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IL FASCISMO IN ITALIA E IN EUROPA

 

 

FONTI

 

Il programma dei Fasci Italiani di Combattimento (1919)

Il movimento fascista venne fondato il 23 marzo 1919 a Milano in piazza San Sepolcro (da qui i primi fascisti presero il nome di "sansepolcristi").
Nel suo programma confluirono abbastanza confusamente elementi di differenti tradizioni politiche di opposizione.
 - La prima sezione, sul problema politico, con la richiesta dell'abolizione del Senato (allora di nomina regia) e della revisione della forma istituzionale, attinge dalle tradizionali idee repubblicane e mazziniane, sempre vive nella società italiana.
 - Le tesi sul problema sociale e su quello finanziario derivano invece dal mondo socialista, con parecchi punti di contatto con le Tesi di aprile di Lenin e i punti programmatici degli spartachisti tedeschi.
 - La sezione "militare", invece, si riallaccia alle rivendicazioni del mondo nazionalista italiano, con una milizia permanente nazionale e una politica estera intesa ad affermare il ruolo dell'Italia nel mondo.
Un programma così vago e confuso non poteva che attrarre a sé gli elementi più disparati della società italiana.

Italiani!
Ecco il programma nazionale di un movimento sanamente italiano.
Rivoluzionario perché antidogmatico e antidemagogico; fortemente innovatore, perché antipregiudizievole.
Noi poniamo la valorizzazione della guerra rivoluzionaria al di sopra di tutto e di tutti. Gli altri problemi: burocrazia, amministrativi, giuridici, scolastici, coloniali, ecc. li tracceremo quando avremo creato la classe dirigente.
Per questo noi vogliamo, per il problema politico:
a. Suffragio universale a scrutinio di lista regionale con rappresentanza proporzionale, voto ed eleggibilità delle donne.
b. Il minimo di età per gli elettori abbassato a 18 anni; quello per i deputati abbassato ai 25 anni.
c. L'abolizione del Senato.
d. La convocazione di una Assemblea Nazionale per la durata di tre anni, il cui primo compito sia quello di stabilire la forma di costituzione dello Stato.
[...] Per il problema sociale, noi vogliamo:
a. La sollecita promulgazione di una Legge dello Stato che sancisca per tutti i lavoratori la giornata legale di otto ore di lavoro.
b. I minimi di paga.
c. La partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell'industria.
d. L'affidamento alle stesse organizzazioni proletarie [...] della gestione di industrie o servizi pubblici.
[ ... ] Per il problema militare, noi vogliamo:
a. L'istituzione di una milizia nazionale, con brevi periodi di istruzione e compito esclusivamente difensivo.
b. La nazionalizzazione di tutte le fabbriche di armi e di esplosivi.
c. Una politica estera nazionale intesa a valorizzare nelle competizioni pacifiche della civiltà la nazione italiana nel mondo.
Per il problema finanziario, noi vogliamo:
a. Una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze.
b. Il sequestro di tutti i beni delle Congregazioni religiose e l'abolizione di tutte le mense vescovili, che costituiscono un'enorme passività per la Nazione, e un privilegio di pochi.
c. La revisione di tutti i contratti e forniture di guerra ed il sequestro dell'85% dei profitti di guerra.

Programma dei Fasci italiani di Combattimento, "Il popolo d'Italia", 6 giugno 1919.

Il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925

Il discorso pronunciato da Mussolini alla Camera il 3 gennaio 1925 è considerato come l'inaugurazione del regime dittatoriale fascista.
In modo sprezzante, davanti all'accusa di aver fondato in Italia una specie di Ceka fascista e di averla usata per eliminare il deputato Matteotti, il duce ammette il ruolo della violenza nella politica, affermando che essa deve essere «chirurgica», cioè colpire capillarmente gli avversari più importanti. Il punto focale del discorso è ravvisabile laddove, dopo essersi sarcasticamente assunto le responsabilità dell'assassinio, Mussolini minaccia di scatenare la vera violenza delle squadre fasciste e afferma che entro 48 ore riporterà l'ordine con qualsiasi modo, anche con la forza.
Il soliloquio mussoliniano fu salutato dalla Camera con alte acclamazioni (vi sedevano solo i deputati fascisti, dato che gli altri per protesta aderivano alla "secessione dell'Aventino") e diede al fascismo la libertà di stroncare le opposizioni.

[ ... ] Sono io, o signori, che levo in quest'Aula l'accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo! [...] Se io avessi fondato una Ceka, l'avrei fondata seguendo i criteri che ho sempre posto a presidio di quella violenza che non può essere espulsa dalla storia. Ho sempre detto, e qui lo ricordano quelli che mi hanno seguito in questi cinque anni di dura battaglia, che la violenza, per essere risolutiva, deve essere chirurgica, intelligente, cavalleresca. Ora i gesti di questa sedicente Ceka sono stati sempre inintelligenti, incomposti, stupidi. [...] Fu alla fine di quel mese [giugno 1924], che è segnato profondamente nella mia vita, che io dissi: "Voglio che ci sia la pace per il popolo italiano"; e volevo stabilire la normalità della vita politica. Ma come si è risposto a questo mio principio? Prima di tutto, con la secessione dell'Aventino, secessione anticostituzionale, nettamente rivoluzionaria. (Vive approvazioni) Poi con una campagna giornalistica durata nei mesi di giugno, luglio, agosto, campagna immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre mesi. (Applausi vivissimi e prolungati) Le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tutti i giornali! [...] A tutto questo, come si risponde? Si risponde con una accentuazione della campagna. Si dice: il fascismo è un'orda di barbari accampati nella nazione; è un movimento di banditi e di predoni! Si inscena la questione morale, e noi conosciamo la triste storia delle questioni morali in Italia. (Vive approvazioni) Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. (Vivissimi e reiterati applausi. Molte voci: "Tutti con voi! Tutti con voi!"). Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! (Applausi) Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! (Vívissimí applausi. Molte voci: "Tutti con voi!") Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi. [...] Ma un popolo non rispetta un Governo che si lascia vilipendere! (Approvazioni) Il popolo vuole specchiata la sua dignità nella dignità del Governo, e il popolo, prima ancora che lo dicessi io, ha detto: Basta! La misura è colma! [...] Voi vedete da questa situazione che la sedizione dell'Aventino ha avuto profonde ripercussioni in tutto il paese. Allora viene il momento in cui si dice basta! Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza. (Vive approvazioni. Vivi applausi. Commenti) Non c'è stata mai altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai. Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il fascismo, Governo e Partito, sono in piena efficienza. Signori! Vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell'energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora. (Vivissimi applausi) Non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell'Aventino. (Vivissimi, prolungati applausi) L'Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l'amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. (Vive approvazioni) Voi state certi che nelle quarantott'ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l'area. (Vivissimi e prolungati applausi. Commenti) Tutti sappiamo che ciò che ho in animo non è capriccio di persona, non è libidine di Governo, non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la patria. (Vivissimi, prolungati e reiterati applausi).

B. Mussolini, Discorso del 3 gennaio 1925, in E. Santarelli, Scritti politici di Benito Mussolini, Feltrinelli, Milano 1979.

Il primo programma hitleriano (1920)

Il programma del Partito dei Lavoratori Tedeschi (DAP), fondato nel gennaio 1919 da Anton Drexler, fu elaborato e pronunciato il 24 febbraio 1920 da Adolf Hitler, che assunse la direzione del partito e in agosto ne mutò il nome in Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi (NSDAP).
Anche qui, come nel programma "sansepolcrista" di Mussolini, si fondono richieste provenienti dal retroterra socialista con elementi propri dell'idea nazionalista.
I primi tre punti infatti, cavalcando il risentimento tedesco contro la "pace ingiusta" di Versailles, tratteggiano l'idea della «Grande Germania» e dello «spazio vitale».
Nei punti seguenti (4-8) si può notare la spiccata coloritura razzista e xenofoba del nazismo, utilizzata per scaricare sugli Ebrei e sugli stranieri le colpe della difficile situazione presente. Anche qui, come nel fascismo, ci si rivolge soprattutto al ceto medio (punto 16, dove si attaccano i grandi magazzini) e ai contadini (punto 17, dove si parla in modo vago di riforma agraria).

1. Noi chiediamo la costituzione di una Grande Germania, che riunisca tutti i Tedeschi, sulla base del diritto all'autodeterminazione dei popoli.
2. Noi chiediamo la parità di diritto del popolo tedesco rispetto alle altre nazioni, l'abrogazione dei trattati di Versailles e di Saint-Germain.
3. Noi chiediamo terra e colonie per nutrire il nostro popolo e per collocare l'eccesso di popolazione.
4. Cittadino può essere soltanto chi è "connazionale". Può essere "connazionale" solo chi è di sangue tedesco, senza riguardo alla confessione religiosa. Nessun ebreo può quindi essere "connazionale".
[...]
6. Il diritto di determinare l'orientamento e le leggi dello Stato è riservato ai soli cittadini. Noi chiediamo quindi che ogni carica pubblica, di qualsiasi genere, non possa essere esercitata da chi non è cittadino. [ ... ]
7. Noi chiediamo che lo Stato si impegni ad assicurare a tutti i cittadini i mezzi per vivere. Se questo paese non può garantire il sostentamento a tutta la popolazione, chi non è cittadino dovrà essere espulso dal Reich.
8. Bisogna impedire ogni nuova immigrazione di non-Tedeschi. Noi chiediamo che tutti i non-Tedeschi stabilitisi in Germania dopo il 2 agosto 1914 siano immediatamente costretti a lasciare il Reich.
[...]
13. Noi chiediamo la statalizzazione di tutti i trust' esistenti.
14. Noi chiediamo una partecipazione agli utili nelle grandi imprese.
[...]
16. Noi chiediamo la creazione e la protezione di un sano ceto medio, che i grandi magazzini vengano immediatamente affidati all'amministrazione comunale e che siano affittati a poco prezzo ai piccoli commercianti. La priorità deve essere accordata ai piccoli commercianti per tutte le forniture allo Stato [...].
17. Noi chiediamo una riforma agraria adatta ai nostri bisogni nazionali, la promulgazione di una legge che permetta l'esproprio, senza indennizzo, del suolo per fini di utilità pubblica [...]
20. L'estensione del nostro sistema scolastico deve permettere a tutti i Tedeschi dotati e attivi di accedere a una educazione superiore, e con questa ai posti direttivi. I programmi di tutti gli istituti scolastici devono essere adattati alle esigenze della vita pratica. Lo spirito nazionale deve essere inculcato nella scuola fin dall'età della ragione.
[...]
23. Noi chiediamo la lotta legale contro la menzogna politica cosciente e la sua diffusione a mezzo della stampa. [...]. I giornali che contrastano con l'interesse pubblico devono essere vietati. Noi chiediamo che la legge combatta l'insegnamento letterario e artistico che esercita un'influenza disgregatrice sulla vita nazionale, e la soppressione delle organizzazioni che contravvengano alle disposizioni sopra esposte.
[...]
25. Per realizzare tutto questo, noi chiediamo la creazione di un potere centrale forte, l'autorità assoluta del Comitato politico su tutto il Reich e i suoi organismi, e inoltre la creazione di Camere professionali e di uffici municipali incaricati di attuare, nei vari Länder, le leggi generali promulgate dal Reich.

A. Hitler , Programma del Partito dei Lavoratori Tedeschi, in C. Klein, La Repubblica di Weimar, Mursia, Milano 1968.

I provvedimenti per la "nazistificazione" della Germania

Riportiamo alcune delle innovazioni legislative emanate da Hitler tra il febbraio 1933 e l'agosto 1934 con le quali trasformò lo Stato tedesco da una Repubblica democratica nel Terzo Reich totalitario.
Adottati sull'onda emotiva dell'incendio del Reichstag, la cui responsabilità fu addebitata ai comunisti, i nuovi provvedimenti consegnavano tutti i poteri nelle mani di Hitler.
In base a essi erano soppressi i principali diritti civili, veniva reintrodotta la pena di morte ed era posta una seria ipoteca su tutte le autonomie federali dello Stato tedesco. Inoltre il Führer aveva facoltà di legiferare a proprio piacimento, potendo perfino contravvenire alle norme fissate dalla Costituzione.

Decreto per la protezione del popolo e dello Stato, 28 febbraio 1933.
In base all'art. 48 comma 2 della Costituzione del Reich, vengono emanate le seguenti disposizioni per impedire atti di violenza comunisti diretti a mettere in pericolo lo Stato:
1. [...] Vengono consentite quindi restrizioni delle libertà personali, del diritto di esprimere liberamente la propria opinione, inclusa la libertà di stampa, il diritto di riunione e di associazione, violazioni del segreto postale, epistolare, telegrafico e telefonico, mandati di perquisizione e di sequestro e limitazioni alla proprietà anche al di là dei limiti predisposti da altre leggi vigenti.
2. Se in un Land non verranno prese misure necessarie al ristabilimento dell'ordine e della sicurezza pubbliche, il Governo del Reich potrà assumere per un periodo transitorio le competenze delle massime autorità regionali. [...]
3. Verranno puniti con la morte gli atti di delinquenza per i quali il Codice Penale prevede la condanna all'ergastolo [...].
Legge dei pieni poteri, 24 marzo 1933
Art. 1 - Le leggi del Reich possono venir decise oltre che secondo il procedimento previsto nella Costituzione del Reich [cioè dal Parlamento], anche dal Governo del Reich. [ ... ]
Art. 2 - Le leggi decise dal Governo del Reich possono scostarsi dal testo della Costituzione del Reich, qualora non riguardino le istituzioni del Parlamento e del Consiglio di Stato come tali. I diritti del Presidente del Reich rimangono inviolati.
Legge contro la ricostituzione dei partiti, 14 luglio 1933
Il Governo del Reich ha deciso la legge che qui segue e che ora viene promulgata:
1. In Germania esiste un solo partito politico, il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori.
2. Chi opera per mantenere la compagine organizzativa di un altro partito o per costituire un nuovo partito politico, qualora la sua azione non incorra in pene più gravi previste da altre disposizioni di legge, viene punito con il carcere sino a tre anni o con la detenzione per un periodo variabile dai sei mesi ai tre anni.
Legge sull'autorità suprema dello Stato, 1° agosto 1934
Il Governo del Reich ha deciso la seguente legge che qui viene promulgata:
1. La carica di Presidente del Reich viene associata a quella di Cancelliere del Reich. Di conseguenza le prerogative finora proprie del Presidente del Reich vengono assunte dal Führer e Cancelliere Adolf Hitler. [...]

A. Hitler, Provvedimenti del 1933-1934, in P. Zunino, Fascismo e nazionalsocialismo, SEI, Torino 1985.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

I principali orientamenti storiografici sul fascismo

Nelle interpretazioni del fascismo dobbiamo innanzitutto distinguere quelle che si occupano della sua nascita e quelle che invece studiano il regime, ossia l'organizzazione dello Stato.
Tra le prime meritano di essere presi in esame i giudizi dei contemporanei, sia di storici che di uomini politici interessati all'analisi della genesi sociale e politica del movimento fascista.
Le tesi fondamentali possono ricondursi a tre orientamenti ideali: liberale, radicai-democratico, marxista, pur tenendo presente che le differenze interne a ciascun gruppo a volte sono significative e rilevanti.

Il liberale Benedetto Croce giudica il fascismo una parentesi nella storia italiana, una momentanea caduta nel corso di quel cammino della libertà che caratterizza la civiltà moderna. La sua nascita va ricondotta alla crisi di valori che aveva caratterizzato la società italiana alla fine della prima guerra mondiale.
Più articolata e ricca nell'analisi sociale è l'indagine condotta da Luigi Salvatorelli; egli risale al periodo antecedente la guerra per trovare le premesse del sorgere del fascismo nell'interventismo dei nazionalisti e dei critici del regime parlamentare. Salvatorelli, inoltre, identifica il ruolo della piccola borghesia come classe interessata alla richiesta di un nuovo ordine sociale, in antitesi al grande capitale e al proletariato di cui temeva la nuova forza politica e organizzativa. Furono proprio le conquiste della classe operaia, il progresso compiuto dalle sue organizzazioni, a spingere la piccola borghesia alla ricerca di uno spazio politico autonomo, staccandosi dalla democrazia e dal socialismo a cui aveva, in parte, aderito negli anni precedenti la prima guerra mondiale.

L'orientamento democratico-radicale esprime la sua lettura più acuta della genesi del fascismo nelle opere di Piero Gobetti e di Carlo Rosselli. Secondo questa interpretazione la nascita del fascismo va ricercata nel modo stesso in cui è avvenuto il processo di unificazione nazionale, caratterizzato da una politica annessionistica, imposta dall'alto, e da una borghesia cresciuta nel compromesso con le classi improduttive del sistema preindustriale, abituata a una tradizione politica autoritaria. Mussolini, per Rosselli, esprime gli stessi vizi «congeniti» del popolo italiano, caratterizzato da difetti opposti tra loro: egoista e desideroso di grandezza; vigliacco e ambizioso; pauroso e guerrafondaio.

Nella interpretazione marxista dobbiamo distinguere quella propria della Terza Internazionale e quella di alcuni uomini politici italiani più attenti alle specificità del fenomeno di cui erano stati spettatori coinvolti.
La Terza Internazionale vede nel fascismo uno strumento del grande capitale monopolistico che, togliendo ogni spazio di democrazia, volle bloccare il processo di emancipazione del proletariato. Antonio Granisci, fondatore del Partito Comunista Italiano, mette in luce il ruolo dei ceti medi, che hanno fornito la base di massa del fascismo.
Tale concezione, presentata nel terzo congresso del Partito Comunista a Lione, nel gennaio 1926, sarà poi sviluppata da Palmiro Togliatti, futuro segretario del partito nel secondo dopoguerra.
Sempre in ambito marxista va segnalata l'opera storica di Angelo Tasca, membro del Partito Comunista d'Italia, poi espulso come «oppositore di Destra», Nascita e avvento del fascismo, pubblicata prima in Inghilterra, poi a Parigi nel. 1938, con cui suscitò un ampio dibattito tra intellettuali di varia tendenza.

Nel secondo dopoguerra la ricerca storiografica si arricchisce di contributi delle scienze sociali, della psicologia, della filosofia, nonché di un'analisi dei vari fascismi europei.
Si studiano aspetti particolari del fenomeno fascista e, nell'ambito del suo stesso sviluppo, si precisa una periodizzazione più puntuale.
Si individuano così, nel periodo iniziale, tre fasi ben distinte:
 - una prima fase, che va dalla prima guerra mondiale intesa come rottura dell'equilibrio politico dell'età giolittiana fino al 1920;
 - una seconda, che comprende gli anni dal 1920 al 1923, caratterizzati dall'affermazione del fascismo agrario e dalla violenza squadrista, dalla trasformazione del movimento in partito al Congresso di Roma del 7 novembre 1921, dalla Marcia su Roma, fino allo scontro interno tra le componenti più eversive e quelle più moderate;
 - una terza, infine, comprendente gli anni 1923-1925, che con il famoso discorso mussoliniano del 3 gennaio 1925 rappresentano il definitivo consolidarsi del regime.
Questa periodizzazione non è senza conseguenze sul piano della stessa comprensione sociale della genesi del fascismo; mostrandone infatti i differenti momenti, mette in luce il successivo aggregarsi di forze sociali diverse: i ceti medi urbani che costituirono la prima componente del movimento; i ceti agrari della valle Padana; la grande industria, che finì per scegliere il fascismo come interlocutore politico quando non credette più alla funzione dello Stato liberale.

Una delle opere che, nel dopoguerra, ha suscitato maggiore dibattito è stata la serie di volumi su Mussolini di Renzo De Felice; attraverso la biografia mussoliniana De Felice ricostruisce le vicende di un lungo periodo storico che va dall'ultimo Ottocento fino alla seconda guerra mondiale. La tesi dominante dell'opera è il concetto di «autonomia» del fascismo, fondata sul rapporto fascismo-rivoluzione dei ceti medi: l'origine del movimento non va ricercata nella volontà di reazione degli agrari e degli industriali alle lotte contadine e operaie, ma piuttosto in una volontà politica di autonomia sia dei ceti medi tradizionali sia di quelli emergenti.
La crisi di mobilità del dopoguerra, la frustrazione e l'irrequietezza sociali che ne scaturirono diedero alla piccola borghesia l'impulso ad aggregarsi e a esprimere una propria autonoma volontà politica.

Quest'ultima tesi è criticata da quanti non riconoscono ai ceti medi una capacità autonoma sotto il profilo della direzione politica e si limitano a considerarli come una classe sociale di supporto alle scelte del grande capitale.
Sono di tale parere storici e studiosi di orientamento diverso, liberali come Salvatorelli e marxisti come Lelio Basso.

Un'altra interpretazione elaborata nel secondo dopoguerra, di carattere molto diverso per l'impianto teorico, è quella di Hannah Arendt, che vede nel fascismo una forma di totalitarismo. Caratteristiche dello Stato totalitario sono:
 - la ricerca del consenso con i mezzi di propaganda offerti dalla tecnica moderna,
 - la partecipazione di massa e l'inquadramento dei cittadini in strutture organizzate controllate dal regime.
Questo tipo di Stato è reso possibile dall'alto livello della tecnica e dell'atomismo sociale che, sradicando l'individuo dalle tradizionali appartenenze sociali (famiglia patriarcale, Chiesa, comunità), lo rende disponibile a una socializzazione dall'alto. In questo modo la genesi del fascismo è ricondotta alla società di massa, dove la figura carismatica del capo, le grandi manifestazioni collettive, l'integrazione fra gli aspetti della vita privata e l'ideologia politica plasmano i comportamenti collettivi, creando un nuovo modello di Stato, il totalitarismo.

La sociologia, poi, ha elaborato modelli di comportamento delle classi medie in situazioni caratterizzate da una rapida trasformazione sociale, in cui forze egemoni appaiono essere la grande borghesia e il proletariato. Secondo queste interpretazioni il fascismo si manifesta come una risposta a situazioni particolari, definibili sul piano della psicologia o dell'analisi dei processi della società di massa. I modelli interpretativi così elaborati hanno il vantaggio di essere riferibili al fascismo in generale, prescindendo dalla specificità dei singoli Stati e delle diverse condizioni storiche, ma tale vantaggio, che consente anche di utilizzare il modello per fare confronti, non elimina la necessità di una indagine storica più articolata e puntuale che invece colga gli aspetti specifici di ogni situazione.
I tratti comuni dei vari fascismi non possono infatti far dimenticare le differenze che esistono nei vari Paesi, come provano le opere degli storici dei franchismo spagnolo, della dittatura di Salazar in Portogallo, del peronismo argentino, per citare solo alcuni casi.

Più recentemente la ricerca storiografica si è spostata da opere di carattere complessivo e generale, verso lo studio di temi più specifici e meno esplorati, come le attività dei giovani, l'uso dei mezzi di comunicazione di massa, l'organizzazione degli intellettuali.

Il fascismo come «morbo intellettuale e morale»

Gli studiosi coevi, sin dall'inizio animati da istanze politiche e dal desiderio di porre le fondamenta di un'opposizione antifascista, guardando al passato più recente, dedicarono i propri sforzi essenzialmente alla discussione sulle origini e le basi dell'ideologia fascista: rispondere al quesito su quali fossero i fattori che avevano consentito la conquista del potere da parte di Mussolini e dei gruppi dirigenti di cui egli costituiva l'espressione significava, infatti, creare le premesse per un rapido superamento del fascismo stesso.
La storiografia liberale annovera tra i suoi massimi esponenti Benedetto Croce, primo firmatario nel 1925 del Manifesto degli intellettuali antifascisti e unico aperto oppositore tollerato dal regime. La sua interpretazione del fenomeno fascista, elaborata mentre il fascismo era ancora operante, indica tra le cause principali della sua affermazione il vuoto di valori che si era prodotto in Italia con la crisi dello Stato liberale e con la fine del conflitto mondiale.
Tale tesi, nel tentativo di illustrare il grave stato di incertezza e di mancanza di riferimenti del popolo italiano nel periodo dell'ascesa di Mussolini, ha il pregio di mettere in luce l'indeterminatezza e la contraddittorietà delle proposte fasciste.

[...] il fascismo e il nazismo furono un fatto o un morbo intellettuale e morale, non già classistico ma di sentimento, d'immaginazione e di volontà genericamente umana, una crisi nata dalla smarrita fede non solo nel razionale liberismo ma anche nel marxismo, che era a suo modo razionale sebbene materialistico, il quale fallì nella promessa attuazione di una libera società di eguali e dié luogo a regimi di assolutismo e di privilegiato classismo burocratico. Nel vuoto che si era aperto nelle anime, nella depressione delle volontà, un moto audace, che mancava di ogni fede, di ogni sistema positivo di idee, ma rinnegava tutto il passato, si rifiutava di dare giustificazioni della sua presa di possesso dei poteri dello Stato, attirava e affascinava la fiducia delle masse nonostante la mancanza di fede nelle sue affermazioni, trovò condizioni propizie alla sua fortuna. Esso faceva promesse apertamente contraddittorie e gli si rispondeva con applausi, presentava non un'idea ma un coacervo mutevole di tutte le idee, proclamazione ed esaltazione della guerra, difesa della proprietà e del capitale e socializzazione dell'una e dell'altro, difesa della religione e irreligione e materialismo e ateismo, difesa della cultura ed elogio dell'anticultura; e così via, tutt'insieme. Il Mussolini asserì che l'esperienza delle cose umane lo aveva svegliato dal dommatico sogno socialistico della sua giovinezza; ma dopo un po', o simultaneamente, parlò della statizzazione della proprietà e si adulò operaio e contadino e proletario: si circondò della peggiore borghesia, quella affarista, ma ordinò una campagna contro la borghesia, e quando gli si domandò come gli fosse saltato in mente di vietare in Italia l'uso del «Lei», andando contro la lingua e la grammatica, rispose: «È un altro pugno che ho dato negli occhi alla borghesia!»: cioè, in questo caso, alla gente bene educata. [ ... ] già nel 1925, nel manifesto italiano degli intellettuali antifascisti, era stata penetrata e segnata con nettezza, talché vi si diceva: che era «impossibile intendere il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede», vantata dal fascismo, il quale mostrava «allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all'autorità e di demagogismo, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamenti alla Chiesa cattolica, di aborrimento della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo».

B. Croce, Chi è fascista?, "Giornale", Napoli, 29 ottobre 1944.

Il fascismo e il «radiosomaggismo»

Una delle tesi recenti sull'origine del fenomeno fascista segnala l'importanza delle cosiddette «radiose giornate di maggio», che furono il momento culminante della propaganda interventista nel 1915.
In base a tale teoria, già indirettamente avallata dal filosofo e teorico fascista Giovanni Gentile, si sarebbero creati allora quel desiderio nazionalistico di intervento e quel disprezzo per le istituzioni democratiche destinati poi a maturare nel fascismo.
Contro tale ipotesi si schiera però lo storico Giovanni Sabbatucci, che spiega:

In realtà, l'idea di un rapporto di filiazione diretta tra fascismo e «radiosomaggismo» va accolta con qualche cautela. Se è vero infatti che il fascismo si collegò apertamente alla tradizione politica e alla mitologia nate dall'interventismo (se non altro perché la lotta per l'intervento coincideva con la conversione patriottica di Mussolini) e inserì le «radiose giornate» fra i suoi eventi fondanti, è anche vero che la mobilitazione interventista rappresentò un momento altrettanto centrale nella biografia politica di buona parte degli esponenti dell'antifascismo democratico, o almeno di quelli che erano nati prima dell'inizio del secolo: dai più maturi come Salvemini e Giovanni Amendola, ai giovani come Emilio Lussu e Ferruccio Parri [...], per non parlare dell'appassionata milizia interventista dell'allora militante del Pri Pietro Nenni. Per loro e per tanti altri come loro l'interventismo (radiose giornate comprese) rappresentò un'esperienza capitale e mai rinnegata: semmai trasfigurata attraverso la netta separazione, operata a posteriori, di un nucleo positivo, coincidente con l'interventismo democratico, da quello negativo incarnato nei nazionalisti e in Mussolini. [...] Ma le distinzioni del 1915 non coincidevano affatto con la discriminante che dieci anni dopo avrebbe diviso i fascisti dagli antifascisti (basti pensare che Mussolini era allora un punto di riferimento dell'interventismo di sinistra, mentre Giovanni Amendola militava fra i nazional-liberali). I confini fra i diversi interventismi parvero sfumare o addirittura scomparire nel fuoco della mobilitazione del maggio radioso; e per quasi tutta la durata della guerra, almeno fino all'esplodere dei contrasti sulla questione adriatica, sarebbero rimasti in secondo piano rispetto all'esigenza di far fronte comune contro il «nemico interno». In realtà i temi centrali e i motivi ispiratori delle radiose giornate — la contrapposizione di un paese reale supposto buono a una rappresentanza giudicata falsa e corrotta, l'attribuzione alla propria parte del ruolo di autentico interprete degli interessi nazionali, la rivendicazione della guida del paese alle minoranze eroiche e alle autodesignatesi élites consapevoli — sono temi tipicamente trasversali, in larga parte comuni alla cultura politica del fascismo e a quella di molto antifascismo militante.

G. Sabbatucci, Le radiose giornate, in Aa. Vv., Miti e storia dell'Italia unita, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 99-100.

Il fascismo e la borghesia

Una delle interpretazioni che ha goduto di maggiore fortuna è stata quella, di impronta prevalentemente marxista, secondo cui il fascismo fu un fenomeno essenzialmente borghese.
Il mondo capitalistico italiano si sarebbe legato al movimento mussoliniano per tutelare i propri interessi di fronte alla crescente autocoscienza delle classi subalterne, per evitare una potenziale rivoluzione proletaria.
All'interno di questa posizione le tendenze non sono però state unanimi: alcuni storici hanno evidenziato i legami tra il mondo dell'alta borghesia capitalistica e il nascente regime, altri invece hanno puntato sulla larga presa che il movimento di Mussolini ebbe sul ceto medio della piccola borghesia artigiana, commerciale e agraria.
Angelo Tasca ha saputo cogliere le dinamiche sociali e politiche che condussero al radicarsi del fascismo sul territorio italiano, e nonostante il suo libro contributo porti la data del 1938, conserva ancora la funzione di punto di riferimento per la storiografia attinente al tema. Esponente politico dell'antifascismo, egli individua l'emergenza delle classi medie come uno dei fattori determinanti per l'ascesa del fascismo.

Il principale contributo al fascismo è fornito da quelle classi medie postbelliche di cui abbiamo testé sottolineato i tratti distintivi. Devesi dunque definire il fascismo «un movimento delle classi medie» scatenato e sfruttato dalla reazione capitalista? Questa definizione, pur contenendo una gran parte di verità, non potrebbe accettarsi senza riserva. In primo luogo il contenuto sociale di un movimento non è determinato esclusivamente dalla sua composizione, dalle sue basi sociali. Il fascismo, pur reclutando principalmente fra le classi medie, fa il suo ingresso nella storia distruggendo i partiti e i sindacati operai. Da questo momento, qualunque siano il suo programma e i suoi aderenti, esso s'integra nell'offensiva capitalista. La soppressione delle libere organizzazioni dei lavoratori modifica in maniera permanente i rapporti di forza. Fascismo e capitalismo non potranno ormai più comportarsi come se le posizioni operaie non fossero state annientate. Il fascismo, anche quando pretende di fare la parte d'arbitro «fra capitale e lavoro», pone una delle parti — col privarla d'ogni autonomia — in una condizione di inferiorità, da cui essa non potrà togliersi che ridiventando autonoma, ossia liberandosi dal fascismo. Le classi medie attratte dal fascismo sono soprattutto classi medie urbane. Nel luglio 1919 non solo Mussolini pensava che il fascismo fosse destinato a restare «un movimento di minoranza», ma che non potesse «propagarsi fuori delle città». È vero che il fascismo italiano si è affermato a partire dal 1921 mercé l'irruzione dei «rurali» nei suoi ranghi; ma i capi delle squadre fasciste erano soprattutto elementi della media borghesia urbana o figli di agrari — ufficiali, studenti — che vivevano in città e che, una volta ritornati dal fronte, non avevano nessuna voglia di far la parte di Cincinnato. Essi si proponevano assai più di «conquistare» la città, prima tappa della via al potere, che di essere «i primi nel loro villaggio». D'altronde il fascismo ha vinto in Italia nella misura in cui ha cessato di essere «rurale», e la sua vittoria non è stata preparata e decisa nelle campagne della Valle Padana, bensì a Milano e a Roma: la grande città, come sempre, ha conservato la sua funzione dirigente. Le classi medie che abbracciano il fascismo sono soprattutto quelle che non sono o non si sentono più collegate con una base economica propria e autonoma, ciò che agevola la loro disintegrazione ed il loro assorbimento da parte dei nuovi quadri politici creati dal fascismo. Non è a caso che in Francia la classe contadina si mantiene refrattaria al fascismo, e si può prevedere che lo rimarrà fintantoché non si sentirà minacciata nelle sue basi economiche [...] e nella sua autonomia più o meno reale [...]. I rapporti tra il fascismo delle classi medie e l'offensiva capitalista sono stati strettissimi in principio, mantenendosi tali per lungo tempo. Ciò significa forse che essi non sono suscettibili di evolvere e di modificarsi? Solo un'analisi attentissima di tali rapporti in ogni paese e ad ogni epoca potrebbe permettere di rispondere a tale questione, senza dimenticare che quei rapporti sono sempre in parte determinati e falsati dalla mancanza della «terza forza», quella della classe operaia liberamente riunita nelle sue organizzazioni.

A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, II, Laterza, Bari 1973, pp. 557-561.

Altrettanto importante è la riflessione di Palmiro Togliatti, leader del PCI destinato, dopo la morte di Gramsci, a un ruolo di primo piano.
In uno scritto del 1934 egli individua nel movimento fascista una novità, sotto il profilo del sistema politico, che consentì, attraverso un processo e contraddittorio, la formazione di una forza compatta e unitaria atta a promuovere le istanze della borghesia e a irreggimentare le masse dei lavoratori.
Il fascismo diviene allora «partito nuovo della borghesia» e «regime reazionario di massa», secondo un meccanismo destinato ad assumere una dimensione internazionale.

La borghesia italiana non possedeva, prima dell'avvento del fascismo, una forte organizzazione politica [...]. C'era in Italia un gran numero di partiti, ma essi avevano soprattutto un carattere elettorale e locale, senza programmi ben definiti, e dal punto di vista dell'organizzazione e dei quadri erano inconsistenti. Gli uomini di Stato borghesi – e in particolare Giovanni Giolitti, che fu l'uomo di fiducia della borghesia industriale, della banca e della monarchia prima e anche dopo la guerra – si sono sempre preoccupati di non creare forti partiti borghesi, provvisti di un programma ben definito e solidamente organizzati, ma, al contrario, di impedire la costituzione di simili partiti. La loro arte di governo consisteva piuttosto nel disgregare i partiti esistenti e nel comporre una maggioranza parlamentare attraverso compromessi, corruzioni, manovre, ecc. Così, quando subito dopo la guerra sono apparsi e si sono potenzialmente affermati nella vita politica del paese due partiti politici di massa, grandi, solidi, ben organizzati e disciplinati – il partito socialista e il partito popolare (cattolico) – tutto il sistema di governo della borghesia italiana è stato sconvolto [...]. Il fascismo non solo si è posto il compito di creare una solida organizzazione politica unita della borghesia, ma è anche riuscito ad assolvere a quel compito. Il fascismo ha dato alla borghesia italiana ciò di cui essa è sempre stata priva, e in particolare un partito forte, centralizzato, disciplinato, unico, dotato di una propria forza armata. Si potrebbe obiettare che il partito fascista non è un partito nel senso vero e proprio, nel senso tradizionale della parola, perché è sprovvisto di una struttura e di un funzionamento democratici, perché nel suo ambito non avvengono discussioni regolari, perché non esiste alla base alcuna forma di elezione dei dirigenti, ecc. Tutto questo è vero, ma queste obiezioni non servono che a dimostrare che il partito fascista è un partito borghese di un tipo speciale, è un «tipo nuovo» di partito della borghesia, adattato alle condizioni uscite dal periodo della disgregazione del capitalismo e dal periodo della rivoluzione proletaria, adattato soprattutto alle condizioni della dittatura aperta della borghesia sul proletariato e sulle grandi masse lavoratrici [...].

P. Togliatti, Dov'è la forza del fascismo italiano?, in Lezioni sul fascismo, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 170-171 e 173.

Questa testimonianza peraltro non fa che dare credito alle affermazioni di Federico Chabod, il quale sottolinea la persistente incapacità, da parte delle forze politiche tradizionali, di cogliere la forza dirompente di cui era dotata l'ideologia fascista.

Nel 1921-22, dunque, chi valuta il fascismo in base alle vecchie formule della lotta politica e parlamentare, può ancora credere alla possibilità di blandirlo, di servirsene, di affidargli la parte d'aiutante, salvo sbarazzarsene in seguito. Ma proprio qui sta il fondamentale errore di valutazione. Il fascismo non è una forza politica vecchio stile. I suoi principi – ammesso che ne abbia – non hanno nulla in comune con quelli che fino allora avevano regolato il giuoco politico. La legalità degli atti non lo preoccupa; la libertà, la salvaguardia del Parlamento, tutti i vecchi principi dello Stato liberale gli sono estranei. Può parlarne per semplici motivi d'opportunità, di tattica; in realtà, se ne beffa. Sulle prime era solo azione priva di un preciso obiettivo; a grado a grado che si sviluppa, che acquista forza e peso nella vita nazionale, i suoi capi cominciano a mirare a qualche cosa di più che non l'azione per l'azione. Conquista dello stato, marcia su Roma? A questo si giungerà più tardi, sarà il risultato conclusivo; già fin d'ora però si avverte la volontà di occupare nella vita pubblica un posto di primo piano, non passeggero ma durevole. Si è lontani dalla semplice «reazione» contro gli «antipatrioti», si è ormai arrivati alla brama di conquistare il potere. E già nel 1921 alcuni capi, che hanno sempre davanti agli occhi la spedizione di D'Annunzio a Fiume, pensano a una «marcia su Roma». Sempre, e in ogni caso, è la «forza» che riesce ad imporsi, e talvolta la forza armata. Il partito fascista (trasformatosi da «movimento» in «partito» al congresso di Roma nel novembre 1921) rappresenta, dal punto di vista organizzativo e, per così dire, tecnico, qualcosa di nuovo rispetto ai partiti tradizionali. Esso possiede un'organizzazione militare, i cui ispiratori sono in primo luogo Balbo, De Vecchi e De Bono, un generale dell'esercito italiano passato al fascismo. L'interesse per la tecnica militare e rivoluzionaria risulta chiaramente dalla cura impiegata per assicurarsi il controllo dei più importanti nodi ferroviari (Bologna, Verona, Alessandria), misura che si dimostrò utile nell'ottobre 1922. Concludendo, sia dal punto di vista dei principi sia da quello dell'organizzazione, il fascismo rappresenta una novità che non potrà essere «assorbita» nel sistema politico liberale e costituzionale. Non essersi accorti in tempo di questa pericolosa novità, è il grave errore della maggioranza degli uomini che fino a quel momento sono stati alla testa della vita politica italiana. Qui principalmente va ricercata la ragione di ciò che accadrà nell'ottobre 1922: la conquista del potere ad opera del fascismo non richiederà affatto una vera e propria rivoluzione, un'azione a fondo: non appena, infatti, giunge a Roma la notizia della marcia sulla capitale, il re rifiuterà di firmare la dichiarazione di stato d'assedio e deciderà di affidare il compito di costituire il nuovo governo prima a Salandra e, immediatamente dopo, a Mussolini. Le camicie nere entreranno nella capitale solo a cose fatte; sarà una sfilata, non uno scontro armato.

F. Chabod, L'Italia contemporanea, 1918-1948, Einaudi, Torino 1961, pp. 69-70.

Lo storico Renzo De Felice, accetta dalla storiografia di Sinistra sostanzialmente l'idea che soprattutto il ceto piccolo-borghese diede appoggio e partecipazione al nascente movimento.
Egli incentra la propria attenzione sulla piccola borghesia, che si andava faticosamente riorganizzando dopo il difficile periodo della prima guerra mondiale e che, quindi, intendeva difendere a ogni costo le proprie conquiste.
Accanto al ruolo tradizionale di questa classe, De Felice pone alle basi del fascismo anche il desiderio generalizzato di "ordine" che pervadeva l'Italia, profondamente segnata da anni di scontri e disordini sociali.

La molla del fascismo, a livello di lotta di classe, non fu tanto la paura di una rivoluzione "bolscevica", quanto il fatto che la classe lavoratrice, le sue organizzazioni sindacali ed economiche, i suoi partiti erano pur sempre in grado di sconvolgere quelle che, a torto o a ragione, erano considerate le regole economiche del mercato e di imporre limitazioni del diritto di proprietà e della libertà di contratto ritenute non solo illegittime ma insostenibili. Né il discorso può essere limitato a livello della lotta di classe pura e semplice. Se lo squadrismo poté operare ed estendersi ciò non fu dovuto infatti solo all'essersi fatto difensore degli interessi economici lesi dal movimento dei lavoratori e, specie nelle zone agricole, di essersi messo addirittura al soldo di tali interessi. Oltre agli interessi materiali, per due anni erano stati lesi anche molti interessi e valori morali che invano si era sperato fossero tutelati dallo Stato. Il primo entroterra (il secondo e più vasto sarebbe derivato dalla sempre più diffusa stanchezza e dal desiderio di "ordine" e di "pace" interni) al fascismo venne da coloro che — mettendo in primo piano questi interessi e valori — videro in esso una forza sostitutivi di quello Stato "assente" e in grado di porre fine a questo tipo di violenze. Senza questo consenso, in parte critico, il fascismo sarebbe rimasto squadrismo, non avrebbe raccolto tante simpatie, connivenze, aiuti, avrebbe fatto meno proseliti, in una parola non sarebbe diventato un fatto politico, sostanzialmente capace di non perdere la propria autonomia, di non ridursi a mera guardia bianca di determinati interessi materiali, che, in quanto tali, erano sentiti meno vivamente dai non diretti interessati e non di rado non erano indenni da critiche anche a livello borghese. [ ... ] L'ultimo importante fattore da considerare è quello della composizione dei Fasci, quale venne a delinearsi con il 1920-21. Ingrossando le fila, il fascismo si aperse indubbiamente un po' a tutti i ceti sociali, non escluso un certo numero di operai e, ancor più, di lavoratori dei campi [...]; il suo nerbo, sia quantitativamente sia in particolare per quel che concerneva i quadri e gli elementi più attivi politicamente e militarmente, si caratterizzò però subito chiaramente in senso piccolo borghese, dando a tutto il movimento e al successivo partito il carattere di un fenomeno che aveva degli aspetti di classe. Un carattere, questo, che il PNF avrebbe conservato a lungo (almeno sino all'epurazione turatiana della seconda metà degli anni venti) e che gli diede la possibilità, per un verso, di costituire il più importante punto di riferimento e di attrazione per quei settori della piccola borghesia che — come si è detto — aspiravano ad una propria maggior partecipazione e direzione della vita sociale e politica nazionale, non riconoscevano più alla classe dirigente tradizionale e a quella politica in specie né la capacità né la legittimità di governare e, sia pur confusamente, contestavano anche l'assetto sociale che essa rappresentava e, per un altro verso, di salvare la propria autonomia politica rispetto alle altre forze politiche con le quali venne a contatto, anche quando, sgombrato il campo dal "bolscevismo", queste avrebbero voluto cooptarlo nel sistema e stemperarlo progressivamente in esso sino a ridurlo ad una sua componente, non diversa sostanzialmente da tante altre.

R. De Felice, Fascismo, Luni Editrice, Milano 1998, pp. 47-51.

Carlo Pinzani ha respinto decisamente l'idea che il fascismo possa essere nato come fenomeno di reazione alla paura della "rivoluzione proletaria", sostenendo invece che le sue ragioni vanno ricercate nelle peculiarità della situazione politica italiana e del suo tessuto sociale.

Quest'analisi sembra cogliere perfettamente gli aspetti socio-psicologici del fascismo e, accentuando il ruolo di un sentimento come la paura, conferma come le percezioni della realtà da parte delle società massificate si siano venute alterando fino a dar luogo al colossale autoinganno che ha caratterizzato il XX secolo, specialmente nella sua seconda parte, e che dopo aver operato in sede politica continua ancora oggi a operare in sede storiografica. Che di errata percezione e quindi di autoinganno si trattasse anche nel 1922 risulta con certezza dal fatto che l'ondata rivoluzionaria post-bellica in Europa si era placata da almeno un biennio, considerazione che vale anche per l'Italia. Qui, inoltre, le tradizioni verbosamente massimalistiche largamente prevalenti nel socialismo italiano, ove freddamente considerate, portavano di per sé a escludere che vi fosse un reale pericolo rivoluzionario. Entrambi questi argomenti escludono che all'Italia si possa applicare l'interpretazione del fascismo come «controrivoluzione preventiva», una tesi che sarà ripresa a proposito del nazionalsocialismo e che, come vedremo, è anche in quel caso del tutto opinabile. D'altra parte, non è neppure possibile attribuire alla paura una funzione esclusiva di propulsione dei fascismi: una siffatta impostazione appare insoddisfacente, in quanto espunge dal fenomeno fascista tutta l'eredità che gli veniva dal passato, remoto e prossimo, eredità che è chiaramente identificabile anche nel fascismo italiano che, pure, ebbe peculiarità sue proprie. Inoltre, ed è questo l'aspetto più importante, ridurre alla paura della rivoluzione proletaria l'avvento dei fascismi significa in qualche misura coonestare le tesi di coloro che vedono nella contrapposizione globale tra comunismo e capitalismo il filo costruttore del XX secolo e pongono dallo stesso lato della contrapposizione democrazie liberali e fascismi, in quanto contrari al comunismo.

C. Pinzani, Il secolo della paura. Breve storia del Novecento, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 90.

Il fascismo e la politica

Uno dei maggiori interrogativi che la critica storica si pone è quello della sostanziale indifferenza prima e dell'accettazione poi che parte dell'opinione pubblica mostrò inizialmente nei riguardi dell'azione fascista. Oggi, infatti, appare inconcepibile che le massime autorità dello Stato non si accorgessero del pericolo rappresentato da questo nuovo movimento, eppure sia il governo sia la monarchia non fecero nulla per fermarlo.
Il punto di partenza per una riflessione sull'argomento non può che essere, per il De Felice, la situazione politica del momento, così come era percepita dall'opinione pubblica:

Due fenomeni sono [...] importanti e significativi: la forte ideologizzazione delle masse e, quindi, della lotta sociale e politica, sino ad arrivare a forme di vera e propria mitizzazione delle soluzioni prospettate (tipiche quella della Rivoluzione bolscevica e, su tutt'altra sponda, quella della Nazione) e l'entrata in crisi dei modelli culturali tradizionali e, quindi, della loro autorità. Da qui una diffusa contestazione non solo dei valori tradizionali, ma anche e soprattutto dell'assetto sociale che essi rappresentavano, che — sia pure in forme diverse e contrastanti — accomunava la protesta «bolscevica» a quella di vasti settori della media e soprattutto piccola borghesia. E per questi ultimi è da notare il loro progressivo radicalizzarsi via via che fallivano o si mostravano intrinsecamente inadeguati i tentativi di dar vita a nuove soluzioni alternative ma non eversive rispetto al sistema (quale quella combattentistica e, in definitiva, quella popolare). Contemporaneamente aumentavano la sfiducia e lo scetticismo nell'efficacia e nella funzionalità della democrazia parlamentare, sotto il profilo sia della sua capacità di far fronte alle necessità politiche di un esecutivo efficiente sia di realizzare un effettivo rinnovamento sociale, e con essi la propensione verso soluzioni di tipo autoritario (i cui modelli ideologici e psicologici non erano rintracciati solo a «destra», ma, spesso, nel pensiero e nell'azione più squisitamente democratici del rivoluzionarismo giacobino). Sul piano politico, infine, la sintesi di tutte queste crisi, aggiungendosi e operando da moltiplicatore di quella già da tempo latente che si usava riassumere nella scissione tra «paese reale» e «paese legale», acquistò dimensioni via via più drammatiche e che si possono ricondurre attorno a tre poli: 1) a livello parlamentare, un «anarchico regime d'assemblea» incapace di esercitare il potere e di esprimere sia effettive maggioranze sia opposizioni coerenti al sistema e capaci di costituire un'alternativa; 2) a livello governativo, una serie di ministeri senza prestigio e senza capacità di effettiva iniziativa legislativa e, al tempo stesso, di far rispettare ed eseguire dai loro stessi organi periferici le proprie disposizioni e di dar loro la certezza di non essere lasciati scoperti o addirittura puniti per averle eseguite; 3) a livello del sistema, una instabilità cronica, forse più soggettiva che oggettiva, dato che in effetti le forze dichiaratamente antisistema erano messe fuori giuoco dalla diversità degli interessi che rappresentavano e dalla loro stessa incapacità di trovare una conciliazione di essi che non fosse quella di un massimalismo tanto minaccioso ed esaltante nella forma quanto vuoto e autoritario nella sostanza (il che spiega perché, quando entrò in crisi, lo scoraggiamento e le tendenze centrifughe furono così forti) e dato che il sistema in realtà — nonostante la sua indubbia crisi — era ancora sufficientemente robusto, poteva fare affidamento su alcune istituzioni più tradizionali e omogenee (come le forze armate e la magistratura) e potenzialmente aveva la possibilità di autorinnovarsi attraverso la propria democratizzazione e un allargamento della partecipazione ai settori più moderati delle masse sino allora marginali o escluse e insufficientemente integrate.

R. De Felice, Fascismo, Luni Editrice, Milano 1998, pp. 42-45.

L' atteggiamento che maggiormente sconcerta è quello degli esponenti liberali al governo, soprattutto del Giolitti, che sembrarono non rendersi conto della pericolosità del fenomeno.
Un altro studio di De Felice, che si avvale del contributo dello storico Gabriele De Rosa, mette in luce come in realtà il vecchio statista e con lui tutta la classe liberale pensassero che il fascismo potesse sostanzialmente evolvere in due direzioni: da una parte avrebbe spaventato le forze più moderate dei socialisti e dei popolari, portandoli a collaborare col governo, dall'altra si sarebbe "costituzionalizzato", accettando infine le regole della democrazia.

Per capire il «caso» Giolitti è necessario rifarsi al particolare momento storico, alla crisi di trasformazione che stava attraversando la società italiana sotto ogni profilo, civile, sociale, politico, e alla inadeguatezza degli strumenti materiali, culturali, morali con i quali il governo e Giolitti si trovavano a fronteggiare questa crisi di trasformazione. [...] in questo momento storico il governo e la maggioranza (non partito) giolittiana si trovavano privi o quasi degli strumenti necessari a contrastare i propri avversari, a contrapporre partiti di massa a partiti di massa, giornali a giornali, propaganda diretta e capillare a propaganda diretta e capillare, in una parola a formare, guidare ed orientare anch'essi l'opinione pubblica, che rimaneva pertanto facile preda dei tre partiti di massa e non sosteneva l'azione politica del governo e di Giolitti. [...] Per Giolitti, per Corradini un movimento come quello fascista, espresso dalla borghesia patriottica e nazionale, era inconcepibile che si ponesse contro lo Stato, e se i suoi membri si abbandonavano ad eccessi non poteva essere che per soverchio amor di patria, per impulso sentimentale, per reazione al bolscevismo. Insomma, per dirla col De Rosa, «Giolitti e i suoi immediati collaboratori vedevano i fascisti, ma non il fascismo, vedevano i reati, ma non il sovversivismo; parlavano di "ordine turbato" e di "quiete pubblica da restaurare", ma sembrava che ad essi sfuggisse la complessità del moto insurrezionale, che stava sgretolando tutta l'impalcatura dello Stato liberaldemocratico». Credevano di poter educare il fascismo, di correggerlo con l'applicazione della legge, di assorbirlo col gioco parlamentare, credevano di poter stroncare le connivenze di cui esso viveva con l'autorità e i poteri dello Stato e non si rendevano conto che il fascismo non aveva nulla in comune con i vecchi partiti e movimenti patriottici e d'ordine e neppure col vecchio sovversivismo prebellico, con i quali così bene era riuscito per tanti anni il gioco di Giolitti, e non vedevano che le stesse istituzioni fondamentali dello Stato liberale erano ormai infette. Situazione oggettiva, cause tecniche e inadeguatezza personale a capire i tempi nuovi si fondevano così tra loro concorrendo a determinare la debolezza politica del governo e del giolittismo [...].

R. De Felice, Mussolini il fascista, in La conquista del potere 1921-23, Einaudi, Torino 1966.

Dopo il 1945 e la caduta del regime fascista, l'opinione pubblica italiana e la storiografia puntarono il dito contro la vecchia classe dirigente liberale e contro il re Vittorio Emanuele III, rei di aver impedito al fascismo di prendere il potere.
Soprattutto la figura del sovrano divenne l'oggetto delle critiche più accese, dato l'alto ruolo istituzionale che ricopriva: fu proprio per il suo rifiuto esplicito di proclamare lo stato d'assedio che Mussolini e i suoi squadristi poterono fare ingresso in Roma e assumere il potere.
Pur rimarcando la gravità del fatto, De Felice sottolinea ancora una volta come all'origine di tutto ci fosse l'errata valutazione del fascismo, sorretta dalla certezza che esso si sarebbe poi "costituzionalizzato".
Oltre alla preoccupazione che dalla repressione di un moto fino a quel momento tollerato potesse nascere una guerra civile, il re ebbe timore di ammutinamenti nell'esercito, dove parecchi ufficiali mostravano aperte simpatie per il movimento di Mussolini.

L'abilità di Mussolini fu duplice: capire che «in quel momento» egli poteva ancora: 1) giocare sulla componente eversiva e sull'entusiasmo per i successi sin lì conseguiti dal fascismo per una «dimostrazione di forza» che, se fosse veramente arrivata agli estremi, si sarebbe certamente conclusa in un clamoroso insuccesso, ma che, se mantenuta nei limiti di una minaccia, avrebbe fatto precipitare la situazione a suo vantaggio; 2) mettere le varie componenti della classe politica le une contro le altre e far leva sulle non ancora completamente sopite paure di una ripresa della guerra civile dalla quale sarebbero potute uscire rivitalizzate le sinistre e indebolito il sistema. Da qui la «marcia su Roma», un bluff sul piano militare, un successo sul piano politico, poiché persino di fronte ad essa larga parte della classe dirigente e in primo luogo il sovrano (che, dopo l'esperienza fiumana, doveva temere più di ogni altra cosa di mettere a repentaglio l'unità dell'esercito) continuarono a non capire la vera natura del fascismo e ad illudersi che, una volta arrivato al potere — sia pure in prima persona — esso si sarebbe alla fine costituzionalizzato. Oggi questa incomprensione e questa illusione possono apparire assurde. Obiettivamente, bisogna però constatare che allora pochissimi si sottrassero a questo duplice atteggiamento (e non solo a livello della classe dirigente tradizionale) e domandarsi, quindi, quale fu il vero fondamento di esso. Se — come riconobbe Togliatti nel 1935 nelle sue Lezioni sul fascismo (p. 20) — «è un grave errore il credere che il fascismo sia partito dal 1920, oppure dalla marcia su Roma, con un piano prestabilito, fissato in precedenza, di regime di dittatura, quale questo regime si è poi organizzato», è logico domandarsi se i destini del fascismo e dell'Italia più che il 28 ottobre 1922 non furono decisi successivamente, nello scontro tra la componente potenzialmente costituzionalizzabile del fascismo e quella più legata ad una prospettiva eversivo-piccolo borghese. È evidente, infatti, che in questo caso l'atteggiamento della classe dirigente del 1922, se non diventa scusabile, appare però più comprensibile.

R. De Felice, Fascismo, Luni Editrice, Milano 1998, pp. 53-54.

Il fascismo come "rivoluzione"?

Il fascismo fin dalle origini amò definirsi "rivoluzionario", tanto che durante il Ventennio il 28 ottobre (anniversario della Marcia su Roma) fu sempre celebrato come anniversario della "Rivoluzione fascista". Addirittura con il 28 ottobre 1922 si faceva incominciare la cosiddetta "era fascista", la cui indicazione era obbligatoria nei documenti ufficiali.
Le motivazioni che spinsero Mussolini a connotare in questo senso il suo movimento furono parecchie, e sono chiaramente riassunte da Ernesto Galli Della Loggia:

Dal punto di vista del fascismo qualificarsi come una rivoluzione serviva ad almeno quattro scopi: 1) a rigettare da sé l'accusa mossagli fin dall'inizio dagli avversari di essere un movimento di pura reazione e, per questo, perché reazionario, mosso in realtà dall'intento di difendere gli interessi delle classi dominanti; 2) ad autorappresentarsi, all'opposto, come un movimento scaturito da profondi sommovimenti sociali di portata storica: un movimento, per ciò stesso, legato ad una prospettiva di massa ma contemporaneamente, proprio perché «rivoluzionario», legato intrinsecamente alla dimensione della violenza e della dittatura, perfettamente giustificato, dunque, a fare uso dell'una e dell'altra; 3) a trovare un'adeguata motivazione politico-ideologica al sovvertimento dell'ambito giuridico e istituzionale a cui il regime dava luogo; 4) a disporre di una risorsa emotiva ed agitatoria di prim'ordine, utile vuoi a operare i «rilanci» necessari a superare i periodi di stallo o di crisi del regime, vuoi a tenere sotto la costante minaccia del «peggio» tanto gli avversari che gli alleati all'interno della società italiana (Chiesa, monarchia, grande industria, ecc.) con cui il regime aveva firmato altrettanti compromessi: si pensi ad esempio alla minaccia di «seconda ondata» al tempo della crisi Matteotti. Qualificare il fascismo come una rivoluzione serviva altresì a dare un carattere irrevocabile al suo avvento al potere, e insieme consentiva di proiettarlo in una dimensione di epocalità storico-mondiale, di farne l'alternativa al liberalismo ed al socialismo (protagonisti entrambi delle due massime rivoluzioni europee: quella francese e quella russa), arrivando addirittura a definire il XX secolo come il «secolo del fascismo».

E. Galli Della Loggia, La "rivoluzione fascista", in Aa. Vv., Miti e storia dell'Italia unita, cit., pp. 115-116.

La tesi del fascismo come movimento "rivoluzionario" è invece decisamente contestata dallo storico Guido Quazza, che riserva tale definizione solo alla rivoluzione comunista e a quella tecnica neocapitalista.

Quando si torna a parlare di fascismo come «fenomeno rivoluzionario» e, definendo sola «vera rivoluzione» quella «dei valori», lo si pone sullo stesso piano delle «altre rivoluzioni contemporanee, quella comunista, illusoriamente politico-sociale, e quella tecnica del neo-capitalismo, falsamente democratica», si imbocca una strada pericolosa. Su questo, innanzitutto, è necessario esser chiari perché su questo si gioca la posta essenziale per una comprensione del passato che è anche azione nel presente. A monte di quella strada sta non soltanto una tesi che si presta, come si è prestata in passato, a usi quanto mai interessati nello scontro politico e sociale, ma anche — sia o non sia detto esplicitamente — un leitmotiv della propaganda degli stessi fascisti, quello che vuol accreditare il fascismo come «terza forza» tra capitalismo e comunismo. Di quella tesi infatti è supporto necessario l'asserzione che il fascismo è fenomeno dotato di una sua piena autonomia perché espressivo in sede etico-politica di una «forza» sociale autonoma, la piccola e media borghesia, perché radicato nei ceti medi di contro al capitalismo radicato nella grande borghesia e al comunismo radicato nel proletariato. Nella misura in cui al supporto non manca qualche appiglio veritiero, la tesi ha un'ambiguità fuorviante. Che molti «valori» proclamati dal fascismo siano tipica e diretta manifestazione di credenze, pregiudizi, frustrazioni della mentalità piccolo-borghese, che il fascismo sia in larga misura la traduzione nella lotta politica e sociale dei modelli di comportamento propri dei «ceti medi» visti nel loro abito comune di massa, nessuno infatti vorrà negare. Insistere su questo non reca però alcun reale aiuto all'individualizzazione dinamica del processo storico se non ci si chiede in quale effettiva misura l'aver assunto quei valori abbia pesato nel condurre il fascismo alla vittoria e quali condizionamenti essi abbiano esercitato sull'avviarlo alla sconfitta. Ciò è possibile soltanto se si cerca di abbracciare il nesso tra storia del fascismo e storia d'Italia in una prospettiva generale di «lungo periodo» che misuri, entro il quadro dell'età del capitalismo, l'intero processo di sviluppo dell'Italia liberale. In altre parole, più dei tratti tipici del fascismo, dev'essere al centro il suo rapporto con le «forze» operanti nella società italiana, perché questo è il vero nodo della battaglia per il potere: quella battaglia che è compito dello storico studiare e del politico affrontare.

G. Guazza, Introduzione. Storia del fascismo e storia d'Italia, in Fascismo e società italiana, a cura di G. Quazza, Einaudi, Torino 1973, pp. 7-8.

Contrariamente a ciò, De Felice afferma apertamente il carattere rivoluzionario del fascismo, individuandone la peculiarità nel tentativo di coinvolgere e guidare le masse:

Checché dica tanta gente, secondo me sì: si può parlare di fenomeno rivoluzionario; però nel senso etimologico della parola, perché se si pretende di parlare di rivoluzione dando alla parola un valore morale, positivo o, ancor più, in riferimento ad una concezione come quella leninista, allora è evidente che il fascismo non fu una rivoluzione. Ma secondo me è sbagliato applicare tale criterio a tutti i fenomeni. In questa prospettiva io dico che il fascismo è un fenomeno rivoluzionario, se non altro perché è un regime, e ancor di più un movimento – e qui c'è da tener presente la differenza di grado tra quello che fu il regime e quello che avrebbe voluto essere il movimento – che tende alla mobilitazione, non alla demobilitazione delle masse, e alla creazione di un nuovo tipo di uomo. Quando si dice che il regime fascista è conservatore, autoritario, reazionario, si può avere ragione. Però esso non ha nulla in comune con i regimi conservatori che erano esistiti prima del fascismo e con i regimi reazionari che si sono avuti dopo. Per esempio, può essere politicamente efficace definire fascista il regime dei colonnelli che c'è stato in Grecia e quello militare cileno, però questo vale solo come slogan politico. Per il resto tanto il regime greco quanto quello cileno si rifanno al classico sistema autoritario e reazionario ottocentesco, sono cioè regimi che tendono alla demobilitazione totale delle masse, alla sola partecipazione passiva delle masse al regime stesso. Non è un caso che i colonnelli greci e i militari cileni non hanno dato vita, per quel che ne so, a un proprio partito di massa. Il regime fascista, invece, ha come elemento che lo distingue dai regimi reazionari e conservatori, la mobilitazione e la partecipazione delle masse. Che poi ciò sia realizzato in forme demagogiche è un'altra questione: il principio è quello della partecipazione attiva, non dell'esclusione. Questo è un punto che va tenuto presente, è uno degli elementi, diciamo così, rivoluzionari. Un altro elemento rivoluzionario è che il fascismo italiano – anche qui si può dire demagogicamente, ma è un altro discorso – si pone un compito, quello di trasformare la società e l'individuo in una direzione che non era mai stata sperimentata né realizzata. I regimi conservatori hanno un modello che appartiene al passato, e che va recuperato, un modello che essi ritengono valido e che solo un evento rivoluzionario ha interrotto: bisogna tornare alla situazione prerivoluzionaria. I regimi di tipo fascista, invece, vogliono creare qualcosa che costituisca una nuova fase della civiltà.

R. De Felice, Intervista sul fascismo, Laterza, Roma-Bari 1975.

Il fascismo come fenomeno internazionale

L'esigenza di far confluire in una categoria unitaria la multiforme articolazione delle esperienze fasciste in Europa e nel mondo ha caratterizzato, in modo persistente, le indagini della storiografia contemporanea.
A una prima, maggioritaria ipotesi che vedeva nel fascismo un'espressione del capitalismo — posizione a lungo dominante nell'analisi di impianto marxista —, si è successivamente aggiunta l'interpretazione delle differenti situazioni nazionali secondo l'ottica unificante del totalitarismo.
La legittimità di un simile tentativo, però, è stata contestata da Karl D. Bracher e De Felice, due tra i massimi esperti dei casi più rappresentativi e clamorosi nell'ambito del fascismo internazionale, vale a dire il fascismo italiano e il nazional-socialismo in Germania. Il primo, non si è spinto fino a effettuare un'analisi comparata delle singole esperienze locali, ma ha preferito soffermare la propria attenzione sugli aspetti che potevano accomunare in chiave totalitaristica fascismo e nazismo, non senza escludere dalla medesima prospettiva anche il comunismo e le cosiddette «democrazie conservatrici»; il secondo, operando una distinzione fondamentale, ha negato ogni possibilità di associare nella generica categoria di fascismo internazionale i regimi mussoliniano e hitleriano, che furono espressione di istanze e ideologie per più motivi non assimilabili, e tanto meno riconducibili a un comune denominatore.
Altre tendenze storiografiche tendono ad approfondire l'indagine su tali differenze tra fascismo e nazismo, mostrando come quest'ultimo mirasse a un controllo più totalizzante della società e come fin da subito fosse pervaso di idee razzistiche, passate solo in un secondo momento al fascismo.
Enzo Collotti, peraltro, studioso particolarmente attento alla questione del fascismo internazionale, sottolinea l'inconsistenza di tale posizione, mettendo in rilievo i pericoli che essa presuppone, vale a dire l'accantonamento di problemi e di responsabilità da non trascurare sotto il profilo storico. A suo parere sono essenzialmente due gli elementi acquisiti sui quali è possibile basare un'analisi complessiva:

L'individuazione dell'area di diffusione del fascismo convalida l'ipotesi di lavorare su un doppio versante: quello della dilatazione internazionale della forza di espansione delle potenze fasciste, dei loro apparati non solo diplomatici ma anche militari; e quello della crescita autoctona ma non avulsa dalla circolazione di un pensiero diffuso che nel fascismo e nei suoi postulati fondamentali si riconoscevano. [...] Senza la combinazione dei due fattori anzidetti il processo di fascistizzazione dell'Europa, come generalmente lo si definisce, sarebbe una immagine arbitraria. Non si può accettare assolutamente nessuna ipotesi che neghi l'esistenza di un processo del genere, né alcuna ipotesi che voglia interpretare un simile processo come fondato unicamente sull'affermazione di una forza bruta. Dal punto di vista storiografico, ciò significherebbe tra l'altro una profonda regressione sia delle nostre conoscenze, sia del livello di sistematizzazione dei fenomeni che la storiografia ha bene o male raggiunto. Significherebbe inoltre tornare ancora una volta a demonizzare i regimi fascisti, a relegarli nel ruolo della loro irrazionalità e quindi della impossibilità di interpretarli razionalmente, come se essi non facessero parte di una esperienza che per decenni e per una moltitudine di decine e decine di milioni di individui ha rappresentato non solo un ideale politico e un regime di fatto ma anche un modo di essere della vita quotidiana. [ ... ] Rinunciare a questi livelli e a questi strumenti di comprensione e di interpretazione significherebbe anche precludersi la possibilità di capire dove storicamente il principio della democrazia si è dimostrato insufficiente nello scontro politico con i regimi e i movimenti di tipo fascista, significa eludere la risposta alla domanda, per esempio, perché il richiamo del razzismo è stato più forte del richiamo ad ogni principio di tolleranza e soprattutto di eguaglianza; perché l'esigenza del pluralismo politico e sociale si è trovata perdente di fronte alla rivendicazione di un principio d'ordine e di autorità che insieme alla deresponsabilizzazione politica di individui e soggetti politici e sociali implicava anche l'autospoliazione dei diritti fondamentali, una profonda crisi di sfiducia e la delega totale di ogni livello della volontà e della decisione politica.

E. Collotti, Fascismo, fascismí, Sansoni, Firenze 1989, pp. 166-167.

Malgrado l'innegabile substrato comune tra i vari movimenti fascisti, tuttavia, sulla scia degli studi defeliciani, è possibile notare come il fenomeno fascista manifesti alcuni punti di netta differenza rispetto al nazismo. Scrive Francesco Perfetti parlando dell'opera di De Felice:

[De Felice] individuava profonde differenze tra nazionalsocialismo e fascismo nel modo di riferirsi al passato e alla tradizione nazionale, nell'atteggiamento nei confronti del razzismo e dell'idea di progresso, nella valutazione e nel ruolo della figura del capo, nella stessa base sociale poiché il primo sarebbe strato espresso da ceti medio e piccolo borghesi già da tempo integrati e ora in fase discendente o comunque in difficoltà per conservare il proprio status. Inoltre il fascismo avrebbe perseguito la depoliticizzazione del partito e la sua subordinazione allo Stato mentre il nazionalsocialismo si sarebbe fondato proprio sulla preminenza del partito sullo Stato. Infine, il nazionalsocialismo avrebbe realizzato uno stato totalitario nel senso proprio del termine, mentre il fascismo avrebbe creato un regime che non perse mai taluni caratteri propri dello Stato di diritto.

F. Perfetti, Introduzione a R. De Felice, Fascismo, cit.

La guerra civile spagnola

La guerra civile spagnola rappresenta uno dei principali momenti di scontro tra la concezione totalitaria fascista e le altre forze politiche, momentaneamente aggregatesi (democratici, marxisti, anarchici).
La guerra civile spagnola fu, in certo modo, la prova generale della lotta fra democrazia e fascismo che sarebbe esplosa di lì a poco con la seconda guerra mondiale. Infatti, a fianco dei fascisti di Franco si schierarono Mussolini e Hitler; contro, nelle Brigate internazionali costituitesi con l'aiuto dell'Unione Sovietica, gli antifascisti di tutta Europa, anche se di diverso orientamento politico.
Una specificità del fascismo spagnolo fu indubbiamente il ruolo giocato dall'esercito: fu infatti l'elemento militare che creò l'unità di tutte le forze reazionarie e ne assunse la direzione, creando una dittatura militare.
La guerra civile spagnola si configura in principio essenzialmente come un sollevamento militare (pronunciamiento) inteso più a tutelare i privilegi dell'esercito, che non a portare avanti un programma politico ben preciso. Così lo storico inglese Hugh Thomas tratteggia la figura dell'ufficiale spagnolo:

Quasi tutti gli ufficiali superiori avevano combattuto nelle guerre marocchine, e avevano nostalgia per l'atmosfera di cameratismo in cui avevano vissuto laggiù. In Marocco, benché molti loro compagni fossero caduti, avevano avuto la possibilità di fare rapidamente carriera e di esercitare liberamente la loro autorità. L'incompetenza dei politici di Madrid li aveva costretti a combattere quelle guerre camminando sull'orlo del precipizio, senza armi e rifornimenti sufficienti. Quando finalmente Primo de Rivera, con l'aiuto dei francesi, sconfisse i marocchini del Rif, gli ufficiali che si erano fatti un nome in quelle dure campagne continuarono a essere ricordati con affetto e ammirazione dai soldati dei due corpi che li avevano aiutati a vincere. Questi due corpi erano la Legione straniera, che nonostante il suo nome era formata in prevalenza da spagnoli [ ... ] e i regulares marocchini, mezzi soldati, mezzi poliziotti, arruolati tra gli indigeni per controllare i territori conquistati. La Legione straniera era famosa per la sua spietata brutalità; il suo motto era «Abbasso l'intelligenza! Viva la morte!». Entrambi i corpi erano comandati da ufficiali spagnoli, e nel 1936 contavano complessivamente 34.000 uomini. L'ideale di molti ufficiali era quello d'una Spagna eterna, essenzialmente castigliana, apolitica, dove doveva regnare l'ordine e da cui doveva essere bandito tutto ciò che non era spagnolo (cioè le tendenze separatiste, il socialismo, la massoneria, il comunismo e l'anarchismo). Essi erano convinti che il giuramento prestato al momento della nomina, di «preservare l'indipendenza del paese e difenderlo dai nemici interni ed esterni» li vincolasse più del giuramento di fedeltà alla Repubblica.

H. Thomas, Storia della guerra civile spagnola, Einaudi, Torino 1964, pp. 59-60.

Durante i tre anni di guerra civile l'autorità della Repubblica nelle sue tradizionali istituzioni entrò in crisi. L'esercito infatti fu sciolto perché considerato sede di potenziale ribellione; la struttura burocratica, incapace di far fronte alle esigenze militari della lotta, rimase inoperante. Emersero, come nuovi centri di potere, diverse organizzazioni: i Comitati antifascisti costituiti da forze politiche e sindacali.
Aldo Garosci descrive così la situazione:

La storia della guerra da parte franchista è relativamente lineare; è la storia del prevalere di Franco su ogni altro capo e concetto politico, del suo esercito e dei suoi ausiliari fascisti e nazisti, e della creazione, a servizio della forza armata (che rimane in ogni caso l'arma decisiva del «Caudillo»), di un movimento di massa di tipo totalitario fascista. Da parte repubblicana è più complessa. È la storia anzitutto del collasso dello stato e dell'esercito legali (l'esercito fu sciolto dal governo, per difendersi contro la ribellione; la burocrazia rimase priva di autorità dinanzi alle decisioni degli organi rivoluzionari) dappertutto tranne che alla sommità dello stato, dove rimase come simbolo. Ad esso si sostituirono (ed è il vero tratto nuovo, originale della rivoluzione di Spagna) non i Soviet o la dittatura di un partito o di una organizzazione sindacale di massa, ma i Comitati Antifascisti, formati da partiti e sindacati.

A. Garosci, Grandezza e tragedia della rivoluzione, "Storia illustrata", ottobre 1966.

Ciò che più impressionò i contemporanei, e ancora oggi suscita un acceso dibattito, è l'inaudita violenza che entrambe le parti in lotta esercitarono, causando complessivamente circa un milione di morti. Ecco come Thomas tratteggia la violenza dei nazionalisti:

Nella Spagna nazionalista il militarismo impregnava tutto il sistema di vita. Chiunque occupava un posto, anche infimo, nella gerarchia militare, godeva di ogni facilitazione. I civili erano continuamente insultati, e perfino accusati di codardia per il semplice fatto di essere civili. «Chi non porta l'uniforme porti la sottana», si usava dire beffardamente. I decreti emanati in virtù della legge marziale soppiantarono gradatamente, in ogni campo, la giustizia normale. [...] Il numero delle esecuzioni variava notevolmente da zona a zona, secondo la fantasia del comandante locale o delle autorità. I governatori civili e i loro funzionari, se erano stati nominati dal governo uscito dalle elezioni di febbraio, erano quasi sempre fucilati, al pari di coloro che cercavano di far proseguire lo sciopero generale proclamato al momento della sollevazione. Talvolta anche le loro mogli, sorelle e figlie subivano la stessa sorte; più spesso erano rapate a zero, e sulla loro fronte venivano dipinte per scherno sigle di organizzazioni operaie [...]. Non di rado venivano anche violentate. Queste atrocità erano commesse a ragion veduta. I ribelli, per quanto bene armati, erano numericamente pochi. In una città come Siviglia, dove la popolazione operaia era forte, bisognava imporre il nuovo regime col terrore, se i capi nazionalisti volevano dormire tranquilli nei loro letti. Perciò i ribelli non solo furono spinti ad agire con estrema ferocia contro i loro nemici, ma anche ad agire apertamente, e ad esporre in pubblico i cadaveri delle loro vittime. [...] Di solito, tuttavia, gli arresti avvenivano di notte, e l'uccisione era perpetrata nelle tenebre. A volte le esecuzioni erano individuali, a volte collettive. Talora l'ufficiale responsabile, per compassione, faceva in modo d'avere a portata di mano una generosa scorta di vino, in modo che i condannati, prima di morire, potessero annegare la loro disperazione nell'ubriachezza. La mattina seguente qualcuno ritrovava i corpi. Spesso si trattava di personalità politiche di sinistra o di ufficiali rimasti fedeli alla Repubblica. Ma nessuno osava identificare le salme. [...] Molti episodi di quei giorni non sono verificabili. Si diceva, così, che molte vittime erano state costrette a scavarsi la fossa prima di essere trucidate. [...] È anche impossibile appurare con sicurezza il numero delle persone uccise dai nazionalisti nei primi giorni della sollevazione, sia nei combattimenti per le strade, sia con esecuzioni sommarie. I repubblicani hanno indicato cifre elevatissime. Secondo Ramón Sender, a metà del 1938 c'erano state nella Spagna nazionalista 750.000 esecuzioni.

H. Thomas, Storia della guerra civile spagnola, cit., pp. 172-175.

Di contro alla violenza nazionalista, anche nel campo repubblicano vi furono episodi di inaudita violenza, soprattutto nelle regioni a predominanza anarchica, come la Catalogna. I principali bersagli di tale ferocia furono i possidenti e il clero, accusati di parteggiare per i nazionalisti. Prosegue lo storico inglese:

I miliziani dei partiti e dei sindacati si organizzarono in vere e proprie bande che assunsero nomi che potrebbero ricordarci quelli di certe associazioni sportive. C'erano per esempio le «Linci della Repubblica», i «Leoni Rossi», le «Furie», «Spartaco», «Forza e libertà». [...] La loro animosità si scatenò innanzitutto contro la Chiesa. In tutta la Spagna repubblicana, chiese e conventi furono indiscriminatamente assaliti e saccheggiati. Eppure la Chiesa praticamente non aveva partecipato alla sollevazione. [...] Le chiese, però, erano considerate gli avamposti dell'ordine e dei costumi dell'aristocrazia e della borghesia. L'intenzione era quindi di distruggere, più che di saccheggiare. [...] Queste incursioni erano accompagnate da un'enorme e incontrollabile catena di attentati alle vite di ecclesiastici e borghesi. I nazionalisti, dopo la guerra, hanno calcolato a circa 54.000 le esecuzioni e gli assassini perpetrati nella Spagna repubblicana. Di questi morti, 6832 erano religiosi [...]. Come per la furia nazionalista, le cifre sono fredde, ma celano episodi impressionanti. Molti crimini furono compiuti con una crudeltà che in parte derivava da incoscienza, in parte da vero sadismo. [...] A Cernera, le corone del rosario furono cacciate nelle orecchie di alcuni monaci fino a perforare il timpano. Sembra che vari preti siano stati arsi vivi. [...] Alla madre di due gesuiti fu cacciato in gola, a forza, un crocifisso. Ottocento persone furono gettate nel pozzo di una miniera. E sempre la morte delle vittime era salutata con grandi applausi, come se fosse il momento della verità in una corrida; poi si levavano grida di «Libertà! Abbasso il fascismo!».

H. Thomas, Storia della guerra civile spagnola, cit., pp. 179-183.

La storiografia sul nazismo

La storiografia sul nazismo si intreccia ancora oggi con una problematica politica di carattere attuale che riguarda la storia della Germania, le sue vicende del dopoguerra, lo sconvolgente fenomeno del genocidio degli Ebrei.
Tra il 1945 e il 1946, mentre si celebrava il processo di Norimberga contro i principali criminali nazisti, si è sviluppata una memorialistica nell'ambito della quale assunse particolare rilievo quella dei sopravvissuti ai campi di concentramento e alle persecuzioni.
Negli anni Cinquanta prevalgono, in ambito storiografico, due principali orientamenti: uno, di tradizione liberale, presente soprattutto in area anglosassone, caratterizzato dall'uso della categoria interpretativa del "totalitarismo" a cui vengono ricondotti diversi modelli di Stato, indipendentemente dalle scelte ideologiche (sono così Stati totalitari lo Stato nazista e quello stalinista); un secondo, soprattutto nella Germania occidentale, che, ponendo in rilievo il nesso tra guerra mondiale e nazismo, attribuisce soltanto a Hitler la responsabilità della guerra e della persecuzione antisemita.
Le prime sintesi generali sul nazismo aventi uno spessore storico si devono a ricercatori fuori della Germania, tra gli anni Cinquanta e Sessanta (per esempio, al francese Edmond Vermeil e all'italiano Collotti).
In Germania la riapertura del dibattito si ebbe con la contestazione studentesca del 1967-1968, quando i giovani accusarono gli adulti di una "rimozione" del passato nazista: la rivista di Berlino "Das Argument" incominciò a pubblicare diversi saggi in cui emergevano nuovi strumenti di analisi, e una particolare attenzione agli aspetti politico-sociali e politico-economici del nazismo.
Una delle opere di maggiore rilievo sulla genesi del nazismo venne scritta da uno studioso tedesco, Franz Neuman, nel 1942. Qui il nazismo è interpretato come apparato di controllo sociale al suo livello più alto, in una società di massa e di capitalismo avanzato. In questa analisi sono presenti i concetti marxisti e gli studi di psicologia sociale condotti da Wilhelm Reich.

Man mano che il dibattito sul nazismo, in sede storiografica, prende slancio e vigore, emerge una questione interpretativa di notevole rilievo: ci si chiede se il nazionalsocialismo (nazismo) possa considerarsi la variante tedesca del fascismo come fenomeno internazionale, oppure se lo si debba ricondurre nell'ambito delle tradizioni politiche e culturali di una storia essenzialmente tedesca.
Tra i primi a impegnarsi in questa discussione è lo storico liberale Friedrich Meinecke, che, optando per la seconda interpretazione, invita a una riconsiderazione di tutta la storia del Reich unitario.
A questa tesi si contrappone un esponente della storiografia tradizionale, Gerhard Ritter, che sottolinea la componente europea, extragermanica del nazismo, considerato soprattutto come il risultato del declino della spinta liberale e del trionfo del totalitarismo.
Le tesi emergenti in questo dibattito non sono tuttavia particolarmente significative sul piano storiografico, in quanto troppo condizionate da scelte di natura ideologica: da un lato, infatti, si giudica il nazismo come espressione di caratteristiche costitutive dello "spirito germanico", quasi una categoria etnica, extrastorica della natura immutabile di un popolo; dall'altro, invece, si sostiene l'estraneità del nazismo alla tradizione politica tedesca, come se si trattasse di una improvvisa irruzione di barbarie in un contesto fondato su valori di civiltà e di libertà.

La ricerca storica ha compiuto un salto di qualità con l'opera di Fritz Fischer e dei suoi allievi Boehme e Geiss sul ruolo dell'imperialismo tedesco nella prima guerra mondiale.
Fischer prende in esame lo sviluppo della società tedesca dopo l'unificazione del Reich, collegando la crescita delle forze produttive con gli indirizzi della politica economica e degli armamenti. Egli traccia un quadro complessivo della politica dell'impero, dunque sotto il profilo del rapporto stato-economia, società-economia, superando i limiti di una semplice storia delle idee che accentuava troppo, come modello esplicativo del nazismo, la relazione tra cultura tedesca e ideologia nazionalsocialista teorizzata da George L. Mosse.
A partire dagli anni Settanta, dopo la ricerca di Fischer, la storiografia tedesca ha privilegiato la lunga durata, cercando le linee di continuità di una storia sociale basata sull'intreccio tra politica ed economia.
Sotto questo profilo è, per esempio, particolarmente significativo lo studio di Hans-Ulrich Wehler, che comprende il periodo dal 1871 al 1918. Nella sua indagine si trovano categorie interpretative diverse: i concetti economico-sociali di Karl Marx e di Max Weber, le riflessioni filosofiche della Scuola di Francoforte in cui confluiscono idee della psicoanalisi di Freud, le analisi sociologiche ed economiche.

Un altro dei settori di ricerca che va messo a fuoco è quello relativo alla biografia di Hitler. Uno degli orientamenti presenti in questo campo è l'identificazione del nazionalsocialismo con le scelte personali di Adolf Hitler.
Tale è la tesi, per esempio, dello storico tedesco Helmut Heiber. È ovvio che un'interpretazione del genere, così come non ci fa capire la genesi del nazismo, non serve neppure a comprendere la personalità e la biografia del personaggio storico.
Sono ugualmente fuorvianti e destituiti di qualunque significato storiografico i giudizi, frequenti in una letteratura superficiale, che definiscono Hitler come un semplice criminale, un isterico, uno psicopatico. Infatti il problema storico non è appurare il livello di sanità mentale dell'individuo, ma comprendere come e perché sia arrivato al potere e abbia avuto il consenso del popolo tedesco. A questi interrogativi cercava già di rispondere nel 1936-1937 uno dei primi biografi di Hitler, Konrad Heiden.
La prima biografia scientifica, però, si deve a uno storico inglese, Alan Bullock, scritta nel 1952. Ancora oggi si lamenta l'assenza di una biografia seria che continui e approfondisca il lavoro fatto da Bullock, intrecciando la vicenda personale dell'individuo con il contesto storico.

Altri temi rilevanti della storiografia sul nazismo sono il rapporto con il grande capitale e il problema dell'adesione dei ceti medi.
Rispetto al primo argomento si possono distinguere alcuni indirizzi fondamentali: la teoria della Terza Internazionale seguita da alcuni storici marxisti, che vede il nazismo come un semplice agente del grande capitale; una interpretazione di carattere prevalentemente liberale che nega qualunque connessione strutturale tra grande industria e nazismo, facendo piuttosto dell'industria una vittima della stessa politica hitleriana.
Studi più recenti, infine, più liberi da ipoteche di natura ideologica, hanno messo in evidenza come la politica economica del nazismo abbia favorito le grandi imprese industriali, sviluppando un processo di concentrazione economica.
Di particolare interesse è la storiografia che analizza il tema centrale del rapporto tra ceti medi e nazismo.
Qui confluiscono gli esiti di studi sociologici sulla mentalità e sui comportamenti dei ceti medi, di analisi del processo di terziarizzazione che interessa l'economia della società di massa (incremento del settore impiegatizio). Ma tra le opere più importanti in questo campo è la ricerca del tedesco Jurgen Kocka, che ha prodotto uno dei lavori più interessanti dell'attuale storiografia sociale tedesca.

Un tema oggi al centro dell'attenzione di filosofi, sociologi, teorici della comunicazione è il problema del consenso ottenuto attraverso l'uso della propaganda e il controllo della cultura. I nazisti sono stati tra i primi a usare strumenti tecnologicamente avanzati e a impiegare in modo programmato i mezzi di comunicazione di massa, quali la radio e il cinema.
In questo settore si devono ricordare le ricerche della Scuola di Francoforte.

Il nazismo

Uno dei maggiori rappresentanti dello storicismo contemporaneo, il tedesco Friedrich Meinecke (premesso che la storia della Germania moderna è storia di «nazione occidentale», fedele, cioè, all'umanesimo, al bisogno di «conciliare equilibratamente lo spirito e il potere», e che alcune manifestazioni di forza brutale non sono sufficienti per negare l'attaccamento dell'anima tedesca ai valori dello spirito), considera il nazismo soltanto «un passeggero delirio di grandezza», una malattia infettata «da un gruppo di delinquenti che riuscì per dodici anni a trascinare dietro di sé il popolo tedesco»; il nazismo è stato soltanto «una luce ingannatrice, un insolito e passeggero affastellamento di motivi contingenti; ovvero l'isolato e inatteso intervento di un fattore estraneo nel corso della storia tedesca»; Hitler era un «malato, affetto da psicopatia, un artista fallito» che in tempi normali avrebbe condotto altrove la sua esistenza, che riuscì a dominare non perché rispondeva alle idee del popolo tedesco, ma perché favorito «da un'epoca storica del tutto anormale» (F. Meinecke, La catastrofe della Germania, La Nuova Italia, Firenze 1948)
Questa tesi ha avuto poco successo, è apparsa come un abile espediente per discolpare il popolo tedesco dalle tremende responsabilità, o «una estrema, generosa difesa del vinto contro l'ebrietà del vincitore» (N. Valeri, Il fascismo interpretato, in A. Saitta, Storia e miti del '900, Laterza, Bari 1961); nella storiografia più autorevole prevale l'opinione della piena responsabilità di Hitler e della nazione che l'ha seguito, come scrive Pierre Renouvin:

Il Führer aveva l'orgoglio della razza, la passione per il potere, l'ambizione sfrenata per la conquista, l'amore per il rischio, la volontà di potenza, l'ardente immaginazione e l'assenza di ogni misura; esercitava una grande attrazione sugli interlocutori, sapeva intimorire l'amico e l'avversario, passava con rapidità dall'indifferenza agli slanci passionali frenetici. Ammesso e non concesso che egli fosse un ammalato, i suoi atteggiamenti certamente non avrebbero avuto la stessa importanza qualora le masse tedesche non ne avessero subito la forza di attrazione. L'adesione che nel 1933 gran parte del popolo tedesco diede liberamente alla dottrina nazista, assieme alla fiducia accordata al suo capo, sono punti che hanno la loro massima importanza. Hitler, quando parlava di razzismo, di pangermanesimo e di spazio vitale, sarebbe rimasto voce clamante nel deserto se i tedeschi non lo avessero inteso, compreso e seguito. Egli non fece altro che risvegliare i lati nascosti della psicologia collettiva tedesca e per questo ne ottenne l'adesione massiccia.

P. Renouvin, Le crisi del secolo XX, Vallecchi, Firenze 1961.

Il fenomeno nazista, pertanto, non si può spiegare con un solo uomo, malato o anormale che fosse, ma va riportato a una realtà più vasta che abbraccia tutto un popolo.
Gerhard Ritter, lo studioso del militarismo tedesco, definisce il nazismo «la forma specificatamente tedesca, assunta da un fenomeno che ha fatto la sua comparsa in tutta l'Europa con il sistema degli Stati a partito unico». Esso è da mettere in relazione con la scomparsa della vigorosa fede nella libertà civile, nella persuasione pacifica, nei parlamenti, nel sistema democratico, nell'iniziativa privata e nella libera concorrenza, dovuta al fallimento del liberalismo, incapace di risolvere i problemi sorti dallo sviluppo della grande industria e dall'ascesa delle grandi masse proletarie.
I parlamenti, fondati sulla pluralità dei partiti opposti, non riscuotevano più la fiducia dei popoli e nell'opinione pubblica erano sostituiti dalle grandi organizzazioni economiche e sociali extraparlamentari; declinava la fede nei valori spirituali, nell'ordine razionale, si esaltavano gli istinti di forza, gli slanci vitali, la volontà di potenza, il nazionalismo, l'irrazionale.
S'affermò la convinzione che ciò che non può risolvere la capacità di mediazione dei partiti è facile al superuomo, il solo capace d'impersonare la volontà delle masse e d'interpretare l'interesse di tutta la nazione. Scrive Ritter:

Le masse erano disposte a fare dono della loro fiducia più facilmente a un solo uomo di grande personalità, che al parlamento, istituzione anonima, a patto che egli si presentasse un demagogo, sapesse farsi credere sostenitore della più schietta volontà popolare, e fosse dotato di una forte natura di condottiero. È questo il punto di partenza della crisi del sistema liberale in Europa, che in Italia e in Germania porta allo stato un movimento popolare consciamente moderno, antimonarchico, fondato sulla base della sovranità popolare e non sulla tradizione storica. Hitler si considerò non un monarca ma un incaricato del popolo, sostenitore ed esecutore della vera volontà popolare. Si sbaglia completamente se si raffigura il nazismo come il polo opposto del bolscevismo. In realtà esso rappresenta un movimento parallelo al bolscevismo; soltanto non promise una dittatura del proletariato, ma cercò di raccogliere, nelle schiere dei suoi seguaci, anche elementi borghesi, e fu in primo luogo elevato al potere soprattutto dalla borghesia e non dai lavoratori. Ciò che diede ad Hitler il favore e l'entusiasmo del popolo fu, in un primo tempo, la promessa di eliminare l'indigenza delle masse attraverso lo stato totalitario forte, cosa nella quale era fallita la debole Repubblica democratica di Weimar.

G. Ritter, Le origini storiche del nazionalismo, in Questioni di storia contemporanea, vol. III, Marzorati, Milano 1953.

Ritter esclude che Hitler sia stato un malato, un anormale, e gli riconosce una grande capacità demagogica, «una satanica arte di seduzione», della quale si valse per fare accettare al popolo tedesco il suo immorale programma.
«Se Hitler» afferma lo storico tedesco «avesse lasciato intravedere alla nazione i suoi piani bellici, certamente avrebbe distrutto ogni suo successo». Dotato di un'immensa fiducia in se stesso, invece, egli seppe esercitare una forza di suggestione quasi prodigiosa con la quale ingannò i Tedeschi per mezzo di un programma che nascondeva metodi e finalità immorali.
Anche questa interpretazione, che considera il nazismo la forma tedesca di un fenomeno europeo, portata all'esasperazione da un individuo dalle velleità di superuomo, s'inserisce nella tendenza innocentista del popolo tedesco, ma alla luce dei fatti, notano altri autorevoli storici, non è valida per escludere che il nazismo sia stato il risultato logico del processo storico, politico, culturale, economico e sociale della Germania moderna.
In tal senso si è espresso il sociologo tedesco Max Weber, che, sebbene vissuto prima dell'avvento di Hitter, presentì nella Germania bismarckiana le condizioni che l'avrebbero fatalmente condotta alla rovina. Bismarck, da tutti ritenuto il fondatore della grandezza tedesca, è considerato la causa prima della Germania moderna:

Per la sua intransigente ideologia del Machtstaat, dello stato forte, del potere tutto concentrato nelle mani dell'esecutivo, il Cancelliere di ferro disabituò la nazione da quella positiva e decisiva cooperazione al proprio destino politico per mezzo dei suoi rappresentanti elettivi, la quale soltanto rende possibile l'educazione del giudizio politico. Con la sua intolleranza verso ogni cervello indipendente e ogni carattere integro, con la sua pratica costante di circondarsi di collaboratori apolitici, meri esecutori di ordini, egli lasciò il paese senza la minima educazione e la minima volontà politica.

M. Weber, Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania, Laterza, Bari 1921.

Il sistema bismarckiano, secondo Weber, incise negativamente nella formazione politica della borghesia tedesca, «piena di fantasia di potenza e di conquiste esterne».
Nell'era in cui la rivoluzione industriale faceva della classe borghese lo strumento più pericoloso perla libertà dei popoli, specialmente in Germania, era indispensabile, per il bene della civiltà, aiutarla con l'esercizio politico e parlamentare a liberarsi dall'irrazionale romanticismo che la dominava. Bismarck, invece, la tenne lontana dall'esercizio della libera vita politica e la sostituì con la burocrazia tecnica e amministrativa priva di personalità e di responsabilità; in questo modo le impedì ogni autonomia di iniziativa e ogni attitudine alla percezione di ciò che ha valore politico, ridusse tutti i problemi della nazione a questioni di tecnica, convertì gli uomini politici, cioè vivi e originali, in burocrati, in macchine. La Germania divenne un Paese «di eccellenti funzionari, capaci di curare e di organizzare i propri affarucci quotidiani, ma non produsse uomini politici di larga umanità capaci di interloquire costruttivamente sui destini del mondo».

Al di fuori di questa Germania burocratizzata crebbe la nazione che si abbandonava volentieri ai sogni pazzamente grandiosi, alle passioni e ai sussulti più imprevedibili dell'irragionevolezza e della smoderataggine, a tutto ciò che è compreso in un termine favorito: l'irrazionalismo, che vantava una mentalità creatrice, in opposizione alla fatale routine della civiltà che, incapace di rinnovarsi, si credeva doversi cristallizzare in un'esistenza puramente convenzionale.

M. Weber, Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania, Laterza, Bari 1921.

La borghesia e il capitalismo, cresciuti in questa atmosfera romantica, alimentarono aspirazioni torbide e megalomani, assunsero metodi spregiudicati e immorali.
Precisa fu quindi la responsabilità tedesca nella durata e anzitutto nello scoppio del primo conflitto mondiale. Dopo la sconfitta del 1918, scomparsa la monarchia imperiale e burocratica di Guglielmo II, l'alta borghesia non ebbe né ritegni né scrupoli, pur di non pagare i debiti e le riparazioni di guerra, a ricorrere all'inflazione generale, poco curandosi del gravissimo danno che arrecava ai ceti medi e proletari.
Anche le correnti moderate e progressiste, e la stessa socialdemocrazia ebbero però le loro responsabilità: come nel 1914 aderirono alla guerra, nel 1918 accettarono dall'alto la repubblica parlamentare e si affidarono alla classe dominante in vista di vantaggi materiali.
Del caos e della rovina che invece seguirono ne approfittò Hitler per sostituire il fallito liberalismo con un "ordine nuovo", con il quale attrasse tutti gli scontenti, i delusi e i disoccupati, che odiavano gli Ebrei, accusati di detenere la ricchezza del Paese. In questo modo ottenne il favore della classe media e del proletariato, che videro in lui un "uomo del popolo" in grado di tutelare i loro interessi.
Rilanciando poi il pangermanesimo, si accattivò l'appoggio della casta militare prussiana, ancora assai influente e considerata la depositaria della tradizione germanica.

Le cause sociali e politiche del nazismo

Il francese Edmond Vermeil, pur riconoscendo le responsabilità della borghesia e di Hitler, considera il nazismo «il risultato del compromesso delle varie e opposte forze tedesche, sotto l'azione della loro eterna mentalità romantica, all'insegna del pangermanesimo, del razzismo e del totalitarismo», miti sempre vivi nell'anima tedesca, ma che, evocati ora suggestivamente da Hitler, ebbero la forza di portare borghesi e proletari tedeschi a superare i tradizionali contrasti di classe e unirsi nell'intento di affermare il primato germanico nell'Europa e nel mondo:

Bismarck realizzò l'unità politica ed economica della Germania ma non l'unità sociale; il dissidio tra borghesia nazionalistica e il proletariato socialista rimase forte e pericoloso. Sotto il suo governo, i tedeschi si gettarono nell'industria e nei mezzi di potenza della tecnica moderna con quella stessa passione, con quello stesso fervore, con la stessa tendenza alla megalomania che si trovano nei grandi sistemi della loro filosofia, come nei più alti capolavori della loro arte e letteratura. Il possente e fecondo individualismo d'un tempo cedette il posto ad una specie di religione comunitaria, o a una mitologia a sua volta sofisticata, che nel futuro Reich vedrà non tanto uno stato basato su relazioni d'ordine giuridico e politico quanto una collettività d'ordine religioso. Le attività tecniche, connesse col disciplinato militarismo, che è proprio alla popolazione del Reich, godettero in questa collettività di quell'entusiasmo, devozione e gusto per la grandezza che sembrano innati negli animi di questa singolare nazione.

E. Vermeil, La Germania contemporanea, Laterza, Bari 1956.

L'unità sociale tedesca, secondo Vermeil, si ebbe dapprima nell'alleanza della borghesia con la nobiltà, nell'intento di combattere «un socialismo che appariva troppo invadente per il numero e per le pretese dei suoi adepti», in un secondo tempo nell'unione tra borghesia e proletariato, attirato dalla possibilità di avere salari più alti realizzabile solo nell'unità e nel potenziamento di tutta la nazione.

Da allora l'idea di una rivoluzione esclusivamente nazionale o di un'irruzione del germanesimo in Europa prevalse decisamente su quella di una rivoluzione sociale a orientamento internazionale. Il proletariato, conquistato a quest'unione sacra, lottò all'indomani della disfatta del 1918, contro il comunismo spartachista, per lasciarsi, pochi anni dopo, afferrare e opprimere dall'antica minoranza dirigente e dal regime hitleriano ch'essa audacemente appoggiava. È questa la ragione per cui il Terzo Reich credette giusto darsi il nome di nazionalsocialismo, prima di affondare, con borghesia e proletariato legati allo stesso destino, nella spaventosa catastrofe del 1945.

E. Vermeil, La Germania contemporanea, Laterza, Bari 1956.

Lo storico francese constata che ogni qualvolta la Germania ha realizzato la propria unità nazionale e sociale si è trasformata in uno strumento di rovina per l'Europa e per se stessa; la causa è «nell'incapacità dei Tedeschi di fondere la magnifica eredità culturale, dovuta al classicismo, con il nuovo slancio nazionale».
Mentre Gran Bretagna e Francia, grazie all'influsso della filosofia illuministica e della democrazia liberale, hanno superato gli inevitabili sconvolgimenti della rivoluzione industriale, la Germania, per l'azione dello spirito prussiano, del romanticismo e del pangermanesimo, è stata secondo Vermeil terreno adatto alle più esasperate ideologie estremiste.

Per la frattura tra l'umanesimo e le nuove forze dell'età industriale, la Germania non è stata capace di conciliare borghesia e proletariato altrimenti che nel quadro del socialismo esaltato, nel militarismo, nell'antisemitismo, nel pangermanesimo, in una parola, nel nazismo [...]. Nel corso della sua recente evoluzione essa ha conosciuto soltanto un patriottismo pericolosamente appassionato, che l'ha condotta alla rovina, avendole impedito di trovare, per un popolo divenuto singolarmente vulnerabile, una risoluzione appropriata e tale da potersi giustificare davanti alla storia e su di un piano veramente umano.

E. Vermeil, La Germania contemporanea, Laterza, Bari 1956.

 

 

 

 

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