[ Storia ]     [ Strumenti di Storia ]

 

 

 

IL TOTALITARISMO

 

 

FONTI

 

L'organizzazione del consenso nello stato fascista

In Italia, nel 1928, venne emanata la Relazione riguardante l'esame e la scelta dei libri di testo per le scuole.
In essa si deplorava anzitutto che, a sei anni dalla Marcia su Roma, i testi adottati nelle scuole non fossero ancora sufficientemente fascisti. Venivano quindi illustrate le principali caratteristiche che i libri scolastici avrebbero dovuto assumere: avrebbero dovuto plasmare giovani devoti alla patria e al regime, consci dei propri doveri, permeati da un'anima veramente fascista.

Il problema dei libri di testo per le scuole elementari ed i corsi integrativi di avviamento professionale venne dal Ministero già affrontato col R. D. 11 marzo 1923 n. 737 e, successivamente, ripreso in esame. [...] Tale problema però non può dirsi che sia stato con provvedimenti sopra indicati radicalmente risoluto, ed è intendimento del Ministero di avviarlo al più presto alla sua soluzione definitiva. Intanto si rende necessaria ed urgente l'adozione di nuove norme che regolino l'esame e la scelta dei libri di testo. L'esperienza di questi ultimi anni ha dimostrato che dalla scuola non è stata data al libro tutta quella importanza che a questo delicatissimo strumento culturale, politico, sociale è dovuta: gli alunni delle scuole elementari, anche dopo l'attuazione dei nuovi programmi, hanno avuto dei libri, i quali, se sono stati utili e buoni dal punto di vista puramente didattico, non hanno però conseguito quello che avrebbe dovuto essere il loro fine precipuo, di formare cioè la nuova coscienza nazionale plasmando il tipo dell'italiano nuovo, tutto devoto alla Patria e conscio dei propri doveri verso di essa. Si può anzi sicuramente affermare che la maggior parte degli autori di libri di testo non hanno avuto una chiara, esatta, completa visione di quello che era ed è il nodo centrale del problema dell'educazione, sviluppare cioè nei fanciulli il senso virile della vita, e si sono limitati a dare al libro soltanto la veste e non anche l'anima fascista. Occorreva invece ed occorre dare al libro un nuovo contenuto, meglio rispondente ai nuovi valori ideali in armonia alle direttive del Governo Nazionale. [...] I programmi in vigore vengono così didatticamente mantenuti quali essi sono; soltanto sono completati e vivificati dallo spirito fascista.

Relazione riguardante l'esame e la scelta dei libri di testo per le scuole, 1928,
in Ph. Cannistraro, La fabbrica del consenso, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 425.

Il decreto legge del 27 ottobre 1937 istituì la Gioventù Italiana del Littorio.
È interessante soprattutto il giuramento che viene prescritto ai giovani dai 6 ai 21 anni, inteso come atto di assoluta fedeltà a Mussolini e al regime. Del tutto assente è, nel giuramento, qualsiasi riferimento al re, che era pur sempre il capo dello Stato.

I giovani inquadrati nelle organizzazioni della Gioventù Italiana del Littorio sono vincolati al seguente giuramento: «Nel nome di Dio e dell'Italia giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio sangue la Causa della Rivoluzione Fascista».

Decreto legge del 27 ottobre 1937

La repressione del dissenso nell'URSS

La seguente lettera è un documento classificato come «segretissimo» che solamente con l'apertura degli archivi sovietici è stato possibile conoscere.
Stalin, occupata nel 1939 la parte orientale della Polonia in accordo con Hitler, intende proseguire con la massima celerità la russificazione e l'assimilazione di quelle terre. Proprio per questo la polizia segreta sovietica è all'opera per arrestare gli oppositori, qui designati come «sabotatori» e «spie». In realtà sotto questa denominazione vengono classificati soldati dell'esercito polacco, funzionari, proprietari terrieri, preti, industriali: tutte persone che non avrebbero aderito facilmente al nuovo governo sovietico.
In questa lettera del 5 marzo 1940 Lavrentij Berija, responsabile della polizia segreta, comunica a Stalin l'opportunità di far fucilare 25.700 polacchi prigionieri di guerra.

Al compagno Stalin. È attualmente detenuto nei campi per prigionieri di guerra, sotto custodia dell'NKVD dell'URSS, e in prigioni situate nelle regioni occidentali dell'Ucraina e della Bielorussia, un gran numero di ex ufficiali dell'esercito polacco, di ex funzionari di polizia e dei servizi di informazione polacchi, di membri dei partiti nazionalisti controrivoluzionari, di membri di organizzazioni controrivoluzionarie dell'opposizione, debitamente smascherati, di transfughi e di altri: tutti nemici giurati del potere sovietico e traboccanti di odio contro il sistema sovietico. Gli ufficiali dell'esercito e della polizia reclusi nei campi di concentramento cercano di proseguire le loro attività controrivoluzionarie e animano la propaganda antisovietica. Ciascuno di loro non aspetta che di essere liberato per intraprendere la vera e propria lotta contro il potere sovietico. Gli organi dell'NKVD nelle regioni occidentali dell'Ucraina e della Bielorussia hanno scoperto un numero considerevole di organizzazioni controrivoluzionarie ribelli: gli ex ufficiali dell'esercito e della polizia polacchi svolgono una funzione attiva a capo di tutte queste organizzazioni. Fra gli ex transfughi e coloro che hanno varcato illegalmente le frontiere dello Stato figura un notevole numero di persone che sono state identificate come affiliate a organismi controrivoluzionari di spionaggio e di resistenza. Nei campi di concentramento per prigionieri di guerra sono detenuti 14.736 fra ufficiali, funzionari, proprietari terrieri, poliziotti, gendarmi, guardie carcerarie, coloni insediati nelle regioni di frontiera e agenti del servizio informazioni. Da tale cifra sono esclusi sia i soldati semplici sia i sottufficiali. [...] Inoltre, nelle prigioni delle regioni occidentali dell'Ucraina e della Bielorussia sono detenuti 18.632 uomini (di cui 10.685 polacchi). [...] Dal momento che tutti costoro sono nemici accaniti e irriducibili del potere sovietico, I'NKVD dell'URSS stima necessario: 1. Disporre che l'NKVD dell'URSS deferisca al giudizio dei tribunali speciali: a. 14.700 detenuti nei campi di concentramento per prigionieri di guerra, popolati da ex ufficiali, funzionari, proprietari terrieri, agenti di polizia, agenti dei servizi informazioni, gendarmi, coloni delle regioni di frontiera e guardie carcerarie; b. e inoltre 11.000 individui affiliati alle diverse organizzazioni controrivoluzionarie di spie e sabotatori, ex proprietari terrieri e proprietari di impianti industriali, ex ufficiali dell'esercito polacco, funzionari e transfughi, che sono stati arrestati e sono detenuti nelle prigioni delle regioni occidentali dell'Ucraina e della Bielorussia, per applicare a tutti costoro il castigo supremo: la pena di morte per fucilazione. 2. Che l'esame dei singoli incartamenti sia compiuto senza convocazione dei detenuti e senza atto di accusa; le conclusioni dell'istruttoria e la sentenza finale saranno presentate nei modi seguenti: a. per quanto riguarda gli individui detenuti nei campi di concentramento per prigionieri di guerra, sotto forma di certificati presentati dall'amministrazione preposta agli Affari dei prigionieri di guerra dell'NKVD dell'URSS; b. per quanto riguarda gli altri arrestati, sotto forma di certificati presentati dell'NKVD della RSS di Ucraina e dall'NKVD della RSS di Bielorussia. 3. Che gli incartamenti siano esaminati, e le sentenze emanate, da un tribunale composto da tre persone, i compagni Merkulov, Kobulov e Baštalov.

L. Berija, Lettera a Stalin del 5 marzo 1940, in N. Werth, Uno stato contro il suo popolo,
in Aa.Vv., Il libro nero del comunismo, a c. di S Courtois et al., Mondadori, Milano 1998, pp. 196-197.

Le Leggi di Norimberga (1935)

Con le famigerate Leggi di Norimberga la Germania inaugurava ufficialmente la propria politica violentemente antisemita.
I "non ariani" erano privati della cittadinanza tedesca e non godevano quindi di alcun diritto politico. Questa mancanza di tutela da parte delle leggi si traduceva nei fatti nell'impossibilità per gli ebrei di reagire alla violenza e alle ingiustizie perpetrate ai loro danni. Anche la legge sui matrimoni sanciva ulteriormente questa separazione tra "ariani" e "non ariani", ponendo questi ultimi in netta inferiorità.
E il primo passo "legale" verso la cosiddetta "soluzione finale", ovvero il genocidio del popolo ebraico, che verrà messo in atto durante la seconda guerra mondiale.

Legge per la cittadinanza del Reich
Il Reichstag ha approvato all'unanimità la seguente legge che qui viene promulgata:
Art. 1.1 È cittadino dello Stato colui che fa parte della comunità protettiva del Reich tedesco, con il quale ha dei legami che lo impegnano in maniera particolare.
Art. 1.2 L'appartenenza allo Stato viene acquisita in base alle norme della legge che regola l'appartenenza al Reich ed allo Stato.
Art. 2.1 Cittadino del Reich è soltanto l'appartenente allo Stato di sangue tedesco o affine il quale con il suo comportamento dia prova di essere disposto ed adatto a servire fedelmente il popolo ed il Reich tedesco.
Art. 2.2 Il diritto alla cittadinanza del Reich viene ottenuto attraverso la concessione del titolo di cittadino del Reich.
Art. 2.3 Il cittadino del Reich è il solo depositario dei pieni diritti politici a norma di legge.
Art. 2.4 Il Ministro degli interni del Reich in accordo con il sostituto del Führer provvederà all'emanazione delle norme giuridiche ed amministrative necessarie per l'attuazione e l'integrazione della legge.
Legge per la protezione del sangue e dell'onore tedesco
Pervaso dal riconoscimento che la purezza del sangue tedesco è la premessa per la conservazione del popolo tedesco ed animato dal proposito irriducibile di assicurare il futuro della nazione tedesca, il Reichstag ha approvato all'unanimità la seguente legge che qui viene promulgata.
Art. 1. Sono proibiti i matrimoni tra ebrei e cittadini dello Stato di sangue tedesco o affine. I matrimoni già celebrati sono nulli anche se celebrati all'estero per sfuggire a questa legge.
Art. 1.2 L'azione legale per l'annullamento può essere avanzata soltanto dal Procuratore di Stato.
Art. 2. Sono proibiti rapporti extramatrimoniali tra ebrei e cittadini dello Stato di sangue tedesco o affine.
Art. 3. Gli ebrei non potranno assumere al loro servizio come domestiche cittadine di sangue tedesco o affine sotto i 45 anni.
Art. 4.1 Agli ebrei è proibito innalzare la bandiera del Reich e quella nazionale ed esporre i colori del Reich.
Art. 4.2 È permesso loro invece esporre i colori ebraici. L'esercizio di questa facoltà è protetto dallo Stato.
Art. 5.1 Chi contravviene al divieto di cui all'art. 1, viene punito con il carcere duro.
Art. 5.2 Chi contravviene alle norme di cui all'art. 2, viene punito con l'arresto o con il carcere duro. [...]
Art. 5.3 Chi contravviene alle norme di cui agli arti. 3 o 4, viene punito con la prigione sino a un anno e con una multa o pene di questo genere.
Art. 6. Il Ministro degli interni del Reich in accordo con il sostituto del Führer ed il Ministro per la giustizia del Reich emana le norme giuridiche e amministrative necessarie per l'attuazione e l'integrazione della legge.
Art. 7. Questa legge entrerà in vigore il giorno della sua promulgazione; l'art. 3 invece a partire dal 1° gennaio 1936.

Leggi di Norimberga, in P. Zunino, Fascismo e nazionalsocialismo, SEI, Torino 1985, pp. 104-105.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

Lo Stato totalitario

Lo storico Emilio Gentile mette in luce l'anima "pedagogica" del regime: mediante una capillare organizzazione della vita pubblica e privata, il popolo viene spinto a una completa "fascistizzazione".

L'obiettivo del fascismo, come venne precisandosi nel corso del suo sviluppo, prima e dopo la conquista del potere, fu una rivoluzione politica che, lasciando intatti i pilastri fondamentali della società borghese, avrebbe trasformato l'architettura e le funzioni dello Stato unitario per edificare uno "Stato nuovo". Questo, dopo il 1922, divenne il mito dominante del fascismo: lo "Stato nuovo" era immaginato secondo le linee di un progetto inedito di dominio politico assoluto, da parte di una "aristocrazia del comando" capace di trasformare, attraverso l'azione del mito e dell'organizzazione, il carattere degli italiani e creare una "nuova civiltà politica", in cui sarebbe stato risolto il problema delle masse e dello Stato, con l'integrazione della società nello Stato per mezzo del partito unico totalitario. [...] Il processo di costruzione dello Stato fascista non si svolse con una lineare ed organica sistematicità, ma mostrò una coerenza sostanziale nella tendenza a rendere sempre più effettiva la politicizzazione, in senso fascista, di tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva. La politica di massa del fascismo ebbe una prevalente attitudine pedagogica, volta alla socializzazione fascista della mentalità, delle idee e dei comportamenti degli italiani, per creare una "comunità" cementata da una fede politica ed organizzata in una gerarchia di funzioni e di competenze. [...] Il fascismo concepiva la politica come attività di una "aristocrazia del comando" che plasma il materiale umano della massa sotto l'azione di miti politici e lo trasforma in una collettività organica unitaria. Il partito era l'organizzazione che operava la fusione e la trasformazione, che realizzava la risoluzione del privato nel pubblico secondo il principio totalitario fascista della politicità integrale dell'esistenza, che si realizza pienamente soltanto nello Stato e per lo Stato. Tutta la politica di massa del partito fascista, anche negli aspetti più ridicoli e grotteschi, perseguiva l'obiettivo di fascistizzare gli italiani, d'ogni sesso, età e condizione sociale, per formare una comunità politica integrata nello Stato. L'aspetto coreografico, liturgico e ludico del partito, che assorbiva gran parte della sua attività e delle sue energie, era, nella logica totalitaria del fascismo, una delle funzioni principali per la socializzazione fascista degli individui e delle masse, una funzione svolta con piena consapevolezza dei suoi obiettivi politici: «Le adunate di popolo, lo sport di massa, la folla vivente nello stadio, il canto corale, il teatro di massa, i campeggi e le colonie sono tutte espressioni di una vita collettiva, dirette a dare alla nazione un senso di esistenza unitaria» e «costituiscono una catena di forme di vita che propagandano il senso collettivo della vita e lo rendono substrato psicologico del nostro popolo». Il fascismo pretendeva di seguire i cittadini «in tutto il loro sviluppo, e prima ancora del loro li venire alla luce e formarsi, non abbandonandoli mai, dando a tutti una disciplina, una coscienza e una volontà non uniformi [...] ma unitarie e profondamente accentrate»; il culto dello Stato professato dal partito era fondamentale per la socializzazione fascista delle coscienze: «Sin dai più teneri anni l'idea dello Stato deve operare sulle giovani anime con la suggestione di un mito che, crescendo l'età, si attua in forme di disciplina o di operante milizia». In questo senso, il partito metteva in atto una politicizzazione della società civile, per realizzare non la formazione di coscienze autonome ma la integrale dedizione dell'individuo e delle masse allo Stato e alla potenza della nazione. Nessun aspetto, nessun settore della vita poteva essere concepito fuori dell'ambito della politica, cioè fuori dell'ambito dello Stato. Il processo di integrazione era condotto e coordinato dal partito.

E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo stato nel regime fascista, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1995.

Anche Philip Cannistraro ha dedicato uno studio all'organizzazione del consenso nello Stato fascista, mettendo in luce i caratteri da attribuirsi al cosiddetto «uomo nuovo» forgiato dal regime.

Il concetto dell'«uomo nuovo» fu la soluzione data dal fascismo al problema del posto dell'individuo nello Stato e nella società. Negli anni Venti gli ideologi fascisti avevano molto discusso sul tema dell'élite. Camillo Pellizzi aveva sostenuto che senza un gruppo — un'élite — di capi, di personalità libere di sfruttare il proprio genio per il bene della collettività, lo Stato stesso non poteva essere né creato né mantenuto. Del resto, l'élite fascista possedeva tutte le migliori qualità dell'«uomo nuovo», vale a dire dell'uomo che conosceva le proprie responsabilità verso lo Stato, obbediva agli ordini di Mussolini, e aveva una fede cieca ed assoluta nel fascismo. L'ideale era l'uomo d'azione che dedica la sua vita a fare della rivoluzione una realtà vivente. Ma il modello fascista dell'uomo dell'élite non era il superuomo dannunziano. Alcuni teorici, come Di Marzio e Pellizzi, videro l'uomo nuovo incarnarsi nel gerarca, vale a dire nel funzionario competente che serviva lo Stato e il partito fascista in pace come in guerra. All'epoca in cui, negli anni Trenta, l'ideologia rivoluzionaria era stata pienamente assorbita dallo Stato fascista, l'ideale era divenuto quello dell'individuo che esprime la sua volontà e i suoi talenti attraverso lo Stato. Fascisti di temperamento più militante, e specialmente i portavoce del partito, chiesero invece che l'«uomo nuovo», una volta liberatosi del suo provincialismo e del suo attaccamento alle usanze vecchio stile, e scrollatosi di dosso l'immagine stereotipata dell'italiano bonario, amante della pace e mangiatore di spaghetti, esprimesse il pensiero e l'azione della rivoluzione mussoliniana nella forma di uno squadrista ideale, modellata sulla figura del cittadino virtuoso della Roma imperiale. Tra gli scopi basilari del partito fascista era quello di fare di ogni italiano un «uomo nuovo» pronto a «credere, obbedire e combattere» nel nome di Mussolini. Riferendo nel 1934 sugli obiettivi dei programmi di addestramento premilitare del regime, il generale Francesco Grazioli aveva osservato che «Sotto l'impulso dello spirito fascista tutte queste virtù militari fondamentali di nostra gente si sono ancor più accentuate, senza degenerare mai in forme men che civili. Ed è in questo clima che noi stiamo appunto martellando con coraggio e con fermezza il tipo ideale dell'Italiano nuovo». Salute fisica, spirito marziale, laboriosità, disciplina e vigore intellettuale erano i connotati ideali del nuovo italiano, riassunti nello slogan «Libro e moschetto, fascista perfetto».

Ph. Cannistraro, La fabbrica del consenso, Laterza, Roma-Bari 1975, pp. 141-142.

Il culto del capo

Uno dei caratteri fondamentali dello Stato totalitario è il culto del capo, visto come una guida infallibile che porterà il proprio popolo verso il benessere e la gloria. Nei regimi totalitari degli anni Trenta e Quaranta fu propagandata a ogni livello e con ogni mezzo disponibile, sfiorando talvolta il grottesco.
Nel brano seguente, lo storico sovietico Roy Medvedev analizza la nascita del culto di Stalin in URSS, strettamente connessa al culto del Partito Comunista.

Gli inizi dei Trenta coincisero anche con la decisione di Stalin di identificare se stesso col socialismo e col partito. Il culto staliniano non fiorì nel corso di una sola notte. Già agli inizi dei Venti, al contrario, era possibile notare un certo crescere abnorme del culto di Stalin. [...] Per quanto il culto di una singola persona non fosse ancora apparso, si poteva egualmente assistere al nascere di un culto per concetti quali il partito, lo Stato sovietico, la rivoluzione, il proletariato. Agli iscritti veniva inculcata la convinzione che il partito nel suo insieme non poteva commettere sbagli, che il partito sapeva ogni cosa. Non dovevano esserci segreti per il partito, neppure quelli di natura più intima; gli si doveva rivelare tutto, come a Dio in confessione. Un comunista doveva essere pronto a compiere qualsiasi cosa al servizio del partito e dello Stato; la rivoluzione giustificava ogni crudeltà. Gradualmente questo culto del partito fu trasferito sui suoi leader, in primo luogo i membri del Politburò. Strade, industrie, fattorie collettive, perfino città, furono battezzate col loro nome (la fabbrica «Rykov», il centro di riparazioni d'auto «Bucharin», e così via). Nel 1924-25, con l'approvazione del Politburò, apparvero sulla mappa non soltanto città quali Leningrado o Stalingrado, ma anche Trock e Zinov'evsk. Per la fine degli anni Venti, quasi ogni oblast e Repubblica aveva il suo proprio culto di un leader locale. Le più stravaganti lodi a Stalin venivano mescolate, nei giornali locali, con lodi e attributi altrettanto stravaganti riservati a Kaganovič, Postyšev, Kirov, B. P. Šeboldaev, R. I. Eiche, M. O. Razumov, Akmal' Ikramov e gli altri. Le lodi a Stalin finirono col salire alle stelle, sin che emerse una gerarchia del culto con Stalin in cima. Nel dicembre 1929, allorché il cinquantesimo anniversario della nascita di Stalin fu celebrato con una pompa del tutto insolita per l'epoca, la stampa superò ogni limite nel parlare di lui come di un capo e maestro, ricorrendo a espressioni quali «grande», «unico» e perfino «genio». [...] Dopo il plenum del Comitato centrale del partito del gennaio 1933, l'idolatria per Stalin venne straordinariamente intensificata. Non c'era un solo grammo di sincerità nel fiume di omaggi a Stalin. Ma, al contrario, una gran dose di servilismo in crescendo e per di più incoraggiato dall'alto. Il fatto stesso del resto che i membri del Politburò (specialmente Molotov e Kaganovič) fossero i primi a portare Stalin alle stelle, finì col dare all'idolatria per Stalin un carattere da politica ufficiale del partito, che doveva come tale venir praticata anche da coloro che non avevano mai considerato Stalin, prima di allora, alla stregua di un infallibile genio.

R.A. Medvedev, Lo stalinismo, Mondadori, Milano 1972, pp. 185-187.

Ancora Medvedev spiega le motivazioni dell'iperbolica ammirazione per Stalin: si trattava del tentativo di coprire gli insuccessi del regime ed evitare contestazioni ancor prima che nascessero.

Un'analisi obiettiva avrebbe dovuto portare a concludere che la «leadership staliniana», nel costruire un'industria e un'agricoltura socialista, era quanto mai insoddisfacente. Per tale motivo Stalin e i suoi simpatizzanti dovettero metter da parte ogni senso di obiettività, sostituendolo con glorificazioni fuori limite di Stalin, sradicando ogni forma critica prima del suo apparire. Pertanto, la stravagante catena di omaggi a Stalin traeva origine non tanto dai suoi successi, quanto dal bisogno di coprire gli sbagli, gli errori e i crimini che Stalin aveva commesso, stava commettendo e si preparava a commettere. Per tale motivo Stalin fu messo in una posizione unica, libero dal controllo del Comitato centrale, inaccessibilmente alto sopra il partito, completamente isolato da ogni critica.

R.A. Medvedev, Lo stalinismo, Mondadori, Milano 1972, p. 189.

Il culto della personalità spinto al parossismo fu caratteristico anche del regime nazionalsocialista. Qui però si aggiungeva un'aura quasi mistica attorno alla figura del Führer, visto come l'uomo che il Destino aveva prescelto per creare un Reich millenario che sancisse il predominio assoluto dei tedeschi nel mondo. Fu così teorizzato il cosiddetto Führerprinzip, o "principio del Führer": in base a esso il capo aveva un potere totale e autolegittimato.
Il giurista nazista Ernst Rudolf Huber diede nel 1939 questa interpretazione di tali principi:

L'ufficio del Führer si è formato a partire dal movimento nazionalsocialista. Nelle sue origini esso non è un ufficio statale. [...] L'ufficio del Führer è partito dal movimento per entrare nel Reich, in primo luogo grazie al fatto che il Führer ha assunto l'autorità di cancelliere del Reich e poi grazie al fatto che egli è divenuto capo dello Stato. Importanza primaria deve essere attribuita al "Führer del movimento", il quale ha assorbito le due più elevate funzioni della leadership politica del Reich e perciò ha dato vita al nuovo ufficio del "Fiihrer della nazione e del Reich". [...] La posizione del Fúhrer racchiude in sé tutto il potere sovrano del Reich; qualsiasi potere pubblico nello Stato come nel movimento è derivato dal potere del Führer. Se vogliamo definire correttamente il potere politico all'interno del Reich völkisch [nazionale], non dovremo parlare di "potere dello Stato", ma di "potere del Führer". Poiché non è lo Stato come entità impersonale ad essere fonte del potere politico, ma questo deriva piuttosto dal Führer in quanto esecutore della volontà comune del popolo. Il potere del Führer è ampio e totale; racchiude in sé tutti i camerati nazionali, i quali sono legati al Führer in lealtà ed obbedienza; esso abbraccia tutte le sfere della vita nazionale. Il potere del Führer non è in alcun modo limitato da salvaguardie o da controlli, da sfere autonome protette o da diritti individuali acquisiti. Esso è invece libero e indipendente, esclusivo ed illimitato.

E.R. Huber, in Nazism 1919-1945. A Documentary Reader, a cura di J. Noakes e G. Pridham, Exeter University, Exeter 1983-1988.

L'organizzazione e la "liturgia" dello Stato totalitario

Non si può capire il modello di Stato totalitario creato dal nazismo senza il rituale di massa da esso messo in atto: la vita individuale venne inglobata interamente nell'organizzazione collettiva, attraverso una serie di associazioni scolastiche, professionali, ma soprattutto giovanili. Il tempo fu scandito da manifestazioni e feste dove la scenografia pubblica fatta di ampi spazi, di uso sapiente della luce, di musica aveva un'importanza fondamentale per rafforzare il sentimento di appartenenza al gruppo e creare un'identità collettiva.
Lo storico George L. Mosse ha studiato profondamente questo aspetto del nazismo:

La liturgia nazista si basava sull'organizzazione totale della vita: ogni tedesco era obbligato ad appartenere a uno degli innumerevoli gruppi controllati dal partito, i quali costituivano l'ossatura necessaria per dirigere ogni attività, non esclusa la vita sociale. Naturalmente le Weihestunden (le ore della venerazione) rientravano nei programmi di questi gruppi, specie di quelli che si occupavano della gioventù. Ma erano altri tipi di attività quelli che dominavano. Quando Hitler parlava della realizzazione della sua visione del mondo, intendeva riferirsi non solo al cerimoniale o alle riunioni, ma anche all'organizzazione dell'«uomo totale», sotto la guida del partito. Questo completamento fu possibile solo quando i nazisti andarono al potere, ma già negli anni della lotta per il potere era stata realizzata nei confronti degli iscritti al partito. Fu un'azione di sostegno che si dimostrò essenziale nel momento in cui i nazisti da rivoluzionari divennero essi stessi ordine costituito, e si trovarono a dovere affrontare problemi simili a quelli del Secondo Reich, forse anche più pressanti per un movimento che dipendeva unicamente dalla sua dinamicità.

G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania, Il Mulino, Bologna 1975.

Alla liturgia cristiana il nazismo affiancò una liturgia mitica, il cui scopo era foggiare l'«uomo nuovo»:

Organizzazione e liturgia divennero parte di quel ritmo stagionale, che scandiva l'intero anno. Hitler promulgò una legge sulle feste che fissava le date della loro celebrazione; si mirava a sostituire il calendario nazista all'anno cristiano, anche se si continuò a osservare il ritmo delle festività cristiane. Tuttavia la festa commemorativa degli eroi caduti, il solstizio d'estate, il giorno del lavoro e altri anniversari continuarono a essere mescolati, in alcuni calendari nazisti, con le tradizionali festività cristiane della Pentecoste e dell'assunzione della Vergine. In complesso però l'anno nazista ebbe un ritmo proprio, al quale tutti dovevano partecipare, assistendo alle ore di venerazione o esponendo le bandiere alle finestre. Il cronista della città di Herne, durante il regime nazionalsocialista, ci ha bene illustrato questo calendario: si trattava di un ciclo di festività che doveva essere sempre ripetuto. Gli esperti razzisti del partito parlavano con riverenza di un rinnovamento del mito: le feste tradizionali dovevano essere tenute in secondo piano e così il Natale fu trasformato nella festa del solstizio d'inverno e la gioventù hitleriana non cantò più gli inni natalizi, ma Notte fonda dal cielo chiaro. Fu fatto anche un tentativo, specie nelle scuole e nelle organizzazioni di partito, di inserire le cerimonie nella routine di tutti i giorni, per esempio l'alzabandiera e atti di devozione la mattina e la sera. In una scuola superiore di Düsseldorf, nell'anno 1935-36, i corsi furono interrotti diciannove volte per le feste e le cerimonie naziste. In questo modo si riuscì a inserire le feste, in quanto riti cultuali, nella vita delle organizzazioni e in quella di tutti i giorni. Nel pensiero di Hitler non vi era alcuna chiara distinzione tra le necessità pratiche dell'organizzazione e i riti del culto; il culto nazionale si era fatto strada nella sua mente come una necessità politica utile per ridare unità al mondo.

G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania, Il Mulino, Bologna 1975.

Le cerimonie naziste prendevano lo spunto dalle cerimonie cristiane per operare una sostituzione di simboli e di significati. Ecco come Mosse descrive il rituale del «battesimo»:

Il corrispettivo nazista del battesimo, la «consacrazione del nome», avveniva in una stanza speciale, al cui centro era posto un altare sul quale all'immagine di Cristo era sostituito il ritratto di Hitler e dietro il quale stavano tre uomini delle SS, per simboleggiare con la loro presenza reale il nuovo tipo di uomo che il regime voleva creare. L'altare aveva ai lati dei recipienti nei quali ardeva il fuoco e «alberi della vita». Questa cerimonia riassumeva gran parte di quel simbolismo di cui abbiamo tracciato l'evoluzione: il tipo ideale della bellezza così come era realizzato nella forma umana, la sacra fiamma e il simbolo dell'albero. Il ritratto di Hitler faceva parte integrante di questo simbolismo, proprio come durante tutto il Terzo Reich avvenne per la sua persona. A completamento dell'analogia tra religione cristiana e religione laica mancava solo un reliquiario. Un culto come questo dimostra quanta strada il partito aveva percorso dai primi anni quando, in alcune riunioni, una semplice banda che suonava marce era bastata per suscitare nella folla lo stato d'animo adatto.

G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania, Il Mulino, Bologna 1975.

Il controllo della cultura

Per creare l'«uomo nuovo» bisognava distruggere il «vecchio» e per «vecchio» il nazismo intendeva tutte le opere della cultura che non si prestavano a un uso propagandistico. Una delle espressioni più plateali di questo spirito di distruzione fu il rogo dei libri, condotto sotto la personale guida del ministro della Propaganda Goebbels, messo in atto da studenti conquistati alle idee naziste. Ai roghi si accompagnò un'opera di «nazistificazione» della cultura, attraverso un controllo capillare di tutte le attività artistiche e culturali, con la creazione di speciali istituzioni e con l'eliminazione dalle biblioteche e dal commercio di tutte le opere di autori considerati «pericolosi».
William Lawrence Shirer scrive:

La sera del 10 maggio 1933, circa quattro mesi dopo la nomina di Hitler a cancelliere, ebbe luogo a Berlino una scena a cui non si era assistito, nel mondo occidentale, dai tempi del tardo Medioevo. Verso la mezzanotte, una fiaccolata di migliaia di studenti fece capo a una piazza dell'Unter den Linden di fronte all'Università di Berlino. Le torce accese furono gettate su una montagna di libri raccolti in quel luogo, e mentre le fiamme li avvolgevano altri libri venivano lanciati sul fuoco, finché ne furono distrutti circa ventimila. Scene simili ebbero luogo anche in parecchie altre città. Era cominciato il rogo dei libri. Molti dei volumi scagliati nelle fiamme quella notte a Berlino dagli allegri studenti sotto l'occhio compiacente del dottor Goebbels, erano stati scritti da autori di fama mondiale. Vi si potevano trovare, tra gli scrittori tedeschi, Thomas e Heinrich Mann, Lion Feuchtwanger, Jakob Wassermann, Arnold e Stefan Zweig, Erich Maria Remarque, Walther Rathenau, Albert Einstein, Alfred Kerr e Hugo Preuss, lo studioso che aveva redatto la Costituzione di Weimar. Ma non si bruciarono soltanto le opere di dozzine di autori tedeschi; vi si unirono anche molti autori stranieri: Jack London, Upton Sinclair, Helen Keller, Margaret Sanger, H.G. Wells, Havelock Ellis, Arthur Schnitzler, Freud, Gide, Zola, Proust. Secondo il tenore di un proclama studentesco, fu condannato alle fiamme ogni libro «che abbia un effetto sovversivo sul nostro futuro e che possa minare il pensiero tedesco, la patria tedesca e le forze che guidano il nostro popolo». Il dottor Goebbels, nuovo ministro della Propaganda, che d'ora in poi avrebbe costretto la cultura tedesca nella camicia di forza del nazismo, parlò agli studenti mentre i libri in fiamme divenivano cenere: «L'anima del popolo tedesco potrà manifestarsi nuovamente. Queste fiamme non solo illuminano la fine della vecchia era, ma gettano la loro luce su quella nuova». La nuova era nazista della cultura tedesca fu illuminata non solo dai falò di libri e dalle misure — più efficaci anche se meno simboliche — adottate per proibire la vendita e la circolazione nelle biblioteche di centinaia di volumi, e per promuovere la pubblicazione di gran numero di nuovi prodotti nazisti, ma anche dall'irreggimentazione della cultura stessa in misura mai sperimentata da alcuna nazione occidentale moderna.

W.L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino 1962, p. 126.

Il totalitarismo nazista non poteva ignorare la scuola: il controllo totale dell'individuo, la sua irreggimentazione attraverso l'ideologia nazionalsocialista in ogni forma della vita privata e pubblica, doveva incominciare dalla vita scolastica. Fu nominato ministro per la Scienza, l'Arte e l'Istruzione un maestro elementare che era stato membro delle SA (Squadre d'Assalto) e che credeva nel nazismo come in una verità assoluta. A questo individuo fu quindi affidato il compito di creare una scuola nuova il cui progetto pedagogico prevedeva soprattutto un addestramento politico e militare, seguito poi da lavoro obbligatorio, tranne che per una ristretta minoranza che avrebbe frequentato gli istituti tecnici e l'università. Shirer scrive così su questo tema:

Le scuole tedesche, dalle elementari fino all'università, furono rapidamente nazificate. I libri di testo furono riscritti in tutta fretta, i programmi di studio furono cambiati, il Mein Kampf divenne, secondo le parole di «Der deutsche Erzieher», organo ufficiale degli educatori, «l'infallibile stella che dà l'orientamento alla pedagogia», e gli insegnanti che non riuscirono a vedere la nuova luce furono gettati fuori. Gran parte degli insegnanti erano stati più o meno di sentimenti nazisti, se non addirittura iscritti al partito. Al fine di rafforzare la loro ideologia, essi furono inviati in scuole speciali per un'istruzione intensiva sui principi del nazionalsocialismo, con particolare attenzione alle dottrine razziali di Hitler. Tutte le persone che esercitavano la professione di insegnante, dalla scuola materna fino all'università, furono obbligate ad iscriversi alla Lega nazionalsocialista degli insegnanti, che, per legge, era tenuta «responsabile del coordinamento ideologico e politico di tutti gli insegnanti, secondo le direttive nazionalsocialiste». Il decreto sulla pubblica amministrazione, del 1937, richiedeva agli insegnanti di essere «gli esecutori della volontà dello Stato appoggiato dal partito» e di essere pronti «in qualsiasi momento a difendere senza riserve lo Stato nazionalsocialista». Un decreto precedente li aveva classificati impiegati statali. Gli ebrei, naturalmente, non potevano insegnare. Tutti gli insegnanti dovevano prestare giuramento di «fedeltà e ubbidienza ad Adolf Hitler».

W.L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino 1962, pp. 141-142.

Anche in Italia il controllo sulla cultura fu rigido. Oltre al giuramento di fedeltà preteso dal regime da parte degli insegnanti, per accattivarsi gli intellettuali più celebri e presentarli come sostenitori del fascismo fu fondata nel 1929 l'Accademia d'Italia, un organismo che nelle intenzioni di Mussolini avrebbe dovuto riunire le menti più prestigiose della patria. Ecco come Cannistraro tratteggia la politica culturale del fascismo:

Il controllo fascista sull'alta cultura compì il suo passo conclusivo poco tempo dopo la presentazione ufficiale del primo volume dell'Enciclopedia italiana. Nel febbraio 1929 tutti gli insegnanti delle scuole elementari e medie furono obbligati a prestare un giuramento di fedeltà al regime analogo a quello richiesto ai membri dell'Accademia d'Italia. Gli insegnanti — che già erano stati costretti ad iscriversi ai sindacati governativi — erano così forzati ad esprimere una adesione esplicita alla politica del regime, e si attendeva da loro che d'ora in avanti infondessero gli ideali fascisti nelle loro scolaresche. Nell'ottobre 1931, due anni dopo, Mussolini si volse quindi ai professori universitari, esigendo da essi il medesimo giuramento. Come già era avvenuto nel caso delle altre categorie intellettuali, i maestri elementari e i professori delle scuole medie e delle università accettarono, nella stragrande maggioranza, di giurare per conservare il posto; ma i più lo fecero con scarsa convinzione. [...] Alla fine del decennio i fascisti avevano ormai definito il loro approccio di base, sia teorico che organizzativo, al problema dell'alta cultura. Il complesso quadro istituzionale creato da Mussolini abbracciava l'intera gamma degli intellettuali e degli artisti creativi, i quali erano posti dalle leggi fasciste dinanzi alla difficile e demoralizzante scelta tra l'adesione pubblica al regime e l'indigenza economica. Molti furono gli uomini di cultura di fama internazionale che, per convinzione od opportunismo, appoggiarono apertamente ed entusiasticamente il fascismo. Quanti non potevano esser allettati dalle offerte di onori e prestigio, né costretti dalle minacce, abbandonarono il paese, oppure dovettero subire i rigori della giustizia fascista.

Ph. Cannistraro, La fabbrica del consenso, Laterza, Roma-Bari 1975, pp. 52-53.

I rapporti con la religione

Lo Stato totalitario considera la religione pericolosa, perché fa credere all'uomo che vi siano altri valori oltre a quelli proclamati dal regime e spesso invita a una condotta che non è quella propagandata dalla dittatura. Fascismo, nazismo e stalinismo partivano tutti da basi anticlericali e atee, ma svilupparono un differente approccio al problema, perché differenti erano le premesse sociali dei vari Paesi.
L'Italia di Mussolini cercò un accordo con la Chiesa cattolica, per averne l'appoggio ed evitare che i cattolici si opponessero al regime.
La Germania hitleriana stipulò sì un concordato, ma non lo rispettò e anzi perseguì in maniera più o meno legale i rappresentanti di quelle confessioni, non solo cattoliche, che non si piegavano al regime stesso.
In Unione Sovietica l'ateismo di Stato impedì qualsiasi dialogo con la Chiesa ortodossa e sfociò in persecuzioni violente.

L'11 febbraio 1929 Mussolini firmò con la Santa Sede i Patti Lateranensi, con i quali si poneva finalmente la parola fine alla lunga "Questione romana" apertasi nel 1870.
Con i Patti veniva creato lo Stato della Città del Vaticano, entità indipendente e sovrana governata dal papa. La Chiesa inoltre otteneva l'equiparazione del matrimonio religioso con quello civile e l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali.

Giudicati a più di mezzo secolo di distanza i patti lateranensi appaiono più vantaggiosi per il Vaticano che per lo Stato italiano. Questo infatti, in cambio della soluzione della questione romana divenuta ormai prevalentemente formale, non solo sborsò un compenso finanziario notevole, ma soprattutto rinunciò col Concordato ad alcuni poteri nel settore delicato della legislazione matrimoniale, si impegnò a riconoscere un certo intervento della Chiesa e del clero nel campo scolastico, riconobbe alla Chiesa e al clero alcuni privilegi, rinunciò ad alcuni controlli e ad alcuni divieti, che peraltro erano ormai, almeno in parte, anacronistici. Comunque la Chiesa accrebbe la sua influenza sulla società civile e ottenne il riconoscimento formale dell'Azione cattolica, particolarmente importante in un paese in cui non esisteva più la libertà d'associazione. [...] Ma il giudizio storico sui patti lateranensi deve anche tener conto degli scopi e dei risultati che, Mussolini da un lato, Pio XI e Gasparri dall'altro, si proposero e conseguirono nel breve periodo, cioè negli anni dal 1929 alla caduta del fascismo. A questo proposito si deve premettere che le esigenze ideali relative alla laicità dello Stato e alla libertà di coscienza erano scarsamente sentite tra i dirigenti fascisti, sebbene in alcuni di essi sussistesse un certo anticlericalismo superficiale; prevaleva invece la visione nazionalistica, che tendeva ad attribuire al cattolicesimo una funzione strumentale sia nella politica interna che nella politica estera. Questo modo di pensare era prevalente in Mussolini, preoccupato soprattutto di conservare e rafforzare il suo potere personale, di ottenere il consenso anche dei settori più arretrati e politicamente indifferenti della popolazione e di accrescere il suo prestigio all'estero. Ma si deve pure ricordare che anche i gruppi dominanti della borghesia italiana, che con sempre maggiore decisione soprattutto dal '25 in poi avevano sostenuto il fascismo, erano ormai poco sensibili, salvo piccole minoranze, alle esigenze dello spirito laico e liberale ed erano portati quindi a giudicare positivamente l'accordo col papato come un mezzo per rafforzare il regime fascista. I patti lateranensi furono pertanto visti dai contemporanei, anche da molti antifascisti, come un'alleanza tra Chiesa e fascismo e in parte lo furono effettivamente, anche se, come in tutte le alleanze, non mancarono tra le due parti momenti di tensione più o meno acuti. [...] Ma il Vaticano riuscì a ridurre al minimo i danni della sua compromissione col fascismo anzitutto perché, nonostante momenti di confusione, seppe sempre ribadire sul piano ideologico i caratteri specifici del cattolicesimo e la sua diversità e avversione alle forme estreme del totalitarismo fascista e nazista; inoltre perché fu sostenuto dal movimento cattolico italiano, sopravvissuto nell'Azione cattolica nell'ambito della quale si venne formando il gruppo dirigente della futura democrazia cristiana; infine perché trovò l'appoggio delle forze conservatrici italiane e straniere, quando queste cominciarono a sganciarsi dal fascismo o comunque abbandonarono ogni atteggiamento di simpatia verso di esso. D'altra parte i contrasti, che pure vi furono tra fascismo e Vaticano anche dopo i patti lateranensi, contribuirono a rendere l'accordo tra le due forze meno solido di quanto poteva apparire all'indomani dell'1 1 febbraio 1929.

G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, vol. IX, Il fascismo e le sue guerre, Feltrinelli, Milano 1990.

Malgrado il Concordato, però, gli attriti tra la Chiesa cattolica e il regime fascista non tardarono a manifestarsi, come spiega Giacomo Martina:

I dissensi tra Chiesa e fascismo, apparsi in modo vivacissimo all'indomani stesso della firma dei Patti Lateranensi, erano stati sopiti, non cancellati, e riemersero di lì a poco. Le divergenze nascevano dalle pretese monopolistiche del regime in fatto di educazione — cui si opponevano le rivendicazioni della Chiesa, ribadite da Pio XI della Divinis illius magistri (1929), uscita sei mesi dopo la ratifica dei Patti Lateranensi — dalle crescenti ingerenze del regime in tutta la vita italiana, con la creazione di un artificioso clima di esaltazione della violenza e della guerra, e, dopo il 1936, dalla servile imitazione del nazismo con il suo razzismo. Si trattava in sostanza non solo di difendere gli accordi del '29 con i privilegi concessi alla Chiesa e l'appoggio, talora anacronistico, del braccio secolare, non solo la libertà dell'azione cattolica, ma anche i diritti fondamentali della persona umana e di combattere ancora una volta, come nel Sillabo di Pio IX, la concezione dello Stato etico. La Chiesa, battendosi per la sua libertà, difendeva di fatto nello stesso tempo i diritti naturali dell'uomo, la libertà dell'individuo e della famiglia davanti allo Stato, e questa duplice prospettiva è quasi sempre giustapposta nei documenti pontifici. Non è un caso in ogni modo che il dissenso divenisse sempre più grave ed insanabile man mano che il fascismo manifestava più chiaramente le sue pretese totalitarie. [...] Le relazioni fra la Chiesa e lo Stato fascista, raramente del tutto cordiali, e improntate molto spesso al vertice e alla base ad una reciproca riserva (cui si giustapponeva per altro in vari ambienti, specie durante la guerra italo-etiopica, un sincero entusiasmo) ebbero due momenti di forte tensione: nel 1931, per le minacce contro l'azione cattolica, nel 1938-39, per le prime applicazioni delle leggi razziali che, a prescindere da altri aspetti, violavano uno dei punti del concordato. [...] Le due parti stettero un istante a guardarsi, incerte sull'atteggiamento da seguire: lotta a fondo, sino ad un'eventuale denunzia del concordato, o trattative per un compromesso? Prevalse la prudenza, si evitò la condanna formale cui la maggioranza dei cardinali si era mostrata contraria, ma la cui eventualità venne minacciata esplicitamente a Mussolini, e, dopo una serie di colloqui fra il capo del governo e il fiduciario del papa, il gesuita p. Tacchi Venturi, si giunse nel settembre ad un accordo, che salvava l'esistenza dei circoli di azione cattolica, sia pure limitandone l'attività al campo puramente religioso e rinunziando ad una direzione centralizzata a carattere nazionale. L'essenziale era assicurato.

G. Martina, Storia della Chiesa nell'età del totalitarismo, Morcelliana, Brescia 1984, pp. 113-114.

L'azione di Hitler nei confronti delle Chiese presenti in Germania fu improntata a una duplice linea: da una parte si cercò di giungere a un accordo mediante la firma di concordati, dall'altra non si risparmiarono ostacoli e arresti alle Chiese.
Nel luglio del 1933 Hitler, seguendo l'esempio di Mussolini, stipulò un concordato analogo a quello italiano con la Chiesa cattolica tedesca. La questione del concordato tedesco è però più complessa rispetto al caso italiano: infatti il governo del Reich fece pressioni sull'episcopato, minacciando lo sconvolgimento e la confisca delle organizzazioni cattoliche tedesche. La rottura dell'accordo giunse a soli due mesi dalla stipulazione di esso, dopo che alcuni vescovi tedeschi avevano denunciato la malafede del governo.

La situazione non migliorò affatto: i mesi seguenti, dal settembre 1933 alla fine del 1934, videro il susseguirsi di note vaticane e dell'episcopato tedesco contro i gravi attentati alla libertà delle associazioni per le pretese monopolistiche del nazismo sull'educazione giovanile, la paralisi della stampa cattolica, la rimozione di professori come l'Altaner, le ingerenze nei seminari, la diffusione nelle scuole e nei campi nazisti di tesi fortemente anticristiane, ispirate dal Mito del XX secolo, di Rosenberg, gli arresti di sacerdoti in numero superiore a quello del tempo del Kulturkampf Avevano avuto ragione quanti avevano dichiarato illusoria la speranza di arginare con uno strumento giuridico l'invadenza del totalitarismo, o si mostrava più oggettivo il card. Faulhaber, che nel 1937, alla vigilia della Mit brennender Sorge, dichiarava che il concordato aveva costituito la premessa della resistenza, e che senza di esso il regime avrebbe già soppresso l'insieme delle opere educative, caritative, assistenziali della Chiesa tedesca? Gli attriti con il nazismo nascevano necessariamente dalle stesse cause fondamentali che avevano provocato il conflitto con il fascismo: il carattere totalitario del regime, le sue pretese monopolistiche sull'educazione, la dottrina razzista, la concezione generale della vita in netta antitesi con il cattolicesimo. Tuttavia la rigida coerenza con cui in Germania, a differenza di quanto avveniva in Italia, si portavano alle ultime conseguenze pratiche i princìpi teorici, dette alla lotta ben altra gravità. Il contrasto si svolse su linee ben definite dalle due parti: polemica ideologica della gerarchia tedesca (singolarmente e collettivamente nelle annue conferenze episcopali a Fulda) e del Vaticano (discorsi ed encicliche pontificie, condanne del S. Ufficio, direttive dottrinali delle congregazioni romane) da una parte, del partito (discorsi dei dirigenti nazisti, specie di Rosenberg) dall'altra; costante azione governativa volta a restringere al culto l'attività religiosa e ad impregnare del nuovo spirito tutta la vita tedesca: graduale chiusura delle scuole confessionali, oltre 15.000, limitazione e controllo dell'insegnamento religioso secondo i princìpi nazionalistici, scioglimento delle associazioni religiose, iscrizione alla Hitler jugend (obbligatoria dal 1936), severa vigilanza sulle prediche, asservimento della stampa cattolica, restrizioni sulle manifestazioni cattoliche, viva propaganda dell'ideologia di Rosenberg, processi scandalistici contro il clero artificiosamente montati.

G. Martina, Storia della Chiesa nell'età del totalitarismo, Morcelliana, Brescia 1984, pp. 118-119.

Completamente diversa fu la strategia di Stalin. Egli intraprese nei confronti delle religioni presenti nell'Unione Sovietica una vera e propria persecuzione, che si abbatté non solo sui sacerdoti e sui religiosi, ma anche sugli edifici di culto e sul patrimonio artistico russo.

I rappresentanti delle varie fedi religiose vennero anch'essi sottoposti a una dura repressione. Sul finire degli anni Venti e agli inizi dei Trenta, lo Stato sovietico aveva attaccato le Chiese, e in special modo quella ortodossa russa, che aveva assunto una posizione antisovietica. Tuttavia, la OGPU e la NKVD andarono più in là di quanto gli interessi dello Stato richiedessero. Centinaia di chiese e di templi vennero semplicemente abbattuti, dozzine di monasteri furono sciolti e la OGPU prelevò perfino i monaci per gettarli nei lager. In molte città preziosi monumenti di architettura religiosa furono distrutti — la chiesa di Cristo Salvatore e il monastero Spaskij a Mosca, a esempio. Nel 1937-38 la repressione venne condotta avanti senza alcuna necessità. Molti semplici preti, e vescovi, furono arrestati. Il Catholicos di Armenia (la più alta autorità religiosa della Chiesa cristiana armena), Khoren I Muradbekian, una figura molto popolare, venne ucciso nel 1937 nella sua residenza.

R. A. Medvedev, Lo stalinismo, Mondadori, Milano 1972, p. 293.

Le "purghe" staliniane

La repressione del dissenso è una delle principali caratteristiche dello Stato totalitario.
Sia il fascismo sia il nazismo operarono tale repressione inviando al confino o eliminando fisicamente parecchi oppositori; il caso più eclatante resta però quello dell'Unione Sovietica di Stalin.
Così descrive la situazione il generale Dimitrj Volkogonov, direttore dell'Istituto storico dell'Armata Rossa a Mosca:

Ci furono tre ondate principali di terrore, '29-'33, '37-'38, e alla fine degli anni '40 [...]. Nel '29-'33 dieci milioni di contadini furono vittime delle repressioni e un terzo è stato ucciso, nel '37-'38 le vittime sono state almeno cinque milioni, per lo più intellettuali, impiegati, funzionari del partito, e un terzo è stato ucciso. Queste cifre non includono i deportati, i condannati all'esilio [...] Il totale delle vittime delle repressioni supera i venti milioni, un terzo è stato ucciso e molti sono stati spediti nei campi di concentramento, ma questa cifra non comprende il trasferimento forzato di intere popolazioni. Dire perciò quante siano state le vittime di Stalin è difficile: certo, è uno dei fenomeni più terribili della nostra storia.

D. Volkogonov, Trionfo e tragedia. Il primo ritratto russo di Stalin, Mondadori, Milano 1991.

Le cause di questa repressione di inaudita violenza sono approfondite da Medvedev: egli mette in luce come la maggior parte delle accuse mosse ai malcapitati fossero pretestuose e inconsistenti.

La storia conferma che il nascere di una dittatura personale è di solito accompagnata da una repressione di massa; non soltanto può venir colpita la gente più vicina al nuovo dittatore, ma anche coloro che gli sono più lontani. Ciò accade di solito perché il nuovo regime bolla con l'etichetta di delitto politico ogni modo diverso di pensare. Viene applicata un'enorme quantità di nuovi divieti e tabù, e la gente è addestrata a rispettarli non solo da un intenso martellamento ideologico, ma anche con l'intervento del boia. Secondo la legge sovietica, il pensare, il credere, ogni intenzione che non si traduca in un'azione concreta non possono venir considerati alla stregua di un crimine. Marx giudicava un tale atteggiamento come la base di ogni Stato democratico. Stalin e la NKVD cambiarono bruscamente rotta. Non soltanto le azioni o le intenzioni, ma le stesse opinioni personali divennero motivo di accusa. Agli inizi, questa dottrina antidemocratica servì da giustificazione a posteriori alle punizioni già comminate; ma in seguito diventò la base legale della repressione di massa. Durante l'era staliniana, l'etichetta di «criminale politico e di Stato» venne applicata non soltanto alle persone che si erano opposte al regime sovietico o al socialismo, che avevano tentato qualcosa di concreto contro la dittatura del proletariato, ma anche a molta gente che aveva soltanto opinioni diverse, che non condivideva l'ideologia prevalente, ma che al tempo stesso era completamente fedele al regime sovietico. L'esistenza di gente con opinioni politiche diverse non costituisce un attentato al principio della dittatura del proletariato. Al contrario, la storia del pensiero umano mostra che il perseguire la gente per ciò in cui crede non giova mai allo scopo; di solito si traduce in una sconfitta. Ma questo è solo un aspetto della situazione. Col crescere della centralizzazione e della burocratizzazione, non soltanto il manifestare idee non socialiste, ma anche il disapprovare questa o quella particolare misura dello Stato sovietico, o il mostrare disaccordo con taluni aspetti della linea del partito, poteva benissimo mettere una persona nella condizione di venir perseguita come «nemico del popolo». E visto che parecchie delle scelte operate negli anni del culto staliniano erano sbagliate, e come tali criticabili, il numero delle persone che in tal modo divennero «nemici» salì in maniera considerevole. Oltre a ciò, dopo il 1934-35 l'etichetta di «criminale politico e di Stato» venne applicata a ogni persona che, pur essendo magari egualmente devota all'idea socialista, attaccò personalmente Stalin, disapprovò le sue azioni, o parlò o agì in modo tale che il suo atteggiamento potesse anche indirettamente sembrare volto a sminuire Stalin. Negli anni seguenti, questa difesa del prestigio del capo assunse forme sempre più anomale. Bastava raccontare un aneddoto su Stalin, danneggiare anche accidentalmente un suo ritratto, o esprimere dubbi su una qualsiasi sua presa di posizione teorica, per diventare «nemico del popolo». In Germania l'Accademia di legge stabilì che l'amore per il Führer avesse valore legale, e che il non stimarlo fosse simile a un crimine. In URSS, l'amore per Stalin divenne obbligatorio per tutto il popolo sovietico, e il non amarlo, o anche la più piccola critica alla sua attività, fu parificato a un delitto. Col passare del tempo, anzi, tali «crimini» vennero giudicati perfino peggiori che l'opporsi al socialismo o al regime sovietico. Nei primi anni di regime sovietico, taluni leader lanciarono la falsa teoria che gli aspetti «soggettivi» e «oggettivi» del comportamento umano fossero la stessa cosa. Ma il trionfo vero di questa teoria può venir fatto risalire al tempo del culto. Si dichiarò che non era importante che una persona fosse oggettivamente devota al regime sovietico. Se, nell'opinione dei capi, una persona aveva messo in forse il principio della dittatura del proletariato e aveva recato aiuto al nemico con sbagli teorici o pratici, ecco che doveva venir considerata nemico del popolo, quali che fossero i motivi che l'avevano guidata. I «moderati» a esempio, che personalmente non avevano commesso sbagli ma avevano chiesto clemenza per coloro che erano stati criticati o epurati, vennero anch'essi duramente perseguitati.

R. A. Medvedev, Lo stalinismo, Mondadori, Milano 1972, pp. 417-419.

Fédor Fédorovic Raskol'nikov, eroe della Rivoluzione d'ottobre nonché alto ufficiale della marina sovietica e in seguito ambasciatore in Bulgaria, nel 1939 chiese l'asilo politico in Francia, perché dichiarato «nemico del popolo». Così si rivolge al dittatore sovietico:

Stalin, voi avete aperto una nuova era, che verrà ricordata nella storia della nostra rivoluzione come «l'epoca del terrore». Nessuno è sicuro della propria vita in Unione Sovietica. Nessuno può mettersi a letto sapendo se sfuggirà all'arresto nel corso della notte [...]. Avete cominciato con una vendetta sanguinosa contro la vecchia opposizione trockista, zinovievita e buchariniana, continuando poi col distruggere i vecchi militanti bolscevichi, e infine dando il via alla repressione contro i quadri del partito e dello Stato cresciuti durante la guerra civile e il primo Piano quinquennale; avete perfino massacrato il Komsomol. Vi mascherate con lo slogan della lotta contro le «spie» buchariniane-trockiste. Ma voi non siete salito al potere soltanto ieri. Nessuno avrebbe potuto venir nominato a una carica di qualche importanza senza il vostro permesso. Chi ha piazzato i cosiddetti «nemici del popolo» nei posti di maggiore responsabilità nel governo, nell'esercito, nel partito, nella diplomazia?... Iosif Stalin! Chi ha messo i cosiddetti «sabotatori» in ogni cellula dell'apparat di Stato e partito?... Iosif Stalin! Con l'aiuto di sporche menzogne avete dato il via a dei processi dove l'assurdità delle accuse supera quei processi medievali alle streghe, che voi ben conoscete dai libri del seminario (Stalin aveva studiato in seminario a Tiflis, in Georgia) [...]. Voi avete diffamato e fucilato gente che per lungo tempo aveva collaborato con Lenin, pur sapendo benissimo che erano innocenti. Li avete costretti dapprima a confessare crimini che non avevano mai commessi, a imbrattarsi di sudiciume dalla testa ai piedi. [...] Avete costretto quelli che ancora vi seguono a marciare con pena e disgusto sui laghi di sangue dei loro compagni e amici. Dalla falsa storia del partito scritta sotto vostra dettatura avete omesso quelli che avete diffamato e ucciso, appropriandovi delle loro azioni e attribuendole a voi stesso. Alla vigilia della guerra, avete distrutto l'Armata Rossa [...]. Nel momento del peggior pericolo militare continuate a massacrare i capi dell'esercito, gli ufficiali di grado medio, quelli inferiori. [...] Dietro pressione del popolo sovietico, avete ipocritamente ripristinato il culto degli eroi della storia russa: Aleksandr Nevskij, Dmitrij Donskoj, Michail Kutuzov, nella speranza che questi possano aiutarvi nella guerra imminente più dei marescialli e generali che avete fatto fucilare.

F. F. Raskol'Nikov, Lettera aperta a Stalin, "Novaja Rossija", Parigi, 1° ottobre 1939.

L'antisemitismo

L'antisemitismo non fu certo un'invenzione di Hitler: era infatti presente da secoli in tutta Europa, soprattutto in quella centrale. Il nazismo però ingigantì e cavalcò quest'onda per i suoi fini di dominio e di controllo della popolazione.
Ecco come Hitler nel suo libro Mein Kampf ("La mia battaglia") giustifica con argomentazioni inaccettabili la pretesa superiorità della razza ariana.

E allo stesso modo come nella vita del singolo uomo superiore la predisposizione geniale, eccitata solo da stimoli esterni, tende a realizzazioni pratiche, anche nella vita dei popoli la valorizzazione delle forze creatrici avviene soltanto se esistano determinate premesse. Ciò si osserva più chiaramente nei confronti della razza che fu la molla di tutto lo sviluppo della cultura umana: gli ariani. Quando il destino li mette di fronte a circostanze speciali, essi danno inizio a sviluppare le loro qualità latenti, in una successione sempre più rapida, e secondo forme sempre più visibili. Le culture che essi fondano sono quasi sempre determinate dal territorio, dal clima e dalle razze sottomesse. Quest'ultima condizione è, in genere, quella decisiva. Quanto più primitive sono le premesse tecniche per lo sviluppo della cultura, tanto più è necessaria la presenza di riserve umane le quali, organizzate e concentrate e dirette, sostituiscono la forza della macchina. Senza questa possibilità di impiegare uomini inferiori, l'ariano non avrebbe mai compiuto i primi passi della sua cultura; allo stesso modo, senza l'aiuto di certe bestie adatte che ha saputo addomesticare, non sarebbe giunto a una tecnica che gli permette ora di lentamente rimpiazzarle. Per migliaia di anni il cavallo ha servito all'uomo a porre i fondamenti del suo sviluppo, che ora, con l'invenzione dell'automobile, lo rende superfluo. Tra pochi anni la sua attività sarà terminata, ma senza la sua collaborazione di un tempo l'uomo non sarebbe giunto dove oggi è. Allo stesso modo la formazione di culture superiori presupponeva l'esistenza di uomini inferiori, in quanto la mancanza di strumenti tecnici doveva essere da questi sostituita. Certo, la prima cultura dell'umanità non poggiava tanto su bestie addomesticate, quanto sull'impiego di uomini inferiori. Solo dopo la riduzione a schiavitù delle razze sottomesse, lo stesso destino colpì anche gli animali; e non viceversa, come molti potrebbero credere. Toccò prima al vinto mettersi all'aratro — e solo più tardi al cavallo. Solo dei pacifisti vaneggianti possono considerare ciò come un segno di malvagità umana; e non sanno vedere che quella tappa fu necessaria per giungere finalmente a un livello, dall'alto del quale questi apostoli possono offrire al mondo le loro ricette di salvezza. Il progresso dell'umanità rassomiglia al salire lungo una scala infinita; non si arriva in alto, se non si sono fatti i primi scalini. Allo stesso modo l'ariano dovette percorrere la strada che la realtà gli indicava, e non quella di cui sogna la fantasia di un moderno pacifista. Ma la via della realtà è dura e pesante, e conduce finalmente colà dove l'altro sogna l'umanità, senza poi saperla avvicinare di un passo. Non è dunque a caso, se le prime culture sono nate là dove gli ariani, nell'incontro con popoli inferiori, han potuto sottometterli. Questi sono stati i primi strumenti tecnici al servizio di una futura cultura.

A. Hitler, La mia vita, la mia battaglia, Bompiani, Milano 1940.

Lo storico Leon Poliakov identifica l'antisemitismo hitleriano nella contrapposizione dualistica bene-male, fondata sull'ambizione di fare dell'ideologia nazista una religione:

Hitler sognava di estirpare la religione cristiana e di sostituirla con un nuovo culto e una nuova morale, «una fede forte ed eroica [...] in un invisibile Iddio del destino e del sangue». Stavano a disposizione del «grande semplificatore» tutte le dottrine pangermaniste, le teorie razziste, le semplici credenze popolari, che proliferavano in Germania; da esse egli trasse la materia prima per facili e accessibili dogmi. Infatti, soltanto un culto, soltanto una religione, con tutto l'entusiasmo e lo spirito di sacrificio che può infondere negli animi, poteva portarlo alla meta. Una religione soltanto poteva assicurargli uomini religiosamente obbedienti, fanaticamente sottomessi, quali gli occorrevano al suo seguito. E il Führer, con notevole sicurezza di concetti e grazie a una vera e propria divinazione nei riguardi dell'anima germanica, andava modellando il culto necessario a un tale fine. È stato affermato più volte che il nazismo fu soprattutto una religione. Dimostrarlo ci porterebbe troppo lontano: ci basti osservare che le tre caratteristiche richieste per definire una religione — la percezione di una potenza superiore, la sottomissione a questa potenza e le relazioni con essa — vi erano incontestabilmente presenti. L'anima della razza, il sangue e il suo appello misterioso, rappresentano la potenza immanente e superiore concretizzata dal popolo (Volk); la sottomissione al Führer, che ne è l'emanazione, è incondizionata e assoluta; e il Führer, che sa cogliere in modo infallibile i comandamenti dell'anima della razza, è anche il grande sacerdote che sa esprimere la volontà divina. Ma l'anima della razza, il sangue, il Volk, oggetti di sacra reverenza, resterebbero nozioni vaghe e fluide se non fossero rese tangibili agli occhi dei fedeli opponendo ad esse un'antirazza, un antipopolo, ben presente e in carne e ossa. L'Ebreo, principio dell'impurità e del male, simboleggia il Diavolo: «Se l'Ebreo non esistesse, bisognerebbe inventarlo», perché una religione di questo tipo non può fare a meno di un diavolo. Questo dualismo manicheo era essenziale.

L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei, Einaudi, Torino 1961, pp. 244-246.

La persecuzione antisemita trovò il terreno preparato dalla diffusione di ideologie nazionalistiche e razzistiche che fin dagli ultimi decenni dell'Ottocento erano presenti nella cultura europea e avevano ottenuto un particolare seguito. A questa concezione Hitler diede una funzione politica, trasformandola in strumento di lotta. Mosse ricostruisce questo passaggio, mostrando anche come si era andato formando lo stereotipo dell'ebreo nel pensiero di Hitler:

La rivoluzione tedesca a opera di Hitler si trasformò in rivoluzione antiebraica: un fondamentale ingrediente dell'ideologia nazionalpatriottica era giunto a maturazione, e ora i nazisti potevano cogliere il frutto ed efficacemente integrarlo nelle loro manovre politiche, servendosene per rendere più pregnante il loro appello alle masse. Con l'apparizione di Hitler sulla scena politica, che comportò la popolarizzazione di un intero programma politico, la tematica dell'antisemitismo assunse nuove dimensioni. Benché l'antisemitismo fosse in piena fioritura da almeno cinquant'anni a quella parte, Hitler seppe farne un concreto strumento politico, e l'abilità di questa sua mossa fu comprovata dal favore con cui fu accolta dal pubblico. Ormai, non erano soltanto i portavoce del nazionalpatriottismo a illustrare l'incompatibilità spirituale dei due popoli, l'ariano e il giudaico, non erano soltanto i teologi della razza a porre in risalto le differenze antropologiche: ora era un capo politico, dotato di poteri carismatici, il quale esigeva che si facesse qualcosa, affermando che soltanto qualora gli ebrei fossero stati tolti di mezzo, la Germania avrebbe ritrovato l'antica gloria e si sarebbe assicurata futura grandezza. Ma qual era la riserva ideologica alla quale Hitler attingeva? Quali erano i suoi immediati predecessori, i suoi maestri, e chi Hitler riusciva a persuadere a seguirlo, quali membri di una società, che aveva ormai assorbito fino in fondo lo stereotipo antisemita, restavano da lui convinti? [...] Hitler attribuisce l'origine del proprio antisemitismo al suo incontro con gli ebrei dell'Europa orientale. Ragazzo ancora, mentre dalla tranquilla città di Linz era in viaggio verso Vienna, la metropoli, restò, racconta, orripilato, spaventato e sconvolto dagli strani abiti e dall'aspetto ripugnante degli ebrei orientali in cui s'imbatté, strani esseri che percorrevano il paese in cerca di un luogo in cui metter radici, moltiplicarsi e dominare, prendendo il posto dei veri tedeschi. Consciamente o inconsciamente però, le pagine del Mein Kampf sintetizzano lo stereotipo dell'ebreo dei ghetti quale era andato sviluppandosi a opera dell'ideologia vö1kísch: la «estraneità» che comprovava l'esistenza di una cospirazione mondiale giudaica, la mancanza di eticità che si traduceva in un'assenza di «aspirazioni idealistiche». Gli ebrei non costituivano un popolo con una cultura, il suolo era per essi mero oggetto di sfruttamento, la lussuria sostituiva convinzioni sincere e radicate. Questa concezione degli ebrei finì per fare tutt'uno con l'odio che Hitler aveva per Vienna, città che detestava, con particolare riguardo per quella parte di essa che era maggiormente evoluta. Non v'è dubbio che l'antiurbanesimo divenisse fin d'allora elemento fondamentale del suo atteggiamento verso la vita: il quale assunse le consuete forme nazional-patriottiche, ivi comprese la glorificazione dei contadini, avendo però a proprio centro lo stereotipo antigiudaico. Erano sfaccettature che facevano parte del suo pensiero già prima della guerra, ma fu l'esperienza bellica e quella dei successivi anni di Monaco che impartì loro la particolare dinamica che le contraddistingue. Il fatto che certi ebrei – Hitler li riteneva senz'altro comunisti – avessero una posizione di primo piano in seno alla Räterepublik, la repubblica dei consigli (operai), non fece che rafforzare in lui l'immagine del giudeo, le cui radici risalivano al periodo di Vienna, e che Hitler descrisse nel Mein Kampf.

G. L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Il Saggiatore, Milano 1968, pp. 437-439.

In ottemperanza alle leggi razziali emanate nel 1938, il 14 luglio dello stesso anno uscì sul "Giornale d'Italia" il Manifesto degli scienziati razzisti, che cercava di conferire una patina di scientificità alle teorie della razza ariana e dell'inferiorità degli Ebrei. Le teorie esposte, come si nota, non sono suffragate dalla scienza, ma unicamente frutto della propaganda ideologica.

1. Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti, di milioni di uomini, simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori ed inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti. 2. Esistono grandi razze e piccole razze. Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamate razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, i dinarici [che abitano la zona adriatica e i Balcani centro-occidentali], ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità evidente. 3. Il concetto di razza è concetto puramente biologico. Esso è quindi basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli italiani sono differenti dai francesi, dai tedeschi, dai turchi, dai greci, ecc. non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. [...] 4. La popolazione dell'Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà è ariana. Questa popolazione di civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra Penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L'origine degli italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell'Europa. 5. È una leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. Dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della Nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre Nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l'Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i 44 milioni di italiani di oggi rimontano quindi nell'assoluta maggioranza a famiglie che abitano in Italia da un millennio. 6. Esiste ormai una pura «razza italiana». Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico linguistico di popolo e di nazione, ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l'Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione Italiana. 7. È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l'opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentatissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l'indirizzo arianonordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli italiani e gli scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extraeuropee, questo vuol dire elevare l'italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità. 8. È necessario fare una netta distinzione tra i mediterranei d'Europa (occidentali) da una parte e gli orientali e gli africani dall'altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l'origine africana di alcuni europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche, stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili. 9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani. 10. I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alterati in nessun modo. L'unione è ammissibile solo nell'ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono a un corpo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli italiani viene alterato dall'incrocio con qualsiasi razza extraeuropea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.

Manifesto degli scienziati razzisti, "Giornale d'Italia", 14 luglio 1938,
in L. Casali, Fascismi. Partito, società e stato nei documenti del fascismo, del nazionalsocialismo e del franchismo, Clueb, Bologna 1995.

 

 

 

 

[ Storia ]     [ Strumenti di Storia ]