loro prodotti. Metodi più scientifici avevano loro permesso di produrre in abbondanza beni che i potenziali clienti non erano però in grado di acquistare. Infatti, la richiesta dei paesi più industrializzati non era aumentata, e le sottoalimentate masse dell'Asia e dell'Africa, che avrebbero avuto bisogno di quei prodotti, non potevano comprarli neppure a basso prezzo. [...] Dopo il crollo del 1929, il ribasso dei prezzi portò alla rovina i produttori di grano e di cotone, di caffè e di cacao, di zucchero e di carne. E i fallimenti di costoro, che rappresentavano una notevole percentuale nella popolazione di tante comunità, produssero una diminuzione delle richieste di tutti quei prodotti che essi non potevano più permettersi di comprare. Cosi i prezzi continuavano a scendere, e la crisi si diffondeva in ogni settore dell'economia mondiale. [...] E gli sforzi di molti paesi per proteggere i propri agricoltori o i propri industriali da questo processo con tariffe protettive o con calmieri, riuscirono solo a diminuire ancor più il flusso del commercio internazionale. Susseguendosi i fallimenti, ed essendo le diverse fabbriche costrette a diminuire la produzione o a chiudere i battenti, milioni di operai si trovarono senza lavoro. E la diminuzione del loro potere d'acquisto abbassò ancor più l'effettiva richiesta di merci. Si verificò cosi in tutto il mondo il tremendo paradosso della «povertà nell'abbondanza» – lo strano gravame della «sovrapproduzione» quando milioni di uomini erano affamati e senza tetto –, la distruzione di cataste di cibo perché troppa gente era troppo povera per mangiarlo.

D. Thomson, Storia d'Europa dalla rivoluzione francese ai giorni nostri, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 451-452.

Ferdinando Fasce, commentando il libro dell'economista canadese John K. Galbraith, Il grande crollo, mette in evidenza, come fattore di crisi specifica, il mercato azionario americano:

Come non manca di sottolineare a più riprese, Galbraith intende fornire anzitutto una storia dall'interno del mercato azionario americano, che ne riveli i profondi intrecci col resto dei fenomeni economici, senza che, però, ne vada dissolta la profonda specificità. Storia dei meccanismi sempre più impersonali del grande capitale, delle scelte e della psicologia degli uomini d'affari, dell'impatto che le vicende di borsa ebbero sulla mentalità collettiva del Paese si combinano, dunque, in un denso affresco che parte dalla corsa alla speculazione immobiliare in Florida alla metà degli anni Venti e segue lo spostarsi di quest'onda verso i mercati azionari. Qui il «desiderio di arricchimento» di uno strato decisamente minoritario, ma tutt'altro che insignificante della popolazione (forse un milione di persone in vario modo coinvolte su una nazione di centoventi milioni di abitanti), si incontra con un enorme allargamento e una professionalizzazione delle attività borsistiche. Sollecitate da una grande fase di concentrazione e consolidamento delle risorse produttive, tali attività attraggono l'interesse dei capitali internazionali e di alcune delle principali imprese industriali degli Stati Uniti e, cristallizzandosi attorno al boom dei titoli a riporto, aprono la strada a quella che già Karl Marx definiva «vertigine dei finanzieri d'assalto». Con la differenza che, sullo scorcio del decennio, a dare il tono al tutto sono strumenti sempre più sofisticati (e soprattutto spregiudicati) di transazioni, di importazione europea, quali gli investment trusts, imprese che investono in titoli di altre imprese, secondo un gioco di scatole cinesi.

F. Fasce, Un anno da ricordare, "Storia e Dossier", aprile 1994, p. 63.

La crisi economica in Europa

Al di là delle differenze dei risultati e delle situazioni tra Paese e Paese, ci fu comunque un dato comune che andò accentuandosi nel secondo dopoguerra: l'intervento diretto dello Stato nell'economia e la fine del capitalismo liberale che aveva caratterizzato la società industriale fino a questo momento.
Si trattò, all'inizio, di un intervento fatto di provvedimenti non sempre coerenti, alcuni dettati dall'esigenza di portare il bilancio in pareggio (frutto di una politica di restrizioni), altri dalla necessità di rilanciare i consumi e quindi la domanda interna (e dunque fonte di una politica di allargamento del credito).
Lo storico dell'economia Léon descrive efficacemente questo periodo di lunga depressione:

Inutile dire che il carattere diametralmente opposto di [...] successivi provvedimenti, le lunghe esitazioni che suscitarono ogni volta e le loro difficoltà d'applicazione contribuirono a prolungare la crisi. La mancanza di solidarietà fra nazioni perpetuò anch'essa il marasma: le svalutazioni operate senz'ordine e con lunghi intervalli cronologici fra un paese e l'altro furono occasione di nuove manifestazioni di egoismo nazionale. Le esportazioni dei paesi che svalutarono le rispettive monete per primi godettero cosi di una situazione che le favoriva a spese altrui, mentre la creazione di aree monetarie e doganali fu un'altra fonte d'attrito fra i blocchi formatisi. Non si creda poi che le politiche di rilancio siano state tutte coronate dal successo: alcune servirono di supporto al totalitarismo militare, altre, come il New Deal o il Fronte popolare — la cui politica sociale spaventava il capitale — non vollero o non seppero eliminare le strettoie che certi monopoli imponevano all'economia, e non riuscirono a coinvolgere i monopoli stessi in una politica d'espansione. Tuttavia, dopo la seconda guerra mondiale, tutti questi tentativi inaugurarono un'epoca di accresciuto intervento e di regolazione della vita economica e sociale da parte dello stato che pose fine al capitalismo liberale tradizionale. Da quel momento, il fatto di maggior rilievo fu il ruolo preponderante svolto dall'economista nella vita pubblica.

P. Léon, Guerre e crisi (1914-1947), t. II, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 362.

Il rimborso dei prestiti chiesto dalle banche americane agli Europei ebbe, come si può ben immaginare, effetti disastrosi.
I primi a risentirne furono, come si è detto, Austria e Germania, cui fecero seguito Gran Bretagna e Francia, e gli altri Stati europei, con l'eccezione della Russia, la cui economia, impegnata in uno sforzo di industrializzazione nel più completo isolamento, era tagliata fuori dalle oscillazioni del sistema economico internazionale.
Cosi Thomson descrive la situazione determinata dagli effetti a catena delle varie decisioni politiche a cui non erano estranee tradizionali rivalità e rancori, come quelle che contrapponevano i Francesi ai Tedeschi:

Nelle sue radicali conseguenze sulla prosperità e sulla stabilità europea, la Grande Crisi era paragonabile alla guerra mondiale. Come quella appariva alle sue vittime con l'aspetto di un cataclisma o di un'eruzione vulcanica, e di nuovo la terra stessa pareva aprirsi senza che si intravedessero speranze di salvezza. Le massime potenze finanziarie del mondo erano accasciate. In tre anni chiusero i battenti cinquemila banche americane, e gli Stati Uniti non soltanto smisero di prestar denaro agli stranieri, ma si fecero rimborsare i prestiti già concessi. Colpirono cosi alle fondamenta la rinascita europea, soprattutto in Austria e in Germania dove nel 1931 iniziò la catena dei fallimenti. Primo a crollare fu il Kreditanstalt di Vienna, la maggiore e la più stimata banca austriaca, da cui dipendevano per due terzi l'attivo e il passivo del paese. Nel maggio 1931 sospese i pagamenti e, nonostante l'appoggio governativo e un prestito della Bank of England, il suo fallimento fece tremare le finanze dell'Europa centrale. Gli investitori stranieri ritirarono gran parte del capitale depositato in Germania, e alla fine dell'anno il governo tedesco si trovò ad affrontare le stesse difficoltà. Il presidente Hindenburg promulgò decreti d'emergenza per diminuire le spese e imporre nuove tasse. E il cancelliere Brüning chiese aiuto all'Inghilterra. Il 20 giugno il presidente degli Stati Uniti, Hoover, annunciò la famosa «moratoria», rimandando di un anno tutti i pagamenti delle somme dovute al suo paese dagli altri governi. Egli aveva prima consultato l'Inghilterra, ma non la Francia. E ciò provocò nuovi contrasti fra i due maggiori paesi dell'Europa occidentale: mentre la Gran Bretagna accolse con favore la moratoria, la Francia, finora solo debolmente colpita dalla crisi, la considerò il primo passo verso la completa cancellazione delle riparazioni tedesche. In luglio, anche il credito inglese incominciò a vacillare: tutto lasciava prevedere che il prossimo bilancio si sarebbe chiuso con un deficit. Ora, se in Francia i deficit dei bilanci erano normali, per l'ortodossa finanza britannica un bilancio non perfettamente equilibrato era in pratica un'eresia. Subito dopo quasi tutte le borse europee chiusero, e in breve tempo gran parte dei governi d'Europa e dei dominions abbandonarono la base aurea. Entro un anno, i soli stati che ancora fondavano su di essa le loro monete erano la Francia, l'Italia, i Paesi Bassi, la Svizzera, la Polonia, la Romania e gli Stati Uniti, anche se la base aurea non aveva molto senso in un continente quasi completamente privo di oro.

D. Thomson, Storia d'Europa dalla rivoluzione francese ai giorni nostri, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 462-463.

Per il suo sperimentalismo, per la dichiarata volontà di non rifarsi a nessuna dottrina economica precisa, il New Deal fu definito pragmatista, come ricorda William Edward Leuchtenburg:

Il New Deal fu pragmatista principalmente per il suo scetticismo verso le utopie e le soluzioni definitive, per la sua tendenza allo sperimentalismo, e per la sua diffidenza verso i dogmi dell'establishment. Dato che i consigli degli economisti si erano dimostrati cosi spesso errati, gli uomini del New Deal non si fidavano delle pretese della teoria ortodossa («Tutto questo è assolutamente orribile perché non è che teoria pura, quando si va al fondo delle cose», disse il presidente una volta) e si sentivano liberi di tentare vie nuove. Roosevelt rifiutava di lasciarsi intimidire dagli economisti e dagli esperti finanziari, quando questi ammonivano che l'interferenza governativa nelle «leggi» dell'economia era un sacrilegio. «Dobbiamo renderci conto che le leggi economiche non sono stabilite dalla natura — dichiarò il presidente. — Sono fatte da esseri umani». I new dealers negavano che le depressioni fossero avvenimenti inevitabili da sopportarsi stoicamente, con uno stoicismo di cui dovevano dar prova specialmente i più poveri, ed erano pronti a esplorare nuove vie per rendere l'ordine sociale più stabile e più umano. «Io sono per sperimentare... in varie parti del paese, per saggiare piani che abbiano l'appoggio di gente ragionevole e vedere se funzionino», disse Hopkins a un raduno di assistenti sociali. «Se non funzionano, non sarà la fine del mondo».

W. E. Leuchtenburg, Roosevelt e il New Deal 1932-1940, Latenza, Bari 1968, p. 320.

Il New Deal

Nel novembre del 1932 vinse le elezioni presidenziali negli Stati Uniti il candidato democratico Franklin Delano Roosevelt, che non aveva un programma economico preciso da contrapporre al repubblicano Hoover, ma la ferma volontà di sperimentare soluzioni diverse, senza farsi troppo condizionare dalle opinioni degli economisti.
Nacque cosi il New Deal, un nuovo corso, un diverso stile di governo fondato su un energico intervento dello Stato nei processi economici per favorire la ripresa, e su una politica di riforme sociali finalizzate a sostenere le classi sociali più deboli.
Il New Deal non fu, scrive Leuchtenburg, soltanto una nuova politica economica, ma anche un deciso passo avanti verso una società più democratica:

Quando Roosevelt assunse la carica, il paese obbediva per lo più alla volontà di un unico elemento: la classe possidente bianca, anglosassone, protestante. Sotto il New Deal nuovi gruppi ottennero un posto al sole. Non si trattava semplicemente di ricevere benefici prima negati, ma di veder «riconosciuto» il proprio posto nella comunità. Al principio dell'era di Roosevelt, gli enti assistenziali ignoravano i sindacati quando questi chiedevano una «rappresentanza di gruppo»; alla fine di quel periodo, nessun comitato per la raccolta di fondi sarebbe stato completo senza un rappresentante sindacale. Mentre Theodore Roosevelt aveva fondato nel Sud un partito progressista esclusivamente riservato ai bianchi, e Woodrow Wilson aveva introdotto la segregazione nel governo federale, Franklin Roosevelt portò silenziosamente i negri nella coalizione del New Deal. Quando il celebre contralto negro Marian Anderson si vide negare una sala da concerto a Washington, il segretario Ickes organizzò le cose in modo che potesse cantare dai gradini del monumento a Lincoln. Anche il diritto delle confessioni religiose di essere egualmente rappresentate divenne una cosa comunemente accettata, tanto che, come lamentò seccato un sacerdote cattolico, non si vedeva mai su un giornale una fotografia di un prete che non fosse affiancato da un ministro protestante e da un rabbino.

W. E. Leuchtenburg, Roosevelt e il New Deal, Latenza, Bari 1968, pp. 318-319.

La politica economica di Roosevelt

Gli avversari politici di Roosevelt e coloro che erano fedeli alla scuola economica liberistica rimproverarono al presidente di aver imboccato la via del socialismo, d'aver tradito i principi della società americana, fondata sull'iniziativa individuale.
Queste critiche vengono respinte da Henry Wallace, che sostiene non esservi alcuna contraddizione tra l'intervento dello Stato in economia e i principi della democrazia. Le vie di quest'ultima sono certo più lente e difficili rispetto alla rapidità di decisioni di uno Stato che imponga il suo potere con la forza, ma sono indubbiamente preferibili. In una società democratica lo Stato ha un ambito di intervento rivolto a garantire un equilibrio tra i vari gruppi sociali, a impedire il formarsi di grandi concentrazioni di ricchezze e la diffusione di una estrema povertà.
Né la concorrenza illimitata di un capitalismo selvaggio dunque, né il dirigismo che soffoca qualunque iniziativa personale, devono essere le scelte di una società complessa come quella presente. Porre regole che limitino l'arbitrio dei privati, garantire la giustizia e la solidarietà sociale, sono i nuovi compiti dello Stato contemporaneo:

Non v'è nulla di insolito o di sensazionale nelle regole del giuoco che propongo [del New Deal]. Solo che fino ad ora il loro significato è rimasto oscuro e la loro attuazione è stata più o meno segretamente manipolata a vantaggio dei meno e a scapito dei più. Il primo punto sta nel comprendere queste regole in tutto il loro significato. Esse consistono in espedienti che vanno dalle tariffe doganali alla bilancia internazionale dei pagamenti, dalla politica monetaria alle sovvenzioni, dalle imposte alla politica dei prezzi, dalla politica della produzione alla disciplina delle tariffe ferroviarie. Il loro significato sta nel fatto che grazie ad esse, è possibile dirigere, stimolare, limitare ed equilibrare le forze che incidono sulla distribuzione del reddito nazionale. Tutti i governi che hanno superato la fase pionieristica trovano necessario disporre di tali controlli, anziché lasciar tutto alla libera concorrenza. Nell'esercitarli, poi, una democrazia degna di questo nome dev'esser guidata dalla sollecitudine per la giustizia e per la carità sociale, in altre parole, dal principio dell'utile massimo per il massimo numero di uomini. Servirsi di quegli espedienti per ridistribuire il reddito non è la strada del socialismo, del comunismo o del fascismo, come non è quella del capitalismo rapace o della scuola economica neo manchesteriana. Con la loro devozione per la concorrenza illimitata questa gente sembra consigliare che i semafori siano rimossi in modo da consentire a pedoni e ad automobilisti d'illustrare ad ogni angolo di strada la legge della sopravvivenza del più forte. In democrazia è necessario fornire le luci rosse e le luci verdi per guidare il traffico, non già fornire autisti per ogni automobile che sia in circolazione. Già molto tempo prima della guerra mondiale, la concorrenza era limitata da regole pubbliche e private. Da allora essa è stata limitata sempre più. Il problema di fondo sta nel chiedersi a vantaggio di quale gruppo vadano tali restrizioni. Il ricco ne vien reso più ricco e il povero più povero? [...] Una democrazia durevole può aversi solo promuovendo un equilibrio tra i vari gruppi di produttori ed evitando che si formi una piccola categoria di persone smodatamente ricche. Come s'è visto in passato, le democrazie sono continuamente soggette al pericolo di cadere in mano dell'estrema destra o dell'estrema sinistra sotto la spinta delle trasformazioni sociali. I medesimi legislatori possono essere travolti all'estrema destra da un gruppo di capitalisti spaventati, o costretti a una marcia precipitosa verso sinistra, dalla massa dei senza lavoro.

H. Wallace, in F. Mancini, L'età di Roosevelt, Il Mulino, Bologna 1962.

L'economia dell'Italia fascista

La scelta autarchica del fascismo, che promosse la cosiddetta «battaglia del grano» per rendere in questo campo il Paese autosufficiente, si rivelò un fallimento economico. Infatti finì per danneggiare le colture più redditizie e per peggiorare le condizioni di vita popolari, in quanto l'alto prezzo del grano gravò sui bilanci delle famiglie più bisognose, riducendo il livello dei consumi, peraltro già modesti.
Lo storico Denis Mack Smith vede in questa linea politica di Mussolini più l'espressione di una volontà di prestigio nazionalistico che non il frutto di una ponderata valutazione economica:

La più profonda trasformazione che ebbe luogo nell'economia italiana durante il fascismo è forse quella che concerne la produzione granaria. Fin dal 1870 la produzione annuale in questo settore era stata di poco superiore ai quaranta milioni di quintali, ma nel 1930 Mussolini aveva già portato questa cifra a sessanta milioni, passata poi a ottanta nel 1939. Questa «battaglia del grano» ebbe pieno successo. Ogni 21 aprile erano distribuite medaglie agli agricoltori che maggiormente vi avevano contribuito — questa data doveva nelle intenzioni del regime soppiantare quella rivale e d'impronta socialista del 1° maggio — ed i progressi furono tali che nei dieci anni successivi al 1925 le importazioni di grano furono ridotte del 75%. Il prezzo pagato fu però pericolosamente alto. I cereali erano un tipo di prodotto agricolo che una lunga esperienza aveva dimostrato un genere economicamente poco redditizio per l'Italia, ed il risultato della battaglia fu di abbassare la produzione agricola complessiva e, di conseguenza, anche il reddito nazionale. L'ossessione di Mussolini per l'autarchia lo spinse a voler produrre la maggior quantità possibile di grano a qualsiasi prezzo, invece della maggior quantità che poteva esser prodotta remunerativamente. Molte terre prima destinate a pascolo o alla coltivazione della frutta e delle olive furono così trasformate a grano, con la conseguenza che l'intera economia del paese ne fu sconvolta e che il prezzo del grano divenne in Italia del 50% più alto che in America. Mentre i grandi produttori di cereali prosperavano grazie alle sovvenzioni governative, i consumatori non si trovavano nella posizione migliore per far sentire la loro voce. Dato che il grano costava di più, molti italiani dovettero semplicemente consumarne di meno, mentre la mutata destinazione di molte aree coltivabili portò pure ad una flessione nell'allevamento del bestiame e nella produzione dell'olio d'oliva. Le ragioni politiche erano così in netto contrasto con i veri interessi dell'agricoltura italiana, e l'autarchia aggravò i problemi economici italiani anziché risolverli, come Mussolini pretendeva.

D. Mack Smith, Storia d'Italia, Laterza, Bari 1959, p. 260.

Come già visto, il regime fascista inaugurò una politica di forte intervento statale nell'economia.
Lo storico Valerio Castronovo mette in risalto come il fascismo, con tale iniziativa, intendesse soprattutto crearsi il consenso interno, mantenendo una numerosa manodopera altrimenti in esubero e garantendo così maggiore stabilità e pace sociale.

Ciò non vuol dire, beninteso, che il mondo industriale italiano fosse disposto a sottoscrivere fin dall'inizio e integralmente il ruolo mediatore dello Stato nella vita economica. È bensì vero che Agnelli, Pirelli e altri esponenti della Confindustria, che pur avevano protestato tra il 1933 e il 1934 contro l'estensione della «mano pubblica» si mostrarono presto di diverso avviso, e cercarono quindi di stabilire dei vantaggiosi accordi settoriali, non appena si avvidero che l'Iri (giunto a gestire la maggioranza dell'industria pesante) avrebbe assicurato il mantenimento di numerosa manodopera, altrimenti esuberante e fonte di inquietudini e di tensioni sociali. [...]. In ogni caso, né gli investimenti pubblici nell'industria, né la realizzazione dello Stato corporativo crearono una situazione pericolosa per l'assetto della proprietà privata e per i precedenti equilibri di potere. Si venne formando, insomma, un'economia mista, ma solo di salvataggio; né si affermò una precisa strategia dell'industria di Stato finalizzata a determinati obiettivi istituzionali, al di là di una passiva e ambigua presenza della «mano pubblica» in alcuni pur importanti settori produttivi. Tutte queste circostanze inducono, in ultima analisi, a ritenere che quella fascista fu una politica rivolta a uno sviluppo protetto e guidato, erogatrice di stabilità sociale, ma caratterizzata alla distanza da modesti indici di produttività, da una debole consistenza della massa salariale, dalla compressione della domanda e dei consumi privati. Era stato assai più semplice compensare nel 1926-27 la rivalutazione troppo drastica della lira con una diminuzione dei salari reali e con un processo di concentrazione aziendale. D'altra parte, le modalità stesse con cui s'era cercato di uscire dalla flessione degli investimenti, con il potenziamento degli enti pubblici di credito e degli organi preposti alla raccolta del risparmio, avevano finito per coinvolgere più intensamente i ceti medi e redditieri nel processo complessivo di accumulazione.

V. Castronovo, Grandi e piccoli borghesi, Laterza, Bari 1988, pp. 115-116.

L'economia della Germania nazista

Anche la Germania hitleriana perseguì una politica tendenzialmente autarchica e statalista, volta a contenere le importazioni e a sviluppare l'economia nazionale.
Lo storico dell'economia Bernard Michel così descrive i meccanismi economici messi in atto dal nazismo negli anni Trenta:

Il finanziamento del riassetto economico della Germania fu assicurato dal massiccio intervento dello stato nell'economia. Nel 1938, la spesa pubblica rappresentava il 35% del reddito nazionale, contro il 24% in Gran Bretagna e il 30% in Francia. Rifiutando la politica deflazionistica dell'inizio degli anni Trenta, la Germania nazista accettò sistematicamente un deficit di bilancio enorme, dando così un classico esempio di deficit spending [è il deficit dovuto alla spesa pubblica]. L'essenziale degli investimenti fu costituito dalle spese militari: si calcola che Hitler abbia destinato al riarmo dai 34 ai 48 miliardi, e non i 90 di cui si vantò in seguito. Le spese sociali diminuirono, e l'edilizia fu abbandonata al settore privato. Nonostante che il severo sistema fiscale ereditato da Brüning fosse stato mantenuto, il finanziamento non fu assicurato dagli introiti normali, e neppure lo si ottenne dall'inflazione, giacché la circolazione monetaria tornò al livello del 1929 solo nel 1936. La Germania pagò i suoi armamenti e il suo riassetto economico soprattutto con effetti a breve termine che non furono messi in circolazione, ma piazzati presso le banche e le Casse di risparmio, dove rimasero di proprietà delle imprese che li avevano ricevuti in pagamento. [...] Dal 1933, il mercato del capitale fu riservato al governo e vietato alle società private. I dividendi distribuiti dalle società non dovettero superare per legge il 6%. Grazie al controllo esercitato sui cartelli, lo stato determinò le strategie finanziarie delle imprese, e nessun credito bancario poté essere accordato senza il parere favorevole delle autorità. Il rigido inquadramento dei prezzi e dei salari attenuò le pressioni inflazionistiche che avrebbero potuto risultare dai nuovi investimenti.

B. Michel, Evoluzione economica e sociale della Germania dal 1933 al 1939,
in Storia economica e sociale del mondo, a cura di P. Léon, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 412.

Per quanto riguarda le ripercussioni sociali della politica economica nazista, Michel prosegue tratteggiandole in questo modo:

I lavoratori manuali, per dirla con Schoenbaum, conobbero nel nazismo «una curiosa mescolanza di profitti e perdite». All'attivo del regime, la quasi completa scomparsa della disoccupazione, rapidissima soprattutto per gli operai maggiormente qualificati, nonché la diminuzione della distanza sociale che separava gli operai dagli impiegati e gli aumenti salariali concessi ai lavoratori delle industrie di guerra. Il movimento della «Forza mediante la gioia», in seno al Fronte nazionale del lavoro, organizzò il tempo libero dei lavoratori, e il miraggio di riuscire a comprarsi una Volkswagen detronizzò l'immagine dell'automobile come simbolo della borghesia. Ma al passivo le perdite furono considerevoli: soppressione dei sindacati, lentissimo aumento dei salari in confronto ai profitti. La mobilità operaia fu ostacolata dall'istituzione del libretto di lavoro, nel 1935, e la pianificazione dell'economia si trasformò a poco a poco in un orientamento autoritario della manodopera. La giornata di otto ore, già disattesa all'epoca di Weimar, si estese fino a dieci ore, quando le necessità dell'impresa lo richiedevano. I veri perdenti del regime nazista furono però i rappresentanti delle classi medie, che, ufficialmente, avrebbero dovuto essere fra i pilastri del regime. I contadini, esaltati dalla propaganda «del Sangue e della Terra», beneficiarono dell'aumento dei prezzi agricoli, e il regime gli consentì la costituzione di proprietà terriere inalienabili a vantaggio del figlio maggiore. La politica d'industrializzazione provocò però un nuovo sviluppo delle città e un ulteriore calo dell'agricoltura nel reddito nazionale. I contadini, che costituivano il 22% della popolazione ma solo il 9% degli iscritti al partito, erano sottorappresentati. Nel 1933 i primi provvedimenti contro i grandi magazzini e le cooperative fecero nascere molte speranze nei piccoli e medi commercianti, ma il riconoscimento e lo sviluppo dei cartelli ne diminuì l'indipendenza, e lo spietato movimento di concentrazione del commercio continuò con l'appoggio delle autorità. In risposta al malcontento, il partito nazista attaccò l'ideologia delle classi medie, simbolo di decadenza.

B. Michel, Evoluzione economica e sociale della Germania dal 1933 al 1939,
in Storia economica e sociale del mondo, a cura di P. Léon, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 415-416.

L'economia sovietica negli anni Trenta

La collettivizzazione delle campagne fu una delle decisioni di politica economica più importanti assunte dal governo sovietico.
Le sue ragioni vanno cercate nelle esigenze della industrializzazione. Solo una unità produttiva di grandi dimensioni, fondata su moderni sistemi di coltivazione e sulla meccanizzazione, poteva garantire una quantità di prodotti sufficienti; inoltre, in quanto statale, assicurava la consegna dei beni, ovviando ai rischi di un'appropriazione privata e di un accumulo personale che derivavano dalla consuetudine dei contadini, restii a consegnare allo Stato il frutto del proprio lavoro.
Questa scelta ebbe conseguenze politiche e sociali enormi: ruppe definitivamente l'alleanza tra contadini e operai che aveva caratterizzato la rivoluzione dei 1917, segnando la sconfitta di Bucharin, uno dei rivoluzionari che ne erano sostenitori; diede origine alla violenta repressione dei kulaki, i contadini ricchi, da parte di Stalin e, in definitiva, contribuì a rafforzare l'aspetto dittatoriale dello Stato sovietico.
Gli storici Edward H. Carr e Robert William Davies mettono in luce le considerazioni prettamente economiche che condussero a questa scelta.

Nelle condizioni imposte da una società di contadini in gran parte analfabeti o semianalfabeti, basata su un'agricoltura primitiva e tradizionale, i miglioramenti tecnici – prodotti o dalla meccanizzazione, o da sementi e fertilizzanti, o dalla ricomposizione fondiaria o da nuove rotazioni – erano legati alla questione della dimensione dell'unità produttiva. Una relazione preparata per il XV Congresso del dicembre del 1927 indicava che il rendimento aumentava parallelamente alle dimensioni dell'azienda agricola: nelle proprietà in cui il valore complessivo del prodotto superava i 1400 rubli, il rendimento unitario era più che doppio rispetto alle proprietà nelle quali il valore del prodotto non superava i 200 rubli, ed era necessario molto meno lavoro per arrivare agli stessi risultati. Né si potevano dissociare i problemi della produzione da quelli ancora più urgenti della distribuzione. Gli organismi incaricati dell'approvvigionamento delle città e delle fabbriche non si interessavano tanto alla quantità di cereali raccolta quanto alla quantità venduta sul mercato. L'importanza dei sovchozy e dei kolchozy non era costituita soltanto dal fatto che la resa unitaria dei raccolti era superiore, ma dal fatto che essi vendevano sul mercato una quantità maggiore del loro raccolto. Nella sua relazione alla XVI Conferenza del partito dell'aprile 1929, Kalinin ripeté le cifre enunciate da Stalin nel maggio 1928 relative alla parte di produzione di cereali destinata al mercato, mostrando che nel 1926-27 i sovchozy e i kolchozy vendevano sul mercato il 47 per cento della loro produzione, i kulaki il 20 per. cento e i contadini medi e poveri l'l 1,2 per cento. Non ci voleva nessun sistema statistico elaborato per dimostrare che una proprietà più grande avrebbe portato al mercato una proporzione di cereali maggiore di una proprietà più piccola che bastava appena a soddisfare i bisogni del coltivatore e della sua famiglia. Il problema era come doveva essere costituita l'unità più grande e chi ne avrebbe avuto il controllo. Il problema era lo stesso (sebbene ora in una forma un po' più avanzata) che si era sempre posto agli artefici della politica sovietica dal 1925 in poi: la scelta tra agricoltura individuale e collettiva, tra forma «capitalistica» o «socialista» di possesso della terra e di produzione. La decisione in favore della prima, presa nel 1925, tranne che per un breve periodo, non era mai stata esclusiva. Le sue implicazioni avevano colpito molti fedeli sostenitori del partito, non soltanto membri dell'opposizione trockista e dell'opposizione unificata; ed i suoi sostenitori avevano sempre riconosciuto la necessità di una collaborazione volontaria fra produttori indipendenti. Ma, in senso lato, dal 1925 al 1927 la fiducia nell'agricoltura contadina individuale non aveva perduto terreno. Poi due fattori connessi fra loro mutarono la situazione. Il primo fu la crescente urgenza di piani di industrializzazione concentrati essenzialmente sull'industria pesante. Ciò eliminò ogni prospettiva di un rapido aumento delle forniture di beni di consumo che avrebbero potuto costituire un incentivo economico a consegnare i cereali per i contadini indipendenti e specialmente per quelli più efficienti e più ricchi; e facendo ciò, metteva fine all'intima speranza che l'industrializzazione non avrebbe pesato troppo sulle spalle dei contadini. Il secondo fu la maggiore applicazione alla produzione agricola della meccanizzazione e di altri processi tecnici moderni; ciò significava che l'unità di produzione efficiente andava aumentando costantemente le sue dimensioni senza tener conto del fatto che fosse controllata individualmente o collettivamente. Perciò, quando le scarsità del 1927, la spinta all'industrializzazione e infine la crisi degli ammassi dei cereali dei primi mesi del 1928 portarono la situazione a un punto critico, gli argomenti a favore di un'agricoltura contadina individuale erano molto più deboli che nel 1925. Il contadino indipendente, essendo poco stimolato a spendere, accentuò la tendenza tradizionale dei contadini ad accumulare i cereali, come riserva per le future evenienze o come speculazione su prezzi più alti, rappresentavano la forma di ricchezza più stabile e conveniente. L'esistenza di grosse proprietà indipendenti significava che i proprietari avrebbero ceduto i cereali soltanto a condizioni — comprendenti un'adeguata fornitura di beni di consumo a prezzi accettabili — incompatibili con l'investimento sempre maggiore nell'industria pesante richiesto dalla politica di rapida industrializzazione. Più grande ed efficiente era l'unità, maggiore erano la forza contrattuale del proprietario e la sua influenza sulla politica economica. Soltanto le grandi unità controllate dallo Stato potevano essere costrette a consegnare i cereali ai funzionari incaricati degli ammassi secondo i termini stabiliti dagli organismi centrali e essere inserite nel modello di pianificazione e di industrializzazione.

E. H. Carr, R. W. Davies, Le origini della pianificazione sovietica, Einaudi, Torino 1972, pp. 233-235.

 

 

 

 

 

 

 

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