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LA LIBERAZIONE E GLI ANNI SESSANTA IN ITALIA

 

 

FONTI

 

Il dramma delle foibe

l testo qui riportato è quello elaborato dalla commissione ufficiale costituita nel 1993 dai governi italiano e sloveno per far luce in modo imparziale sul dramma delle foibe: in queste grotte carsiche migliaia di persone, perlopiù italiani, vennero gettate e massacrate dalle milizie iugoslave di Tito.
La relazione, ultimata nel luglio 2000, è stata resa nota solo nell'aprile 2001 da un giornale italiano e poi ammessa dai due governi, che ne avevano sospeso la pubblicazione. Dopo aver mostrato come il regime fascista avesse perseguitato le minoranze slave in Istria e cercato di italianizzarle a tutti i costi, la relazione tratta del periodo 1945-1954, quando quella penisola fu sottoposta all'amministrazione militare iugoslava in attesa di essere definitivamente annessa a quel Paese.

L'estensione del controllo jugoslavo dalle aree già precedentemente liberate dal movimento partigiano fino a tutto il territorio della Venezia Giulia fu salutata con grande entusiasmo dalla maggioranza degli sloveni e dagli italiani favorevoli alla Jugoslavia. Per gli sloveni si trattò di una duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Stato Italiano. Al contrario, i giuliani favorevoli all'Italia considerarono l'occupazione Jugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano a un'ondata di violenza che trovò espressione nell'arresto di molte migliaia di persone (parte delle quali venne in più riprese rilasciata) [...], in centinaia di esecuzioni sommarie immediate (le cui vittime vennero in genere gettate nelle "foibe") e nella deportazione di un gran numero di militari e civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello di Borovnica) creati in diverse zone della Jugoslavia. Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno a eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo Stato italiano, assieme a un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo. L'impulso della repressione partì da un movimento rivoluzionario [il movimento partigiano comunista di Tito], che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale e ideologica diffusa nei quadri partigiani. [...] Le autorità jugoslave, in contrasto con il mandato a provvedere alla sola amministrazione provvisoria della zona occupata, senza pregiudizio della sua destinazione statuale, cercarono di forzare l'annessione con una politica di fatti compiuti. Così, oltre a provvedere al riconoscimento dei diritti nazionali degli sloveni, fino ad allora negati, tentarono di costringere gli italiani ad aderire alla soluzione jugoslava, facendo anche uso dell'intimidazione e della violenza. Nel contempo, le basi economiche del gruppo nazionale italiano, fino ad allora egemone, vennero compromesse sia dalla nuova legislazione che dall'interruzione dei rapporti fra le due zone, mentre le tradizionali gerarchie sociali vennero rivoluzionate, anche a seguito della progressiva scomparsa della classe dirigente italiana. Si mirò inoltre a eliminare i naturali punti di riferimento culturale delle comunità italiane: così, a ben poco valse l'attivazione di nuove istituzioni culturali – come l'emittente radiofonica in lingua italiana – strettamente controllate dal regime, di fronte alla progressiva espulsione degli insegnanti e – dopo il 1948 – al ridimensionamento del sistema scolastico in lingua italiana, nonché all'orientamento complessivo dell'insegnamento verso l'attenuazione dei legami del gruppo nazionale italiano con l'Italia e verso la denigrazione dell'Italia. Allo stesso modo la persecuzione religiosa del regime assunse nei confronti del clero italiano, che costituiva un elemento chiave per la difesa dell'identità nazionale, un'oggettiva valenza snazionalizzatrice. Se nei comportamenti anti-italiani di parte degli attivisti locali [...] è palese sin dall'immediato dopoguerra l'intento di liberarsi degli italiani in quanto ritenuti irriducibili alle istanze del nuovo potere, allo stato attuale delle conoscenze mancano riscontri certi alle testimonianze – anche autorevoli di parte jugoslava – sull'esistenza di un piano preordinato di espulsione da parte del governo jugoslavo, che pare essersi delineato compiutamente solo dopo la crisi nei rapporti con il Cominform del 1948 [...]. Da parte jugoslava, pertanto, si vide con crescente favore l'abbandono da parte degli italiani della loro terra d'origine, mentre il trattamento riservato al Gruppo Nazionale Italiano subì più marcatamente le oscillazioni dei negoziati sulla sorte del T.L.T. [Territorio Libero di Trieste, occupato dagli angloamericani e rivendicato dalla Jugoslavia]. Alla violenza, che si manifestò nuovamente al tempo delle elezioni del 1950 e della crisi triestina del 1953, e agli allontanamenti forzati, si intrecciarono così provvedimenti miranti a consolidare le barriere tra Zona A e Zona B. La composizione etnica della Zona B subì inoltre rimaneggiamenti anche a causa dell'immissione di jugoslavi in città che erano state quasi esclusivamente italiane. [...] Complessivamente nel corso del dopoguerra l'esodo dai territori istriani soggetti oggi alla sovranità slovena coinvolse più di 27.000 persone – vale a dire la quasi totalità della popolazione italiana ivi residente, oltre ad alcune migliaia di sloveni, che vennero ad aggiungersi alla grande massa di esuli, in larghissima maggioranza italiani (le cui stime più recenti vanno dalle 200 mila alle 300 mila unità), provenienti dalle aree dell'Istria e della Dalmazia oggi appartenenti alla Croazia. [...] Fra le ragioni dell'esodo vanno tenute soprattutto presenti l'oppressione esercitata da un regime [quello di Tito] la cui natura totalitaria impediva anche la libera espressione dell'identità nazionale, il rigetto dei mutamenti nell'egemonia nazionale e sociale nell'area, nonché la ripulsa nei confronti delle radicali trasformazioni introdotte nell'economia. L'esistenza di uno Stato nazionale italiano democratico e attiguo ai confini, più che l'azione propagandistica di agenzie locali filo-italiane, esplicatasi anche in assenza di sollecitazioni del governo italiano, costituì un fattore oggettivo di attrazione per popolazioni perseguitate e impaurite, nonostante il governo italiano si fosse a più riprese adoperato per fermare o quantomeno contenere l'esodo. A ciò si aggiunge il deteriorarsi delle condizioni di vita, tipico dei sistemi socialisti, ma legato pure all'interruzione coatta dei rapporti con Trieste – che innescarono il timore per gli italiani dell'Istria di rimanere definitivamente dalla parte sbagliata della "cortina di ferro". In definitiva, le comunità italiane furono condotte a riconoscere l'impossibilità di mantenere la loro identità nazionale [...] nelle condizioni concretamente offerte dallo Stato jugoslavo e la loro decisione venne vissuta come una scelta di libertà.

Relazione della Commissione Italo-slovena, aprile 2001, in http://digilander.iol.it/histria

De Gasperi spiega la sua linea politica

Il 15 febbraio 1948 Alcide De Gasperi illustrò ai gruppi giovanili della Democrazia Cristiana quali sarebbero state le scelte del suo partito per quanto riguardava la politica e l'economia. Due sono soprattutto i punti da notare: anzitutto il riferimento agli aiuti americani del Piano Marshall, con l'avvertimento palese che in caso di vittoria delle Sinistre essi sarebbero stati immediatamente ritirati; in secondo luogo si vede chiaramente come la DC intendesse rivolgersi a tutta la società, senza distinzioni di classe: ciò le permise di raccogliere la maggioranza dei voti.

D'altro canto, se veramente gli aiuti americani fossero crusca del diavolo invece di farina, se veramente noi, per salvaguardare la nostra indipendenza nazionale, dovessimo respingere il «Piano», perché mai l'onorevole Terracini*, parlando a Napoli, ha detto di sperare che anche in caso di vittoria del Fronte Popolare, gli aiuti americani verrebbero conservati? Allora l'attuazione del «Piano» è efficace e desiderabile quando al Governo ci sono loro e diventa una cosa deplorevole quando al Governo ci siamo noi? Io non vorrei vedere quel giorno in cui al Governo sedessero coloro che si sono compromessi in una lotta contro l'America, non vorrei vedere quel giorno perché temerei che il popolo italiano, attendendo dalla riva le navi cariche di carbone e di grano, le vedrebbe volger la prora verso altri lidi. Si dice che anche i democristiani sono totalitari. Badate invece ai fatti. Abbiamo fatto una politica di larghezza e concordia su alcune linee maestre: una volta messici d'accordo sulla via maestra del sistema democratico, sulla esclusione del ricorso alla forza e alla violenza, sulla concezione di collaborazione europea, con gli aiuti americani, messici d'accordo su queste tre linee principali, abbiamo cercata nel Governo la collaborazione di liberali, di socialisti democratici e di repubblicani, senza badare troppo alla proporzione delle forze. [...] Quello che può fare di meglio un partito è di mettere i suoi uomini al servizio del Paese. Il mio partito, e tutti lo possono constatare, interpreta le esigenze e le sofferenze della Patria. Dico a voi giovani, a voi elettori, che non ho altra ambizione se non che il nostro partito faccia il massimo sforzo e sia il primo nel sacrificio, nella disciplina e nell'opera di salvezza. Ho fatto prima un appello agli operai, agli operai che non appartengono al nostro partito, socialisti e comunisti, perché considerino la situazione del nostro Paese e permettano, nell'ordine, che si possa attuare il massimo sforzo di tutte le classi, e la collaborazione del Governo con i sindacati, per riuscire veramente a costituire le condizioni della ripresa. Ho detto e ripeto agli operai: non avete nulla da temere, avete molto da sperare dalla vittoria della democrazia cristiana, perché non rappresentiamo privilegi, non rappresentiamo la reazione, ma rappresentiamo il progresso e la evoluzione delle classi operaie. E ora lasciatemi rivolgere un appello alla borghesia e ai ceti medi. Alla borghesia agiata io dico: non siate sordi, non siate ostinati, non tenete il capo rivolto all'indietro; il mondo cammina, il lavoro chiede la sua parte e l'avrà, riconoscetelo, collaborate anche con il vostro sacrificio. È il vostro dovere, perché avete l'agiatezza e la ricchezza, ma è anche il vostro onore. Non pensate egoisticamente di trasferire altrove, nel Mezzogiorno d'Italia, nelle Isole o al di là del mare, la sede dei vostri agi, restate, servite il Paese andando incontro alla classe popolare, premunendola con la vostra opera sociale contro le seduzioni della violenza.

*Umberto Terracini fu uno dei fondatori del Partito Comunista italiano.

A. De Gasperi, Discorso del 15 febbraio 1948,
in M. Legnani, L'Italia dal 1943 al 1948. Lotte politiche e sociali, Loescher, Torino 1973, pp. 210-212.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

Gli orientamenti storiografici sull'Italia nel Dopoguerra

Nell'ambito del dibattito storiografico sull'Italia nel Dopoguerra diversi sono i nodi teorici emersi a seconda che si privilegi una prospettiva di natura prevalentemente politica o economica, ma anche a seconda che il punto di vista scelto sia quello di chi si pone in una prospettiva internazionale delle scelte politiche, oppure quello di chi vede le scelte politiche soltanto nell'ottica delle vicende nazionali.
Uno dei nodi non risolti compiutamente del dibattito è senza dubbio la questione della "continuità" fra la struttura dello Stato liberale prima e fascista poi, e il nuovo Stato repubblicano.
Alcuni sottolineano soprattutto i caratteri di novità nell'avvento della Repubblica, non solo sul piano istituzionale, ma anche economico-sociale; altri, invece, mettono in rilievo gli elementi di continuità specialmente a livello della struttura dello Stato.
C'è poi un'ampia concordanza nell'individuare nel 1948, con l'inizio del centrismo, un momento di svolta nella storia italiana. Il significato periodizzante del 1948 viene tuttavia interpretato diversamente: per esempio, per Pinzavi e Amendola esso segna una rottura della fase precedente caratterizzata da una politica di rinnovamento impostata su basi unitarie e sfociata nell'elaborazione della Carta Costituzionale. Per altri, invece, come Quazza, Legnani, Foa, Gallerano, Rugafiori, il 1948 rappresenta il punto di arrivo di una offensiva moderata a cui i partiti di sinistra non seppero opporsi.
Un'altra questione presente nel dibattito storiografico riguarda la formula del quadripartito (DC, PRI, PLI, PSDI), voluta da De Gasperi dopo le elezioni del 18 aprile, che diede origine all'esperienza centrista di due legislature (1948-1958). Alcuni storici, tra cui Pietro Scoppola, vedono nella scelta degasperiana la volontà di resistere ai condizionamenti degli ambienti più retrivi che premevano per una soluzione autoritaria. Il giudizio di Scoppola, che sottolinea il carattere aperto e democratico della politica di De Gasperi, è stato criticato da altri, che hanno visto invece nella scelta quadripartitici soltanto il proposito di garantire una maggiore stabilità al sistema in funzione di una espulsione delle forze del movimento operaio.
Uno dei temi di ricerca che ha avuto per oggetto gli anni Cinquanta, periodo decisivo per il consolidamento del regime democristiano, si è orientato in direzione dell'intreccio fra politica ed economia. Lo storico Valerio Castronovo ha posto in rilievo gli elementi di continuità tra Stato fascista e Stato repubblicano governato dalla Democrazia Cristiana, nelle relazioni esistenti tra ambienti finanziario-industriali e struttura burocratico-amministrativa. Le decisioni più importanti dei governi centristi sono viste da diversi storici, tra i quali Giampiero Carocci, come strumenti volti a irrobustire un sistema di potere, acquisendo il consenso della piccola borghesia urbana e delle categorie rurali intermedie che avevano costituito in buona parte la base di massa del fascismo. Tra le diverse decisioni vanno ricordate: la gestione degli «aiuti» americani del Piano Marshall, la riforma agraria che provocò l'abbandono del governo da parte del PLI, l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno.
Il centrismo fu oggetto di interpretazioni storiche diverse.
Norman Kogan e Giuseppe Mammarella danno una visione complessivamente positiva del centrismo, visto come un efficace baluardo contro la sovversione comunista.
Lontana da facili schematismi e stimolante per l'uso rigoroso delle categorie interpretative della sociologia politica è l'indagine di Paolo Farneti, che vede il decennio 1948-1958 come il periodo della «società politica», intendendo con questa espressione la presenza sociale attiva del sistema dei partiti che svolge un ruolo egemone nel mobilitare la gente e nel determinare la vita del Parlamento.

La questione dei confini orientali e le foibe

La questione dei confini orientali fu al centro della politica estera italiana tra il 1945 e il 1947, quando con il Trattato di Parigi l'Istria fu definitivamente assegnata alla Iugoslavia.
A partire dal 1943 la regione fu più volte sotto il controllo delle milizie partigiane di Tito, che miravano ad annettere allo Stato slavo anche le città di Trieste e Gorizia. Fu proprio in previsione di questa annessione che iniziò una vera e propria persecuzione nei confronti degli Italiani, che non colpì solamente i fascisti o i collaborazionisti, ma in poco tempo tutti gli esponenti più in vista della società italiana dell'Istria (insegnanti, militari, preti, intellettuali ecc.).
Gaetano La Perna, esule istriano fuggito dalla città di Pola, descrive il fenomeno delle foibe, nelle quali si calcola furono gettate circa trentamila persone.

Le foibe, assieme alle doline, rappresentano uno degli aspetti caratteristici e peculiari del paesaggio giuliano e sono collegate al fenomeno geomorfologico, detto carsismo, che si verifica in presenza di rocce solubili all'acqua piovana. La foiba, o inghiottitoio, si presenta con una fenditura, dall'apparenza spesso insignificante, che si apre sul fondo di una dolina o di una depressione del terreno. [...] Sotto l'apertura si spalanca una voragine che, con un andamento per lo più irregolare e tortuoso, si perde in anfratti e cunicoli che raggiungono spesso profondità notevoli. [...] Dopo l'armistizio e come conseguenza dell'occupazione slava di buona parte dell'Istria, le foibe diventarono la tomba naturale per molte centinaia di disgraziati esseri umani, travolti dagli avvenimenti e spesso vittime dell'odio e delle passioni del momento. Per la maggior parte degli istriani le foibe andarono assumendo quella triste notorietà che ancor oggi hanno subito dopo la conclusione dell'offensiva tedesca che all'inizio dell'ottobre '43, nel giro di pochissimi giorni, ricacciò con forza oltre confine tutte le formazioni slave e quelle istriane sorte da poco. La rapidità e la potenza dell'attacco nazista seminarono il panico tra gli slavi, suscitando ovunque enorme sgomento. Venutisi a trovare all'improvviso nell'inderogabile necessità di ritirarsi verso zone ritenute più sicure, i miliziani slavi accelerarono le esecuzioni capitali anche di questi detenuti per i quali non era stata ancora espletata la formalità del processo. Dovendo pensare alla propria incolumità e non potendo portarsi dietro prigionieri considerati per di più «nemici del popolo», non restava che svuotare in fretta le prigioni e sopprimere i reclusi. Gettando poi i corpi delle vittime nelle foibe si sarebbe fatto anche in fretta, poiché non sarebbe occorso neppure il tempo per sotterrarne i cadaveri. [...] Caricati su autocorriere o su autocarri requisiti, i prigionieri venivano portati, preferibilmente di notte, nelle vicinanze di una foiba. Ad essi venivano legati, con filo di ferro stretto da pinze, i polsi sul davanti e poi si ordinava loro di alzare le braccia e di sollevare sul capo la giacca in modo da coprirsi il viso. Le donne dovevano nascondersi il volto con la sottana. Avvicinati i prigionieri all'orlo della foiba a gruppi, si procedeva all'esecuzione sparando un colpo d'arma da fuoco alla nuca, alla faccia o al petto delle vittime; i corpi venivano poi fatti precipitare nel baratro. A volte i condannati vennero posti l'uno di fianco all'altro, spalla contro spalla, e legati all'altezza delle braccia con il filo di ferro, a due a due o a gruppi più consistenti. Ammassati tutti sul ciglio, si sparava ai più vicini al precipizio in modo che, cadendo nel vuoto, trascinassero con sé tutti gli altri ancora vivi. Per impedire ogni possibile futura opera di ricerca e di identificazione delle vittime, talvolta i prigionieri venivano condotti sul luogo dell'esecuzione del tutto nudi; altre volte, invece, dopo l'infoibamento, si facevano brillare delle mine in prossimità dell'apertura della voragine ottenendo in tal modo il franamento e l'ostruzione della cavità. In relazione a queste uccisioni va riferito un particolare insolito e raccapricciante: in gran parte delle foibe nelle quali, a causa delle enormi difficoltà incontrate, furono possibili solo operazioni esplorative e in tutte quelle ove si procedette al recupero dei cadaveri delle vittime furono sempre rinvenute le carogne di uno o più cani neri accanto alle misere spoglie mortali. Secondo una vecchia credenza slava, legata alla superstizione e nota anche fra la gente delle campagne istriane, l'uccisione di un cane nero poteva liberare dalla propria colpa colui che si era macchiato di sangue umano.

G. La Perna, Pola - Istria - Fiume. La lenta agonia di un lembo d'Italia, Mursia, Milano 1993, pp. 180-181.

La "pulizia etnica" iugoslava in Istria non terminò con la fine della guerra, ma ebbe una recrudescenza tra il 1946 e il 1947, quando la Iugoslavia temeva che il destino della regione fosse deciso da un referendum tra gli abitanti. Sorse allora la necessità di far fuggire o far sparire il maggior numero possibile di Italiani, per garantire la vittoria.
Il giornalista storico Arrigo Petacco descrive la situazione, spiegando come mai questa pagina della storia sia stata a lungo rimossa dalla memoria degli Italiani:

Durante tutto il 1946 e gran parte del 1947, il fenomeno della «pulizia etnica» nell'Istria occupata dagli slavi, oltre a intensificarsi, assunse anche un aspetto, per così dire, più «ragionato». Nel senso cioè che ora le stragi erano chiaramente mirate contro gli italiani di qualunque estrazione sociale e di qualunque fede politica. Se, infatti, i sanguinosi episodi verificatisi dopo 1'8 settembre del 1943 offrivano in qualche modo la possibilità di mascherare la «pulizia etnica» con la rabbia popolare e la rappresaglia politica (Togliatti, per esempio, non esiterà a definirli «una giustizia sommaria fatta dagli stessi italiani contro i fascisti»), adesso non c'erano scuse e l'intento appariva chiaro anche agli occhi degli osservatori meno accorti. Si voleva eliminare o allontanare dall'Istria più italiani possibile per sconvolgere il tessuto etnico della regione nell'eventualità che la Conferenza di pace richiedesse un censimento o un plebiscito popolare. D'altra parte, che la «pulizia etnica» sia una tragica consuetudine delle lotte razziali che periodicamente hanno insanguinato i Balcani, lo confermano i fatti recenti accaduti in Bosnia e nel Kosovo. Dove si è ripetuto esattamente ciò che è stato fatto in Istria cinquant'anni prima, con la sola differenza che, non offrendo il terreno la «comodità» delle foibe per nascondere i cadaveri, gli aguzzini sono stati costretti a ricorrere alle fosse comuni facilmente individuabili dall'osservazione aerea. La favola delle foibe come «tombe di fascisti», alla quale per anni hanno finto di credere anche molti storici italiani, è stata peraltro smentita da autorevoli fonti jugoslave. Per esempio, da Milovan Gilas, l'intellettuale serbo che durante la guerra partigiana fu il braccio destro di Tito [...]. Nel 1991 Gilas raccontò che nel 1946 egli si recò personalmente in Istria [...] per organizzare la propaganda anti-italiana allo scopo di dimostrare l'appartenenza alla Jugoslavia di quella regione. «Era nostro compito» spiegò Gilas al giornalista «indurre gli italiani ad andar via con pressioni di ogni tipo. E così fu fatto». Cosa fecero lo sappiamo. Nel marzo del 1946, quando una Commissione quadripartita (americani, inglesi, francesi e russi) visitò la zona «B»*, le autorità titine impedirono con forza agli italiani di farsi vivi mentre, nel contempo, facevano affluire nei centri visitati dalla Commissione torme di contadini sloveni e croati trasferiti dalle campagne con torpedoni e autocarri. [...] Le pressioni di ogni tipo, di cui parlava Milovan Gilas avevano, come si è detto, lo scopo di terrorizzare gli italiani e di indurli a lasciare l'Istria. Da tempo, infatti, colonne di disperati, del tutto simili a quelle che in tempi più recenti la televisione ci ha abituato a vedere nelle corrispondenze dalla Bosnia e dal Kosovo, si presentavano al confine con la zona «A» per cercare asilo a Trieste e in altre città italiane. [...] Questa povera gente, che in realtà stava pagando per conto di tutti gli italiani la cambiale della guerra fascista, non era infatti accolta in madrepatria da slanci di solidarietà. Dalla sinistra, per esempio, i profughi erano osservati con sospetto e accolti come ospiti indesiderati. D'altra parte la loro fuga dalla Jugoslavia «democratica» suonava come una chiara denuncia del regime comunista che vi era stato instaurato. Di conseguenza i loro drammatici racconti venivano definiti volgari menzogne, tanto è vero che, come era accaduto con gli Italiani della Venezia Giulia che gli slavi definivano genericamente «fascisti», anche i profughi istriani in Italia furono sbrigativamente definiti tali.

*La zona di Trieste e del litorale istriano ora della Slovenia nel 1945 fu divisa in zona A e B: la prima, sottoposta all'amministrazione militare anglo-americana, tornò all'Italia nel 1954; la seconda, affidata all'esercito iugoslavo, fu annessa al Paese slavo nello stesso anno.

A. Petacco, L'esodo. La tragedia degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, Mondadori, Milano 1999, pp. 141-144.

La formazione del sistema dei partiti

L'aspetto che, a confronto con il precedente regime fascista, maggiormente qualifica la nuova Italia uscita dalla Resistenza è la formazione del sistema dei partiti.
Comunisti, socialisti, cattolici, che avevano contribuito, sia pure in proporzioni e forme diverse, alla caduta del fascismo e alla liberazione dai Tedeschi, avevano ora il compito di definire il tipo di direzione politica e di sviluppo economico e sociale da dare al Paese.
Sin dal momento della discussione riguardo la formazione del nuovo governo che avrebbe dovuto superare i limiti di rappresentatività evidenti nei ministeri Bonomi del 1944-45, fra i partiti emersero nettamente i contrasti di fondo, accantonati per tutto il tempo della lotta antifascista, sulle questioni più importanti all'ordine del giorno.
Fino al maggio 1947, nonostante le divergenze affiorassero quasi quotidianamente nella pratica di governo, la collaborazione o meglio la «coabitazione forzata» (come significativamente è stata definita) tra i partiti di massa (PCI, PSI e DC) doveva continuare e approdare alla firma del trattato di pace e al varo della Costituzione.
Il Partito Comunista, che era stato sempre in prima fila nella lotta al fascismo, era senza dubbio il più organizzato tra i gruppi politici della nuova Italia liberata. Legato da stretti rapporti con l'Unione Sovietica, sotto la guida di Togliatti, esso si presentava come il punto di riferimento della classe operaia del Nord, di ampi strati contadini dell'Italia centrale, degli intellettuali e delle forze antifasciste che avevano rotto con il proprio passato liberale. Pur caratterizzato da una forte connotazione classista, il PCI, come sostiene Gabriele De Rosa, puntò sin dall'inizio del 1944 a diventare forza nazionale.

Sin dalla sua pubblica ricomparsa, il partito comunista, attraverso molteplici gesti, tutti rientranti in una continuità politica che si faceva ad esso consustanziale, mostrava la sua natura ormai di partito di massa, di partito cioè capace di comprendere, come abbiamo detto, le condizioni nuove dello sviluppo della vita nazionale e statuale [...]. Tra le più notevoli e decisive posizioni di apertura assunte dal partito comunista, che provano appunto l'autenticità della sua tendenza ad essere partito nuovo nel senso su accennato, ricordiamo la posizione da esso presa nella questione istituzionale nel primo periodo ciellenistico [dei Comitati di Liberazione Nazionale], nel Mezzogiorno. Se si eccettua il partito democratico cristiano che nel Sud era retto dal bonario ma esperto ed intelligente Rodinò, gli altri partiti erano intricati dalla questione morale che si faceva attorno alla monarchia, tenuta accesa soprattutto dal partito d'azione. Quella condizione di generale impotenza dei partiti a sbrigare la faccenda istituzionale, quel loro impazzire dietro fantasmi giacobini e massimalistici rendevano impossibile ogni passo effettivo verso la soluzione del problema nazionale su tutti gli altri preminente: l'organizzazione della guerra contro il tedesco. Il partito comunista, dopo l'arrivo di Togliatti, accantonando la questione istituzionale e impostando la politica di unità nazionale, concorreva in maniera decisiva a liberare le forze del C.L.N. dall'immobilizzante moralismo che ne rendeva sterile l'azione politica, e faceva quindi compiere allo schieramento antifascista un grande passo in avanti verso la soluzione del problema nazionale fondamentale. L'accordo che venne raggiunto sul problema della monarchia fu il frutto del compromesso, come affermò allora Togliatti, liberale-comunista, dove i liberali (Croce, De Nicola) trovarono la forma, e i comunisti si sforzarono di porre la sostanza della politica di unità nazionale per la liberazione del suolo patrio dallo straniero. La formulazione della politica di unità nazionale e la partecipazione del partito comunista al governo Badoglio e poi agli altri successivi di Bonomi, di Parri e di De Gasperi, non suscitarono nessuna reazione e perplessità nel movimento operaio. La guerra di liberazione nazionale e la formazione dei governi di unità nazionale rispondevano a bisogni effettivi, fondamentali e vitali per il risorgere del nostro Stato nazionale e il partito comunista riusciva a coordinare tali esigenze con la propria sostanza di classe, sicuramente fuori ormai dal rischio opportunistico e del tutto consapevole invece che il vero rischio semmai avrebbe potuto essere rappresentato da una chiusura settaria e corporativa della classe operaia.

G. De Rosa, I partiti politici, in Aa. Vv., Dieci anni. 1945-1955, Laterza, Bari 1955, pp. 186-187.

Rispetto al Partito Comunista, il PSI non poteva vantare né una disciplinata organizzazione né la stessa coesione ideologica. Esso aveva dalla sua il peso non trascurabile di rappresentare una tradizione di lotte e di impegno in difesa delle masse lavoratrici italiane. Come nel passato, il partito si presentava diviso tra riformisti e rivoluzionari, le due anime che avevano sempre convissuto nel periodo liberale, fino all'avvento del fascismo.
Su questo tema, così si esprime Alberto Benzoni:

Il partito che formalmente si ricostituì il 22 agosto 1943 aveva, nel suo stesso atto di nascita, alcuni segni di potenzialità e di contraddizione; segni che potremmo riassumere nella compresenza di posizioni di partenza instabili, se non addirittura deboli, e di possibilità di sviluppo imprecisate e perciò, per certi versi, senza limiti precostituiti; segni tali da caratterizzare il PSIUP in modo del tutto particolare tra i maggiori partiti italiani dell'immediato post-fascismo. Il primo, e il più evidente, ma forse non il più significativo, elemento di contraddizione era rappresentato dal rapporto tra capacità organizzativa e possibilità di consenso. È noto, a questo riguardo, il colloquio tra Nenni, tornato nell'agosto del 1943 dal confino di Ponza, e Romita: il primo angosciato dalla inesistenza delle strutture del partito a fronte della forte presenza comunista; il secondo pronto a sottolineare le profonde radici della tradizione socialista nel nostro paese. [...] Nenni aveva certamente ragione: il partito non aveva conservato — a differenza del PCI — una permanente presenza organizzativa e di lotta all'interno del paese e in questo senso «ripartiva quasi da zero»; ma, per converso, almeno la capacità di aggregazione e di testimonianza personale, politica e morale, dell'idea socialista rimaneva assai consistente. [...] la relativa debolezza delle posizioni di partenza dei socialisti non limitava affatto i margini del loro possibile intervento. Così ancora tutto lasciava pensare — come poi del resto avvenne — che la maggiore presenza comunista nelle fabbriche, nelle formazioni partigiane, negli organismi di massa avrebbe garantito al PCI stesso una capacità di iniziativa assolutamente preminente; ma, per converso, nulla poteva escludere che il partito socialista (pur non avendo più, a differenza del primo dopoguerra, un suo retroterra sociale e sindacale garantito) traesse linfa e autorità proprio dal suo rifiuto di subordinare lo sviluppo autonomo delle nuove strutture democratiche e di classe espresse dal popolo italiano alla strategia di partito. Tipico esempio di debolezza suscettibile di risolversi nel suo contrario era infine il fatto che i socialisti non fossero, per così dire, dotati di quel quadro di garanzie (Chiesa cattolica e dottrina sociale cristiana; URSS e marxismo-leninismo-stalinismo) che invece seguiva, sin dai suoi primi passi, i loro maggiori concorrenti.

A. Benzoni, Il partito socialista dalla Resistenza a oggi, Marsilio, Venezia 1980, pp. 9-10.

Originale si presentava la fisionomia politica del nuovo partito dei cattolici, la Democrazia Cristiana di De Gasperi.
Rispetto al Partito Popolare, la DC accentuava la sua ideologia interclassista, per aggregare ampi strati sociali nel tentativo di costituirsi come partito di massa senza rinunciare all'appoggio della Chiesa e della borghesia italiana. Ha scritto Ernesto Ragionieri:

De Gasperi non ebbe esitazioni a fare coagulare intorno al nucleo degli ex popolari (Piccioni, Scelba, Gonella, ecc.) e agli ex sindacalisti bianchi (Gronchi, Grandi, ecc.) non solo cattolici che avevano partecipato alla Resistenza, ma anche coloro che provenivano dalle organizzazioni collaterali della Chiesa e che si erano formati in un'atmosfera di fiancheggiamento al fascismo e in una dipendenza dalla Chiesa sconosciuta alla precedente generazione dei cattolici italiani. Attraverso tale operazione la democrazia cristiana conquistò forza in quasi tutte le roccheforti del vecchio partito popolare (ad eccezione delle zone a mezzadria classica dove, con la Resistenza, si era affermata una forte impiantazione comunista) ma si estese notevolmente anche nei centri urbani non soltanto dell'Italia centro-settentrionale, dove si presentò agli occhi dei ceti medi come un possibile contraltare delle sinistre, ma anche nell'Italia meridionale, godendo complessivamente dei riflessi del maggiore prestigio acquisito dalla Chiesa col passaggio della guerra sul suolo italiano. Del partito popolare italiano, oltre che il gruppo dirigente, la democrazia cristiana ereditò anche gli elementi programmatici fondamentali, primo fra tutti l'interclassismo, che la congiunta predicazione del corporativismo da parte della Chiesa e del fascismo avevano rafforzato durante il ventennio, ma anche una concezione dello Stato assai articolata attraverso forme pronunciate di decentramento. Più integralista per la formazione culturale di molti suoi quadri, il nuovo partito dei cattolici italiani tendeva sul piano organizzativo ad acquisire una maggiore autonomia rispetto alla organizzazione ecclesiastica di quanto non avesse avuto il partito popolare. In ciò doveva rivelarsi la specifica «doppiezza» del partito democratico cristiano. Non è oggi più un mistero che Pio XII aveva consentito soltanto obtorto collo alla formazione di un partito di cattolici, con la riserva che in vari momenti gli ambienti vaticani avevano esplicitato che potesse non essere l'unico.

E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d'Italia, vol. IV, Einaudi, Torino 1976, pp. 2417-2418.

Il governo Parri

Agl'indomani della liberazione dell'Italia e della riunificazione fra Nord e Sud, le forze politiche rappresentate nel CLN si accordarono, dopo accese discussioni e aspri contrasti, sul nome di Ferruccio Parri, dirigente del Partito d'Azione e figura tra le più prestigiose della Resistenza, per la formazione del nuovo governo.
La storiografia è divisa nel valutare questa brevissima fase dell'Italia democratica.
Più che sull'operato di un governo costretto a occuparsi, date le gravissime condizioni del Paese, dell'ordinaria amministrazione piuttosto che di sostanziali misure di risanamento, gli storici si sono soffermati soprattutto a considerare il significato di quella breve stagione politica, retta da una personalità della nuova classe politica antifascista e laica, formatasi nell'esilio e nella lotta partigiana. Recentemente è stato messo in luce come, al di là della mancata incisività del governo sul piano della trasformazione dello Stato, l'esperimento Parri fosse fin dalla sua nascita impossibilitato a realizzare un significativo mutamento rispetto al passato. Di questo parere è Enzo Piscitelli:

Se la costituzione del governo Parri si rese possibile, al termine di una lunga e grave crisi politica, questo si deve principalmente al fatto che, da ultimo, le forze moderate non riuscirono stavolta, come in precedenza, a spuntarla e dovettero momentaneamente cedere non tanto di fronte al peso della vittoriosa insurrezione popolare delle regioni settentrionali — peso, in realtà, non troppo fatto gravare sulla bilancia e per incapacità politica e per la presenza degli alleati e per tutte e due le ragioni insieme —, quanto dinnanzi all'entusiasmo e alle speranze suscitate dall'insurrezione, entusiasmo e speranze che non potevano tanto presto andar delusi. Nacque, così, il governo Parri. Ma fu un successo apparente, risultato di un complicato dosaggio politico, non sua naturale e ovvia conseguenza. Con questi limiti e, se si vuole, con questi vizi d'origine, corroso dall'interno, aggredito dall'esterno, non sorretto a sufficienza dalle forze della sinistra, il ministero, malgrado ogni sforzo del suo capo per invertire la rotta già segnata dai precedenti governi Badoglio e Bonomi, andava incontro a rapida e sicura sconfitta. Cominciò, per sempre, in tal modo, il tramonto di una rivoluzione democratica, di un profondo rinnovamento indolore delle strutture politiche, economiche e sociali dello stato, ideale perseguito dai partiti di sinistra e in particolare da quello di azione, il partito che più lo aveva coltivato e che, principalmente per questo suo negativo scontro con la realtà, presto scomparve dalla scena politica.

E. Piscitelli, Da Parri a De Gasperi. Storia del dopoguerra. 1945-1948, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 4-5.

Il referendum del 2 giugno 1946 e la nascita della Repubblica

Il 2 giugno 1946 si svolse il referendum istituzionale per la scelta tra monarchia e repubblica, unitamente alle elezioni per l'Assemblea Costituente.
Oltre a rappresentare il primo vero esercizio di democrazia dopo il Ventennio fascista, questa consultazione vide le donne partecipare al voto per la prima volta nella storia italiana.

Si temono disordini, ma si ha anche paura che prevalgano indifferenza e passività; sovversione e astensione potrebbero entrambe compromettere il futuro di un paese che deve ancora legittimare i suoi governanti. Nulla di tutto questo. La cittadinanza ha un comportamento esemplare: pochi gli incidenti; molto alta la percentuale dei votanti, superiore all'80%. Per un giorno, speranza e ottimismo, desiderio di riscatto e voglia di partecipare prevalgono sul dolore, la disperazione e il cinismo. [...] A dare un'aria di festa alla giornata, ci sono le donne che votano per la prima volta: sono venute con i padri, i mariti, i fratelli, i fidanzati che le guidano ai misteri di questo rito sconosciuto, fino ad oggi prerogativa esclusiva dei maschi come il sacerdozio per la Chiesa cattolica. A questa iniziazione partecipano anche tanti uomini nati e cresciuti nell'Italia di Mussolini, che hanno avuto tutt'al più l'esperienza dei plebisciti. [...] Nessuna sorpresa viene dai risultati elettorali per l'Assemblea Costituente, che confermano le previsioni della vigilia. Si affermano i partiti di massa, la Dc, lo Psiup (i socialisti) e il Pci, che fin dalla caduta di Mussolini aveva cominciato a riaggregare le grandi masse disperse dal crollo dell'edificio fascista. Incerto fino all'ultima scheda resta, invece, l'esito del contestuale referendum tra repubblica e monarchia che vede i repubblicani prevalere di poco: 54% alla Repubblica, 46% alla monarchia, con un margine di circa 2 milioni di voti. Lo spoglio delle schede dura giorni e giorni, abbastanza per stancare anche i più accesi partigiani dell'uno o dell'altro schieramento. Malgrado il sospetto di brogli, innescato dallo scarso margine tra vincitori e vinti e alimentato anche dalle lunghe operazioni di verifica dei voti — più di un milione di schede nulle —, quando viene ufficialmente proclamata la Repubblica, la protesta dei monarchici è assorbita con relativa facilità. A spegnere l'ondata legittimista contribuisce sicuramente la lealtà di Umberto di Savoia che, dopo un momento di incertezza, fedele alla parola data, prende la via dell'esilio; ma aiuta anche la saggia decisione dei costituenti appena insediati, che eleggono capo provvisorio dello Stato repubblicano il monarchico De Nicola, quasi a simbolo della pacificazione nazionale. La volontà di riunificare il paese, di rimarginare le ferite della guerra, di colmare le fratture vecchie e nuove che lacerano la società civile, sembra animare la nuova classe dirigente antifascista.

S. Colarizi, Biografia della Prima Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1996.

I risultati del referendum istituzionale, pur dando alla Repubblica un vantaggio di circa due milioni di voti, innescarono una serie di contestazioni e di ricorsi da parte dei monarchici. Le accuse che maggiormente si muovevano agli organizzatori della consultazione erano di due tipi: anzitutto che 2.300.000 italiani non avevano potuto votare, in quanto residenti in zone sottoposte ad amministrazione militare alleata o ancora prigionieri all'estero; inoltre le schede bianche o nulle, assommanti a più di un milione e mezzo, erano state in gran parte distrutte, permettendo solamente a cinque corti d'appello su ventidue di effettuare i controlli.
Lo storico Gioacchino Volpe riassume queste diatribe:

Nacque la Repubblica. Quando, come nacque? Dopo una vittoria di armi straniere, con gli stranieri accampati ancora nel nostro paese e intesi a togliergli ogni nerbo nell'imminente Diktat. Nacque in un momento patologico della nazione, quando tanti Italiani si voltavano di furia, sincera o fittizia e simulata, contro tutto quello che in qualche modo rappresentava il passato e cercavano un capro espiatorio, qualcuno su cui scaricare responsabilità che, se responsabilità vi erano, erano di tutti, qualcuno contro cui convogliare, allontanandola da sé, la rivoluzione, il caos, che Pietro Nenni proclamava a gran voce se non fosse venuta la Repubblica. È nata quando milioni di italiani non potevano votare perché o prigionieri nei lontani campi di concentramento inglesi e americani, o abitanti in province ancora occupate da stranieri, o privati del diritto di voto per decreto governativo. E tuttavia ci volle anche l'aiuto delle macchine calcolatrici del ministro Romita durante il plebiscito; ci volle anche il troppo frettoloso, anzi precipitoso verdetto della Corte di Cassazione, quando ancora mancavano i risultati di molti seggi. E tuttavia, aggiungiamo ancora, la Repubblica ebbe solo pochi voti più della Monarchia!

G. Volpe, Casa Savoia, Luni, Milano-Trento 2000, pp. 112-113.

Così Giano Accame spiega la vittoria della Repubblica:

Ma la monarchia non avrebbe potuto vincere con uno scarto esiguo di voti: le sarebbe occorso un consenso ampio, che le era venuto a mancare, oltre che per la compromissione col fascismo perdente, perché il mondo degli interessi non trovava convenienza a confondere la propria difesa elastica di obiettivi pratici coi valori piuttosto sentimentali della tradizione sabauda. La repubblica era in condizioni di sopportare più disinvoltamente, provocando meno pericolose reazioni, i dubbi sulla correttezza del voto. Le regioni a maggioranza repubblicana furono per lo più le stesse che nelle elezioni per la Costituente registrarono una prevalenza delle sinistre, ma, come ha fatto notare Chabod, «la percentuale più alta in favore della Repubblica è data dal Trentino (85%) che, per contro, è una regione a netta maggioranza democristiana». Battuta in Piemonte, donde i Savoia erano partiti alla conquista dell'Italia e dove la maggioranza repubblicana superò col 57,1 % la media nazionale, la monarchia raccolse ancora la maggioranza dei suffragi in tutto il Mezzogiorno. In Campania alla Repubblica andò appena il 23,7% dei voti, con punte che scesero al 20,1 nella città di Napoli e a Palermo al 15,8. [...] Appare quindi tratto significativo della volontà di conciliazione da cui erano animati i vertici dei grandi partiti la scelta a capo provvisorio dello Stato di Enrico De Nicola, napoletano e monarchico, proprio come mano tesa della Repubblica al Mezzogiorno.

G. Accame, Una storia della Repubblica dalla fine della monarchia a oggi, Rizzoli, Milano 2000.

L'Assemblea Costituente e il governo di coalizione

Il 1946 è l'anno della proclamazione della Repubblica e dell'elezione dell'Assemblea Costituente, due avvenimenti che avranno rilevanti ripercussioni sulla lotta politica. L'aver demandato la decisione del problema istituzionale a un referendum popolare e, soprattutto, l'aver sottratto alla Costituente la prerogativa di legiferare sanciranno la sostanziale vittoria politica delle forze raccolte attorno alla leadership di De Gasperi e il venir meno per la compagine di Sinistra (comunisti, socialisti e azionisti) della possibilità di realizzare profonde trasformazioni sociali ed economiche.
Giampiero Carocci ha scritto:

Di importanza forse decisiva per la vittoria finale della linea portata avanti da De Gasperi fu la decisione di non attribuire all'assemblea costituente, eletta il 2 giugno 1946, il potere legislativo, e la decisione di deferire a un referendum popolare – e non all'assemblea costituente – la scelta tra monarchia e repubblica (il 2 giugno prevalse la repubblica di misura). L'assemblea costituente, priva di potere legislativo, non fu in grado di introdurre riforme nell'economia, nella società, nello stato. La scelta tra monarchia e repubblica deferita al referendum consentì alla Democrazia cristiana di tenere un atteggiamento agnostico. Fu questo un fatto di grande importanza nel determinare il carattere del partito cattolico, conservatore e interclassista. Se infatti la Democrazia cristiana avesse scelto apertamente la repubblica, avrebbe perduto i suoi potenziali elettori monarchici, e i voti dei conservatori si sarebbero divisi fra la Democrazia cristiana e un partito monarchico che sarebbe sorto alla sua destra. Se, d'altra parte, la Democrazia cristiana avesse scelto apertamente la monarchia, avrebbe perduto in gran parte la sua base popolare e soprattutto il suo carattere interclassista.

G. Carocci, Storia d'Italia dall'Unità ad oggi, Feltrinelli, Milano 1975, p. 339.

I risultati delle votazioni per la Costituente assumono un significato decisivo nel determinare la successiva evoluzione politica.
Il maggiore partito risulta essere, a dispetto anche delle previsioni più ottimistiche dei suoi stessi sostenitori, la Democrazia Cristiana, con la percentuale del 35,2%, mentre gli sconfitti sono i comunisti, che si attendevano un risultato certamente più favorevole e che col 19% dei voti si vedono sopravanzati dagli stessi socialisti (che raggiungono il 20,7%).
Considerando i suffragi ottenuti dagli altri partiti della Destra (15%) e dai repubblicani (4,4%) – e sottolineando l'esiguo 1,5% ottenuto dal Partito d'Azione, un risultato che sancisce la sua ormai inevitabile scomparsa dalla scena politica – per la prima volta si affaccia la possibilità di formare non più un governo comprendente tutti i partiti antifascisti, ma una coalizione "centrista".
Sarà la via che imboccherà De Gasperi, non immediatamente, ma solo quando le condizioni politiche determineranno "naturalmente" l'estromissione delle Sinistre, opportunità che si realizzerà nel maggio 1947.
Antonio Cambino ha interpretato la riproposta della formula di maggioranza del precedente governo da parte di De Gasperi:

In effetti la composizione numerica dell'Assemblea Costituente non lascia al leader democristiano molte possibilità. A meno di non voler includere nella nuova maggioranza oltre al Pli anche i qualunquisti e i monarchici, la Dc non ha altra strada che continuare la collaborazione con il Psiup e il Pci. Non si tratta tuttavia solo di aritmetica, ma anche di precise valutazioni politiche. Fino al 2 giugno, un governo senza le sinistre non era stato per De Gasperi neppure concepibile, perché una vittoria monarchica che avesse trovato socialisti e comunisti all'opposizione avrebbe potuto diventare il primo passo di una guerra civile. Adesso, l'ipotesi di un governo di centro-destra può essere fatta, ma solo per essere immediatamente scartata. Una serie di considerazioni di notevole peso inducono infatti a vedere come sia necessaria la continuazione della collaborazione con i due partiti di sinistra. E cioè, lo stato d'animo della maggioranza del paese, non ancora preparato a una brusca fine della «alleanza antifascista»; il timore delle ripercussioni negative che una simile rottura avrebbe potuto avere sui lavori della Costituente; la «garanzia» per il mantenimento dell'ordine pubblico rappresentata dall'inclusione nell'esecutivo di esponenti socialisti e comunisti. A tutto questo si deve aggiungere una valutazione di natura internazionale, che riguardava l'imminente trattato di pace. Il leader democristiano, ben consapevole che le clausole imposte all'Italia sarebbero state molto pesanti, non aveva mai perso d'occhio questo problema. All'indomani della caduta del fascismo aveva pensato che sarebbe stato meglio che i partiti democratici assumessero il potere solo dopo che un governo transitorio, formato da vecchie personalità dell'antifascismo, si fosse accollato la responsabilità della firma di un documento così gravoso. Lo sviluppo impetuoso degli avvenimenti lo aveva costretto ad abbandonare questa idea. Nelle nuove circostanze, tuttavia, la precauzione minima gli sembrava quella di giungere alla firma del trattato di pace con un governo di coalizione in cui fossero presenti i due grandi partiti della sinistra: nella speranza che un simile governo potesse riuscire a ottenere un ammorbidimento della posizione sovietica, ma specialmente per associare pubblicamente e ufficialmente il Pci e il Psiup alla difficile decisione.

A. Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla liberazione al potere DC, Laterza, Bari 1978, pp. 259-260.

Questi rilievi hanno indotto alcuni studiosi a interpretare la svolta del maggio 1947 come la logica conclusione dell'ipotesi politica che De Gasperi aveva accarezzato e lucidamente perseguito, fin dal momento dell'assunzione della guida del suo primo governo
Enzo Collotti ha fatto notare che:

La linea di De Gasperi era consapevolmente la prospettiva della ricostituzione in Italia di un blocco di potere moderato guidato dalla democrazia cristiana; l'esperienza del tripartito non fu mai per lui una prospettiva politica di lunga durata, ma soltanto l'espediente per superare alcune scadenze fondamentali della vita politica italiana nella fase di trapasso dopo la liberazione verso la «normalizzazione» moderata.

E. Collotti, Collocazione internazionale dell'Italia, in Aa.Vv., L'Italia dalla liberazione alla repubblica, Feltrinelli, Milano s.d., p. 109.

Su questa interpretazione della scelta di De Gasperi concorda sostanzialmente anche Guido Quazza:

De Gasperi, pur temendo lo scontro [con le sinistre] e psicologicamente non desiderandolo, [... ha ...] tardato soltanto per avere il massimo possibile di sicurezza sui punti essenziali. Con il tempismo eccezionale del politico che era, mentre cominciava a parlare il 30 gennaio, in sede del gruppo parlamentare, della possibilità futura di un governo di soli democristiani, vuole assicurarsi del tipo e del grado di appoggio degli USA, della consistenza della scissione socialista e dell'effettiva possibilità del nuovo partito [il Psli] di collaborare dopo il trauma della rottura, del varo del trattato di pace [firmato il 10 febbraio], della maggioranza per alcuni punti della carta costituzionale, in primis l'art. 7 sui rapporti tra stato e chiesa e quindi sul concordato.

G. Quazza, Resistenza e storia d'Italia, Feltrinelli, Milano 1976, p. 434.

Il quadro interpretativo fin qui riportato è stato puntigliosamente contestato dallo storico cattolico Pietro Scoppola.

Si è detto e scritto più volte che la fine della collaborazione con i comunisti era stata concordata da De Gasperi con il governo americano durante il suo soggiorno negli Stati Uniti, all'inizio del 1947; ma l'affermazione è quanto meno semplicistica. [...] la rottura della collaborazione con i comunisti, nelle condizioni che si erano venute creando, più che una scelta fu per De Gasperi un prendere atto di una situazione di fatto già esistente. L'esattezza della sua visione sarà confermata del resto dal progressivo e ulteriore irrigidirsi della politica rispettiva degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica. Non è possibile parlare di asservimento dell'Italia agli Stati Uniti voluto da De Gasperi o di dignità nazionale e di possibilità di progresso sociale vendute per un aiuto economico, secondo i clíchés di una certa polemica di ieri e di oggi.

P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, Bologna 1977, pp. 311-312.

Tantomeno si può affermare, fa rilevare ancora Scoppola, che la svolta dei 1947 sia da considerarsi il prezzo politico pagato da De Gasperi per ottenere l'appoggio delle grandi forze economiche.

Il formarsi del blocco delle forze economiche intorno alla Democrazia cristiana è molto più una conseguenza che una premessa della crisi del 1947. [...] L'incontro, che si è in larga misura realizzato, è stato anche il frutto della mancanza di alternative reali praticabili a livello di governo. Il modo in cui l'interclassismo della Democrazia cristiana ha giocato nella vita del paese è anche una conseguenza delle scelte della sinistra italiana. Una sintesi di tipo interclassista era necessaria nel dopoguerra ed era il presupposto di una democrazia fondata sul suffragio universale e sul consenso in un paese con una stratificazione sociale articolata e complessa come l'Italia. Ma una sintesi politica interclassista non escludeva necessariamente la classe operaia; avrebbe potuto anzi coinvolgerla profondamente; il fatto che essa sia rimasta, se non esclusa, certo, meno presente è da attribuire alle scelte dei partiti di sinistra e alla loro politica non meno che alle scelte della Democrazia cristiana. [...] La proposta degasperiana non era di semplice ritorno al passato e proprio in questo si distingueva nettamente dalla proposta liberale. Escludeva anche un'alternativa di classe al fascismo. Ma fra questi due poli poteva dare spazio a diversi esiti. Quello che è accaduto non è il frutto di una qualche scelta conservatrice della Democrazia cristiana o il portato necessario e fatale del suo interclassismo — che anzi era la sua ragione di forza ed era necessario alla democrazia italiana — ma il frutto di un intreccio di fattori nel quale le scelte della sinistra italiana giocano per non piccola parte.

P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, Bologna 1977, pp. 311-312.

Il giudizio di Scoppola presenta una sostanziale diversità rispetto alle tesi degli storici di orientamento laico o marxista. Afferma il Ragionieri:

Al ritorno dall'America, De Gasperi trovò dimissionari i ministri socialisti. La crisi fu abbastanza rapida e, dopo un tentativo di varare un governo di concentrazione di tutti i partiti, De Gasperi tornò alla formula della collaborazione con le sinistre. Sui motivi che indussero De Ga-speri a rinviare di tre mesi l'estromissione dal governo di comunisti e socialisti sono state avanzate varie ipotesi: dalla ancora non avvenuta enunciazione della dottrina Truman alla necessità di conservare una copertura sia di fronte alla firma del trattato di pace sia di fronte al disagio diffuso tra le classi lavoratrici, nonché, infine, alla volontà del presidente del Consiglio di non andare all'approvazione dell'articolo della costituzione relativo ai rapporti tra lo Stato e la Chiesa con un'assemblea costituente profondamente divisa. Il fatto è che l'operazione presentava notevolissimi rischi per lo sviluppo della gracile democrazia italiana; e tutti i biografi di De Gasperi sono concordi nel ricordare le sue esitazioni e il suo isolamento nella direzione democratico cristiana prima di prendere, a primavera, la decisione conclusiva. Ciò che probabilmente fu alla base della scelta degasperiana fu la precisa coscienza che, maturate le condizioni internazionali e quelle relative ai rapporti tra Stato e Chiesa, si imponeva una decisione sul terreno della politica economica e finanziaria, sul quale le sinistre non avrebbero potuto seguirlo, pena la perdita della propria identità politica.

E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d'Italia, vol. IV, Einaudi, Torino 1976, p. 2463.

La Costituzione

Il 22 dicembre 1947, dopo diciotto mesi di vivace dibattito, l'Assemblea Costituente approva la nuova Costituzione.
Il quadro politico generale, è particolarmente travagliato, ma i lavori dell'Assemblea si svolgono in un clima di collaborazione e intesa reciproca, nonostante le profonde diversità di ispirazione ideologica tra le maggiori forze politiche.
La carta costituzionale viene approvata quasi all'unanimità, con una maggioranza di 453 voti contro 62.
Le ragioni della formazione di uno schieramento tanto ampio ci vengono chiarite da Norberto Bobbio e Franco Pierandrei:

Come sia stato possibile un accordo tra gruppi così disparati sarebbe difficile da spiegare se non ci si rendesse conto che essi avevano in comune un ideale non soltanto negativo, l'antifascismo, ma anche positivo, la democrazia, intesa come un insieme di principi, di regole, d'istituti, che permettono la più ampia partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, e quindi il più ampio controllo dei poteri dello Stato. Gli ideali democratici furono il cemento che tenne insieme gli uomini della classe politica che aveva diretto la guerra di liberazione ed era giunta pur attraverso profondi contrasti al compromesso costituzionale.

N. Bobbio - F. Pierandrei, Introduzione alla Costituzione, Laterza, Bari 1982, p. 23.

Lo storico Carlo Ghisalberti, analizzando l'iter di formazione della carta costituzionale, mette in risalto le varie componenti che hanno portato alla sua redazione:

La Carta elaborata dalla Costituente in un anno e mezzo di attività era destinata nell'insieme ad apparire ben presto come il frutto di una sorta di compromesso tra le tre componenti essenziali dello schieramento politico italiano: la cattolica, che trovava la sua espressione nella Democrazia cristiana, quella operaia tradizionale, organizzata nel Partito comunista e nella maggior parte di quello socialista, e quella variamente ispirata alla tradizione risorgimentale e impersonata nelle diverse formazioni democratiche e liberali. Si trattava di un compromesso che incideva in modo diverso sulle singole norme e sui vari istituti, ma che appariva chiaramente visibile per la rispondenza impressa ad alcune di quelle o a taluni di questi alle idealità o agli interessi cattolici, marxisti o democratico-liberali che avevano di volta in volta avuto la prevalenza nelle discussioni e nelle votazioni dell'Assemblea determinando i contenuti normativi e istituzionali della Carta. È facile, per esempio, ritenere determinante l'influenza cattolica nella definizione dei rapporti tra Stato e Chiesa attuata con il riconoscimento della validità costituzionale degli accordi Lateranensi dall'art. 7 della costituzione, approvato per un accordo tra la Democrazia cristiana, portatrice delle istanze vaticane in favore del mantenimento della posizione di privilegio conseguita dalla Chiesa in Italia durante il fascismo, e il Partito comunista, preoccupato oltre misura di non rialzare quello «storico steccato» che in avvenire avrebbe potuto ostacolare la sua egemonia politica su vaste masse popolari. [...] Così, ancora, è evidente la derivazione cattolica di certe disposizioni sulla famiglia, considerata come «una società naturale fondata sul matrimonio», e della minore tutela giuridica garantita di conseguenza alla famiglia naturale rispetto a quella legittima. [...] Chiara espressione delle esigenze e delle idealità del movimento operaio sono, invece, quelle affermazioni di principio e quelle disposizioni che tendono a dare al testo un contenuto sociale avanzato. [...] Comunque tali norme, innovando la tradizione statutaria italiana con la definizione di una serie di obiettivi costituzionali di rilevante carattere sociale da porre come traguardi normativi al futuro legislatore, danno il senso dell'aderenza del testo elaborato dalla Costituente a una concezione del rapporto tra lo Stato e la società civile ben diversa da quella del liberalismo risorgimentale. [...] Le norme della costituzione più direttamente riguardanti l'ordinamento dello Stato e le guarentigie poste a tutela dei cittadini nei confronti del potere sembrano, però, ispirarsi prevalentemente alla tradizione liberale dalla quale derivavano più direttamente le formazioni politiche di democrazia laica. A questa valutazione naturalmente positiva delle conquiste della civiltà giuridica occidentale realizzate sul piano delle sue istituzioni pubbliche aderivano, con maggiore o minore convinzione secondo il loro credo ideologico, anche quelle forze politiche di ispirazione cattolica o marxista che, nel generale entusiasmo suscitato per la ripresa dei liberi ordinamenti in Europa dopo il trionfo degli alleati sul nazifascismo che li aveva conculcati e negati, si preoccupavano di consolidare le basi strutturali della democrazia con precise garanzie costituzionali, anche al fine di impedire il ripetersi in Italia di esperienze autoritarie e antidemocratiche. Così la struttura dello Stato codificata dalla costituzione repubblicana apparve immediatamente inquadrabile negli schemi del diritto pubblico tradizionalmente qualificante le democrazie occidentali.

C. Ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 414-416.

Fin dal momento della formulazione del testo costituzionale, le valutazioni che hanno portato all'approvazione delle singole norme non sono state univoche. Ad esempio, in materia economica, i comunisti hanno considerato le disposizioni costituzionali come uno strumento che consentiva, anche per mezzo delle nazionalizzazioni, di limitare il diritto di proprietà in favore dell'interesse sociale, mentre i cattolici le hanno viste come un freno sia al grande capitalismo sia al collettivismo. Queste divergenze, accantonate al momento della realizzazione del «compromesso costituzionale», sono ricomparse in seguito come interpretazione del testo costituzionale.
I principi sanciti dalla Costituzione, tuttavia, a prescindere dalle diverse interpretazioni datene dopo la sua entrata in vigore, rappresentano sicuramente un fattore di progresso per la società italiana. Tra le norme più importanti ne ricordiamo alcune di grande rilevanza: l'istituzione di una piena forma di democrazia con l'introduzione della rappresentatività degli organi politici; la difesa dei diritti dei lavoratori a partire dall'enunciazione secondo cui l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro; la garanzia delle libertà politiche e civili per il cittadino; la parità dei sessi; il riconoscimento della necessità di riforme in grado di limitare le ingiustizie sociali; l'avvio del decentramento statale con la creazione delle regioni autonome e così via. Di grande portata, inoltre, è il fatto che venga sanzionato l'ingresso nella vita politica delle grandi organizzazioni di massa cattoliche e socialiste, che nonostante decenni di lotte e impegno civile erano sempre state escluse dall'esercizio del potere.
Nella valutazione storica l'attenzione degli studiosi è incentrata su alcuni temi principali: le ideologie contrastanti a cui si ispiravano le principali forze politiche presenti nella Costituente e la loro composizione nel «compromesso costituzionale»; il problema della costituzione «materiale», cioè quel complesso di norme che le forze politiche al potere fanno valere effettivamente, a scapito o come interpretazione della carta costituzionale.
Più in generale, se alcuni studiosi reputano la Costituzione avanzata rispetto alla situazione dell'Italia del Dopoguerra, altri la considerano arretrata in confronto alle elaborazioni teoriche delle correnti culturali e giuridiche moderne.
Gaspare Ambrosini giudica il testo costituzionale «complessivamente lineare e tale da cogliere, sinteticamente, i maggiori problemi che si agitano nel momento storico in cui viene formulato» (G. Ambrosini, Costituzione italiana, Einaudi, Torino 1975, p. XVIII).
Ernesto Galli Della Loggia, analizzando i temi che più hanno caratterizzato l'apporto delle singole forze politiche alla formulazione del testo costituzionale, mette in luce come alla fine del lavoro nessun partito poté dirsi completamente soddisfatto:

Insomma, lungi dall'essere politicamente e ideologicamente neutra, dall'occuparsi semplicemente dell'organizzazione dei poteri e dei loro rapporti, la Costituzione italiana ha voluto rappresentare un insieme di indicazioni di natura politico-ideologica rivolte al potere. È degno di nota che proprio su questo punto si era incentrata, nel corso dei lavori preparatori, la critica di Piero Calamandrei [...]. In generale l'intera analisi del testo costituzionale da parte di Calamandrei si era mostrata in quell'occasione piena di critiche e di riserve. Aveva osservato che il progetto di Costituzione dava un'impressione di «eterogeneità», che si trattava di una «Costituzione tripartitica, di compromesso, molto aderente alle contingenze politiche dell'oggi e del prossimo domani: e quindi poco lungimirante», che infine tale spirito di compromesso aveva portato gli autori del progetto «a girare i problemi piuttosto che affrontarli», nonché a dare a molti istituti «un certo carattere di approssimazione e di genericità». Si può dire che quasi tutte le voci levatesi dalla sinistra non fossero molto diverse da quelle di Calamandrei. Meno radicali, forse, nelle loro critiche all'ispirazione complessiva del testo, ma certamente piene di riserve su numerosi punti, anche molto qualificanti. Nenni, ad esempio, manifestò lo sfavore dei socialisti per le regioni a statuto speciale e per quello che gli sembrava un «federalismo regionale» di fatto, nonché per l'esistenza di due Camere e della Corte costituzionale, per la timidezza nella formulazione dei diritti sociali, e arrivò addirittura a dire che tutto l'impianto dell'ordinamento costituzionale gli sembrava affetto da «sfiducia nel popolo» avendo frapposto alla volontà delle masse «quanti più ostacoli, quanti più diaframmi possibile». Togliatti, dal canto suo, non fu molto più tenero. Si dichiarò perplesso sull'autonomia regionale, favorevole alla non accolta elettività dei magistrati, e ridicolizzò da par suo «questo sistema di inciampi, di impossibilità, di voti di sfiducia, di seconde Camere, di referendum a ripetizione, di Corti costituzionali», che a suo giudizio avrebbe sortito l'unico effetto di rilanciare «l'azione diretta» (cioè, se capiamo bene, la cultura dell'azione rivoluzionaria). I maggiori apprezzamenti furono, in generale, e da parte di quasi tutti, per il fatto che con la Carta erano state poste le premesse e le garanzie di un avvenire di libertà e di giustizia (specie su quest'ultima molto s'insisteva, alla luce della nuova «civiltà del lavoro» di cui un po' tutti giudicavano inevitabile, ed auspicabile, l'avvento), e per la rottura anche simbolica che la nuova Carta rappresentava rispetto al passato monarchico e soprattutto fascista. Si può dire, tuttavia, che anche da questo punto di vista l'enfasi fosse molto contenuta. Nessun protagonista di rilievo, ad esempio, vide nella Costituzione l'inveramento storico dell'antifascismo e della lotta di liberazione unitamente considerati ed improvvisamente depurati dei molti loro accesissimi contrasti interni; tanto meno nessun esponente di primo piano si spinse a giudicare il testo come una produzione giuridica di una speciale ed alta qualità in sé o rispetto ad altri consimili.

E. Galli Della Loggia, Il mito della Costituzione,
in Miti e storia dell'Italia unita, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 188 e 189.

Enzo Cheli, riferendosi al processo costituente, sostiene:

La costituzione nasce come prodotto «autentico» (caratterizzato cioè da una sua intrinseca omogeneità), ma anche notevolmente sfalsato dalla realtà contingente nel paese. Rispetto a questa realtà, la carta repubblicana si colloca, infatti, al momento della sua approvazione, in una posizione che, al tempo stesso, è ritardataria e anticipatrice. La costituzione del 1948 è in ritardo quando trascura di registrare gli svolgimenti più recenti della vicenda politica e il nuovo equilibrio delle forze che, a partire dai primi mesi del 1947, si è già determinato nel paese; ma è anche in anticipo nella misura in cui, intuendo le tendenze meno apparenti della vicenda politica italiana, giunge a segnare alcune linee di sviluppo del sistema, che, se pur su tempi lunghi, saranno infine destinate a prevalere.

E. Cheli, Il problema storico della Costituente,
in Aa.Vv., Italia 1943-1950, La ricostruzione, a cura di S.J. Woolf, Laterza, Bari 1975, p. 247.

Oggetto di polemiche particolarmente accese è stata la valutazione della Costituzione relativamente alla sua applicazione, nel quadro storico-politico maturato pochi mesi prima della sua approvazione con l'estromissione delle Sinistre dal governo e in particolare negli anni successivi alla sua entrata in vigore.
Rispetto a questo problema, assume particolare rilevanza il giudizio di Pietro Calamandrei, esponente del Partito d'Azione, considerato uno dei più autorevoli giuristi italiani del '900:

Così, quando la Costituente chiuse i suoi lavori, l'ordinamento costituzionale era, sì, una repubblica; ma non era ancora né una repubblica «democratica» (nel senso anche sociale che si era voluto dare a questa parola) né una repubblica «fondata sul lavoro», né una repubblica «regionale». L'effettiva attuazione di tutti i caratteri più tipici e più innovativi della Repubblica rimaneva affidata alla lealtà costituzionale del futuro parlamento. Accadde così che, al momento in cui, col 1° gennaio 1948, entrò in vigore la nuova Costituzione, l'ordinamento giuridico italiano venne ad assumere, proprio in conseguenza di questo compromesso tra il vecchio e il nuovo che stava alla base della Costituzione, un aspetto, se non caotico, certamente ibrido ed eterogeneo. Era caduto il fascismo e la monarchia, ma non vi era stata una rivoluzione che avesse cominciato dal far tabula rasa di tutto l'ordinamento precedente, per poi mettersi a ricostruire con nuovi materiali su un terreno sgombro dalle macerie. Qui, al contrario, la nuova Costituzione si appoggiava in gran parte su antiche mura in rovina: dietro le nuove facciate c'erano ancora le vecchie stanze, nelle quali erano rimasti ad abitare, o sarebbero tornati dopo breve assenza, i soliti padroni. Fuor di metafora, l'Assemblea costituente, nel breve periodo dei suoi lavori (breve per la mole dell'opera che avrebbe dovuto compiere), fece appena a tempo a perfezionare la costruzione degli organi supremi (organi legislativi e governo) che erano indispensabili per trasmettere legalmente al legislatore ordinario la continuazione del lavoro. Ma per tutto il resto (fuor delle poche leggi fino da allora espressamente abolite perché di marca dichiaratamente fascista o perché incompatibili colla forma repubblicana), lasciò provvisoriamente in vigore tutta la legislazione precedente: tanto che un autorevole costituzionalista [l'Esposito] ha potuto dire, con una formula paradossale ma sostanzialmente suggestiva, che «nella Repubblica italiana sopravvive il Regno d'Italia».

P. Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla, in Aa.Vv., Dieci anni dopo, Laterza, Bari 1955, pp. 220-221.

Il centrismo

La rottura del governo di unità antifascista acuisce le lacerazioni tra le forze politiche e la campagna elettorale dell'aprile 1948 acquista il carattere dello «scontro frontale» tra gli opposti schieramenti. La preoccupazione di un'affermazione del Fronte Democratico del Popolo (che riunisce comunisti e socialisti) e la «paura del comunismo» conseguente ai recenti sviluppi della situazione internazionale (si deve ricordare che nel febbraio in Cecoslovacchia c'era stato il colpo di stato comunista) inducono la Chiesa a intervenire, sia attraverso la gerarchia ecclesiastica sia attraverso i comitati civici, nella competizione elettorale a fianco della Democrazia Cristiana.
Ha scritto Domenico Settembrini:

Si costituì una rete di circa 20.000 Comitati parrocchiali, detti però, ad evitare una troppo facile identificazione, locali, che operò un rigoroso censimento dell'elettorato, sviluppando un notevole sforzo di persuasione verso la parte non decisamente ostile, e fu molto attiva nei giorni delle elezioni nel portare alle urne malati o troppo tiepidi. L'organizzazione centrale, dotata dalla Banca Vaticana, dall'ambasciata americana e dalla Confindustria italiana di ingenti mezzi finanziari, stimolava attraverso un corpo di ispettori regionali i Comitati locali, a cui forniva pure materiale propagandistico, personale specializzato, denaro, ecc. Il nucleo originario dei Comitati fu costituito dalle diverse branche dell'Azione cattolica, che misero a disposizione organizzazione, attivisti e stampa. Attorno a questo nucleo si raccolsero sacerdoti, religiosi di diversi ordini, rappresentanti delle altre organizzazioni cattoliche, cattolici di buona volontà. Poiché i dirigenti a tutti i livelli furono scelti dalle competenti autorità ecclesiastiche o dalle giunte di Azione cattolica, i comitati civici si configurarono apertamente come unione elettorale cattolica alle dirette dipendenze del clero, e in definitiva a quelle del Papa, che attraverso questo strumento interveniva nella lotta politica italiana.

D. Settembrini, La Chiesa nella politica italiana, 1944-1963, Rizzoli, Milano 1977, pp. 209-210.

Si va così alle urne in un clima surriscaldato e sovraeccitato; agli elettori viene proposta una scelta non tanto tra un minore o maggiore spostamento a Sinistra dell'equilibrio politico, ma tra la guerra civile, il passaggio a un regime comunista o a una dittatura di Destra.
L'esito delle elezioni è, su queste basi, netto. Secondo Celso Ghini:

I risultati elettorali qualificanti del 18 aprile furono soprattutto due: il 31 % dei voti del Fronte democratico popolare rispetto al 40% dei voti socialisti e comunisti del 1946, e il 48,5% dei voti raccolti dalla DC rispetto al 35,2% dell'elezione dell'Assemblea costituente. Uno spostamento di tale entità su una massa di decine di milioni di elettori è indice di profondi mutamenti negli orientamenti politici fra tutti gli strati di cittadini. Il «terremoto» coinvolse tutti i partiti dall'estrema sinistra all'estrema destra. Crollarono i repubblicani e i liberali, e i fascisti ottennero meno di metà dei voti che due anni prima erano andati al Fronte dell'Uomo qualunque. I socialdemocratici, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare dopo i risultati delle elezioni regionali di Sicilia e comunali a Roma, arrivarono alla media nazionale del 7,09% dei voti, che era una cifra elevata, ma inferiore ai voti perduti dai socialisti e dai comunisti, senza contare quelli «lasciati liberi» dal Partito di azione e dalla Concentrazione democratica repubblicana. Vi è quindi uno spostamento generale degli elettori verso destra. I voti a sinistra della DC, che erano stati circa il 47,48% nel 1946, si riducevano al 41,65% con l'aggiunta che quasi il 10% di questi voti erano andati al PRI e ai socialdemocratici, alleati della DC e in posizione di aspra polemica e di lotta contro il Fronte democratico popolare. La base elettorale della coalizione centrista passò dal 46,34% del 1946 al 61,89%. Tutti gli equilibri precedenti risultarono sconvolti.

C. Ghini, Il voto degli italiani, 19461974, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 84-85.

Una delle prime scelte di campo operate dal nuovo governo centrista di De Gasperi fu l'adesione al Patto Atlantico (NATO), visto come un baluardo che potesse difendere la Penisola da eventuali mire sovietiche e garantire appoggi internazionali al governo italiano.
Così Sergio Romano sintetizza la questione:

Resta da dire quale fosse la posizione dell'Italia in questi frangenti. In Italia le elezioni politiche ebbero luogo nell'aprile 1948. Il presidente del Consiglio era Alcide De Gasperi, il ministro degli Esteri era Carlo Sforza. Alla vigilia delle elezioni, molte pressioni furono esercitate, soprattutto da parte americana, perché il governo italiano si schierasse chiaramente a fianco delle democrazie occidentali. Ma Alcide De Gasperi preferì tergiversare e rinviare la decisione a un periodo successivo. Temeva che la campagna elettorale, se fosse stata combattuta su temi di politica internazionale, sarebbe diventata incandescente e avrebbe reso la vittoria della Democrazia cristiana molto più difficile. Si comportò, quindi, con grande prudenza ed evitò che di quei temi si parlasse prima delle elezioni. Queste ebbero luogo il 18 aprile 1948 e dettero, come è noto, la maggioranza assoluta alla Democrazia cristiana. Terminate le elezioni, De Gasperi riprese in mano il filo della politica estera e giunse con Carlo Sforza alla conclusione che l'Italia non poteva difendersi da sola. Non ne aveva i mezzi e aveva un forte partito comunista che rendeva la sua posizione particolarmente delicata e vulnerabile. Occorreva quindi poter contare sulla protezione di paesi più forti. Fu in questo spirito che De Gasperi decise la candidatura dell'Italia al Patto atlantico. Ma la situazione nel frattempo era cambiata. L'aspetto paradossale dell'intera vicenda fu che gli americani, dopo avere in una prima fase corteggiato l'Italia, cominciarono ad esprimere parecchie riserve sulla possibilità di una candidatura italiana. Temevano di dover estendere le loro garanzie militari a un'area troppo vasta. E temevano che l'Italia fosse, anche se non lo dissero esplicitamente, una palla al piede. Quindi, dopo aver lungamente tergiversato e poi desiderato l'adesione al Patto atlantico, il governo italiano trovò la porta se non chiusa, certamente socchiusa. Accadde, per fortuna, che venisse in nostro aiuto la Francia. I francesi volevano l'Italia nel Patto perché desideravano che gli americani estendessero le loro responsabilità al Mediterraneo. Fu così che riuscimmo a ottenere l'adesione al Patto atlantico. Ma non tutti i problemi erano risolti. Le difficoltà maggiori erano in Italia. De Gasperi e Sforza dovettero affrontare un duro dibattito in Parlamento, dove si scontrarono con la fortissima opposizione del partito comunista, del partito socialista e anche di una parte della Democrazia cristiana, l'ala sinistra del partito, profondamente ostile a un impegno politico-militare, soprattutto con gli Stati Uniti. Fu una lunga e difficile battaglia. Il dibattito in Parlamento si protrasse per molte ore in una situazione di grande tensione politica. Nenni scrisse e pronunciò allora parole di fuoco contro quello che egli definiva «il cappio delle alleanze». Finalmente, il Parlamento votò per la ratifica del Patto e l'Italia divenne da quel momento membro dell'Alleanza. Non soltanto. Uscì dal limbo in cui si era lungamente trovata dopo la fine della guerra e dalla condizione di paese sconfitto, considerato dagli alleati occidentali con un certo riserbo, con una certa reticenza. Divenne finalmente, a tutti gli effetti, un paese alleato. Per noi l'Alleanza atlantica fu una specie di esame di passaggio, un esame di maturità.

S. Romano, L'Italia negli anni della Guerra Fredda, Ponte alle Grazie, Milano 2000, pp. 35-37.

Conseguenza diretta dello scontro del 18 aprile è la rottura dell'ultima sopravvivenza dell'alleanza antifascista: l'unità sindacale. La scissione del luglio 1948, che approderà prima alla creazione della UIL (1950) e poi alla nascita della CISL (marzo 1951), è stata considerata, nella riflessione politica e storiografica, l'episodio decisivo delle vicende sindacali di questi anni. Dal 5 agosto, quando i cattolici escono dalla CGIL per formare un loro sindacato, fino all'anno successivo, il blocco di potere consolidatosi con il 18 aprile e cementatosi in una nuova maggioranza parlamentare, trasferisce anche sul piano sociale, e quindi nei confronti delle agitazioni operaie e contadine che percorrono il Paese, gli stessi orientamenti che avevano suggerito l'esclusione delle Sinistre dal governo nel maggio 1947.
Si delinea in tal modo il tentativo di ridimensionare la CGIL, dopo aver riconosciuto che la scissione dei dirigenti cattolici prima e di quelli socialdemocratici poi non aveva sostanzialmente inciso sull'organizzazione, ora guidata da comunisti e socialisti.
Un consuntivo è stato tracciato da Camillo Daneo:

La durezza dell'intervento dello stato contro le lotte operaie e contadine nel corso del 1949 era documentata dalle cifre: 17 lavoratori uccisi e quasi 1.000 feriti dalla polizia; 14.573 arrestati (fra cui 77 segretari di Camere del Lavoro e 375 dirigenti di sindacati e di leghe); 13.793 denunziati a piede libero. La CGIL si trovava dunque a dover fronteggiare l'attacco più massiccio, condotto a diversi livelli e al cui centro si collocavano insieme i problemi dell'occupazione e quelli del potere contrattuale delle aziende, senza essere sufficientemente preparata ad affrontarlo. L'esame delle lotte sviluppatesi nel corso del 1949 rivelava tuttavia una capacità d'autorganizzazione e d'iniziativa da parte della «base» superiore a quel che si sarebbe potuto attendere dopo più di tre anni di gestione centralizzata della contrattazione. Le più importanti innovazioni, rispetto ai tradizionali metodi di lotta nelle fabbriche, furono la pratica della non collaborazione e quella dello sciopero articolato per reparti e per orari (a scacchiera e a singhiozzo).

C. Daneo, La politica economica della ricostruzione, 1945-1949, Einaudi, Torino 1975, pp. 283-284.

Gli orientamenti e le misure adottati dal governo centrista riguardo alle condizioni di vita delle classi lavoratrici e delle masse contadine meridionali risultano linearmente conseguenti alla scelta «liberista» propugnata da Luigi Einaudi e proseguita, pur con significative attenuazioni, da Giuseppe Pella, succedutogli al momento della sua assunzione della presidenza della Repubblica.
L'impossibilità di prolungare la prospettiva centrista, che, pur migliorando la situazione economica italiana durante il 1949, avrebbe però creato difficoltà e disagi sulle possibilità di sviluppo future, fu data dal successo social-comunista alle elezioni del 1953. Alcide De Gasperi, cercando un sistema che gli consentisse di proseguire la politica centrista,  aveva imposto la legge elettorale maggioritaria, denominata dalle opposizioni «legge truffa», in base alla quale il partito o alleanza di partiti che avesse superato il 51% dei voti avrebbe avuto nel Parlamento il 65% dei seggi.
La maggioranza, tuttavia, composta da DC, PSDI, PRI e PLI, subì una clamorosa sconfitta, passando dal 61,9% dei voti del 1948 al 49,2%, vanificando così la legge truffa.
Comunisti e socialisti raggiunsero il 35,3% rispetto al 31 di cinque anni prima.

A uscire battuta fu innanzitutto la DC, che subì un calo di suffragi dell'8,4%, a tutto vantaggio dei monarchici e dei fascisti, che si videro attribuire, rispetto al 4,8% del 1948, il 12,7%.
Si apriva così una fase di instabilità politica, destinata a protrarsi sino ai primi anni Sessanta, allorché il «centrismo», ormai logoro, sarebbe stato definitivamente accantonato per aprire la prospettiva del Centrosinistra.

Dato questo, fare un bilancio degli anni della ricostruzione significa sostanzialmente esprimere una valutazione complessiva della proposta politica di De Gasperi, l'indiscusso leader della Democrazia Cristiana, che era stato alla guida del Paese, ininterrottamente, dal 1946 al 1953.
Gianni Baget-Bozzo scrive:

Questo arco di tempo vide De Gasperi rompere la collaborazione con i comunisti e fare anzi, della lotta al comunismo il principio della politica interna e della politica estera del Paese: la lotta al comunismo fu da lui organizzata in un quadro rigorosamente democratico, ma esclusivamente basato sulla contrapposizione. Egli non pensò che le differenze tra comunismo italiano e comunismo sovietico, od anche la particolare situazione dell'Italia, potessero suggerire un uso più positivo del Pci, sia pure nel quadro della Costituzione. Da questo derivò la sua più importante decisione politica cioè, l'adesione al Patto atlantico, che avrebbe condotto ai giorni difficili della guerra di Corea. Inoltre, i rapporti di politica interna erano divenuti, in conseguenza della firma del patto, rapporti di politica internazionale: i due blocchi passavano all'interno delle frontiere italiane E avrebbero potuto mettere in forse la stessa democrazia. [...] Alla mancata cooperazione con il Pci corrispose in De Gasperi il desiderio di collaborazione con tutte le forze che si rifacevano alla tradizione risorgimentale o a quella pre-fascista. Rompendo con Togliatti, il leader democristiano aveva isolato politicamente il partito e temeva, perciò, di essere, in quella situazione, eccessivamente condizionato dall'Azione cattolica. Egli si diede allora a sostenere i tre partiti laici, che rappresentavano un elettorato modesto e declinante, cercando di conferire loro un peso sul piano politico, essendone privi sul piano elettorale. Questa politica, il centrismo, risultò alla fine un fallimento: e De Ga-speri spese l'ultimo periodo della sua vita, dal 7 giugno 1953 in poi, a constatarlo. Un sicuro assetto delle istituzioni democratiche, garantito da una maggioranza stabile e da un ruolo riconosciuto al governo di direzione del processo legislativo, non poté essere raggiunto dall'alleanza fra la DC e i partiti di centro: salvo i repubblicani, gli altri partiti minori, in particolare i socialdemocratici di Saragat, si rivelarono entità corporative tese a far riconoscere sempre più e meglio dalla DC la posizione di privilegio in cui essa li aveva collocati.

G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano al potere. La DC di De Gasperi
e di Dossetti 1945-1954
, Vallecchi, Firenze 1974, pp. 509-510.

Gli anni del centrismo furono peraltro anche da momenti di estrema debolezza intrinseca dei movimenti di Sinistra, che per vari motivi si dimostrarono incapaci di proporsi come valida alternativa al sistema democristiano, perché percorsi da scissioni e polemiche.
«Quel terribile 1956», come lo definì il comunista Giorgio Amendola, nel quale la denuncia dei crimini di Stalin operata da Chruščëv e la dura repressione sovietica dei moti ungheresi causarono un crollo della popolarità dei partiti marxisti, in quanto il PCI, appiattitosi su posizioni di ferma difesa della repressione in Ungheria, vide un'emorragia di iscritti e di intellettuali, entrando in un periodo di forte crisi.
Giano Accame commenta:

Inizialmente, ciò che scosse i quadri e la base comunista furono le critiche a Stalin. L'eclissi del mito disorientò più delle repressioni a cui i comunisti italiani erano psicologicamente preparati. Qualche accenno di sbandamento nella Cgil, in cui lo stesso Di Vittorio si sbilanciò con la sua istintiva generosità a favore degli insorti ungheresi, venne aspramente rimproverato. Tra gli intellettuali del Pci diversi abbandonarono il partito, che confermò tuttavia la capacità di far muro alle accuse in tempi avversi, conservandosi saldo nella solidarietà coi capi sovietici. Mentre alla base le critiche a Stalin furono accolte con sentimenti di profonda mortificazione e frustrazione, ai vertici si tentò di coglierle come occasione per riprendere con più vigore il discorso sulla "via nazionale". [...] Quando uscirono le prime indiscrezioni giornalistiche sul rapporto segreto, Nenni se la prese con «quell'irresponsabile» di Kruscev, lamentando che «non aveva il diritto di distruggere un patrimonio comune del movimento operaio, mettendoci in difficoltà», senza nemmeno consultarsi coi comunisti italiani. Per i socialisti era comunque più facile riprendersi traendone anzi la spinta per accentuare il processo di differenziazione. La manovra di riconversione del Psi, pur tra perduranti contrasti (durante la rivolta d'Ungheria, mentre molti intellettuali comunisti entravano in crisi su motivi di libertà, non pochi esponenti del Psi approvarono l'intervento dell'Armata rossa meritandosi il nomignolo di "carristi", cioè sostenitori dei carri armati sovietici), aveva nella tradizione libertaria del partito e nella linea dei partiti socialisti di tutto l'Occidente i precedenti che nel 1962 gli consentirono d'appoggiare (astenendosi) il primo governo di centrosinistra e nel dicembre del 1963 di rientrare finalmente al governo. Per il Pci, costretto a costruirsi da solo una linea che – nel rispetto dell'interna coerenza e degli umori di base – gli consentisse un'analoga operazione, la faticosa manovra proseguì con esito incerto sino alla fine degli anni 80, allorché la caduta del muro di Berlino indusse a cambiargli radicalmente con le posizioni anche il nome. S'aggravò per qualche anno l'isolamento e la discriminazione dei comunisti, che seppero peraltro reagirvi profittando abilmente d'ogni occasione per riguadagnare spazio politico e peso nella società. L'intransigenza mantenuta sui fatti d'Ungheria è stata successivamente sfumata evocando qualche mezza parola di comprensione per gli ungheresi rintracciabile anche in comunicati ufficiali. Ma i militanti accolsero con soddisfazione la posizione definita nettamente sulI`Unità" da Togliatti: «Quando crepitano le armi dei controrivoluzionari si sta da una parte o dall'altra delle barricate. Un terzo campo non c'è». La linea dura giovò alla compattezza del Pci, minacciata dai "distinguo" degli intellettuali, ma tornando a caratterizzarlo come qualcosa di profondamente diverso dagli altri partiti democratici e di difficile assimilazione: nel quadro d'una società pluralistica il Pci manteneva tratti da corpo separato, che non poteva essere preso in considerazione per normali giochi politici d'alleanze e d'alternanze. Al di là dei pregiudizi, alimentati a arte da chi aveva interesse a sterilizzare a sinistra poco meno d'un quarto degli italiani (oltre al milione e mezzo di voti missini sterilizzati a destra) per rendere improponibile il ricambio delle forze al governo, venivano confermati nei confronti del Pci motivi di timore non irragionevoli.

G. Accame, Una storia della Repubblica dalla fine della monarchia ad oggi,
Rizzoli, Milano 2000.

Il "miracolo economico"

Tra gli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta il balzo in avanti è tale che si è parlato di una vera e propria rivoluzione industriale.
La ricchezza aumenta con una percentuale media annua del 6%. Il reddito pro capite raddoppia. La popolazione attiva nell'agricoltura, rispetto al 1950, si riduce quasi alla metà. Tra i Paesi europei l'Italia raggiunge il più alto tasso di incremento della produzione industriale. Nascono nuovi complessi industriali, come l'ENI e la Zanussi; altri, come la FIAT e l'Olivetti, attraversano un periodo di grande espansione. Il commercio estero italiano conquista mercati in tutti i continenti.
All'aumento della produzione corrispondono anche l'aumento dei consumi interni, la trasformazione degli usi e dei costumi e un grande progresso culturale. L'impetuoso e «mitico» sviluppo ebbe però degli aspetti negativi. A tale proposito Carlo Pinzani afferma:

Non si può dimenticare che dal 1951 al 1961 il reddito di lavoro dipendente, al netto dei contributi sociali, aumentava dell'88,87 per cento, mentre il prodotto nazionale lordo al costo dei fattori pro capite aumentava del 111,22 per cento ed il reddito non di lavoro superava largamente tale valore raggiungendo una percentuale di incremento del 135,17 per cento. È così perfettamente comprensibile che, nel decennio successivo, il problema della redistribuzione del reddito sia stato posto al centro delle rivendicazioni del mondo del lavoro, anche in modo da far saltare le previsioni della programmazione governativa, che ignorava abbastanza grossolanamente gli enormi sacrifici che lo sviluppo aveva imposto alle classi lavoratrici. Tra questi non si può ignorare il dato impressionante — tratto dagli «Annuari statistici italiani» dei diversi anni — in base al quale i casi definiti dall'apposita gestione previdenziale di infortuni sul lavoro che, nel periodo 1949-62, portarono alla morte o all'inabilità permanente nei settori agricolo e industriale, erano stati, rispettivamente, 43.631 e 674.523. Se poi si passa ad esaminare la distribuzione territoriale del più che raddoppiato prodotte nazionale, alla metà degli anni 60, ci si rende conto che il «miracolo economico», se aveva indubbiamente sconvolto l'intera società italiana non aveva certo visto distribuire in modo uniforme i suoi benefici effetti. Anche se nel complesso, una certa redistribuzione v'era stata, dal momento che la percentuale del reddito nazionale prodotta nel Nord era scesa nel 1965 al 56,67, dal 58,55 del 1951, mentre quella del Centro era passata dal 17,43 al 18,93 e quella del Mezzogiorno dal 24,02 al 24,40, non si può certo dire che gli squilibri fossero in via di superamento. La conclusione viene avvalorata se il dato viene disaggregato, confrontando il reddito prodotto nelle tre province più ricche (Milano, Roma, Torino) con quello delle province più povere (Enna, Rieti e Matera) sempre considerato come percentuale rispetto al reddito nazionale. Ebbene, mentre per il primo gruppo, la quota risulta aumentata dal 23,00 al 24,54 per cento, per il secondo il valore già infimo di 0,83 per cento si è ulteriormente ridotto allo 0,67 per cento.

C. Pinzani, L'Italia repubblicana, in Aa.Vv., Storia d'Italia, vol. IV,
Einaudi, Torino 1976, pp. 2685-2686.

Lo sviluppo, dunque, ha le sue contraddizioni, e pone problemi enormi alla società.
L'assetto demografico del Paese viene sconvolto; il progresso civile è limitato; la distribuzione del reddito è diseguale.
Affrontando questi temi, Giuliano Procacci, dopo aver considerato l'alta congiuntura della crescita economica, conclude:

Ma il miracolo economico, come tutti i molti miracoli che abbiamo contato nel corso della storia d'Italia, ha anche il suo rovescio della medaglia. Lo sviluppo edilizio, svoltosi sotto il segno della più sfrenata speculazione, ha pregiudicato in modo probabilmente irreparabile l'urbanistica delle principali città italiane e ha irrimediabilmente deturpato paesaggi unici al mondo. La motorizzazione di massa è stata artificialmente gonfiata al di là delle possibilità economiche del paese oltre che da una sapiente tecnica di persuasione occulta, anche attraverso una deliberata rinuncia da parte dello Stato a promuovere i mezzi di trasporto pubblico. Mentre si costruiscono migliaia di chilometri di autostrade, si pensa a sopprimere cinquemila chilometri di ferrovie e i trasporti pubblici urbani, costretti a procedere a passo d'uomo nel caos del traffico cittadino, presentano bilanci paurosamente deficitari. L'esodo dalle campagne ha acuito la crisi di una agricoltura che in vaste zone del paese è ancora regolata da contratti e da rapporti superati e anacronistici, solo parzialmente intaccati dalla riforma agraria attuata dal governo. Ma questi — si potrebbe obiettare fondatamente — sono gli inconvenienti e il prezzo del progresso e comunque non si può certo negare che in quest'ultimo decennio l'Italia sia riuscita a spezzare definitivamente le catene dell'arretratezza in cui per secoli era stata mantenuta e si sia inserita nel ristretto novero dei paesi a forte sviluppo industriale. Ma ciò che lascia perplessi e scettici molti italiani di fronte al miracolo economico è la constatazione che ad esso non ha corrisposto un analogo progresso civile. La condizione operaia italiana rimane precaria e dura; la disoccupazione, malgrado la valvola di sicurezza dell'emigrazione, che ha assorbito circa 3 milioni di braccia, rimane ancora a livelli preoccupanti; le attrezzature civili, le scuole, gli ospedali, sono assolutamente inadeguati e solo da qualche anno è stata introdotta l'obbligatorietà dell'istruzione fino a 14 anni, la quale però ancor oggi è largamente evasa. L'amministrazione pubblica rimane insufficiente ed elefantiaca, la giustizia lenta, l'università medievale, il sistema fiscale vessatorio contro i poveri e impotente contro gli evasori fiscali, la corruzione dilagante.

G. Procacci, Storia degli italiani, Laterza, Bari 1983, pp. 555-556.

Il potere politico, fin da De Gasperi, si pone il problema dello squilibrio e i provvedimenti che istituirono la Cassa per il Mezzogiorno, i piani per l'industrializzazione del Sud ecc. furono rivolti a colmare i divari dello sviluppo e le tensioni sociali che esso crea.
Nel complesso, tuttavia, alla vivacità dell'economia corrispose l'immobilismo dei governi, incapaci di coordinare, attraverso una seria politica di programmazione, la dinamica dell'espansione economica. Si limitarono, infatti, ad assecondare lo sviluppo, praticando una politica liberalista e favorendo, semmai, le grandi imprese, come negli anni Sessanta con la creazione delle cosiddette «cattedrali nel deserto».
Le forze politiche al potere reagirono con metodi tradizionali.
Eugenio Scalfari osserva:

Lo Stato fu colto assolutamente di sorpresa da quell'esplosione di vitalità economica che di lì a poco un giornalista inglese avrebbe battezzato «miracolo italiano» con una definizione destinata a fare fortuna. La classe politica che governava l'Italia da oltre un decennio non s'era accorta di nulla, non aveva predisposto nulla e non poteva quindi far nulla che servisse in qualche modo a contenere e indirizzare il «boom». [...] Conviene aggiungere che a quella sorpresa la classe di governo non accompagnò alcun elemento di preoccupazione. A causa del fatto che il «boom» non era stato previsto, si gridò al miracolo, e come tutti i miracoli anche questo fu considerato il benvenuto. In quei mesi, e nei due anni che seguirono, il pensiero dominante anzi esclusivo degli uomini che governavano il paese fu di non intralciare in nessun modo il libero svolgersi del processo d'espansione economica, di secondarlo con tutti i mezzi nei suoi aspetti fisiologici e perfino nei suoi aspetti patologici, che certamente non mancavano.

E. Scalfari, L'autunno della Repubblica, Etas Kompass, Milano 1969, pp. 130-131.

In generale, si può dire che dall'analisi degli storici emerge un giudizio di ambivalenza e di ambiguità a proposito dello sviluppo italiano. L'esistenza cioè, sul piano economico, di un settore moderno che produce per l'esportazione e di un settore molto arretrato rivolto al consumo interno; sul piano storico, la constatazione dello squilibrio di cui è portatore lo sviluppo: tra Nord e Sud, tra città e campagna.

Il Centrosinistra

Data la crisi che attanaglia la Democrazia Cristiana, urgenze contrastanti spingono Fanfani a realizzare una trasformazione tecnocratica del capitalismo e dello Stato imperniata sull'impresa pubblica (come l'ENI di Mattei), sollecitano Moro a ritenere prossimo l'incontro con i socialisti, persuadono Tambroni a ricercare i consensi della Destra per evitare altre aperture.
Dopo le tensioni internazionali del 1960, nel nuovo contesto internazionale caratterizzato dalle figure del papa Giovanni XXIII, tollerante e aperto al nuovo, e del presidente americano John Kennedy, che ha proposto agli Americani una «nuova frontiera» di progresso, in Italia riprendono i contatti per dar vita a una coalizione di Centrosinistra.
Teorizzata da Aldo Moro, con un linguaggio cauto e nel contempo paradossale, con la formula delle «convergenze parallele, la proposta si fa esplicita al congresso democristiano di Napoli (gennaio 1962):

La DC non intende trasformarsi in un partito classista e neppure propriamente in un partito di Sinistra. Ma il fatto che essa respinga ogni angustia classista, ogni visione meschina, artificiosa e costrittiva della vita sociale, ogni ingiusto sacrificio della diversità e della libertà, tutto questo evidentemente non vale a schierare la DC dalla parte della conservazione sociale, del privilegio, dell'uso illimitato e smodato della propria libertà.

Il quarto governo Fanfani, costituito da democristiani, socialdemocratici e repubblicani nel febbraio del 1962, ha quindi un programma deciso in accordo con il PSI.
Benché il programma non venga completamente attuato, si nazionalizza l'industria elettrica, si realizza la scuola media unificata e obbligatoria, si costituisce l'ufficio per la programmazione dello sviluppo economico.
L'esito deludente delle elezioni della primavera del 1963 e un certo rallentamento dello sviluppo economico, però, tolgono mordente al riformismo, ma in dicembre Moro forma il suo primo governo di Centrosinistra organico (con i socialisti): molti socialisti si mostrano acquiescenti nei confronti della DC accaparrandosi posti di governo e di sottogoverno, mentre i più fermi escono dal partito fondando il PSIUP (Partito socialista italiano di unità proletaria); infine PSI e PSDI (Partito social democratico italiano) vengono per qualche anno riunificati (1966-69).

Questo primo periodo di Centrosinistra, che si conclude con la presidenza della Repubblica affidata al socialdemocratico Giuseppe Saragat, è diversamente valutato dalla critica.
Eugenio Scalfari non esita a parlare d'un nuovo «trasformismo:

[...] la classe dirigente tradizionale si comportò in conformità all'esperienza di sempre e accettò l'ingresso dei socialisti nella maggioranza obbedendo alla legge di cooptare nel governo una parte dell'opposizione. Alla medesima regola s'attennero i socialisti, spinti verso il governo dalla profonda convinzione che dal di fuori poco o nulla potesse farsi per riformare e migliorare il paese [...]. Ma in realtà in questo trasformismo c'è ben altro, ed è qui il suo aspetto nuovo in confronto al passato. Il centrosinistra degli anni Sessanta ha coinciso con la fase più rivoluzionaria che la società italiana abbia mai attraversato in cent'anni di storia. Nato nella mente dei suoi autori per diminuire la distanza tra lo Stato e la società, esso ha segnato invece il momento più drammatico di quella contrapposizione, ha marcato le distanze più profonde e ha dato infine l'avvio (che possiamo ormai ritenere abbastanza definitivo) al disfacimento di quello Stato e di quel sistema di potere.

E. Scalfari, L'autunno della Repubblica, Etas Kompass, Milano 1969, pp. 141-142.

Il Centrosinistra, per Giampiero Carocci, ricorda da vicino:

il giolittismo non solo nei suoi aspetti positivi ma anche in quelli negativi. Ancora una volta, come dopo il 1876 e come dopo il 1901, l'allargamento della base sociale dello stato si è accompagnata a un aumento di corruzione, a una decadenza presso la classe dirigente dei valori morali e del senso dello stato. Ancora una volta l'establíshment politico ha dato l'impressione di straniarsi dalla realtà del paese, la cui crescita impetuosa in termini civili, sociali, culturali, oltre che economici, contrasta con una certa sclerosi dei partiti, compreso (anche se in misura ben minore) quello di opposizione, il comunista.

G. Carocci, Stona d'Italia dall'Unità ad oggi, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 354-355.

La crisi del Centrosinistra

Nel frattempo, lo sviluppo economico subiva una brusca frenata.
Gli aumenti fuori controllo dei salari avevano portato ad aumenti massicci dei consumi: la bilancia dei pagamenti nei confronti dell'estero entrava in crisi e cresceva l'inflazione.
Augusto Graziani commenta:

Le caratteristiche più salienti del periodo successivo alla grande espansione culminata nel 1963 sono tutte tipiche di un'economia depressa. Il livello degli investimenti industriali si è ridotto, il tasso di sviluppo della produzione industriale si è attenuato, i livelli di occupazione sono caduti, lo stesso tasso di partecipazione della popolazione alle forze di lavoro è andato declinando; al tempo stesso, l'economia ha perso la stabilità monetaria che l'aveva contraddistinta negli anni del miracolo, e di volta in volta le autorità monetarie sono state costrette ad eseguire manovre restrittive per combattere le tendenze inflazionistiche; in questo clima di depressione, si è velocemente sviluppata la partecipazione pubblica alle imprese industriali, e va crescendo la partecipazione di gruppi finanziari stranieri all'industria nazionale. Il sintomo più evidente della depressione prolungata in cui è caduta l'economia italiana è dato dalla caduta della popolazione lavoratrice. L'Italia non ha mai avuto una percentuale particolarmente elevata di popolazione attiva rispetto alla popolazione totale; ma negli anni più recenti, questa percentuale si è ulteriormente ridotta. Nel 1959, la forza lavoro (e cioè la somma degli occupati e di coloro che cercano occupazione) rappresentava circa il 44% della popolazione totale; nel 1968 questa percentuale era scesa al 37,5%. Secondo alcuni, la caduta del numero di persone desiderose di trovare un lavoro riflette la ricchezza crescente del paese e la possibilità che molti hanno di evitare un lavoro lasciandosi mantenere dai familiari. Seri dubbi sono stati avanzati contro questa ipotesi; non pochi ritengono infatti che l'accrescimento del reddito in Italia non ha consentito di raggiungere posizioni di opulenza tali da ridurre l'offerta di lavoro. La caduta della forza lavoro trova invece spiegazione più convincente nella depressione perdurante, e nel ristagno della domanda di lavoro [...]. Mentre nel decennio dell'espansione, l'economia italiana si era mostrata fortemente dinamica e capace di realizzare tassi di accumulazione molto veloci, nel settennio successivo, l'economia si è comportata come un'economia opulenta, caratterizzata da crisi ricorrenti di inflazione, e da un alternarsi di brevi fasi di espansione con prolungati periodi di stasi. A partire dal 1963, la tanto famosa e deprecata politica del semaforo (la stop and go policj) dell'economia britannica, ha trovato piena applicazione nel nostro paese; con la differenza tutt'altro che trascurabile che il nostro paese ha ancora gravi problemi strutturali che attendono soluzione.

A. Graziani, L'economia italiana 1945-1970, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 84-87.

Economisti e uomini di governo, nel timore di una destabilizzazione del sistema, operarono per una restrizione degli spazi economici e della partecipazione politica, rimandando l'attuazione, ad esempio, dell'ordinamento regionale. Le misure moderatrici misero così in luce le tensioni fra i detentori del potere e le crescenti rivendicazioni delle masse popolari.
L'economista Giorgio Ruffolo scrive:

La crisi del 1963-64 ci appare oggi come lo spartiacque fra la fase di espansione e quella di ristagno. Essa sanziona l'incrinatura di due delle tre condizioni che avevano resa possibile l'espansione facile: i bassi salari e la relativamente debole mobilitazione politica. Restava l'alta congiuntura internazionale. Quest'ultima permise al sistema di dissimulare la gravità della sua crisi ancora per qualche anno, in una fase di ibernazione (1964-68) dopo la quale si precipita, attraverso una nuova e più violenta crisi, nell'attuale fase di instabilità.

G. Ruffolo, Riforme e controriforme, Laterza, Bari 1975, p. XVIII.

Nel febbraio 1966 Moro diede vita al suo terzo governo, che durò in carica fino alle elezioni del maggio 1968.
L'attività legislativa di questi anni rispettò però solo in parte i propositi di rinnovamento del Centrosinistra: venne infatti approvato il piano economico nazionale (luglio 1967), che tuttavia resterà solo un «libro dei sogni» (come ebbe a definirlo Fanfani); fu varata la riforma ospedaliera e vennero approntati lo Statuto dei lavoratori e l'ordinamento regionale, mentre le altre iniziative (come la riforma tributaria e la legge urbanistica) venivano ancora rimandate.

Giampiero Carocci fornisce un giudizio complessivo sulle ipotesi e i risultati del Centrosinistra, che si cercò di far rivivere, dopo la caduta del governo Rumor (luglio 1970), con l'incarico a Emilio Colombo:

La finalità programmatica del centro-sinistra, il suo nucleo riformatore, sostenuto soprattutto dai socialisti, era condensato nell'espressione: razionalizzare il sistema. Si trattava, cioè, di rimuovere, con un insieme programmato di pubblici interventi, le strozzature di carattere strutturale nelle quali era incappata l'economia italiana dopo gli anni di tumultuoso sviluppo. [...] L'aspetto programmatico del centro-sinistra era, in sostanza, una versione aggiornata, e quindi certamente meno ingenua, del mito riformista di un capitalismo funzionante «correttamente», depurato dalle manifestazioni deteriori della rendita in attesa di depurarlo domani dai sopraprofitti di monopolio. [...] Il limite del centro-sinistra è consistito nell'illusione di poter ripetere la manovra giolittiana, di divisione del movimento operaio e di integrazione nel sistema della sua ala destra, in un'epoca in cui tale divisione è resa problematica dalla crescita di coscienza democratica delle masse e di forza contrattuale del movimento operaio, e dalla presenza dell'antifascismo che ricrea l'unità contro ogni tentativo di spostare a destra la situazione del paese. Gli stessi esponenti più autorevoli del centro-sinistra sembrano rendersi conto che le ragioni di questo sussistono anche se è fallita la sua versione originaria, intesa a fare del Partito socialista un partito socialdemocratico. È vero però che bisogna avere presente un altro limite, non meno grave, del centro-sinistra: la fiducia di avere a che fare con un ceto industriale disposto alle concessioni riformiste in un'epoca storica nella quale la crisi economica non viene dalla caduta della domanda ma dall'inflazione; in un'epoca, cioè, nella quale gli industriali, anziché essere disposti ad aumentare il potere di acquisto delle masse, avvertono come primario il bisogno di contenerlo e controllarlo.

G. Carocci, Storia d'Italia dall'Unità ad oggi,
Feltrinelli, Milano 1975, pp. 355-356, 360.

L'inadeguatezza del Centrosinistra fu evidenziata da alcuni avvenimenti, tra i quali ebbe primaria importanza lo scandalo del SIFAR, scoppiato nel 1967.
L'opinione pubblica apprese, dalla campagna di stampa lanciata dall' "Espresso", che nel 1964 l'opposizione al Centrosinistra aveva assunto forme dichiaratamente eversive, quando gli stessi organi preposti alla sicurezza dello Stato avevano pianificato un'iniziativa per bloccare quel processo innovatore che, se non aveva di fatto intaccato gli apparati istituzionali, andava tuttavia diffondendosi nella società italiana.
Il generale De Lorenzo, capo dei Servizi Segreti dell'esercito, era stato indicato come responsabile di una capillare schedatura delle persone ritenute «pericolose» e del coordinamento dei preparativi per attuare, con il concorso di militari e civili, un colpo di stato nel luglio 1964.
Ciò che suscitò l'indignazione dell'opinione pubblica furono le notizie sulla partecipazione a questa ventilata manovra eversiva di insospettabili esponenti politici moderati (si parlò, per esempio, della complicità dello stesso presidente della Repubblica, Segni). Questo scandalo contribuì al declino del Centrosinistra, avviato già con l'esito delle elezioni del maggio 1968.
Carlo Pinzani commenta:

Per quanto non si possa sopravvalutarne il significato, dal momento che la svolta del 1968-69 ha avuto radici assai più vaste e profonde, le elezioni del maggio 1968 ebbero un peso non trascurabile nell'accelerare la crisi del centro-sinistra; il dato più rilevante di esse fu certamente rappresentato dal vistoso calo di voti del partito socialista unificato, che perse il 5,47 per cento rispetto alla somma dei voti conseguiti nel 1963 dal PSI e PSDI separati. In pari tempo, mentre la democrazia cristiana vedeva leggermente aumentati i propri suffragi, il PSIUP si affermava, con una percentuale del 4,46 per cento come partito di livello nazionale e anche il partito comunista continuava la propria tendenza ascensionale, con un aumento dell'1,65 per cento. Questi risultati, nell'ambito della sinistra, smentivano clamorosamente il disegno sotteso all'unificazione socialdemocratica, colpendo soprattutto i socialisti, che pagavano il prezzo dell'inefficienza riformatrice dei governi ai quali avevano partecipato, inefficienza tanto più condannata dagli elettori in quanto sempre più evidenti erano i danni e le difficoltà derivanti dal distorto sviluppo economico italiano, dal proseguire, ancora controllato, dell'inflazione (basti pensare, a questo proposito, al senso di delusione che provocò la riforma del sistema pensionistico, frettolosamente varata dal governo Moro con scoperti intenti elettoralistici e con l'opposizione della Cgil e che, sostanzialmente, si ritorse contro i suoi autori). È soprattutto in questa fase che si può misurare il dramma del partito socialista italiano, che mossosi alla ricerca di una propria reale autonomia rispetto al movimento comunista, finisce col ritrovarsi in posizione sostanzialmente subalterna rispetto alle forze moderate che aveva inteso condizionare. E proprio da qui prende le mosse il ripensamento critico, che porterà, come primo passo, alla nuova scissione tra PSI e PSDI nell'estate del 1969.

C. Pinzani, L'Italia repubblicana, in Storia d'Italia, vol. IV, t. III,
Einaudi, Torino 1976, p. 2719.

Il Sessantotto, l'«autunno caldo», la strategia della tensione

A decretare la fine della prospettiva di Centrosinistra fu però l'esplosione dei movimenti di protesta e di rivendicazione che, a partire dal 1968, prima nelle università, poi nelle fabbriche, misero in crisi gli equilibri politici e sociali fino ad allora consolidati.
Furono soprattutto i giovani (studenti e operai) i protagonisti di quella ondata di protesta che doveva investire e coinvolgere, in una critica radicale, le istituzioni, i rapporti sociali, i valori dominanti. Particolare significato ebbe l'agitazione nelle università, orientata contro il carattere classista e selettivo della struttura e della cultura accademica.
Si può perciò concludere, anche se sarebbe perlomeno discutibile ridurre il "fenomeno '68" a un'unica causa e altrettanto arbitrario identificare solo negli studenti i soggetti di una «contestazione» che investì tutto il «sistema» (come venne di moda dire), affermando che la «rivolta giovanile» anche in Italia incise in maniera profonda sugli sviluppi e gli orientamenti della società italiana degli anni successivi. Ha scritto Massimo L. Salvadori:

Il 1968 aveva visto affermarsi in Francia («maggio francese») un vasto movimento di «contestazione giovanile» e operaia, tale da prendere l'aspetto di un processo potenzialmente rivoluzionario. Anche in Germania il movimento contestativo si era affermato nella gioventù specie universitaria. Nell'agosto del 1968 vi fu poi l'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche e di paesi dell'Est. Infine irrisolta e drammatica permaneva la guerra vietnamita, che aveva portato a crescenti agitazioni di protesta in relazione all'intervento statunitense. L'insufficiente azione riformatrice dei governi di centro-sinistra contribuiva in modo sostanziale a diffondere delusione e insoddisfazione. Erano tutti fatti che portavano masse crescenti di giovani e di operai in Italia a sottoporre ad una critica radicale la realtà nazionale. Molta parte della gioventù studentesca diresse in un primo tempo questa insoddisfazione direttamente contro le invecchiate istituzioni scolastiche e universitarie, nelle quali vedeva lo specchio di una società incapace di adeguati mutamenti sociali. Nacque così la contestazione studentesca e universitaria, che diventò terreno fertile per il sorgere di «gruppetti» politicizzati, orientati a sinistra del PCI e agitanti programmi di «rivoluzione globale», ispirati, secondo molteplici articolazioni e variazioni, ora ad un «ritorno al leninismo», ora al pensiero di Mao Tse-tung, ora all'iniziativa «spontanea» delle masse (ma non mancavano incroci fra questi elementi), in polemica con il «revisionismo» dei partiti ufficiali della Sinistra. I gruppetti in un secon- do tempo avrebbero cercato di collegarsi al proletariato industriale, con un certo successo, e specie agli immigrati meridionali (maggiormente colpiti da un'industrializzazione disordinata e dalla mancata preparazione nelle città di infrastrutture atte a favorirne l'inserimento civile), così da arrivare a scontri politici e tensioni con i partiti di Sinistra e i sindacati, accusati di sclerotizzazione e di riformismo. Nel processo di contestazione al «sistema» (che fu accompagnato da un susseguirsi di agitazioni e scioperi) entrarono anche notevoli strati proletari, sottoproletari del Sud e anche contadini, i quali avvertivano come lo sviluppo economico avvenisse lasciando aperte le più gravi sperequazioni e come in particolare i momenti difficili per l'economia vedessero i costi delle crisi scaricarsi iniquamente sui lavoratori. Il «sistema» contestato dai gruppetti era costituito, nella loro concezione, non solo dall'apparato di dominio delle classi al potere, ma anche dai partiti della Sinistra e dai sindacati, «integrati» appunto nel sistema stesso e consenzienti a siffatta integrazione.

M. L. Salvadori, Storia dell'età contemporanea dalla restaurazione all'eurocomunismo, vol. III, Einaudi, Torino 1981, p. 1224.

 

 

 

 

 

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