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L'ETÀ GIOLITTIANA

 

 

FONTI

 

Giolitti presenta la sua politica nei confronti delle rivendicazioni sociali

Il brano seguente è tratto da Memorie della mia vita, considerazioni pubblicate da Giolitti a Milano nel 1922.
Le Memorie rappresentano la posizione del Giolitti stanco e ormai lontano dalla politica. Stese dopo aver visto fallire un ultimo governo da lui guidato (giugno 1920 - giugno 1921), ripercorrono l'esperienza politica dello statista a fronte delle critiche che si addensavano sul suo operato. Già da ministro dell'Interno nel governo Zanardelli (1901-1903) il Giolitti lasciava presagire la sua futura linea d'azione in campo sociale, alla luce della considerazione che la situazione miserevole dei lavoratori sarebbe stata una miscela esplosiva se continuamente repressa.
Secondo lo statista piemontese lo Stato non avrebbe più dovuto con la forza le posizioni della borghesia dominante, ma avrebbe dovuto lasciare che i conflitti sociali ed economici tra padroni e lavoratori si svolgessero normalmente, limitandosi a intervenire qualora una delle due parti avesse finito per degenerare nella violenza.
Offre quindi un riconoscimento implicito del diritto di sciopero, mantenendo però una posizione di fermezza contro ogni tentativo di sovversione dello Stato.

Il terzo punto capitale del mio programma concerneva la politica interna; per la quale io ritenevo arrivato il momento a un più decisivo e pratico esperimento dei criteri democratici. [...] Io pensavo invece che fosse già arrivato il momento di prendere in considerazione gli interessi e le aspirazioni delle masse popolari e lavoratrici, che in quasi tutto il paese soffrivano sotto la pressione di condizioni economiche, di salario e di vita, spesso addirittura inique, ed avevano cominciato, tanto nelle grandi città industriali, che qua e là nelle campagne, ad agitarsi e a farsi sentire. [...] La situazione certo presentava in alcuni punti difficoltà gravi e qualche pericolo di disordini locali; ma, a mio avviso e secondo le informazioni che ricevevo dalle autorità, tutte le voci che si facevano correre di pericoli rivoluzionari e di minacce alla unità nazionale, erano senza fondamento. Quel movimento, in conclusione, era molto meno grave di altri venuti dopo; ma quello era il primo, e le classi ricche, non ancora abituate a questo genere di lotte, scambiavano le agitazioni economiche addirittura con la rivoluzione sociale. Io sin d'allora ero convinto che fosse d'aspettarsi che le masse dei lavoratori non si adattassero a tirare avanti con condizioni di salari insufficienti non solo a vivere decentemente, ma anche a sfamarsi. Una cieca repressione delle loro legittime agitazioni intese a migliorare la propria sorte, non avrebbe a mio avviso risolta, ma solo rinviata la questione, esacerbandola, e facendo nascere davvero il pericolo rivoluzionario. Perciò il mio indirizzo politico era di lasciare che queste lotte economiche si risolvessero di per sé col miglioramento delle condizioni dei lavoratori, riducendo l'azione del governo al mantenimento dell'ordine e ad un'opera di persuasione per mettere d'accordo le parti. [...] Nella mia opinione, come io pensavo che l'esperimento liberale dovesse compiersi sino in fondo, e senza tentennamenti e riserve, la cosa era assai grave, e toccava [...] le più alte questioni di diritto e di politica interna, soprattutto nel rispetto dei rapporti fra le classi lavoratrici ed il governo nei conflitti fra capitale e lavoro; ed a mio parere la pace sociale dipendeva in massima parte dalla retta soluzione di tali quesiti. Quantunque infatti i metodi della violenza reazionaria fossero stati condannati dai fatti ed ormai in gran parte abbandonati, persisteva ancora nel governo, ed in molti dei suoi rappresentanti nelle provincie, la tendenza a considerare come pericolose tutte le associazioni di lavoratori; tendenza che era l'effetto di scarsa conoscenza delle nuove correnti economiche e politiche che da tempo si erano formate nel nostro come in tutti i paesi civili e che rivelava come non si fosse ancora compreso che la organizzazione degli operai camminava di pari passo col progresso generale della civiltà. Osteggiare questo movimento non avrebbe potuto avere altro effetto che di rendere nemiche dello Stato le classi lavoratrici, che si vedevano costantemente guardate con occhio diffidente anziché benevolo da parte del governo.

G. Giolitti, Memorie della mia vita, Garzanti, Milano 19441, p. 63.

Qualche pagina più avanti Giolitti rievoca il proprio atteggiamento, cercare di coinvolgere all'interno del dibattito parlamentare quelle forze e quei raggruppamenti di massa che tendevano per loro natura a contrapporsi allo Stato liberale, facendo loro accettare le regole della competizione politica.

Io consideravo insomma che, dopo il fallimento della politica reazionaria, noi ci trovavamo all'inizio di un nuovo periodo storico, e che ognuno che non fosse cieco dovesse ormai vederlo. Nuove correnti popolari entravano ormai nella nostra vita politica, nuovi problemi si affacciavano ogni giorno, nuove forze sorgevano con le quali il governo doveva fare i conti. Il moto ascendente delle classi operaie si accelerava sempre più, ed era moto invincibile, perché comune a tutti i paesi civili e perché poggiava sui principi dell'eguaglianza fra gli uomini. Nessuno poteva ormai illudersi di poter impedire che le classi popolari conquistassero la loro parte di influenza, sia economica che politica; ed il dovere degli amici delle istituzioni era di persuadere quelle classi, e persuaderle non colle chiacchiere, ma coi fatti, che dalle istituzioni attuali esse potevano sperare assai più che dai sogni avvenire, e che ogni loro legittimo interesse avrebbe trovato tutela efficace negli attuali ordinamenti politici e sociali. Solo con un tale atteggiamento ed una tale condotta da parte dei partiti costituzionali verso le classi popolari, si sarebbe ottenuto che l'avvento di queste classi, invece di essere come un turbine distruttore, riuscisse a introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice, e ad aumentare grandezza e prosperità alla nazione.

G. Giolitti, Memorie della mia vita, Garzanti, Milano 19441, p. 159.

 

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

La politica di Giolitti è diversamente interpretata.
Specialmente nel secondo dopoguerra furono messe in rilievo le sue qualità positive, in quanto uomo politico: la conoscenza della macchina dello Stato, l'abilità di legislatore, le caratteristiche di lucido e sobrio oratore, la rigorosa separazione tra vita privata e presenza pubblica, uno stile misurato, lontano da ogni esibizionismo. Gli storici di questo periodo inquadrano la sua opera politica nell'ambito del processo di modernizzazione della società italiana e trovano in lui il migliore interprete dell'esigenza di inserimento della nuova Italia industriale nel contesto delle moderne nazioni europee.
La storiografia liberale ispirata da Croce vede in lui la migliore affermazione dei valori liberali latenti nella società italiana.
La storiografia cattolica tende ad attribuire a Giolitti la responsabilità d'aver favorito, indirettamente, le forze cattoliche più conservatrici, di cui cercò l'alleanza contro l'estremismo socialista.
Gli storici di orientamento marxista, infine, mentre valutano positivamente le aperture giolittiane in direzione della classe operaia del Nord, giudicano negativamente la politica verso il Meridione, segno di una continuità storica con i governi precedenti. Sotto questo profilo Giolitti non avrebbe scalfito il blocco sociale di potere su cui si reggeva lo Stato liberale, agrari meridionali e industriali del Settentrione, e il rinnovamento politico sarebbe dunque stato affidato a manovre parlamentari o a scelte amministrative, ma non sarebbe stato l'espressione delle forze sociali.

La politica sociale

Il ruolo positivo svolto da Giolitti nella vita politica italiana è messo in luce da Alberto Asor Rosa (di formazione marxista, vicino alle posizioni operaiste di Mario Tronti, ha collaborato alle riviste Classe operaia e Mondo nuovo ed è stato direttore del settimanale del PCI Rinascita), nel quadro della situazione italiana di inizio secolo. Il passaggio dell'Italia da Paese agricolo a Paese industriale e l'esistenza di un forte movimento operaio organizzato rendevano possibile un'alleanza di fatto tra le forze progressiste presenti nella società del tempo e l'avvio di una moderna politica sociale.

Giolitti aveva compreso, in sostanza, che il passaggio da paese agricolo a paese industriale costituiva per l'Italia la condizione imprescindibile di ogni progresso civile, sociale e politico; e aveva altresì compreso che tale passaggio non sarebbe stato possibile, senza realizzare un blocco di tutte le forze politiche e sociali «progressive» allora operanti, e senza stabilire quindi un rapporto diretto fra il governo e il movimento operaio organizzato (il partito socialista) e fra le forze imprenditoriali e le rappresentanze sindacali dei lavoratori. Egli testimoniava l'esistenza di un settore della borghesia produttiva ormai autonomo rispetto ai vecchi centri del potere fondiario, burocratico e parassitario, e voglioso di contare nella realtà sociale e politica del paese. Questa era, insieme con la crescita delle organizzazioni di massa del proletariato e con l'estensione materiale della produzione industriale, la base oggettiva dell'esperimento di «democrazia giolittiana»: per la prima volta nell'Italia unita, incremento dello sviluppo, politica di alti salari e difesa delle libertà costituzionali anche in tema di conflitti di lavoro, mostravano di non essere fattori contraddittori ma elementi di una stessa strategia, lucidamente perseguita e fermamente sostenuta.

A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d'Italia, vol. IV, t. II, Einaudi, Torino 1975, p. 1101.

Anche Ernesto Ragionieri (storico di impostazione marxista, fu sempre legato al Partito Comunista Italiano) ha esaminato l'operato di Giolitti alla luce delle misure e degli indirizzi assunti in materia di legislazione sociale e riguardo al ruolo dello Stato nei conflitti di classe. I timidi provvedimenti del Giolitti avrebbero segnato una significativa novità per le classi più umili.

Che la conduzione della politica interna da parte di Giolitti – con la neutralità dello Stato nei conflitti del lavoro e, più in generale, con l'avvio di una moderna legislazione sociale – costituisse un fatto nuovo nella vita italiana, come fu avvertito dai democratici e ancor più dai reazionari del tempo, è indiscutibile. Il fatto stesso che nei primissimi anni del secolo manifestazioni di braccianti, cioè di una forza sociale che si era sempre riconosciuta nella protesta contro lo Stato, potessero svolgersi al grido di «viva Giolitti», dà il segno più tangibile di una tendenziale modificazione di rapporti tra le classi subalterne e lo Stato. È una modificazione che riproduce trasformazioni già avvenute, nei decenni precedenti, nei più avanzati paesi europei, e che in Italia fu resa possibile da una congiuntura economica favorevole, e sollecitata dall'erompere di un potente movimento di massa. Gli elementi di legislazione sociale che cominciarono ad essere introdotti allora erano in vigore da tempo in altri Stati; l'allargamento del suffragio elettorale maschile seguirà in Italia di decenni provvedimenti analoghi adottati in Francia, in Germania e in Inghilterra. La necessità oggettiva di tali misure sgorgava quindi dalla partecipazione dell'Italia ad una tendenza comune a tutti i grandi paesi capitalistici. Esse si realizzarono tuttavia da noi in presenza di una fase acuta della lotta delle grandi potenze per la ripartizione del mondo.

E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d'Italia, vol. IV, t. III, Einaudi, Torino 1976, pp. 1867-1868.

Giampiero Carocci si esprime in modo conclusivo in particolare sul ruolo dello Stato in qualità di mediatore tra le classi e sull'intervento nella vita economica.

Dello stato Giolitti intese esaltare non solo la funzione di coercizione ma anche quella di mediazione fra le classi (in primo luogo fra la classe dirigente e le altre) e quella di intervento nella vita economica. I conservatori, i liberisti come Einaudi, Albertina e tutti coloro che ponevano la funzione produttrice della borghesia al di sopra di quella mediatrice dello stato ritenevano la borghesia migliore della classe politica, la quale era capace solo, a loro giudizio, di creare, per mezzo dello stato che dirigeva o che sfruttava, parassitismi e impacci burocratici alla libera espansione delle forze economiche produttive. Invece Giolitti (e anche Fortunato) riteneva la classe politica migliore del paese (inteso in tutte le sue classi, anche se principalmente in quelle popolari); e in questa affermazione, se non erro, c'era l'intenzione di sottolineare sia la funzione mediatrice che quella coercitiva dell'apparato statale e del parlamento nei confronti del paese. I conservatori avevano esaltato ed esaltavano un esecutivo che non ponesse impacci alla libera attività economica e che frenasse il potere del parlamento. Giolitti invece intese esaltare insieme sia lo stato che la maggioranza parlamentare per controllare e frenare il potere dei socialisti: intese, cioè, coprire il nocciolo duro dello stato col guanto di velluto del parlamento, strumento, quest'ultimo, adatto per comprendere gli umori e ottenere il consenso di una parte del paese.

G. Carocci, Storia d'Italia dall'Unità ad oggi, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 158-159.

La politica meridionale

La tradizione politica liberale aveva teorizzato, subito dopo l'unificazione del Regno, la presenza di "due Italie", una settentrionale, ricca e civilizzata, e una meridionale, arretrata economicamente e culturalmente.
Nel 1861 l'avvocato e politico napoletano Tommaso Sorrentino scriveva: «L'Italia dall'Alpi agli Appennini romani ha una vita, un pensamento, una leva; dagli Appennini al mare ne ha un'altra. Nel Settentrione predomina il patriottismo, nel Mezzogiorno l'interesse; là è spontaneo il sagrifizio, qui si opera per egoismo; nel Nord si riflette, qui nel Sud si saltella» (cit. da N. Moe, «Altro che Italia!». Il Sud dei Piemontesi (1860-1861), in "Meridiana", 1992, n. 15).
Tale pregiudizio era ancora forte ai primi del Novecento, come evidenzia Giovanni Belardelli.

Alla fine del secolo, mentre si avviava la vera e propria industrializzazione del Settentrione, il Mezzogiorno, in conseguenza della grande crisi agraria europea, appariva condannato a un destino di arretratezza. Fu allora che si diffuse la percezione di una «questione meridionale» come divaricazione sempre maggiore tra un'Italia produttiva e industriale e un'altra parassitaria e improduttiva, per tanti aspetti ancora feudale. Nel 1903 Francesco Saverio Nitti ribadiva: «Vi sono ora due Italie: una progredisce rapidamente, entra già nella zona della civiltà industriale; l'altra si dibatte in strettezze crescenti». Negli stessi anni, tra fine Ottocento e primo Novecento, la scuola antropologica italiana forniva una traduzione estrema di questa contrapposizione tra un'Italia sana e una gravemente malata, attribuendo all'arretratezza meridionale una radice razzistica: in tal modo – sosteneva per esempio Alfredo Niceforo – le due Italie, abitate da due stirpi diverse, mai si sarebbero potute riunire davvero. Coerentemente con le sue premesse, Niceforo aveva anche proposto che al Nord e al Sud si applicassero due diverse forme di governo; che era poi un modo estremo (e, va da sé, assurdo) di riconoscere la fondamentale divaricazione nei comportamenti politici che si stava sempre più manifestando tra Nord e Sud, ulteriore conferma dell'esistenza di due Italie. Infatti, mentre il movimento socialista si andava espandendo ma quasi esclusivamente nell'Italia settentrionale, il Mezzogiorno sembrava proseguire passivamente le forze più arretrate del paese. [ ... ] In realtà, più che reazionario, il Mezzogiorno era organicamente ministeriale (nel senso che contribuiva a fornire una base parlamentare ai vari governi), come si vide nel corso dell'età giolittiana. Tuttavia la politica di Giolitti, nei suoi caratteri più avanzati e chiaramente liberali, escludeva di fatto l'Italia meridionale: questo è ciò che avveniva, per esempio, per la libertà di sciopero e di organizzazione sindacale. Che non potesse che essere così, vale a dire che l'arretratezza complessiva della società meridionale impedisse lì l'esercizio di una politica liberale, lo pensava in fondo lo stesso Filippo Turati, che vedeva anch'egli il rapporto Nord-Sud nei termini di una contrapposizione tra un'Italia moderna e un'altra ancora feudale.

G. Belardelli, Le due Italie, in Aa. Vv., Miti e storia dell'Italia unita, Il Mulino, Bologna 1999.

Giolitti non giunse mai a una politica innovativa nel Meridione, ma proseguì la tradizionale alleanza tra il ceto politico e quello possidente e latifondista (e talvolta mafioso-camorrista), fornendo l'appoggio della forza pubblica contro le rivendicazioni sociali dei contadini.
Il giudizio di Gaetano Salvemini (†1957), socialista antifascista è una delle valutazioni più negative e più aspre nella denuncia dei metodi di governo dell'Italia meridionale che possiamo trovare da parte dei contemporanei nei confronti di Giolitti. In qualità di  militante politico, il Salvemini colpisce quello che fu realmente uno dei punti deboli della politica giolittiana, il compromesso con i ceti parassitari del Sud, fattore di continuità con i precedenti governi dello Stato italiano.

L'onorevole Giolitti approfitta delle miserevoli condizioni del Mezzogiorno per legare a sé la massa dei deputati meridionali; dà a costoro carta bianca nelle amministrazioni locali; mette nelle elezioni a loro servizio la malavita e la questura; assicura ad essi ed ai loro clienti la più incondizionata impunità; lascia che cadano in prescrizione i processi elettorali e interviene con amnistie al momento opportuno; mantiene in ufficio i sindaci condannati per reati elettorali; premia i colpevoli con decorazioni; non punisce mai i delegati delinquenti; approfondisce e consolida la violenza e la corruzione dove rampollano spontanee dalle miserie locali; le introduce ufficialmente nei paesi dove erano prima ignorate. L'onorevole Giolitti non è certo il primo uomo di governo dell'Italia una che abbia considerato il Mezzogiorno come terra di conquista aperta ad ogni attentato malvagio. Ma nessuno è stato mai così brutale, così cinico, così spregiudicato come lui nel fondare la propria potenza politica sull'asservimento, sul pervertimento, sul disprezzo del Mezzogiorno d'Italia; nessuno ha fatto un uso più sistematico e più sfacciato, nelle elezioni del Mezzogiorno, di ogni sorta di violenza e di reati [ ... ]. Giolitti non inventò i costumi elettorali dell'Italia meridionale, come non inventò la prosperità economica e gli avanzi di bilancio. Ma mentre per la prosperità economica e per gli avanzi di bilancio si deve dire che lasciò fare la vis medícatrix naturae non si può dire lo stesso per i costumi elettorali dell'Italia meridionale. Ne approfittò con freddo metodo, con totale mancanza di scrupoli e con profondo disprezzo per chi si prestava al suo gioco.

G. Salvemini, Il ministro della malavita e altri scritti sull'Italia giolittiana, Feltrinelli, Milano 1962, p. 52.

Giolitti e i cattolici

La storiografia cattolica rimprovera a Giolitti di aver cercato di corrompere e svilire il movimento cattolico attraverso la pratica trasformistica delle alleanze, privilegiando il blocco clerico-moderato in funzione antisocialista.
In altri termini, Giolitti avrebbe "usato" il movimento cattolico senza rispettarne l'autonomia e la specificità.
Naturalmente questa tattica positiva fu possibile finché i cattolici erano soltanto una forza sociale e non ancora un partito di massa organizzato.
Per questo lo storico Gabriele De Rosa (di impostazione cattolica) descrive Giolitti come il politico che approfittò dei cattolici come base di manovra per la conservazione dello Stato liberale.

Giovanni Giolitti ne approfittò [dell'apporto dei cattolici] per irrobustire, dopo il rifiuto del socialismo turatiano di fare parte del suo governo, la base di forza della politica liberaldemocratica, ne approfittò per subordinare alla sua azione politica, come pura massa di manovra da far valere nel dialogo con i socialisti, le plebi della campagna [ ... ]. Quando, alla fine del conflitto mondiale, Giolitti ebbe di fronte a sé il partito popolare, non seppe più trovare una politica e nemmeno una tattica che gli consentisse, in una qualche maniera, di riprendere i temi di quella sua azione trasformistica con tanta sagacia e pazienza intessuti nei primi anni del secolo [ ... ]. Al Giolitti riuscì sempre incomprensibile che dal mondo cattolico potesse uscire un partito che la volesse fare da indipendente e da autonomo nei confronti della vecchia classe dirigente liberale, che aveva sempre ritenuto le masse cattoliche efficaci e buone riserve d'ordine. Pertanto anch'egli, sotto questo aspetto, come i suoi predecessori, si ostinò a ritenere il cattolico quasi un sottoprodotto dello sviluppo storico del paese, una forza che avrebbe dovuto sottomettersi, sia pure attraverso una politica di riforme e di progressiva tutela delle masse operaie, alle necessità della conservazione dello Stato liberale.

G. De Rosa, La crisi dello stato liberale in Italia, Studium, Roma 1955, p. 167.

Come con i socialisti, anche con i cattolici, sebbene con risultati meno appariscenti, Giolitti adottò la politica della mano tesa.
Specialmente dopo le elezioni del 1904, che avevano dato una maggioranza conservatrice, egli ebbe l'appoggio – in funzione antisocialista – di esponenti cattolici qualificati, anche se non ufficiali.
La collaborazione si intensificò in occasione delle elezioni del 1913, in virtù del Patto Gentiloni, con cui i cattolici si impegnavano a sostenere i candidati liberali disposti a ostacolare ogni eventuale legislazione anticlericale.
Il patto, approvato dal Vaticano, fu avversato dai cattolici più aperti alle esigenze sociali, come Murri e Toniolo, che tacciarono di conservatorismo l'alleanza clerico-moderata. Il De Rosa rispecchia quest'ultima posizione.

Il Giolitti non sarebbe mai ricorso alla maniera dura; ma, con un'abilità e con una intelligenza politica che nessun suo predecessore ebbe, mirò a disorganizzare le organizzazioni cattoliche, a corromperle attraverso la pratica dei blocchi e delle alleanze clerico-moderate, avvalendosi in ciò dell'aiuto e dell'appoggio di Tittoni [ ... ]. Giolitti nulla concesse, né ebbe bisogno di ricorrere a nessuna trattativa diretta per liberarsi da un avversario così pesante e rumoroso, quale fu il clericalismo intransigente, e di destra e di sinistra.

G. De Rosa, Giolitti e il movimento «popolare» dei cattolici, "Rassegna di politica e di storia", n. 3 ,1955.

L'ascesa del nazionalismo

Nel 1910 Enrico Corradini fondò l'Associazione Nazionalista Italiana, che asseriva il diritto dell'Italia a promuovere e a difendere se stessa e le proprie tradizioni anche mediante una politica estera imperialista e aggressiva.
Robert William Seton-Watson osserva che l'ideologia nazionalista riuscì a penetrare in larghi strati della popolazione grazie alla rielaborazione di idee e concezioni mutuate da altri movimenti politici. Mostrando demagogicamente come la risoluzione di tutti i problemi fosse riposta nella guerra di conquista, si preparava il terreno fertile per l'intervento italiano nel primo conflitto mondiale.

Legati come erano all'ideologia imperialista screditata ma non distrutta dopo la sconfitta di Adua, i nazionalisti, particolarmente attivi negli ambienti intellettuali e letterari, nel clima mutato del XX secolo erano venuti acquistando sempre maggiore influenza sino ad ottenere un consistente peso politico. Essi dichiaravano di ispirarsi al Risorgimento, di cui però disprezzavano la tradizione liberale: nei loro scritti, essi abbandonarono definitivamente Mazzini, sicché 1' “idea di Roma" si identificò con la dominazione, e la "missione" della Terza Italia con la conquista coloniale. I nazionalisti pretendevano di muoversi nel senso della storia: gli Stati Uniti avevano strappato alla Spagna un impero, l'Inghilterra aveva schiacciato i Boeri, il giovane e virile Giappone aveva sconfitto la Russia, la Francia stava silenziosamente impossessandosi del Marocco. Era di moda l'espansione imperialista, e invece l'1talietta" rimaneva indietro, interamente assorbita fin dal 1896 in una routine tediosa e volgare di meschina problematica interna, senza un affiato eroico e priva del senso della propria missione. [...l Nel novembre del 1903 Enrico Corradini fondò la prima rivista nazionalista, "Il Regno", che voleva essere «una voce di protesta contro la viltà presente. E prima di tutto contro quella dell'ignobile socialismo», uno strumento per svegliare dal suo torpore la borghesia, «decadente, ma non irrimediabilmente», per forgiare un'élite che avrebbe creato ricchezza, si sarebbe imposta un'autodisciplina e avrebbe aspirato alla potenza e alle conquiste: la borghesia italiana aveva bisogno ancora di un secondo Crispi. Corradini compì uno studio approfondito sull'emigrazione e visitò le comunità italiane a Tunisi, negli Stati Uniti e nell'America del Sud: tornò amareggiato, dopo aver visto come vivevano i suoi connazionali [ ... ]. Gli italiani costruivano ferrovie e strade, bonificavano paludi e foreste, ma erano forze perdute per il paese e, quel che è peggio, in Italia ci si vantava di questa perenne emorragia, rivelando con ciò una mentalità da schiavi. L'emigrazione, affermò Corradini, era «un fenomeno di popolo inferiore o, perlomeno, in un periodo inferiore della sua esistenza», ed era «benefica come la morte». La soluzione andava cercata in Africa, dove bisognava conquistare nuove terre e dove i coloni italiani avrebbero potuto lavorare sotto la loro bandiera: l'italiano sarebbe diventato un grande popolo soltanto quando «lo spirito migratorio» fosse stato abbandonato e al suo posto fosse sorto «lo spirito coloniale, imperialista». Il contributo particolare di Corradini all'ideologia nazionalista fu la formulazione del concetto di «nazione proletaria»: egli fece proprio il linguaggio del marxismo e trasferì il concetto di lotta di classe sul piano internazionale. La Francia e l'Inghilterra, egli affermò, avevano costruito la propria potenza sul capitale: gli Italiani avrebbero potuto costruire la loro soltanto sul lavoro, l'unica risorsa che possedessero in abbondanza. In un mondo dominato dalle plutocrazie l'Italia era la nazione proletaria e, in tale mondo, il nazionalismo sarebbe stato il suo socialismo, la strada che l'avrebbe portata alla rinascita, che avrebbe suscitato uno spirito di guerra nella nazione, così come il socialismo lo risvegliava nelle classi lavoratrici. La guerra avrebbe anche posto fine alle lotte interne, avrebbe forgiato una coscienza nazionale e avrebbe dato maggiore prosperità a tutti: «L'Italia – scrisse Corradini – deve avere la sua guerra, o non sarà mai una nazione».

R. W. Seton-Watson, Storia d'Italia, Laterza, Bari 1978.

La politica coloniale

Costose furono le concessioni che, sia pure involontariamente, Giolitti fece al movimento nazionalista; nel 1911 dichiarò guerra alla Turchia e procedette allo sbarco di truppe nel porto di Tripoli.
A fronte dell'incompetenza che aveva caratterizzato la prima guerra d'Africa, buona preparazione e chiarezza di vedute improntarono quella per la conquista della Libia. Efficace era stata la propaganda nazionalistica di Corradini, di Forges Davanzati, di Federzoni e di D'Annunzio.
Benedetto Croce (storiografo liberale) mette in rilievo la maggiore efficienza delle operazioni militari in Libia, prova questa, a suo parere, di una raggiunta compattezza nazionale.

La guerra libica giovò al popolo italiano non solo pei successi militari e diplomatici ma anche perché gli dette modo di saggiare la capacità della sua amministrazione e la preparazione del suo esercito e trarne argomento di soddisfazione; perché, in secondo luogo, gli fece toccare con mano quale fosse la situazione internazionale; e, soprattutto, perché poté in quella prova attestare a se stesso la compattezza della sua coscienza nazionale che era stata incerta e scissa al tempo della guerra abissina.

B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1959.

La conquista della Libia non risolse i problemi economico-sociali italiani. Lo ribadisce lo storico inglese Denis Mack Smith (storico inglese di fama internazionale, specializzato nella storia italiana dal Risorgimento in poi).

I prodotti agricoli delle province libiche erano suppergiù gli stessi dell'Italia meridionale, di modo che i prezzi nazionali subirono una flessione mentre le importazioni di materie prime non subirono nessun sensibile miglioramento. Nei primi mesi del 1913, mezzo milione di Italiani lasciarono il loro paese, ma essi continuavano a preferire il Marocco francese alla Libia italiana, e il numero di quelli che andarono in America fu ancora superiore che in precedenza. Le colonie senza colonizzatori si sono dimostrate sempre una concessione quanto mai costosa alle ragioni sentimentali. La Libia abbisognava di capitali, ma l'Italia non ne aveva a sufficienza neppure per sé e poche opere pubbliche poterono venir intraprese; per quanto, se una somma uguale fosse stata destinata al rimboschimento degli Appennini, ciò avrebbe potuto assicurare uno spazio vitale sufficiente a migliaia di persone che altrimenti erano costrette a morire o ad emigrare. Inoltre, cinquantamila residenti italiani furono espulsi dalla Turchia per rappresaglia, con una perdita di attività e relazioni commerciali, sviluppatesi attraverso secoli, che non fu indifferente. Certamente il boicottaggio musulmano dei prodotti italiani, la reazione protezionistica, gli insuccessi finanziari di alcune banche, che s'erano accaparrati gli sfruttamenti nella nuova colonia, e il costo delle ostilità, calcolato a mille milioni, ebbero la loro parte nel riportare passività nel bilancio e povertà nel Paese. Ma la conseguenza più grave dell'impresa libica fu la pericolosa diffusione del nazionalismo e del culto della violenza, di cui i giornali italiani dell'epoca diedero ampia prova. In Europa l'impresa libica condusse, attraverso l'ulteriore indebolimento della Turchia, alle guerre balcaniche e fu così tra le cause della prima guerra mondiale. In Italia i liberali si videro rapidamente sfuggire il monopolio del potere a vantaggio di nuovi gruppi che rivendicavano una politica più decisamente imperialistica.

D. Mack Smith, Storia d'Italia dal 1867 al 1958, Laterza, Bari 1960.

Il tramonto di Giolitti

I sintomi della crisi sono già evidenti negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale.
Si tratta di un limite proprio dello Stato liberale, che attribuisce a se stesso una funzione di pieno controllo di forze politiche potenzialmente eversive; non esiste, cioè, nel ceto politico liberale [neppure in Giolitti] il principio proprio della democrazia, secondo cui tutte le forze politiche hanno pari dignità e possono assumere responsabilità di governo. Lo Stato, quindi, è concepito soltanto come Stato liberale, nel quale le opposizioni vanno addomesticate, integrate ed usate.
La politica delle concessioni a Destra (nazionalisti, clericali) e a Sinistra (Partito Socialista, sindacati), tuttavia, aveva offuscato la stessa idea del liberalismo, facendola identificare con la politica delle classi compromessi. La situazione economica in cui si era realizzata la politica riformistica giolittiana, inoltre, era mutata: l'espansione si era spenta e risultava meno proponibile una politica favorevole alle classi lavoratrici. In tutta Europa, infine, si rafforzavano i movimenti nazionalisti e si affermavano ideologie lontane dal movimento liberale.
In questo contesto, la politica giolittiana rivelò i propri limiti, come mette in rilievo lo storico liberale (repubblicano) Rosario Romeo.

L'impostazione della politica sociale giolittiana in termini di «concessioni» alle «esigenze ragionevoli» del movimento socialista, finiva in sostanza per abdicare nelle mani di questo movimento la funzione di forza propulsiva della società italiana, attribuendo allo Stato liberale un compito passivo di controllo e di moderazione. Certo, il Giolitti si proponeva per questa via di inserire le forze dell'opposizione nella struttura dello Stato liberale e di convertirle in suoi positivi sostegni: ma in fondo questo compito si affidava a un processo alquanto meccanico e inerte di depotenziamento di quegli oppositori attraverso il Parlamento e ad una serie di parziali «favori», più che a una valida idea o forza d'impulso di cui lo Stato giolittiano si facesse portatore. Da ciò la svalutazione che quello Stato subisce allora, innegabilmente, agli occhi di molti italiani, anche lontanissimi da nazionalismo e dannunzianesimo, come mero apparato burocratico, privo di idee e forze spirituali proprie, e il correlativo orientarsi degli elementi più vivi verso diversi ed opposti ideali; e soprattutto, il sostanziale fallimento di quella politica e di quel metodo. Il quale traeva origine da una inesatta valutazione della reale portata del movimento socialista, di cui il Giolitti in fondo non intese mai il carattere di nuova forza storica, tendenzialmente protesa a un rovesciamento totale dell'ordine esistente, e che appunto perciò si illuse di poter dominare con una politica rivelatasi assai presto del tutto inadeguata. L'antitesi fondamentale che allora veniva delineandosi nella società italiana poteva forse esser superata in senso liberale da una politica che riuscisse a svincolare il paese dalla contraddizione in cui era venuto avvolgendosi fra privilegi industriali da una parte e pressione operaia dall'altra [ ... ]. Giolitti non riuscì a proporre un'alternativa liberale alla coscienza politica del paese, non riuscì cioè a delineare una positiva soluzione liberale di fronte e di contro alla soluzione socialista e al paternalismo dei conservatori: ma piuttosto rimase su un piano di «compromesso», che per ciò stesso implicava il permanere e anzi l'aggravarsi dei termini fondamentali del problema. E la riprova della insufficienza di questa politica si ebbe ben tosto nelle incrinature che già dopo qualche anno si fanno evidenti nel sistema giolittiano: il quale troppo spesso viene configurato sul modello degli anni precedenti al 1911, dimenticandosi invece il ben diverso significato delle vicende che seguirono, già prima della guerra mondiale. Guerra di Libia, prevalenza sempre maggiore del rivoluzionarismo mussoliniano («settimana rossa»), invadenza del conservatorismo clericale nelle file del ceto dirigente (patto Gentiloni): furono i segni che già allora chiaramente denunciavano l'incapacità del giolittismo a dominare un contrasto che si faceva sempre più aspro.

R. Romeo, ???, in "Rivista storica italiana", LXXIII, 1951.

 

 

 

[Lo sviluppo industriale, i progressi sia pure limitati dell'agricoltura e la stabilità finanziaria procurarono a gran parte degli italiani un maggior benessere e condizioni di vita notevolmente migliori. Tra il 1896-1900 e il 1911-15 il reddito nazionale pro capite aumentò del 28 per cento. Almeno in molte zone dell'Italia settentrionale, la popolazione rurale partecipò ai progressi delle città. Il tasso di mortalità scese [...] e vi fu un fortissimo aumento della percentuale di reddito spesa in beni non essenziali, anche nelle campagne. I depositi delle Casse di risparmio raddoppiarono tra il 1900 e il 1913. Con l'aumento del numero delle scuole e degli insegnanti, l'analfabetismo diminuì e la frequenza nelle scuole aumentò: tra il 1900 e il 1913 le spese per l'istruzione furono triplicate, pur continuando a rappresentare soltanto il 4 per cento delle spese totali. Nel 1911 soltanto il 37,6 per cento della popolazione superiore ai sei anni non sapeva leggere o scrivere, rispetto al 48,5 nel 1901 e al 68,8 nel 1871. I salari, che erano rimasti quasi stazionari fìn dal 1880, dopo il 1900 cominciarono a salire, notevolmente nell'industria e lievemente anche nell'agricoltura: nonostante l'aumento dei prezzi verificatosi tra il 1898 e il 1901 e quello molto più sensibile registrato tra il 1907 e il 1909, i salari reali, tra il 1899 e il 1914, nel loro complesso aumentarono. Contemporaneamente furono ridotte le ore di lavoro: mentre nel 1870 una giornata lavorativa di 13-14 ore non era insolita, nel 1914 quella di 10 ore era normale. Realizzazioni degne di nota si ebbero nel campo della legislazione sociale: nel 1901, grazie soprattutto Luzzatti, fu creata una commissione per la protezione degli emigranti; nel 1902 e di nuovo nel 1907 furono imposte ulteriori restrizioni al lavoro dei fanciulli nell'industria e furono introdotte le prime norme per la protezione delle donne e, in conseguenza di ciò, la manodopera femminile nell'industria scese dal 54 per cento della manodopera totale nel 1903 al 23 per cento nel 1911, e la manodopera minorile dal 14 al 10 per cento. Furono approvate leggi speciali per la protezione degli operai dell'industria del tabacco e per migliorare le spaventose condizioni fisiche in cui cinquantamila braccianti stagionali dei due sessi lavora]

 

 

 

 

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