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la prima guerra mondiale

 

 

FONTI

 

Il Patto di Londra

Come si può notare dagli articoli 2 e 3 l'Italia, riconoscendo implicitamente la propria impreparazione a entrare subito nel conflitto, ottiene che la Russia sferri un attacco contro l'Austria per distogliere truppe dal fronte italiano e che la Francia e la Gran Bretagna contrastino la flotta austro-ungarica nell'Adriatico.
In cambio dell'intervento le vengono riconosciuti il Trentino, l'Alto Adige, Trieste e l'Istria (art. 4), oltre alla Dalmazia (art. 5) e a territori in Albania (art. 6).
Il governo italiano non dimentica neppure le questioni prettamente coloniali: l'art. 9 concede all'Italia una vasta fetta dell'Asia Minore, mentre l'art. 13 riconosce il diritto ad avere compensi coloniali in Africa nel caso di smembramento dell'impero coloniale tedesco tra Francia e Gran Bretagna.

art. 1 - Una convenzione militare sarà immediatamente conclusa fra gli stati maggiori generali della Francia, della Gran Bretagna, dell'Italia e della Russia; questa Convenzione fisserà il minimo delle forze militari che la Russia dovrà impiegare contro l'Austria-Ungheria al fine di impedire a questa Potenza di concentrare tutti i suoi sforzi contro l'Italia, nel caso in cui la Russia decidesse di portare il suo principale sforzo contro la Germania [...].

art. 2 - Da parte sua, l'Italia si impegna ad impiegare la totalità delle sue risorse nel perseguire la guerra in comune con la Francia, la Gran Bretagna e la Russia contro tutti i loro nemici.

art. 3 - Le flotte della Francia e della Gran Bretagna daranno il loro concorso attivo e permanente all'Italia fino alla distruzione della flotta austro-ungarica o fino alla conclusione della pace [...].

art. 4 - Nel trattato di pace, l'Italia otterrà il Trentino, il Tirolo cisalpino con la sua frontiera geografica naturale (la frontiera del Brennero), e inoltre Trieste, le contee di Gorizia e Gradisca, tutta l'Istria fino al Quarnaro comprese Volosca e le isole istriane di Cherso, Lussino, come pure le piccole isole di Plavnik, Unie, Canidole, Palazzuoli, San Pietro di Nembi, Asinello, Grnica e gli isolotti vicini.

art. 5 - Spetterà pure all'Italia la Provincia di Dalmazia secondo la sua attuale delimitazione amministrativa [...].

art. 6 - L'Italia riceverà l'intiera sovranità su Valona, l'isola di Saseno e un territorio sufficientemente esteso per assicurare la difesa di questi punti. [...].

art. 7 - [...] L'Italia sarà incaricata di rappresentare lo Stato d'Albania nelle sue relazioni con l'estero [...].

art. 8 - L'Italia riceverà l'intiera sovranità sulle isole del Dodecaneso che essa occupa attualmente.

art. 9 - In maniera generale, la Francia, la Gran Bretagna e la Russia riconoscono che l'Italia è interessata al mantenimento dell'equilibrio nel Mediterraneo e che essa dovrà, in caso di spartizione totale o parziale della Turchia d'Asia, ottenere una parte equa nella regione mediterranea finitima alla provincia di Adalia ove l'Italia ha già acquisito diritti e interessi [...].

art. 13 - Nel caso che la Francia e la Gran Bretagna aumentassero i loro domini coloniali d'Africa a spese della Germania, queste due Potenze riconoscono in principio che l'Italia potrebbe esigere qualche equo compenso, segnatamente nel regolamento in suo favore delle questioni concernenti le frontiere delle colonie italiane dell'Eritrea, della Somalia e della Libia e delle colonie vicine della Francia e della Gran Bretagna. [ ... ]

art. 16 - Il presente accordo sarà tenuto segreto. L'adesione dell'Italia alla dichiarazione del 5 settembre 1914 sarà resa pubblica subito dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia o contro di essa. [ ... ] Riferendosi agli articoli 1, 2 e 3 del memorandum, che prevedono la cooperazione militare e navale delle quattro Potenze, l'Italia dichiara che essa entrerà in campagna al più presto possibile ed entro un termine che non potrà eccedere un mese a datare dalla firma delle presenti. In fede di che i sottoscritti hanno firmato il presente accordo e vi hanno apposto i loro sigilli.

Imperiali - Benckendorff - Paul Cambon - E. Grevi

Patto di Londra, in M. Bendiscioli - A. Gallia, Documenti di storia contemporanea, Mursia, Milano 1971.

Luigi Aldovrandi Marescotti (1876-1945), capo di gabinetto del primo ministro Sonnino e suo rappresentante per le trattative diplomatiche durante la guerra, alla data del 23 febbraio 1915, mentre l'Italia trattava nascostamente con le potenze dell'Intesa, riporta nelle proprie memorie una dichiarazione del plenipotenziario italiano Guglielmo di Francavilla Imperiali, ambasciatore italiano a Londra e delegato del governo per la firma del patto.
Le parole rivelano come il governo italiano fosse già conscio fin dal principio che gran parte delle terre promesse all'Italia in Dalmazia non le sarebbero state poi assegnate alla fine del conflitto, essendo abitate per molta parte da genti slave. Ciononostante Imperiali si mostra convinto che sia necessario insistere su “domande aumentate” onde giustificare agli occhi dell'opinione pubblica italiana l'ingresso nel conflitto e ottenere qualcosa in più alla fine della guerra.

Circa l'art. 5 Imperiali osserva quanto segue: «Sull'articolo V potremo incontrare qualche difficoltà, giustificata sia dalla teoria della nazionalità, sia dalle accresciute presenti nostre domande in paragone di quelle formulate nelle conversazioni anteriori. Ma d'altra parte è evidente che se si affrontano le gravissime responsabilità di una guerra, non con eguale concordia desiderata dalla Nazione, è indispensabile, a giustificare la decisione del Governo di Sua Maestà, appagare il più possibile le aspirazioni nazionali». Sonnino risponde oggi stesso: «Per ragioni indicate pure da Vostra Eccellenza conviene insistere su domande aumentate».

Luigi Aldovrandi Marescotti, Guerra diplomatica, Mondadori, Milano 1936, p. 66.

Benedetto XV contro l' «inutile strage»

La Nota ai capi degli Stati in guerra fu consegnata alla diplomazia internazionale il 10 agosto 1917, quando correva voce che ci fosse la possibilità di una trattativa di pace. Essa divenne in breve il documento cui fecero riferimento i pacifisti di tutta Europa.
Le reazioni ufficiali non furono tra le migliori: alcuni ambienti governativi italiani accusarono il papa di essere filoaustriaco; parte dell'episcopato francese si dissociò dalla nota pontificia.
Poco dopo, illudendo alternativamente i contendenti che avrebbero conseguito al più presto la vittoria, gli avvenimenti del 1917 misero a tacere la voce alzata da Benedetto XV, anche se non ne spensero l'eco morale.
La definizione della guerra come «inutile strage» sarebbe stata più volte ripresa dai papi a proposito dei conflitti successivi.

Ai Capi dei popoli belligeranti.
Fino dagli inizi del Nostro pontificato, fra gli orrori della terribile bufera che si era abbattuta sull'Europa, tre cose sopra le altre Noi ci proponemmo: una perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti, quale si conviene a chi è padre comune e tutti ama con pari affetto; uno sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene che da Noi si potesse, e ciò senza accettazione di persone, senza distinzione di nazionalità o di religione, come Ci detta e la legge universale della carità e il supremo ufficio spirituale a Noi affidato da Cristo; infine, la cura assidua, richiesta del pari dalla Nostra missione pacificatrice, di nulla omettere, per quanto era in poter Nostro, che giovasse ad affrettare la fine di questa calamità, inducendo i popoli ed i loro Capi a più miti consigli, alle serene deliberazioni della pace, di una «pace giusta e duratura». [ ... ] In sì angoscioso stato di cose, dinanzi a così grave minaccia, Noi, non per mire politiche particolari né per suggerimento o interesse di alcuna delle parti belligeranti, ma mossi unicamente dalla coscienza del supremo dovere di padre comune dei fedeli, dal sospiro dei figli che invocano l'opera Nostra e la Nostra parola pacificatrice, dalla voce stessa dell'umanità e della ragione, alziamo nuovamente il grido di Pace, e rinnoviamo un caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle Nazioni. [ ... ] E primieramente, il punto fondamentale deve essere che sottentri alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti, secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell'ordine pubblico nei singoli Stati [ ... ]. Stabilito così l'impero del diritto, si tolga ogni ostacolo alle varie comunicazioni dei popoli, con la vera libertà e comunanza dei mari: il che, mentre eliminerebbe molteplici cause di conflitto, aprirebbe a tutti nuove fonti di prosperità e di progresso. [ ... ]
Sono queste le precipue basi sulle quali crediamo debba posare il futuro assetto dei popoli. Esse sono tali da rendere impossibile il ripetersi di simili conflitti e preparano la soluzione della questione economica, così importante per l'avvenire e il benessere materiale di tutti gli Stati belligeranti.
Nel presentarle pertanto a voi che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale ogni giorno più apparisce inutile strage. Tutti riconoscono, d'altra parte, che è salvo nell'uno e nell'altro campo l'onore delle armi; ascoltate dunque la Nostra preghiera, accogliete l'invito paterno che vi rivolgiamo a nome del Redentore Divino, Principe della Pace.

Benedetto XV, Nota ai capi degli Stati in guerra,
in E. Vercesi, Il Vaticano, l'Italia e la guerra,
in Collezione italiana di diari, memorie, studi e documenti per servire alla storia della guerra del mondo, Mondadori, Milano 1925.

I Quattordici punti di Wilson

Furono resi noti dallo stesso presidente in un discorso al Congresso americano l'8 gennaio 1918, mentre in Europa ancora ferveva la guerra.
I cardini del nuovo ordine che doveva instaurarsi erano basati anzitutto su una diplomazia che evitasse i sotterfugi e i patti segreti sul tipo di quello di Londra del 1915.
I principi affermati da Wilson erano quelli di nazionalità, di autodeterminazione dei popoli, di apertura economica.
Rivoluzionario per la mentalità dell'epoca è il quinto punto, dove si afferma che gli interessi dei popoli coloniali devono essere tenuti in ugual conto rispetto a quelli delle potenze europee. Il nono punto, riguardante i confini italiani, suscitò una vasta indignazione in Italia, in quanto metteva in discussione i compensi stabiliti col Patto di Londra del 1915. Proprio per questo alla Conferenza di pace di Versailles si profilerà ben presto lo scontro fra la diplomazia statunitense e quella italiana, con il mancato rispetto degli accordi londinesi. Il quattordicesimo punto, infine, gettava le basi della Società delle Nazioni, un organismo internazionale che avrebbe dovuto mantenere la pace tutelando il diritto internazionale e i diritti dei popoli più deboli.

1. Convenzioni di pace palesi, apertamente concluse e in base alle quali non vi saranno accordi internazionali segreti di alcuna specie, ma la diplomazia agirà sempre palesemente e in vista di tutti.
2. Libertà assoluta di navigazione sui mari all'infuori delle acque territoriali, tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra, salvo per i mari che potessero essere chiusi in tutto o in parte mediante un'azione internazionale in vista dell'esecuzione di accordi internazionali.
3. Soppressione, per quanto sarà possibile, di tutte le barriere economiche e creazione di condizioni commerciali eguali fra tutte le nazioni che consentiranno alla pace, e si assoceranno per mantenerla.
4. Garanzie convenienti date e prese che gli armamenti nazionali saranno ridotti all'estremo limite compatibile con la sicurezza del Paese.
5. Libera sistemazione, con spirito largo e assolutamente imparziale, di tutte le rivendicazioni coloniali basate sulla stretta osservanza del principio che, nel determinare tutte le questioni di sovranità, gli interessi delle popolazioni interessate dovranno avere un peso uguale a quello delle domande eque del Governo il cui titolo dovrà essere conosciuto. [...]
9. La sistemazione delle frontiere dell'Italia dovrà essere effettuata secondo le linee di nazionalità chiaramente riconoscibili. Ai popoli dell'Austria-Ungheria, il cui posto desideriamo vedere tutelato e garantito tra le Nazioni, si dovrà dare più largamente occasione per uno sviluppo autonomo. [...]
14. Un'associazione generale delle Nazioni dovrà essere formata in base a convenzioni speciali, allo scopo di fornire mutue garanzie di indipendenza politica e di integrità territoriale ai grandi come ai piccoli Stati.

H. Wilson, Quattordici punti, "Corriere della Sera", 10 gennaio 1918.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

La responsabilità del conflitto

Il dibattito sulle cause della prima guerra mondiale ha avuto nel periodo compreso tra le due guerre i suoi toni più accesi, soprattutto per la volontà tedesca di respingere la clausola (contenuta nel Trattato di Versailles) della «colpa della guerra» attribuita alla Germania.
Gli studiosi di questo periodo, come gli americani Fay e Schmitt, il tedesco Brandenburg e il francese Renouvin, basarono le proprie ricerche soprattutto sui documenti diplomatici dal Congresso di Berlino in poi, concentrando il loro interesse sul sistema di alleanze promosso da Bismarck, sistema giudicato deleterio in quanto, acuendo le rivalità internazionali, aveva finito per coinvolgere inevitabilmente tutte le potenze e i loro alleati in una guerra di portata generale.
Tuttavia, il problema è capire perché questo sistema crollò nel 1914. Certamente i motivi di conflitto non mancavano, le rivalità e i contrasti di interesse erano evidenti:
 - la Francia era determinata a ricuperare l'Alsazia e la Lorena;
 - la Gran Bretagna era preoccupata per la nascita di una grande flotta tedesca;
 - la Russia da tempo aspirava al controllo di Costantinopoli e degli Stretti;
 - l'Austria temeva il nazionalismo nei Balcani e nel territorio dell'Impero;
 - la Germania voleva affermarsi come grande potenza anche in campo coloniale;
 - l'Italia aspirava a Trento e Trieste, nonché a una politica di espansione nel Mediterraneo.
La questione non facile da risolvere è perché tutti questi motivi di attrito, alcuni dei quali non certo recenti, siano esplosi, venendo drammaticamente allo scoperto, proprio nel 1914.

La storiografia di ispirazione marxista, prendendo le mosse da Lenin, ha interpretato la guerra come la conseguenza dell'imperialismo che scatenò la rivalità degli Stati europei per la spartizione del mondo: la ricerca di mercati di sbocco e di fonti di materie prime, sotto la spinta delle grandi concentrazioni del capitale finanziario, acuì a tal punto le tensioni tra gli Stati da rendere, in un determinato momento, la guerra un esito inevitabile.
Questa spiegazione, però, non appare del tutto soddisfacente, dal momento che i numerosi dissensi sorti durante le conquiste coloniali, come la contesa tra Francia e Inghilterra per l'Egitto o la controversia tra Francia e Germania per il Marocco, per limitarsi a due soli degli innumerevoli casi di attrito, furono sempre risolti pacificamente; anzi, al momento dello scoppio della guerra, la maggior parte delle contese fra le potenze imperialistiche era in realtà risolta attraverso una serie di accordi e di compromessi.

Un'altra spiegazione è individuata nella pressione dell'opinione pubblica e nell'azione della stampa, che spesso conduceva una campagna ispirata a spirito nazionalistico e bellicoso a danno di altre nazioni. Molti giornali erano infatti finanziati dai governi e contribuivano a creare un'opinione pubblica favorevole alla guerra.
Si tratta però di un'interpretazione che presenta limiti evidenti, poiché l'opinione pubblica non ebbe alcun ruolo nella crisi finale e, tutt'al più, si può dire che la parte favorevole alla guerra, più mobilitata e attiva, rese più difficile la scelta della pace, ma non fu certamente tra le cause del conflitto.

Spostando invece l'interesse sui fattori di carattere militare, si può vedere come, prima del 1914, tutti gli Stati europei disponessero di forti eserciti di leva e attribuissero grande valore alla rapidità della mobilitazione; negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della guerra, inoltre, tutti gli eserciti erano stati rafforzati. I vari Stati si trovavano dunque in una situazione prebellica, come se un clima di sfiducia e di paura fosse diventato generale. Ogni Paese in certo modo aveva qualcosa da temere dal vicino e intanto si preparava ad affrontare la peggiore eventualità, nello stesso tempo usava la minaccia della guerra come deterrente, sapendo che in altri casi tale tattica era stata efficace. Nell'agosto del 1914, però, il deterrente non poté funzionare; nessuna nazione decise di ritirarsi, gli errori si accumularono a catena e tutti finirono per convergere in una sola direzione: lo scoppio del conflitto.

Il tedesco Fritz Fischer, peraltro, esaminando la politica della Germania, ha ritenuto che essa fin dal 1912 stesse preparando la guerra e l'avesse poi volontariamente provocata nel 1914 con l'intento di allargare in Europa il proprio dominio. La guerra inoltre aveva anche degli obiettivi di politica interna: salvaguardare gli interessi dell'aristocrazia tedesca nei confronti di una possibile vittoria dei socialdemocratici.

Negli anni Ottanta il problema è stato ripreso anche in rapporto agli avvenimenti politici del momento (guerra in Bosnia), causa di grandi tensioni internazionali.
Il cancelliere tedesco Helmut Schmidt, ad esempio, disse che gli pareva di trovarsi in una situazione simile a quella del 1914, quando gli automatismi strategico-militari, attraverso il meccanismo dei vincoli di alleanza e di clientela politica, avevano condotto a una guerra non voluta e non predeterminata. Nell'estate del 1984, la rivista americana International Security dedicò un intero numero alla riflessione sullo scoppio della prima guerra mondiale, attualizzando il discorso, chiedendosi cioè se effettivamente fosse possibile il ripetersi delle stesse condizioni. In un volume scritto da politologi di Harvard, il 1914 assunse il significato di un caso paradigmatico, di un "modello" di guerra scoppiata per incapacità di controllo, a livello sia di gestione diplomatica sia di comando tecnico-militare: in altri termini, lo scoppio della prima guerra mondiale venne interpretato come un caso di irrazionalità politica, di una situazione sfuggita al controllo degli statisti.

Più recentemente il problema non è soltanto oggetto di ricerca da parte degli storici, ma anche da parte dei politologi, che hanno applicato a questo tema un concetto centrale della scienza politica attuale, il «dilemma della sicurezza europea», che studia soprattutto i meccanismi che innescano la guerra. I due approcci, quello storiografico e quello politologico, sono utilizzati insieme da Gian Enrico Rusconi. Egli elabora la documentazione e le ricerche storiografiche insieme ai nuovi strumenti analitici offerti dalla scienza della politica, offrendo un punto di vista più articolato rispetto all'impostazione tradizionale.

Dal 28 giugno al 4 agosto

Relativamente agli avvenimenti intercorsi tra il 28 giugno e il 4 agosto 1914, poi  è sorto un dibattito storiografico non meno impegnativo rispetto a quello relativo alle cause della guerra.
Mentre alcuni storici austriaci si attengono ancora all'interpretazione che l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando, che fu il motivo occasionale del conflitto, fosse stato progettato dal governo serbo, le ricerche contemporanee hanno dimostrato che lo studente Princip e i suoi compagni agirono da soli; non ha neppure fondamento l'ipotesi che le autorità austriache avessero trascurato le misure di sicurezza per l'arciduca, essendo ostili al suo progetto di trasformazione dell'Austria in una struttura federale.
L'Austria, di fronte all'assassinio dell'arciduca, sapeva comunque di dover reagire e si consultò con la Germania, sua alleata, per avere un parere. Questa richiesta, rivolta il 5 luglio a Guglielmo II e al suo cancelliere Bethmann, fu un episodio decisivo.
La risposta tedesca fu una richiesta di fermezza da parte dell'Austria, a costo di entrare in guerra: in questo caso la Germania avrebbe appoggiato l'Austria. Questa risposta è oggetto di due diverse interpretazioni: una identifica in essa un preciso proposito di scatenare il conflitto, un'altra invece si fonda sulla convinzione che in questo modo la Germania volesse solo saggiare la potenza austriaca e la sua volontà di farsi valere.
Alcuni storici pensano pertanto che l'ultimatum del 23 luglio rivolto dall'Austria alla Serbia non avesse altro scopo che di umiliarla, non di provocare una reazione militare.
La Gran Bretagna tentò una mediazione, ma l'Austria, per evitare che giungesse a buon fine, dichiarò guerra il 28 luglio. A questo atto fece seguito la mobilitazione russa del 30 luglio, che alcuni studiosi, come l'americano Sidney Bradshaw Fay, considerarono il primo autentico segnale di guerra, addossando così alla Russia la responsabilità del conflitto.
L'evento decisivo fu tuttavia, secondo la maggioranza degli storici, la mobilitazione tedesca, che, a differenza degli altri tipi di chiamata alle armi, non poteva restare tale, ma, secondo il Piano Schlieffen, avrebbe dovuto tradursi subito in guerra offensiva, eliminando la Francia prima che la Russia completasse la propria mobilitazione.
Alcune ricerche hanno messo in luce come Guglielmo II, contrario alla guerra, cercasse di scongiurarla, mentre il cancelliere Bethmann, convinto della sua inevitabilità, desse attuazione al Piano Schlieffen.

L'atteggiamento del socialismo

Ci si è interrogati perché la Seconda Internazionale, che aveva fatto della lotta alla guerra uno dei suoi obiettivi, non si oppose ricorrendo a una mobilitazione generale dei lavoratori.
Probabilmente i socialdemocratici intesero la guerra come la necessità di una difesa della patria minacciata dalla Russia zarista e per questo trovarono naturale accettarla.
In Gran Bretagna alcuni deputati laburisti si opposero all'entrata in guerra del Paese, ma non ebbero l'appoggio dei sindacati, che invece erano favorevoli alla partecipazione al conflitto. In queste condizioni era evidentemente impensabile uno sciopero generale.

Origini e cause del conflitto

La discussione storica del ventennio successivo alla guerra è stata condizionata da pregiudiziali essenzialmente politiche.
L'esempio più lampante è rappresentato dall'ascesa di Hitler e dalle linee direttrici della sua politica espansionistica, che rispondeva al progetto di riportare la Germania alla dignità di prima potenza europea.
In effetti, prendendo in esame gli esiti della ricerca storiografica elaborata in quelle nazioni che più direttamente furono coinvolte nel conflitto, è assai complicato determinare una causa unica o, comunque, attribuire in toto la responsabilità del grande sconvolgimento a un solo Paese.
Lo storico italiano Pasquale Villani descrive in modo equilibrato la situazione del dibattito.

Il problema delle origini e delle responsabilità del conflitto è stato più volte riproposto. C'è una verità dei vinti e una dei vincitori. È anche importante comprendere come queste verità o queste convinzioni abbiano poi pesato nel determinare i comportamenti della pubblica opinione, gli atteggiamenti dei governi, le relazioni tra gli stati. Formalmente la questione fu risolta nell'articolo 231 del trattato di Versailles che attribuiva la responsabilità della guerra all'Austria-Ungheria e alla Germania. Gli storici sanno che la questione è molto più complessa e chiama in causa l'organizzazione del sistema internazionale nel ventennio che precedette la guerra, lo scatenarsi delle rivalità imperialistiche, l'impressionante ascesa economica e industriale della Germania, l'esasperazione dei sentimenti nazionali e della politica di potenza, la debolezza delle forze pacifiste, il fallimento della Internazionale socialista. Questi riferimenti generali non possono tuttavia nascondere il fatto che i circoli militari, ed una parte almeno del governo tedesco, ritenevano possibile con una breve e vittoriosa guerra – alla quale i tedeschi erano i meglio preparati – rafforzare l'egemonia mitteleuropea, che già di fatto esercitavano, e soddisfare l'aspirazione ad una posizione di potenza mondiale adeguata alla forza economica raggiunta. Queste aspirazioni tedesche – che troveranno nel settembre 1914 esplicita, anche se segreta, espressione in un documento che precisava gli scopi di guerra – prevedevano l'annessione di nuovi territori francesi nella zona lorenese con le miniere di Briey e Longwy, il controllo della Manica da Dunkerque a Boulogne, l'occupazione di Liegi e Verdun, l'estensione della frontiera tedesca ad oriente e il rafforzamento dei rapporti con l'impero austro-ungarico per la formazione di una forte area di dominio nell'Europa centrale. È evidente che la Germania era la forza più dinamica, e quindi più attiva nel turbare i vecchi equilibri. Le altre grandi potenze avevano posizioni più difensive. Anche l'Austria-Ungheria, che pur volle approfittare dell'incidente di Sarajevo per liquidare la spina nel fianco rappresentata dalla Serbia, intendeva soprattutto difendere la sua esistenza come composito stato multinazionale, minacciato dalla disgregazione. Probabilmente maggiori erano state le ambizioni russe che, alla tradizionale ingerenza nel mondo balcanico, al protettorato sugli slavi, avevano aggiunto una forte spinta espansiva verso l'Estremo Oriente. Ma gli avvenimenti del 1905 – la sconfitta subita ad opera del Giappone, la rivoluzione all'interno – consigliavano maggior cautela e propositi meno ambiziosi. La Francia aveva rivendicazioni nazionali ben precise verso la Germania: l'Alsazia e la Lorena. Si trattava di riprendere ciò che si considerava mal tolto e di arrestare, magari, il cammino tedesco verso una assoluta preponderanza in Europa. Per la Gran Bretagna la crescente potenza industriale e navale della Germania era il motivo più preoccupante; l'invasione del Belgio e la minaccia nella Manica giustificavano i timori sollevati negli ultimi anni dalla politica tedesca di armamento navale, che si accompagnava alla espansione industriale e commerciale alla quale gli inglesi guardavano con grande preoccupazione. In questo quadro, elementi decisivi nello scatenamento del conflitto appaiono sia la convinzione che si sarebbe trattato di una guerra di breve durata, la classica «continuazione della politica con altri mezzi» alla Clausewitz, sia il sostegno dell'opinione pubblica nazionale, dell'una e dell'altra parte, alle ragioni della guerra.

P. Villani, Trionfo e crollo del predominio europeo, Il Mulino, Bologna 1983, pp. 205-206.

Secondo un'ottica centrata sull'esame delle situazioni "locali" e, più precisamente, del grado di instabilità dei singoli governi nonché dei livelli di conflittualità interna, è tuttavia possibile secondo Rosario Villani individuare con nettezza, alla radice della vocazione espansionistica e bellicistica eventualmente riscontrata, la progettualità più o meno cosciente di trasferire "all'esterno" le tensioni complessive dei singoli Paesi, sciogliendo quindi i nodi dei contrasti politici intestini in un atto di aggressione nei confronti dei propri rivali.

All'origine della corsa al riarmo e della pesante atmosfera che si venne creando nei rapporti tra le nazioni non erano soltanto l'inasprimento della lotta per i mercati e la spinta degli interessi dinastici e delle rivendicazioni territoriali, ma anche la tendenza a creare una diversione alle lotte politiche e sociali interne, a mano a mano che queste si facevano più intense per la pressione delle classi lavoratrici e per la resistenza dei ceti industriali. La fiducia nella possibilità di frenare l'ascesa del movimento operaio cominciò a venire meno dopo la rivoluzione russa del 1905 e la crisi economica del 1907. Il bellicismo dei nazionalisti, la loro predicazione della guerra «rigeneratrice» e la loro polemica antidemocratica e antisocialista ebbero più largo credito allorché si vide che la crisi rivoluzionaria non era limitata alla Russia ma raggiungeva, in forme diverse, anche altri paesi. Nel 1908 una rivoluzione scoppiò in Turchia: il movimento dei Giovani Turchi, dopo avere ottenuto la concessione di una costituzione liberale, costrinse il sultano Abdul-Hamid II ad abdicare. L'ondata rivoluzionaria raggiunse la Cina, dove la resistenza agli stranieri era uscita dalla fase della rivolta spontanea di tipo tradizionale, che aveva avuto la sua massima espressione nel movimento dei boxers.

R. Villani, Storia dell'Europa contemporanea, Latenza, Bari 1972, p. 430.

La constatazione della pericolosità della situazione internazionale, che andava da tempo aggravandosi pur senza dar luogo a episodi clamorosi, è invece il filo conduttore delle argomentazioni dello studioso inglese George Lichtheim, il quale pone al centro dell'attenzione le ambizioni espansionistiche della Germania, anche se non si spinge fino a imputare a essa sola la responsabilità integrale nella decisione di aprire le ostilità.

Ma le nubi temporalesche si andavano ammassando già da anni, e almeno a Berlino c'era la tendenza sempre crescente a credere che il tempo lavorava contro la Germania, se non altro perché l'unica alleata su cui poteva contare, l'Austria, stava visibilmente andando a pezzi sotto la tensione degli antagonismi nazionali. Da parte tedesca c'era l'accettazione fatalistica della necessità d'una prova di forza con la Russia, la ferma convinzione che la Francia poteva venire liquidata in poche settimane, e qualche speranza di mantenere neutrale l'Inghilterra, nonostante l'antagonismo sempre più intenso alimentato dal programma tedesco di riarmo navale. Il capo di stato maggiore tedesco, Helmuth von Moltke, si limitò a tradurre in parole questi sentimenti quando, nel 1913, dichiarò al suo collega austriaco che prima o poi vi sarebbe stata una guerra europea, e che in ultima analisi il conflitto sarebbe avvenuto tra teutoni e slavi. Nello schieramento opposto, la Gran Bretagna e la Russia erano alleate in modo abbastanza vago, attraverso i rispettivi impegni con la Francia, e le tensioni tra loro erano così profonde che, se non ci fosse stata la Germania, ognuna se ne sarebbe andata per la propria strada: «Nessuna delle potenze della Triplice intesa voleva uno sconvolgimento europeo: tutte e tre avrebbero preferito voltare le spalle all'Europa e proseguire la loro espansione coloniale in Asia e in Africa. La Germania, d'altra parte, era arrivata a convincersi che avrebbe potuto allargare il suo impero oltremare solo dopo aver distrutto l'equilibrio di forze europeo: e l'Austria-Ungheria aveva bisogno di una guerra nei Balcani per poter sopravvivere» (A. J. P. Taylor). Non vi sono prove che lo stato maggiore tedesco avesse deliberatamente fissato lo scoppio della guerra per l'agosto 1914; ma tutto sta a dimostrare che venne accolta con gioia dall'imperatore e dai suoi consiglieri, i quali la consideravano l'unica via d'uscita da una situazione sempre più intollerabile. La Germania e l'Austria-Ungheria dovevano colpire prima che la minacciosa espansione del potenziale umano russo si mettesse in movimento: questa era la summa e la sostanza della loro saggezza collettiva. Se una guerra preventiva coinvolgeva la Francia e il Belgio, e se di conseguenza la Gran Bretagna abbandonava la sua posizione neutrale, tanto peggio: ma era un rischio che bisognava correre. Fu con questo spirito che i governi europei si avvicinarono all'abisso. L'ultimatum austriaco alla Serbia del 23 luglio 1914 ebbe semplicemente la funzione di detonatore.

G. Lichtheim, L'Europa del Novecento. Storia e cultura, Laterza, Bari 1972, pp. 134-135.

Il settore della storiografia che si occupa della prima guerra mondiale ha conosciuto una svolta importante, se non definitiva, in occasione della pubblicazione di alcuni lavori dello studioso tedesco Fritz Fischer.
Rompendo con una tradizione interpretativa dominante nella storiografia tedesca, fondata su moduli ideologici che risalivano al primo dopoguerra e la cui caratteristica precipua consisteva nel minimizzare il ruolo della Germania nella contingenza che innescò il conflitto, Fischer, in una serie di studi circostanziati estremamente importanti per rigore documentario oltre che per l'impegno civile di cui sono permeati, ha sostenuto con fermezza la tesi della responsabilità decisiva della Germania nel far precipitare gli eventi verso la catastrofe.

Che durante la crisi di luglio il Kaiser, i capi militari tedeschi e il Ministero degli Esteri abbiano premuto perché l'Austria-Ungheria sferrasse immediatamente il colpo contro la Serbia, ovvero che essi siano stati favorevoli all'invio alla Serbia di un ultimatum talmente duro da dover portare con estrema probabilità alla guerra tra i due paesi, e che così agendo si siano assunti consapevolmente il rischio di far scoppiare una guerra continentale contro la Russia e la Francia, è realtà consacrata nelle fonti ufficiali. Decisiva è però la constatazione, sinora contestata, che oltre ai gruppi citati anche lo statista che a norma della Costituzione era l'unico politicamente responsabile, il cancelliere Bethmann Hollweg, nei giorni 5 e 6 luglio si decise in favore di questo rischio e scavalcò perfino il Kaiser, quando questi minacciò di assumere un atteggiamento più fiacco. E che non si sia trattato di una «tragica fatalità», di «destino cieco», ma di una consapevole decisione politica, risulta inequivocabilmente dalle note di diario del suo segretario privato Kurt Riezler, che riproduce le conversazioni svoltesi tra Bethmann Hollweg e Riezler nelle giornate critiche del luglio (come negli anni precedenti e nel periodo successivo). [...] durante la crisi di luglio il cancelliere del Reich Bethmann Hollweg era per la guerra. Nel corso della guerra più di una volta lo stesso Bethmann Hollweg lasciò trapelare attraverso parole oscure quanto strettamente la Germania fosse coinvolta nell'inizio della guerra [ ... ]. La crisi di luglio non può essere considerata isolatamente. Essa acquista la giusta prospettiva soltanto se vista come anello di collegamento tra la «politica mondiale» tedesca quale fu praticata all'incirca dal 1895 e la politica delle mire belliche tedesche perseguita dall'agosto del 1914.

F. Ficher, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi, Torino 1965, pp. 96-97.

Alla perentoria affermazione di Fischer, Golo Mann oppone una posizione che, basandosi su criteri più obiettivi, ribalta l'impostazione "colpevolista" e lascia intravedere, piuttosto, il carico di recriminazioni di carattere etico e politico di cui la Germania venne fatta oggetto da parte dell'opinione pubblica mondiale già alle soglie dell'armistizio.
Per Mann, infatti, non solo è stato un errore attribuire la colpa esclusiva della guerra alla Germania, ma ciò è stato anche un'occasione che i Tedeschi hanno usato per opporsi al Trattato di Versailles.

Nessun'altra questione storica è stata così profondamente esaminata come quella della responsabilità nella guerra del 1914. Apparve più tardi in Germania una rivista intitolata Die Kriegsschuldfrage [L'interrogativo circa la colpa della guerra], vi furono cattedre universitarie i titolari delle quali non si occupavano praticamente di altro. Ciò si spiega essenzialmente per una mancanza di tatto degli alleati vittoriosi che, anticipando con sfrontatezza la ricerca ed erigendosi a giudici nella propria causa, facevano figurare esclusivamente come tedesca la colpa della guerra nel trattato di pace. Su quei paragrafi fondavano il loro desiderio di «riparazione»; in modo che gli storici tedeschi non avevano che da rifiutare la tesi della colpa esclusiva per far crollare con questo, moralmente e giuridicamente, l'intero edificio del trattato di Versailles. Ciò spiega l'accanimento della lotta, in cui la scienza era asservita dalle due parti a fini extra-scientifici. Ora finalmente gli attori del dramma del 1914 sono tutti morti e i giovani volontari dell'epoca sono uomini anziani. Ora questa storia sanguinosa è spostata abbastanza indietro dalla scena e coperta dall'ombra di uno scandalo più recente e più nefando, in modo che è divenuto finalmente possibile rappresentarla come realmente era, con i suoi colpevoli e semicolpevoli, nella debolezza degli uomini di ogni parte, senza che gli studiosi debbano disputare ulteriormente tra loro.

G. Mann, Storta della Germania moderna, 1789-1958, Garzanti, Milano 1981, p. 378.

La “strategia del rischio

Rifiutando l'interpretazione di Fischer, che attribuisce la responsabilità della guerra alla volontà dei gruppo dirigente tedesco in funzione di un piano di egemonia mondiale, Gian Enrico Rusconi, studioso di scienza della politica, utilizza concetti interpretativi che hanno come tema le relazioni internazionali, avvalendosi di un approccio storiografico e politologico; egli mette a fuoco, contro ogni determinismo storico, la logica delle azioni dei soggetti storici, dove è sempre presente un elemento di imprevedibilità.
Le due categorie da lui utilizzate sono la «strategia del rischio» e la «disposizione strategica militare offensiva».
Con la prima si denota un comportamento che pone in difficoltà l'avversario, mettendo in conto anche una eventualità negativa non desiderata (in questo caso la guerra); con la seconda si intende la presenza negli Stati europei di dottrine e di piani di guerra di tipo offensivo che riducono i margini della diplomazia e della trattativa.
Secondo Rusconi nella seconda metà del luglio del 1914 si configurano, in Europa, tre strategie:
 - tedesca e austriaca di coercizione contro la Serbia spinta fino al rischio della guerra;
 - russa e francese di negazione delle pretese austro-tedesche, fino all'accettazione della sfida della guerra;
 - inglese consistente in una composizione della crisi attraverso il negoziato.
Ecco come lo studioso ricostruisce il primo momento della crisi:

A Vienna (come del resto in alcune capitali europee) nessuno dubita che la Serbia «merita una lezione». I dubbi riguardano la sua natura e la sua efficacia, tenuto conto del grande protettore russo [...]. Se si vuole colpire seriamente la Serbia, non si può imbastire sui due piedi un intervento diretto senza preparazione militare e diplomatica [...]. Da queste considerazioni nasce l'idea di mandare a Berlino, in missione riservata, il conte Hoyos con un documento politico del governo e una lettera autografa di Francesco Giuseppe per Guglielmo II. In questa ultima si legge della necessità di non lasciare «impunito quel focolaio di agitazione criminale che è Belgrado» e quindi di eliminare la Serbia «come fattore politico dai Balcani». I documenti ufficiali e le memorie degli interessati non lasciano dubbi sulla volontà punitiva nell'iniziativa anti-serba. Ciò che non è chiaro ancora, ai primi di luglio, è la miscela tra coercizione diplomatica e coercizione armata. È un equivoco che peserà per settimane sulla crisi, favorito dalla segretezza degli accordi tra Berlino e Vienna. Il Kaiser prendendo atto, il 5 luglio, delle richieste austriache, garantisce il suo pieno appoggio. Non si nasconde il profilarsi di una «seria complicazione europea», per la prevedibile reazione russa. Ma si dichiara sicuro che la Russia di fronte ad un'Austria spalleggiata dalla Germania, non oserà muoversi. Nel linguaggio di oggi, la Germania è convinta di esercitare una deterrenza nei confronti della Russia. Nel rapporto che l'ambasciatore austriaco a Berlino, Ladislaus Szögyény, fa a Berchtold, la sera stessa del 5 luglio, sono enunciati gli elementi dell'atteggiamento tedesco: sostegno senza condizioni all'azione austriaca, improbabilità di una reazione militare russa, sollecitazione a Vienna per una mossa rapida. [...] È significativa questa associazione tra assicurazione di fedeltà all'alleanza e previsione che la Russia non si muoverà. Naturalmente il valore della dichiarazione tedesca sta nel promettere aiuto in caso di conflitto, ma non si può non notare l'insistenza sulla indisponibilità russa alla guerra. Evidentemente il Kaiser e i suoi collaboratori mirano a ripetere il successo del 1909, quando bastò la minaccia dell'intervento tedesco per fermare la Russia di fronte all'Austria che aveva annesso la Bosnia-Erzegovina, di cui era sino a quel momento solo l'amministratrice. Ma questa volta non si tratta di inglobamento di territori già amministrati, ma di una azione contro una nazione esterna e sovrana. Anche l'intimidazione cambia qualità. Che questo particolare possa provocare una reazione russa diversa dal 1909, sembra sfuggire al Kaiser. Ma non sfugge al cancelliere Bethmann Hollweg che, approvando e formalizzando il 6 luglio l'impegno preso dal sovrano, si prepara ad una gestione difficile della crisi senza escludere affatto la possibilità di una guerra estesa. Intanto il Kaiser vede i capi militari e il ministro della guerra Erich von Falkenhayn, ai quali dice in modo assai sbrigativo ma estremamente significativo che «gli austriaci si preparano alla guerra contro la Serbia e prima vogliono essere sicuri della Germania». Si informa se l'esercito è «pronto». Ne ha risposta affermativa. Prima di imbarcarsi a Kiel per la sua crociera, incontra anche Krupp, il «re dei cannoni». Gli chiede che cosa succederebbe nella sua azienda se si dovesse mobilitare. Anche qui la risposta è rassicurante: le fabbriche Krupp sono sempre pronte anche in caso di guerra. Questi due episodi, facilmente interpretabili come segni della preparazione alla guerra, sono illuminanti anche in un senso diverso. Rivelano l'imprevidenza del gruppo dirigente tedesco di fronte alla qualità del conflitto che li attende. Sono infatti pronti per una guerra diversa da quella che ci sarà: si aspettano una guerra rapida, organizzata su risorse normali, economicamente poco costosa. Nessuno sospetta che di lì ad un anno l'intera economia tedesca avrebbe dovuto ristrutturarsi per sostenere una guerra che aveva bruciato tutte le riserve.

G. E. Rusconi, Rischio 1914. Come si decide una guerra, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 53-55.

Guerra e psicologia delle masse

La prima guerra mondiale deve essere considerata il primo evento bellico in assoluto che abbia impegnato completamente i Paesi partecipanti.
Per la prima volta si realizzò il coinvolgimento totale delle classi dominanti, dei diversi ceti e apparati statali, nonché delle masse operaie e contadine.
Nello spazio di pochi mesi sembrarono sovvertite le preclusioni ideologiche e gli orientamenti culturali che, per un lungo periodo, avevano costituito le direttive fondamentali per la quotidianità della vita sociale. Prevalsero gli impeti nazionalistici e "patriottici" a scapito delle istanze solidaristiche e pacifiste, alimentate in particolare dai partiti socialisti e di ispirazione laburista o cristiano-sociale; la psicologia delle masse parve riplasmata, al contrario, sui moventi che di fatto contraddicevano anni e anni di pedagogia popolare imperniata sui temi della giustizia sociale, della fratellanza tra i popoli e dell'antimilitarismo.
Il quadro risulta così paradossale: milioni di uomini partirono per combattere una guerra, da cui tra l'altro non avrebbero potuto trarre alcun vantaggio, senza opporre quella resistenza che sarebbe logico supporre conoscendo i principi nell'osservanza dei quali erano stati educati.
Su questo apparente "assurdo" fa il punto lo storico Wolfgang I. Mommsen.

Nei primi giorni dell'agosto 1914 i popoli europei, nella stragrande maggioranza, partirono per la guerra con un entusiasmo quasi religioso. La lotta per la patria parve dare alla vita improvvisamente un contenuto nuovo e infinitamente più ricco. L'ondata di entusiasmo nazionalistico che afferrò le masse travolse ovunque i gruppi che si erano espressi contro la guerra o almeno in un primo tempo li ridusse al silenzio. Questo diffondersi di passioni nazionalistiche trasformò radicalmente gli schieramenti politici. [...] Il fatto più sorprendente fu costituito dall'atteggiamento dei socialisti, che in quasi tutti i paesi in guerra sostennero lealmente la causa del proprio governo, pur avendo dato chiara prova della loro volontà di pace negli ultimi giorni della crisi. Le deliberazioni del Congresso di Stoccarda della Seconda Internazionale nel 1907, secondo cui i partiti socialisti di tutti i paesi avrebbero dovuto far fronte comune e opporsi a una guerra, rimasero, dopo inconsistenti tentativi di negoziati tra le socialdemocrazie tedesca e francese, un semplice pezzo di carta. Nel momento del pericolo nessuno dei partiti socialisti osò opporsi all'appello della propria patria.

W. J. Mommsen, L'età dell'imperialismo, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 317-319.

George L. Mosse, attento allo studio della psicologia di massa, delle mitologie e dei sistemi di valori generati nell'ambito della prima guerra mondiate, scrive:

La Grande Guerra ebbe anche importanti dimensioni nuove, che influenzarono il come gli uomini e le donne la percepirono. Essa fu la guerra di un'età tecnologica, con nuovi e più efficaci mezzi di comunicazione, che contribuirono a diffonderne l'immagine e a stimolare l'immaginazione. Ma la cosa più importante di tutte fu il fatto che il conflitto introdusse (sul fronte occidentale) una nuova maniera di combattere, la quale influenzò il significato che la guerra avrebbe avuto nella vita della maggioranza dei soldati. [...] Gli uomini si trovavano costantemente in presenza della morte in battaglia, ma anche nella terra di nessuno e nelle stesse trincee. I soldati utilizzavano i cadaveri insepolti come appoggio per i loro fucili e come punti di riferimento per orientarsi nelle trincee, e qualche volta, se gli stivali dei morti erano in condizioni migliori di quelli che avevano ai piedi, glieli toglievano. Al tempo stesso, se il confronto con la morte di massa era onnipresente, un altro aspetto della vita nelle trincee s'imprimeva con pari forza nella mente degli uomini: il cameratismo dei membri della stessa squadra, che vivevano insieme e dipendevano l'uno dall'altro per la loro sopravvivenza. Alla fine della guerra, si vide in ciò un'esperienza positiva, giacché anche prima del conflitto molti avevano ardentemente desiderato una qualche specie di comunità significativa, che offrisse un antidoto al generale sentimento di solitudine del mondo moderno. Naturalmente, in mezzo alla distruzione il cameratismo era di per sé insufficiente a vincere la paura e la tristezza dinanzi alla morte onnipresente: non soltanto al fronte, ma anche a casa era difficile trovare qualcuno – individuo o famiglia – che non avesse subito una perdita irreparabile.

G. L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Bari 1990, pp. 45-46.

L'Italia e la prima guerra mondiale: neutralisti e interventisti

Allo scoppio delle ostilità tra Austria e Serbia, l'Italia, per gli articoli I e VII del Trattato della Triplice Alleanza (funzione difensiva, consultazioni e compensi), non riconobbe il casus foederis (il caso specifico dell'alleanza) e si dichiarò neutrale. L'atteggiamento italiano influì notevolmente sull'andamento della guerra: privò la Germania di 250 mila soldati che l'Italia avrebbe dovuto mandare sul Reno, e, permettendo alla Francia di trasferire le proprie armate dal fronte alpino sul Reno e di fare affluire per mare le truppe coloniali, rese possibile la sua resistenza ai Tedeschi.
All'interno la nazione si scisse fra interventisti e neutralisti: il popolo si schierò per la neutralità, come spiega Luigi Segato:

Il neutralismo era il più spontaneo atteggiamento del popolo italiano, il quale rifuggiva dallo schierarsi accanto all'Austria-Ungheria per gli antichi ricordi e per le tristi condizioni fatte ai nostri fedeli fratelli di oltre confine ed anche perché erano ben noti i progetti dei suoi generali di approfittare d'ogni propizia occasione per prenderci per la gola e avere mano libera in Oriente. Inoltre la nazione capiva che non poteva schierarsi contro la Gran Bretagna, dominatrice dei mari, la quale oltre a poter portare offesa gravissima contro le nostre città costiere, ci avrebbe potuto affamare; d'altra parte gettarci senz'altro con l'Intesa [...] ripugnava al sentimento di lealtà di molti.

L. Segato, Italia nella guerra mondiale, Vallardi, Milano 1935.

Pure neutrali si dichiararono i due partiti di massa: il popolare e il socialista, sebbene per motivi diversi. Il neutralismo dei cattolici era di principio, ma "condizionato", e ciò derivava, secondo Ivanoe Bonomi, dalla loro preoccupazione di non apparire ancora contrari all'unificazione nazionale e dalla coscienza di rappresentare una grande forza per le prospettive della vita politica italiana. Gran parte dei socialisti, tranne quelli rivoluzionari o quelli vicini alle posizioni di Benito Mussolini, si schierarono contro la guerra, in quanto internazionalisti e pacifisti per ragioni ideologiche e politiche.
Lo storico della filosofia Rodolfo Mondolfo scrisse:

La guerra porta l'accresciuta potenza della borghesia, contro cui il proletariato dovrà sempre combattere, e il rafforzamento del militarismo, inevitabile conseguenza di ogni guerra, e più specialmente delle guerre vittoriose: due condizioni che indeboliscono notevolmente l'efficacia delle forze proletarie nelle lotte per la sua emancipazione.

R. Mondolfo, in "Critica", 1914

Il socialista Filippo Turati ebbe a notare:

Nessun paese è meno costretto, consigliato o autorizzato dell'Italia a mescolarsi alla guerra; nessun paese ha altrettanto da temere dal parteciparvi e così poco da sperarne anche nell'ipotesi del miglior successo. Per ragioni storiche, geografiche, demografiche; per ragioni di stirpe e di tradizione, per ragioni finanziarie ed economiche, per la sua indole di nazione esportatrice di mano d'opera e tributaria fatalmente ancor oggi verso il capitale straniero, l'Italia ha tutto l'interesse di restare, di diventare la grande mediatrice e pacificatrice dei popoli, non legata, non vassalla a una gente o all'altra, all'uno o all'altro aggruppamento di Stati. Nessun'altra nazione ha bisogno al pari dell'Italia di chiedere l'aumento della sua influenza economica e politica nel mondo unicamente allo sviluppo superiore della sua civiltà, all'incremento della sua produzione, al rinvigorimento della sua organizzazione e disciplina intellettuale, morale, industriale, scientifica e tecnica, allo sviluppo di tutte quelle attività, qualità e strumenti di azione che la guerra e l'organizzazione per la guerra impediscono, paralizzano e stroncano ineluttabilmente. Di guisa che ogni guerra dell'Italia che non sia di difesa necessaria nel senso più rigoroso del vocabolo, appare a noi in realtà una guerra contro l'Italia.

F. Turati, Trent'anni di critica sociale, Zanichelli, Bologna 1921.

Neutrale era nella sua gran parte anche il Parlamento, influenzato da Giolitti, convinto assertore della convenienza per l'Italia di un neutralismo "contratto", cioè condizionato alla cessione da parte dell'Austria delle terre irredente. Così egli stesso ne parla:

Io avevo la convinzione che la guerra sarebbe stata lunghissima, e tale convinzione manifestavo liberamente a tutti i colleghi della Camera. A chi mi parlava di una guerra di tre mesi rispondevo che sarebbe durata almeno tre anni, perché si trattava di debellare i due Imperi militarmente più organizzati del mondo, che da oltre quarant'anni si preparavano alla guerra, i quali avevano una popolazione di oltre centoventi milioni e potevano mettere sotto le armi sino a venti milioni di uomini; che l'esercito dell'Inghilterra, di nuova formazione, sarebbe stato in efficienza, come dichiarava lo stesso governo inglese, solamente nel 1917; che il nostro fronte sia verso il Carso, sia verso il Trentino, presentava difficoltà formidabili. Osservavo d'altra parte che, atteso l'enorme interesse dell'Austria di evitare la guerra coll'Italia, e la piccola parte che rappresentavano gl'Italiani irredenti in un Impero di cinquantadue milioni di persone, si avevano le maggiori probabilità che trattative bene condotte finissero per portare all'accordo. Di più consideravo che l'Impero austro-ungarico, per le rivalità fra l'Austria e l'Ungheria e soprattutto perché minato dalla ribellione delle nazionalità oppresse, slavi del sud e del nord, polacchi, sloveni, rumeni, croati e italiani, che ne formavano la maggioranza, era fatalmente destinato a dissolversi, nel qual caso la parte italiana si sarebbe pacificamente unita all'Italia. Inoltre, a me pareva dubbio che ad una guerra di molti anni quell'impero potesse resistere. All'intervento degli Stati Uniti d'America, che fu poi la vera determinante di una più rapida vittoria, allora nessuno pensava né poteva pensare [...]. Consideravo ancora che la guerra assumeva già allora il carattere di lotta per l'egemonia del mondo fra le due maggiori potenze belligeranti, mentre era interesse dell'Italia l'equilibrio europeo, a mantenere il quale essa poteva concorrere solamente serbando intatte le sue forze.

G. Giolitti, Memorie della mia vita, vol. II, Milano 1922 (ristampa Garzanti, Milano 1982).

L'interventismo dei nazionalisti Corradini, Federzoni, Papini e D'Annunzio voleva la guerra «per fare una tempera al fiacco metallo italiano e per operare una redenzione imperiale della nazione».
Favorevole all'intervento immediato fu anche Mussolini, un ex socialista, che era passato dalla più radicale opposizione alla guerra alla sua esaltazione «per non essere», come egli diceva, «mummie perennemente immobili con la faccia rivolta allo stesso orizzonte» ma «per essere uomini vivi che vogliamo dare il nostro contributo alla storia» (citazioni da "Il popolo d'Italia", 1914).
Neutralismo e interventismo, secondo gli storici, non erano due posizioni, due atteggiamenti improvvisi, ma si ricollegavano alla nostra tradizione risorgimentale, rappresentata rispettivamente dai moderati e dai democratici. Scriveva in proposito Benedetto Croce:

La polemica tra interventisti e neutralisti si riduceva al contrasto risorgimentale di Sinistra e Destra, di liberalismo democratico e liberalismo puro, di ideologia astratta e ideologia storica, di procedere spiccio e avventato e di procedere cauto. I neutralisti erano i liberali di Destra, che non prendevano alla leggera l'alleanza per tanti anni mantenuta cogli Imperi centrali, che non prendevano alla leggera la partecipazione dell'Italia a una guerra d'indeterminabile durata e gravida di sorprese, e tenevano presente che le nuove alleanze (rafforzando la Russia e promuovendo unioni di popoli e federazioni di Stati nei Balcani e nell'Adriatico) portavano con sé nuovi e futuri contrasti, non minori di quelli che già esistevano coll'Austria, e soprattutto non si davano ad intendere che la guerra che si combatteva fosse una chiara guerra d'idee, tra regimi liberali e regimi illiberali, perché la vedevano invece priva e scarsa di motivi ideali e ricca di quelli industriali e commerciali, tutta nutrita d'incomposte brame e di morbosa fantasia. Per queste e simili ragioni, essi non escludevano la guerra contro gli Imperi centrali ma chiedevano che l'Italia la dichiarasse solo dopo essersi bene accertata di non potere fare altrimenti. Gli interventisti o liberali democratici ragionavano diversamente, con diversi presupposti di cultura e forma mentale e ritenevano cosa sicura che si trattasse in quella guerra di coronare l'edificio incompleto della indipendenza dei popoli e delle libertà interne e che la giustizia fosse dalla parte dell'Intesa.

B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1959.

Nei primi mesi del 1915 si verificò un'incredibile convergenza tra forze politiche di ogni ideologia e tendenza in favore dell'intervento militare contro l'Austria.
L'analisi dello storico Giovanni Sabbatucci mostra come in realtà questa scelta fosse profondamente in contrasto con le idee politiche professate e come spingesse a collaborare tra loro intellettuali e movimenti appartenenti a tutto l'arco costituzionale, dall'estrema Destra all'estrema Sinistra.

Il fervore rivoluzionario e la convinzione di vivere una irripetibile occasione storica indussero evidentemente i militanti interventisti a sorvolare su alcune vistose contraddizioni. I nazionalisti e gli intellettuali antipositivisti non trovarono sconveniente combattere fianco a fianco con i superstiti del repubblicanesimo vecchio stampo, con gli alfieri del radicalismo di obbedienza massonica e di antiche simpatie francofile [...], con gli esponenti di quella democrazia «bloccarda» che aveva per anni costituito il loro principale obiettivo polemico. I sindacalisti rivoluzionari, i mazziniani intransigenti, i socialisti eterodossi si affezionarono all'idea – a ben guardare piuttosto balzana – di una rivoluzione giacobina attuata col consenso del re, a sostegno di un governo conservatore, per partecipare a una guerra che sarebbe stata comunque combattuta non dalle milizie popolari ma dal regio esercito e gestita non dai comitati rivoluzionari ma dalle gerarchie militari. Democratici intemerati come Bissolati e Salvemini non avvertirono le valenze antidemocratiche (oltre che antiliberali) implicite in una mobilitazione diretta contro il primo Parlamento eletto in Italia a suffragio (quasi) universale maschile. Intellettuali tutti concretezza e antiretorica come Salvemini e De Viti De Marco non sentirono il bisogno di dissociarsi dagli aspetti più beceri e più violenti della campagna interventista: dalla ripetuta minaccia (a volte attuata) di passare a vie di fatto contro gli avversari, alla denuncia isterica delle presunte infiltrazioni tedesche nel mondo dell'economia e della cultura (compresa la campagna, di sapore vagamente razzista, contro le «mogli tedesche»), agli insulti distribuiti a piene mani contro la «falsa» rappresentanza elettiva.

G. Sabbatucci, Le radiose giornate, in Aa. Vv., Miti e storia dell'Italia unita, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 98-99.

Federico Chabod identifica le preoccupazioni dei neutralisti con la tesi che settant'anni prima aveva prospettato Cesare Balbo – persuadere l'Austria a lasciare l'Italia, ma nello stesso tempo favorirne il potenziamento nei Balcani in funzione antislava e antitedesca – e riallaccia il proposito degli interventisti democratici all'aspirazione mazziniana di abbattere l'Impero asburgico per poter formare un'Europa di nazioni libere.

L'intervento dei democratici si ricollega per via diretta alla predicazione mazziniana, così ostinata e insistente, per decenni, nel proporre il delenda [deve essere distrutta l'] Austria, l'abbattimento di uno dei due mostri la cui scomparsa soltanto poteva inaugurare, in tutta Europa, l'era dei popoli liberi (l'altro mostro era l'Impero ottomano). Guerra all'Austria con la precisa consapevolezza che da essa, con lo sfasciarsi dell'Impero asburgico, sarebbero sorti, ai confini orientali d'Italia, nuovi stati nazionali; che, cioè, il riscatto di Trento e Trieste all'Italia si sarebbe necessariamente appaiato con il costituirsi a libera nazione degli altri popoli sino allora contenuti nell'ambito dell'Impero asburgico e con l'ampio obiettivo di costruire con gli slavi un edificio comune adriatico e centroeuropeo, come aveva voluto Mazzini. All'opposta tradizione-Balbo si rifacevano i neutralisti; infatti, anche Balbo aveva voluto l'Austria fuori d'Italia: ma non già vagheggiando la distruzione dell'Impero asburgico, anzi un suo rafforzamento ad Oriente, nella valle del Danubio e nei Balcani. L'Impero doveva rimanere in piedi, ben saldo, per costruire l'antemurale della civiltà europea contro la marea slava, premente da Oriente, contro gli smodati appetiti della Russia e l'eccessivo dilatarsi della Germania [...] per evitare che l'Italia si trovasse, sulle Alpi e nell'Adriatico, ad immediato contatto con quella giovane e vigorosa Germania, colla quale ogni gara pacifica, come ogni eventuale ostilità, sarebbe assai più ardua che coll'Austria. Erano due politiche opposte ma tutte e due logiche; logica e coerente la politica degli interventisti perché rendendosi ben conto che il movimento delle nazionalità nell'Impero asburgico costituiva ormai una forza storica e che la guerra non poteva chiudersi, nemmeno per l'Italia, soltanto nel problema delle terre irredente da riunire alla madre patria, ponevano ipso facto il problema del futuro aspetto della valle danubiana e dei Balcani e quindi della futura convivenza dell'Italia, con gli Stati fatalmente successori dell'Impero asburgico. Logica e coerente pure, anche se chiusa in un programma diciamo conservatore verso Oriente di impossibile attuazione ormai in quella situazione storica, la linea politica dei neutralisti, che volendo assolutamente la scomparsa dell'Impero, non volevano nemmeno che l'Italia entrasse in guerra contro l'Austria per Trento e Trieste, e sarebbero stati disposti a rinunziare alle terre irredente, mantenendosi dunque fedeli alla sola parte conservativa dei programmi alla Balbo.

F. Chabod, Sulla politica estera dell'Italia, in Orientamenti per la storia d'Italia del Risorgimento, Laterza, Bari 1952.

La sola a non essere né logica né coerente fu proprio la politica del governo e in modo specifico del ministro degli Esteri Sidney Sonnino, il quale volle l'intervento senza riuscire a prospettarsene le inevitabili conseguenze.
Sonnino e Salandra, secondo Chabod, commisero l'errore di considerare l'intervento italiano come solo mezzo per ottenere Trento e Trieste, nella convinzione, propria dei moderati, che l'Impero asburgico sarebbe rimasto in piedi, ma non intravidero la sua dissoluzione e, pertanto, non intuirono i grandi problemi del dopoguerra, donde le delusioni e le difficoltà della pace pur vittoriosa.

I trattati di pace, le relazioni internazionali e la Società delle Nazioni

I lavori della conferenza di pace si aprirono il 18 gennaio 1919 nella reggia di Versailles e durarono oltre un anno e mezzo. Venne ridisegnata la carta politica europea sconvolta dal crollo di quattro Imperi, tedesco, austro-ungarico, russo e turco.
Era importante ricostruire un equilibrio europeo, ma anche tener conto di quei principi di democrazia e di giustizia internazionale a cui l'Intesa si era richiamata nell'ultimo periodo della guerra.
Fin dall'inizio si vide come i problemi posti erano di difficile soluzione. Non era facile, per esempio, applicare i principi di nazionalità e di autodeterminazione dei popoli in un'Europa popolata da gruppi etnici spesso intrecciati fra loro; né era facile conciliare i due principi di una pace punitiva per gli Stati giudicati responsabili della guerra, come la Germania, e di una pace democratica come premio per i vincitori.
La Germania subì un trattato umiliante, sotto la minaccia dell'occupazione militare e del blocco economico.
Si dissolse l'Impero austro-ungarico e al suo posto nacquero nuovi Stati:
 - la nuova Repubblica d'Austria; la nuova Polonia, ingranditasi con la Galizia e con territori che erano appartenuti all'Impero russo e tedesco;
 - la Repubblica di Cecoslovacchia, uno Stato federale che comprendeva anche una minoranza di tre milioni di Tedeschi;
 - la Iugoslavia, formata dalla Serbia, dal Montenegro e dagli Slavi del Sud, cioè da abitanti della Croazia, della Slovenia e della Bosnia Erzegovina.
Venne ingrandita la Romania e ridimensionata la Bulgaria, mentre al posto dell'Impero ottomano sorse lo Stato nazionale turco.
La Russia, che non partecipò alla conferenza di pace, perse i territori baltici, che divennero repubbliche indipendenti, la Finlandia, l'Estonia, la Lettonia e la Lituania.
Nel 1921 infine nacque ancora un nuovo Stato europeo: lo Stato libero d'Irlanda, cui la Gran Bretagna concedette una condizione di semi-indipendenza, con l'esclusione però della regione dell'Ulster protestante.
In questa carta politica disegnata a Versailles erano implicite delle questioni non risolte, o affrontate in modo da creare nuovi problemi, alcuni dei quali daranno origine alla seconda guerra mondiale. Su questi temi scrive Pasquale Villani:

Il trattato con la Germania fu firmato il 28 giugno 1919 a Versailles, nello stesso luogo dove i francesi avevano sottoscritto, da vinti, la pace del 1871. Gli altri trattati presero il nome dei sobborghi parigini dove furono sottoscritti: a Saint Germain en Laye (10 settembre 1919) fu firmata la pace con l'Austria; al Trianon con l'Ungheria (4 giugno 1920); a Neuilly sur Seine con la Bulgaria; a Sèvres (10 agosto 1920) con la Turchia. Trionfava nel trattato di Versailles il cerimoniale del riscatto e della rivincita e si alimentavano le rivalità nazionali; il trattato constava di ben 440 articoli, una specie di monumento di carta; la delegazione tedesca si rifiutò in un primo momento di firmare, chiedendo modifiche che non furono concesse ma, essendo impensabile una ripresa della guerra, alla fine accettò il trattato come imposizione, come «diktat». Oltre all'Alsazia e Lorena che tornavano alla Francia, la Germania perdeva, a favore della Polonia, la Posnania e una parte della Prussia orientale. Per dare alla Polonia uno sbocco al mare, fu interrotta la continuità del territorio tedesco creando tra la Prussia orientale e la Germania un corridoio polacco nella zona di Danzica. La Saar, sulla riva sinistra del Reno, regione di rilevante importanza economica, sarebbe stata amministrata per 15 anni dalla Società delle Nazioni e la sua sorte decisa poi da un plebiscito; in conto riparazioni, la Francia otteneva intanto di sfruttarne le miniere di carbone. Una delle clausole del trattato attribuiva alla Germania la responsabilità della guerra: ne discendeva l'obbligo di corrispondere ai vincitori riparazioni in entità da precisare, l'abolizione della coscrizione militare, la limitazione delle forze armate tedesche a 100.000 uomini e il divieto di disporre di carri armati, di artiglieria pesante e di aviazione. Alcune parti della Renania erano provvisoriamente occupate dai francesi. La questione delle riparazioni doveva ben presto rivelarsi di assai difficile soluzione e fonte di gravi dissidi fra gli stessi alleati. Essa implicava conseguenze economiche e politiche e prospettive molto diverse sulle possibilità di ricostruzione e stabilizzazione dell'Europa postbellica.

P. Villani, L'età contemporanea, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 363-364.

Dalla Conferenza di Versailles nacque, il 28 aprile 1919, un organismo internazionale, la Società delle Nazioni, preannunciato nei quattordici punti che costituirono il testo di un messaggio inviato dal presidente Wilson al Congresso americano l'8 gennaio 1918.
Il quattordicesimo punto di questo documento, ispirato ai principi della libertà di mercato e al rispetto della sovranità e dell'autodeterminazione di ogni popolo, indicava espressamente la necessità di costituire un'Associazione Generale delle Nazioni, formata in base a un'apposita convenzione, allo scopo di garantire l'indipendenza politica e l'integrità territoriale ai grandi come ai piccoli Stati.
La nascita di questo organismo alimentò nei democratici di ogni Paese la speranza nella fine dei contrasti tra le potenze e l'avvio di un periodo di pace, ma la sua funzione di equilibrio internazionale risultò compromessa fin dall'inizio per ragioni interne e per motivi di carattere generale.
Per prima cosa, furono esclusi dalla Società delle Nazioni la Russia sovietica nonché gli stessi Stati Uniti, per volontà del Congresso, che preferì non interessarsi delle questioni politiche europee; essa divenne quindi uno strumento politico gestito dalla Francia e dalla Gran Bretagna in funzione dei propri interessi.
Inoltre, nel Trattato di Versailles erano contenute affermazioni che legittimavano il ruolo imperialista degli Stati europei, in aperto contrasto con il rispetto dei principi di indipendenza di ogni nazione.
L'idealismo che aveva ispirato la Società delle Nazioni era così contraddetto dalla politica realistica del trattato, che esprimeva una pura volontà di potenza dei vincitori.
Emery Reves attribuisce il fallimento di questo organismo alla falsa nozione dell'internazionalismo, cioè l'idea che Stati sovrani, ciascuno con i propri interessi e la propria volontà sovrana, possano trovare accordi durevoli di pace.

Dopo le rovine della prima guerra mondiale, i rappresentanti degli stati nazionali, gli stessi governi nazionali sentirono che qualcosa si doveva fare per gettare un ponte sull'abisso che si allargava sempre più tra le nazioni, e per impedire che si ripetessero tra di esse guerre così devastatrici. Da questa necessità nacque il Covenant della Lega delle Nazioni, redatto principalmente da Woodrow Wilson, dal colonnello House, da Lord Cecil e Léon Bourgeois. Secondo il Covenant, la pace doveva essere mantenuta mediante regolari assemblee e discussioni delle rappresentanze degli stati nazionali sovrani aventi uguali diritti in una Assemblea di tutte le nazioni e in un Consiglio, costituito da rappresentanti delle grandi potenze, come membri permanenti, e di un numero limitato delle potenze minori, eletti dall'Assemblea come membri temporanei. Nessuna decisione era possibile contro il veto di qualsiasi nazione. L'unanimità era necessaria per applicare qualsiasi misura effettiva. Qualsiasi governo nazionale poteva uscire dalla Lega nel momento in cui non gli piacesse più l'atmosfera della Lega stessa. Lo spirito del Covenant era altrettanto irreprensibile delle regole di un ristretto club londinese, aperto ai soli gentiluomini. Ma era qualcosa di lontano dalla realtà. La Lega ebbe qualche successo nel campo non politico. Fece eccellenti lavori di ricerca e compose anche urti politici minori tra le piccole nazioni. Ma mai in tutta la sua storia la Lega riuscì a comporre un conflitto in cui fosse implicata una delle potenze maggiori. Dopo pochi anni, la costruzione cominciò a vacillare e ad incrinarsi. Quando Giappone, Germania e Italia si ritirarono, fu evidente che il valore politico della Lega delle Nazioni, la sua capacità di mantenere la pace tra le nazioni, era ridotta a zero [ ... ]; mai in nessuna occasione la Lega delle Nazioni fu capace di agire quando l'azione avrebbe implicato l'uso della forza contro qualcuna delle principali potenze militari. Non ha nessun senso dire che non fu colpa della Lega, che fu colpa delle potenze che non sostennero la Lega. La Lega, dopo tutto, non era altro che la risultante delle nazioni che la componevano. La Lega delle Nazioni fallì perché era basata sulla falsa nozione dell'internazionalismo, sull'idea che la pace tra unità nazionali, tra stati nazionali sovrani possa essere mantenuta semplicemente facendo incontrare i loro rappresentanti per discutere le loro controversie, senza portare cambiamenti fondamentali nei loro rapporti. Dalla fondazione della Lega delle Nazioni, gli avvenimenti mossero con rapidità fatale verso la seconda fase della catastrofe mondiale del secolo XX, che ebbe inizio il 1° settembre 1939, esattamente come se la Lega non fosse esistita. Non è troppo affermare che il ritmo di questi inesorabili avvenimenti fu persino accelerato dall'esistenza della Lega, poiché le frequenti riunioni di rappresentanti degli stati sovrani servivano solo a intensificare le loro reciproche diffidenze e i loro sospetti.

E. Reves, Anatomia della pace, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 158-159.

La valutazione del trattato di pace in Italia

In Italia i conflitti tra le varie forze politiche riesplosero nel 1918, al momento della conferenza della pace.
L'Italia, sostenevano i democratici, in nome della tradizione mazziniana, si doveva limitare a raggiungere i confini etnici e doveva rispettare i diritti di nazionalità e di autodeterminazione dei popoli dopo la scomparsa dell'Impero asburgico; al contrario, i nazionalisti, nello spirito dell'ideologia imperialistica, esigevano tutti i territori contemplati nel Patto di Londra e altri ancora, oltre il confine.
Corradini, massimo esponente del nazionalismo, diceva che «in un mondo tutto imperialista, era diritto e dovere dell'Italia rispondere adeguatamente alla sua antica vocazione imperialistica» e pretendeva l'intero dominio sull'Adriatico, al di là dei diritti della Iugoslavia. Gabriele d'Annunzio, l'assertore più spettacolare del destino imperiale, chiamava gli Slavi «schiavi» degli Italiani. La stampa nazionalistica agitava l'opinione pubblica con slogan demagogici, quali «vittoria mutilata», «pace perduta», «tradimento degli alleati», «vile rinunzia dei nostri ministri» e «ineluttabilità della rivincita».
Della depressione psicologica del popolo italiano, determinata dalla propaganda nazionalistica, approfittò Mussolini per fondare il fascismo, con lo scopo confessato di abbattere il regime democratico, ritenuto responsabile della rovina d'Italia, e di «vincere la pace».
Contro la miopia del «sacro egoismo» dei nazionalisti, Gaetano Salvemini obiettò che un egoismo effettivamente illuminato doveva invece consigliare all'Italia di accaparrarsi con l'amicizia degli Slavi gli sbocchi commerciali dell'Europa sud-orientale, indispensabili alla sua economia. Un'occupazione italiana della Dalmazia sarebbe stata «un atto moralmente riprovevole e politicamente sbagliato», avrebbe messo tra le due nazioni adriatiche germi di discordia non più sradicabili e dannosi.
Anche i criteri dell'azione del governo al congresso della pace furono oggetto di aspre critiche. Particolarmente presa di mira fu l'opera del ministro degli Esteri Sonnino. Politici e storici democratici gli attribuiscono la responsabilità dei maggiori insuccessi diplomatici italiani. Conservatore per mentalità, assertore dell'ordine monarchico, indispensabile alla stabilità dell'Europa, Sonnino voleva nello stesso tempo l'ingrandimento dei Savoia a spese dell'Austria e il rafforzamento degli Asburgo, necessario, secondo lui, alla difesa dell'istituto monarchico europeo. Scrive Giorgio Spini:

Il ministro degli esteri italiano col Patto di Londra del 1915 aveva voluto cautelare l'Italia contro un'eventuale riscossa austriaca, accaparrandosi una serie di posizioni strategiche, come l'Alto Adige, l'Istria interna, la Dalmazia e l'Albania, senza alcun riguardo alle aspirazioni nazionali di quelle popolazioni. Era facile, invece, prevedere che la monarchia asburgica non avrebbe affatto resistito ad una sconfitta; era facile altresì prevedere che allo sfacelo sarebbero sorte le varie nazionalità a reclamare la propria indipendenza. Il Sonnino così prendeva delle garanzie verso il pericolo inesistente di una riscossa degli Asburgo, mentre non ne prendeva alcuna verso il pericolo reale dell'inevitabile ostilità futura degli Slavi e degli Albanesi, rispetto ai quali si apprestava ad esercitare quella tirannia che l'Austria aveva esercitata nei confronti degli Italiani. Se invece l'Italia avesse puntato risolutamente sulla distruzione dell'impero asburgico e sulla liberazione dei popoli oppressi, secondo il pensiero mazziniano, si sarebbe posta come la naturale alleata di questi ultimi, aggiudicandosi automaticamente una preziosa influenza politica ed economica oltre Adriatico.

G. Spini, Disegno storico della civiltà italiana, vol. III, Ed. Cremonese, Roma 1952.

Lo storico Giovanni Sabbatucci mette in luce come nel 1919 il mito della «vittoria mutilata» soggiogasse completamente l'opinione pubblica, unendo appartenenti ai più vari schieramenti politici.

I cosiddetti "rinunciatari" si trovarono dunque nella scomoda condizione di chi, non condividendo la linea dei propri rappresentanti ufficiali, si espone all'accusa di rompere la solidarietà nazionale e di indebolire la posizione negoziale del proprio paese. Era certamente più facile appellarsi alla collaudata retorica nazionalista, a base di legioni romane e di leoni di San Marco, riesumare il vecchio repertorio irredentista e soprattutto secondare e alimentare quella spontanea tendenza al vittimismo che tende ad affermarsi in tutti i popoli che abbiano subito traumi profondi e violenti. In questo senso il ruolo di D'Annunzio fu decisivo [ ... ] Pochi, nel mondo politico come nella grande stampa, seppero sottrarsi al ricatto patriottico implicito nel messaggio dannunziano. Gli stessi socialisti massimalisti, anziché pronunciarsi per una soluzione ragionevole del contenzioso adriatico, trovarono nelle delusioni della vittoria nuovi argomenti di indiscriminata polemica retrospettiva contro la guerra. La febbre della vittoria mutilata si esaurì nel giro di pochi mesi, anche per il profilarsi di nuovi problemi e di nuovi conflitti. [ ... ] Ma ormai il danno era stato fatto. Grazie alla sindrome da vittoria mutilata, l'Italia aveva vissuto un dopoguerra più da paese vinto che da paese vincitore: con conseguenze tutt'altro che trascurabili sulla coesione della società civile e sulla solidità delle istituzioni.

G. Sabbatucci, La vittoria mutilata, in Aa. Vv., Miti e storia dell'Italia unita, Il Mulino, Bologna 1999.

Nel 1919 l'Impero asburgico non c'era più, esisteva invece un debole Stato iugoslavo che non poteva costituire alcun pericolo per l'Italia, anzi apriva la possibilità di larghi sbocchi alla sua esportazione industriale.
Sonnino non ascoltò i consigli degli interventisti democratici che sollecitavano un'intelligente intesa con gli Slavi, non volle accettare più il principio dell'autodecisione, proposto da Wilson, s'intestardì a esigere l'attuazione piena del Patto di Londra, giudicato ormai superato e dannoso all'Italia stessa, e chiese non solo territori italiani come Trento e Trieste, ma anche l'Alto Adige, etnicamente tedesco, l'interno dell'Istria, etnicamente croato, la Dalmazia, anch'essa in gran parte slavizzata, a eccezione di Zara, schierandosi toto corde con i nazionalisti che rivendicavano Fiume.
L'intransigenza di Sonnino ebbe gravissime conseguenze per l'Italia: accese una fortissima opposizione da parte dell'America, della Gran Bretagna e della Francia; provocò un lungo e dannoso contrasto politico con gli Slavi; mise l'Italia fuori del problema delle colonie ex-tedesche.
A distanza di cinquant'anni, alla luce dei disastrosi risultati del periodo fascista e della seconda guerra mondiale, lo storico inglese Denis Mack Smith ha posto in evidenza i gravi errori della politica di Sonnino al congresso della pace.

Il punto di vista italiano alla conferenza della pace fu presentato in maniera confusa e inabile. È fuor di dubbio che il popolo italiano non aveva un'idea chiara dei suoi veri interessi nazionali e si lasciava indurre da considerazioni d'ordine sentimentale. Se gli italiani avessero rinunziato generosamente nel 1919 a quello che furono costretti a cedere alla Jugoslavia nel 1920, tali concessioni li avrebbero messi in grado poi di trattare per ottenere dei vantaggi economici meno illusori. Dato che Sonnino non faceva che parlare di acquisti territoriali, gli Alleati non ebbero modo di capire che le esigenze più vitali dell'Italia in quel momento erano di carattere economico, e neppure Sonnino del resto si rese mai, neppure lontanamente, conto di ciò. Nel 1915 l'idea fissa dell'Italia di ottenere ingrandimenti territoriali l'aveva portata a trascurare nel trattato gli aiuti economici di cui aveva bisogno; e nel 1919, sempre per le medesime ragioni, i problemi delle materie prime e dei più ampi interessi economici italiani nel Mediterraneo furono ancora una volta del tutto negletti. Nella strana atmosfera di esasperato nazionalismo sentimentale che lo circondava, Sonnino riteneva che non fosse decoroso chiedere un prestito, ma che non vi fosse invece nulla da eccepire al fatto di chiedere un pezzo di terra altrui che per di più non era neppure stato conquistato.

D. Mack Smith, Storia d'Italia dal 1861 al 1958, Laterza, Bari 1960.

 

 

 

 

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