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le rivoluzioni russe

 

 

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Le Tesi di aprile di Lenin

Con le cosiddette Tesi di aprile Lenin infiammò i bolscevichi e coagulò attorno alle loro posizioni la massa operaia di Pietrogrado.
Sono già visibili in esse i cardini dell'azione leninista:
 - pace a tutti i costi con la Germania (tesi 1);
 - rifiuto di una repubblica parlamentare (tesi 5);
 - confisca e collettivizzazione di tutte le terre (tesi 6);
 - nazionalizzazione delle banche (tesi 7).
Lenin rifiuta aprioristicamente il concetto stesso di democrazia, sia nell'affermare che non è possibile una pace veramente democratica tra i popoli, essendo necessario abbattere il capitalismo con la guerra, sia mostrando come i bolscevichi debbano aspettare il momento opportuno per rovesciare la maggioranza liberale e menscevica.

1. A una guerra rivoluzionaria, che giustifichi effettivamente il defensismo rivoluzionario, il proletariato cosciente può dare il proprio consenso soltanto alle seguenti condizioni: a) passaggio del potere nelle mani del proletariato e dei contadini poveri che si schierano dalla sua parte; b) rinuncia effettiva, e non a parole, a qualsiasi annessione; c) rottura completa, effettiva, con tutti gli interessi del capitale. Data l'innegabile buona fede dei larghi strati delle masse che sono per il defensismo rivoluzionario e che ammettono la guerra solo come necessità e non per spirito di conquista; dato che essi sono ingannati dalla borghesia, bisogna spiegar loro con particolare cura, tenacia e pazienza il loro errore, mettendo in rilievo il legame indissolubile che esiste fra capitale e guerra imperialista, dimostrando che non è possibile metter fine alla guerra con una pace veramente democratica, e non imposta con la forza, senza abbattere il capitale [ ... ] .
2. L'originalità dell'attuale momento in Russia sta nel passaggio dalla prima tappa della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa dell'insufficiente grado di coscienza e di organizzazione del proletariato, alla seconda tappa, che deve dare il potere al proletariato e agli strati poveri dei contadini. Da una parte, questo passaggio è caratterizzato dal massimo di legalità (fra i Paesi belligeranti, la Russia è, oggi, il Paese più libero del mondo); dall'altra parte, dall'assenza di violenza sulle masse e, infine, dalla fiducia incosciente riposta dalle masse nel governo dei capitalisti, i peggiori nemici della pace e del socialismo. Questa caratteristica ci impone di saperci adattare alle particolari condizioni di lavoro del partito fra le immense masse proletarie appena svegliate alla vita politica.
3. Nessun appoggio al governo provvisorio; dimostrare la completa falsità di tutte le sue promesse, soprattutto di quelle concernenti la rinuncia alle annessioni. [ ... ]
4. Riconoscimento del fatto che il nostro partito è in minoranza, e per ora in piccola minoranza, nella maggior parte dei soviet dei deputati, di fronte al blocco di tutti gli elementi opportunisti piccolo-borghesi, soggetti all'influenza della borghesia e portatori dell'influenza borghese sul proletariato Spiegare alle masse che i soviet dei deputati degli operai sono la sola forma possibile di governo rivoluzionario e che, per conseguenza, il nostro compito, finché questo governo sarà soggetto all'influenza della borghesia, può consistere soltanto nella spiegazione paziente, sistematica, perseverante – particolarmente adatta ai bisogni pratici delle masse – degli errori della loro tattica. Finché saremo in minoranza, faremo un lavoro di critica e di spiegazione degli errori, sostenendo al tempo stesso la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai soviet dei deputati degli operai, affinché le masse, sulla base dell'esperienza, si liberino dai propri errori.
5. Nessuna Repubblica parlamentare – ritornare a essa dopo i soviet dei deputati degli operai sarebbe un passo indietro – ma Repubblica dei soviet dei deputati degli operai, dei salariati agricoli e dei contadini, in tutto il Paese, dal basso all'alto. Soppressione della polizia, dell'esercito e del corpo dei funzionari (cioè sostituzione del popolo armato all'esercito permanente). Eleggibilità e revocabilità, in qualsiasi momento, dei funzionari; il loro stipendio non deve superare il salario medio di un buon operaio.
6. Nel programma agrario trasferire il centro di gravità sui soviet dei deputati dei salariati agricoli. Confisca di tutte le terre dei proprietari fondiari. Nazionalizzazione di tutte le terre del Paese; le terre saranno a disposizione dei soviet locali dei deputati dei salariati agricoli e dei contadini. Formazione di soviet dei contadini poveri. Di ogni grande proprietà (da 100 a 300 ettari circa, secondo le condizioni locali e altre, e secondo il parere delle istituzioni locali) fare delle aziende modello, sottoposte al controllo dei soviet dei deputati dei salariati agricoli e coltivate per conto della società.
7. Fusione immediata di tutte le banche in un'unica banca nazionale, sotto il controllo dei soviet dei deputati degli operai.

Lenin, Tesi di aprile, "Pravda", n. 27, 8 aprile 1917, in O. Anweiler, Storia dei soviet. 1905-1921, Laterza, Roma-Bari 1972.

Il programma dei comunisti tedeschi (1918)

Il 31 dicembre 1918 la Lega di Spartaco, ala massimalista uscita nel 1916 dal Partito Socialdemocratico tedesco sotto la guida di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, si costituì in partito autonomo (Partito Comunista di Germania) sull'esempio del modello sovietico e si dotò di un programma altamente rivoluzionario, ricalcato sulle Tesi di Lenin.

A) Misure immediate di autoprotezione della rivoluzione.
Disarmo di tutta la polizia, di tutti gli ufficiali e i soldati non proletari. Disarmo di tutti coloro che fanno lega con le classi dominanti [...]. Armamento di tutta la popolazione proletaria maschile e adulta come milizia operaia. [...]. Creazione di un tribunale rivoluzionario che giudicherà in ultima istanza i responsabili della guerra e della sua prosecuzione, i due Hohenzollern, Ludendorff, Hindenburg, Tirpitz e i loro complici, così come tutti i cospiratori della controrivoluzione.
B) Prime misure di carattere politico e sociale.
Liquidazione degli Stati autonomi nel Reich; repubblica una e indivisibile. Soppressione di tutti i parlamenti e di tutte le municipalità. [...]. Elezione dei Consigli degli operai in tutta la Germania, con la partecipazione di tutta la popolazione operaia di entrambi i sessi, sia in città che in campagna, sulla base della fabbrica. Analogamente, elezione dei Consigli dei soldati da parte della truppa, con esclusione degli ufficiali e dei disfattisti. Diritto per gli operai e i soldati di revocare in ogni momento i loro delegati. Elezione da parte dei delegati ai Consigli degli operai e dei soldati di tutta la Germania, di un Consiglio centrale dei Consigli, che dovrà nominare al suo interno una delegazione, come supremo organo del potere legislativo e amministrativo [...]. Abolizione di tutti i privilegi, ordini e titoli. Uguaglianza completa dei sessi davanti alla legge ed alla società.
C) Rivendicazioni economiche immediate.
Confiscare tutti i beni e le rendite dinastiche a vantaggio della collettività. Annullare tutti i debiti dello Stato e tutti gli altri debiti pubblici [ ... ]. Espropriare la proprietà fondiaria di tutte le aziende agricole grandi e medie; formare delle cooperative agricole socialiste con una direzione unificata e centralizzata per tutto il paese; le piccole aziende contadine resteranno nelle mani dei coltivatori fino a quando essi si aggreghino spontaneamente alle cooperative socialiste. Soppressione di tutti i diritti privati sulle banche, le miniere e le cave, e di tutte le altre aziende importanti dell'industria e del commercio a profitto della Repubblica dei Consigli. Espropriare tutte le sostanze private a partire da un certo limite che sarà fissato dal Consiglio centrale [ ... ]. La Repubblica dei Consigli si impossessa di tutti i trasporti pubblici.

Programma del Partito Comunista di Germania, in C. Klein, La repubblica di Weimar, Mursia, Milano 1968.

La dittatura del proletariato

Sulla base della tesi che lo stato fosse sempre dittatura di una classe dominante, Lenin teorizzava l'esigenza della dittatura del proletariato come nuova organizzazione statale, fondata sul consenso e sull'autogoverno delle masse e diretto dall'avanguardia del proletariato, in grado di guidare il processo di radicale trasformazione sociale culminante nell'estinzione dello stato, in una società civile pacificata e avviata verso il comunismo.
Consapevole del fatto che i bolscevichi erano in minoranza nella maggior parte dei soviet, Lenin contava sull'azione di propaganda e di agitazione del suo partito per guadagnare le masse alla causa bolscevica, ribaltando, in questa prospettiva, uno dei principi dell'ortodossia marxista, secondo cui il rovesciamento della società capitalistica non poteva avvenire in un paese arretrato, ma doveva iniziare nei paesi più progrediti, come portato delle contraddizioni del capitalismo maturo.
In questo brano Lenin spiega la transizione dal capitalismo al comunismo.

«[...] Tra la società capitalistica e la società comunista, prosegue Marx, vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato [...]». Questa conclusione si basa, in Marx, sull'analisi della funzione che il proletariato ha nella società capitalistica odierna, sui dati dello sviluppo di questa società e sulla inconciliabilità degli opposti interessi del proletariato e della borghesia. Prima la questione veniva posta in tal modo: per ottenere la sua emancipazione il proletariato deve rovesciare la borghesia, conquistare il potere politico, stabilire la sua dittatura rivoluzionaria. Ora la questione si pone in modo un po' diverso: il passaggio dalla società capitalistica, che si sviluppa in direzione del comunismo, alla società comunista è impossibile senza un «periodo politico di transizione», e lo Stato di questo periodo non può esser altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato. Ma qual è l'atteggiamento di questa dittatura verso la democrazia? Abbiamo visto che il Manifesto del Partito comunista pone semplicemente uno accanto all'altro i due concetti: «trasformazione del proletariato in classe dominante» e «conquista della democrazia». Tutto ciò che precede permette di determinare nel modo più preciso le modificazioni che subirà la democrazia nella transizione dal capitalismo al comunismo. La società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di sviluppo più favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia più o meno completa. Ma questa democrazia è sempre limitata nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi. La libertà, nella società capitalistica, rimane sempre più o meno quella che fu nelle repubbliche dell'antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi. Gli odierni schiavi salariati, in conseguenza dello sfruttamento capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che «hanno altro pel capo che la democrazia», «che la politica», sicché, nel corso ordinario e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale. [...] Ma l'evoluzione da questa democrazia capitalistica - inevitabilmente ristretta, che respinge in modo dissimulato i poveri, e quindi profondamente ipocrita e bugiarda - «a una democrazia sempre più perfetta», non avviene così semplicemente, direttamente e senza scosse come immaginano i professori liberali e gli opportunisti piccolo-borghesi. No. Lo sviluppo progressivo, cioè l'evoluzione verso il comunismo, avviene passando per la dittatura del proletariato e non può avvenire altrimenti, poiché non v'è nessun'altra classe e nessun altro mezzo che possa spezzare la resistenza dei capitalisti sfruttatori. Ora, la dittatura del proletariato, vale a dire l'organizzazione dell'avanguardia degli oppressi in classe dominante per reprimere gli oppressori, non può limitarsi a un puro e semplice allargamento della democrazia. Insieme a un grandissimo allargamento della democrazia, divenuta per la prima volta una democrazia per i poveri, per il popolo, e non una democrazia per i ricchi, la dittatura del proletariato apporta una serie di restrizioni alla libertà degli oppressori, degli sfruttatori, dei capitalisti. Costoro noi li dobbiamo reprimere, per liberare l'umanità dalla schiavitù salariata; si deve spezzare con la forza la loro resistenza; ed è chiaro che dove c'è repressione, dove c'è violenza, non c'è libertà, non c'è democrazia.

Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1965, pp. 917-921.

L'Internazionale comunista

Nel primo congresso della nuova Internazionale (la "Terza", nel marzo 1919) fu approvato il "Manifesto", redatto da Trockij alla fine dei lavori, che esprimeva le speranze nell'imminenza della rivoluzione socialista in Europa ed enunciava i principi ispiratori dell'organizzazione: statizzazione della vita economica, presa del potere per via rivoluzionaria, dittatura del proletariato.
Ogni tentativo di giungere al socialismo attraverso i meccanismi della democrazia rappresentativa era considerato impotente e vano: la macchina dello stato borghese andava spezzata e sostituita con l'organizzazione del popolo in soviet di operai, contadini e soldati. I socialdemocratici che rifiutavano questa visione diventavano alleati della borghesia controrivoluzionaria e antiproletaria.

72 anni fa il partito comunista presentò al mondo il suo programma nella forma di un manifesto scritto dai più grandi profeti della rivoluzione proletaria, Carlo Marx e Federico Engels. Già a quell'epoca il comunismo, ch'era appena entrato nella lotta, era sommerso dalle inquisizioni, dalle menzogne, dall'odio e dalle persecuzioni delle classi possidenti, che giustamente intuivano in esso il loro nemico mortale. Durante tre quarti di secolo il comunismo ha seguito vie complesse, conoscendo di volta in volta le tempeste dell'entusiasmo e i periodi di scoraggiamento, i successi e le dure sconfitte. Ma fondamentalmente il movimento seguiva la via tracciata dal Manifesto del partito comunista. L'ora della lotta finale e decisiva è giunta più tardi di quanto contassero e sperassero gli apostoli della rivoluzione sociale. Ma è arrivata. Noi comunisti, rappresentanti del proletariato rivoluzionario dei differenti paesi d'Europa, d'America e d'Asia, riuniti a Mosca, capitale della Russia sovietica, noi ci sentiamo gli eredi e continuatori dell'opera il cui programma è stato annunziato 72 anni fa. Il nostro compito è quello di generalizzare l'esperienza rivoluzionaria della classe operaia, di sbarazzare il movimento della mescolanza impura con l'opportunismo e il socialpatriottismo, di unire le forze di tutti i partiti veramente rivoluzionari del proletariato mondiale e con ciò stesso di facilitare e di affrettare la vittoria della rivoluzione comunista in tutto il mondo. [...] Gli opportunisti che prima della guerra invitavano gli operai a moderare le loro rivendicazioni con il pretesto di passare lentamente al socialismo, che durante la guerra li hanno obbligati a rinunziare alla lotta di classe in nome dell'unione sacra e della difesa nazionale, esigono dal proletariato un nuovo sacrificio, questa volta allo scopo di vincere le conseguenze spaventose della guerra. Se simili prediche potessero influenzare le masse operaie, lo sviluppo del capitale continuerebbe sacrificando numerose generazioni, in forme nuove, ancora più concentrate e mostruose, con la prospettiva fatale di una nuova guerra mondiale. Per fortuna dell'umanità, ciò non è più possibile. La statizzazione della vita economica, contro la quale tanto protestava il liberalismo capitalistico, è ormai un fatto compiuto. Tornare, non diciamo alla libera concorrenza ma anche soltanto al dominio dei trust, dei sindacati e delle altre piovre capitalistiche è ormai impossibile. La questione è ormai solo quella di sapere chi prenderà possesso della produzione statizzata, se lo Stato imperialistico o lo Stato del proletariato vittorioso. [...] L'epoca di crisi che attraversiamo potrà essere abbreviata solo con i metodi della dittatura del proletariato, la quale non guarda al passato, non deve fare i conti né con i privilegi ereditari né con il diritto di proprietà; la quale, prendendo in considerazione solo la necessità di salvare le masse affamate, mobilita per questo tutti i mezzi e tutte le forze. [...] Tutto il mondo borghese accusa i comunisti di annientare la libertà e la democrazia politica. È falso. Prendendo il potere, il proletariato rende manifesta la completa impossibilità di applicare i metodi della democrazia borghese e crea le condizioni e le forme di una democrazia operaia nuova e più elevata. Tutto il corso dello sviluppo capitalistico, in particolare nell'ultima epoca imperialistica, ha scalzato le basi della democrazia politica, non soltanto dividendo le nazioni in due classi nemiche inconciliabili ma anche condannando al deperimento economico e all'impotenza politica sia molteplici strati della piccola borghesia e del proletariato che gli elementi più diseredati dello stesso proletariato. [...] Esigere dal proletariato che nella ultima lotta a morte contro il capitale osservi religiosamente i principi della democrazia politica equivarrebbe all'esigere da un uomo che difende la sua vita contro i briganti ch'egli osservi le regole artificiose e convenzionali della lotta greco-romana, fissate dal suo nemico, e che il suo nemico non osserva affatto. In questo regno della distruzione, in cui non solo i mezzi di produzione e di circolazione, ma anche gli istituti della democrazia politica, non son altro ormai che un ammasso di macerie insanguinate, il proletariato è costretto a crearsi un proprio apparato, che serva innanzi tutto a mantenere la coesione interna della stessa classe operaia e che gli dia la possibilità di intervenire rivoluzionariamente nello sviluppo ulteriore dell'umanità. Questo apparato sono i soviet. I vecchi partiti, le vecchie organizzazioni sindacali si sono rivelate nella persona dei loro capi non solo incapaci di decidere, ma anche di comprendere i problemi posti dalla nuova epoca. Il proletariato ha creato un nuovo tipo di organizzazione larga, che abbraccia le masse operaie indipendentemente dalla specializzazione e dal grado di sviluppo politico; un apparato agile, capace di rinnovarsi continuamente, di allargarsi continuamente, che può sempre trascinare nella sua orbita nuove categorie e abbracciare gli strati dei lavoratori vicini al proletariato della città e della campagna. Questa insostituibile organizzazione della classe operaia che si autogoverna, lotta e conquista finalmente il potere politico, in diversi paesi già è stata messa alla prova dell'esperienza; costituisce la conquista e l'arma più possente del proletariato della nostra epoca. [...] Se la Prima Internazionale ha previsto lo sviluppo futuro e preparato la strada, se la Seconda Internazionale ha riunito e organizzato milioni di proletari, la Terza Internazionale è l'Internazionale dell'aperta azione di massa, l'Internazionale della realizzazione rivoluzionaria. L'ordine borghese del mondo è stato sufficientemente fustigato dalla critica socialista. Il compito del Partito comunista internazionale è ora quello di rovesciare quest'ordine e di costruire al suo posto l'edificio dell'ordine socialista. Noi chiediamo agli operai e alle operaie di tutti i paesi di unirsi sotto la bandiera del comunismo, che è già la bandiera delle prime grandi vittorie proletarie!

in A. Agosti, Le Internazionali operaie, Loescher, Torino 1974, pp. 118-120.

Il proclama degli ammutinati di Kronstadt (8 marzo 1921)

La base militare di Kronstadt, a 20 km da Pietroburgo, fu teatro nei primi decenni del XX secolo di due celebri rivolte.
La prima, del 1906 contro il potere zarista, fu duramente repressa e costò l'esecuzione di 36 marinai e la deportazione di circa 1400 uomini. L'avvenimento spiega perché i militari di questa base fossero sempre fedeli al governo bolscevico e chiamati addirittura le «sentinelle della Rivoluzione».
Grande dunque fu la sorpresa per i comunisti quando, nel marzo 1921, fu proprio da Kronstadt che partì un nuovo ammutinamento, che denunciò la mancata democratizzazione della Russia e accusò il potere bolscevico di essere divenuto una tirannide peggiore dello zarismo.
Lenin intuì subito la pericolosità di questa sollevazione: i marinai di Kronstadt non potevano certo essere accusati di avere sentimenti monarchici e reazionari, e pubblicamente asserivano la loro fedeltà ai principi di Marx e del socialismo.
La repressione, guidata personalmente da Trozckij, fu sanguinosa: l'intera guarnigione fu in parte fucilata e in parte deportata nei campi di lavoro.
Il seguente testo è tratto dall'"Izvestija" pubblicata l'8 marzo 1921 e rappresenta appunto il proclama con cui i marinai si ribellavano al potere bolscevico e ne denunciavano la degenerazione.

Con la rivoluzione d'ottobre la classe operaia ha sperato di realizzare la propria liberazione. Ma il risultato è stato una schiavitù anche maggiore della personalità umana. Il potere della monarchia dei poliziotti e dei gendarmi è caduto nelle mani di usurpatori – i comunisti, che invece di dare ai lavoratori la libertà, hanno portato loro la paura della Ceka*. La cosa più abietta e più criminale è la servitù spirituale: i comunisti hanno steso la loro mano anche sulla mente dei lavoratori e hanno costretto tutti a pensare secondo le loro istruzioni. Persino la morte è da preferirsi a questa via di mezzo! Vincere o morire! Kronstadt rossa darà l'esempio. Qui si è levata la bandiera dell'insurrezione per la liberazione dalla tirannide di questi ultimi tre anni, dall'oppressione dell'autocrazia comunista che ha fatto impallidire i trecento anni di giogo monarchico. È qui, a Kronstadt, che è stata posta la pietra angolare per la terza rivoluzione, che libererà l'operaio dalle ultime catene e gli aprirà la nuova e larga strada dell'edificazione del socialismo.

* Polizia segreta sovietica, responsabile, sotto Stalin, delle epurazioni compiute nella società russa. Più tardi fu trasformata e assunse il nome di KGB (Comitato di sicurezza dello Stato).

Proclama degli ammutinati di Kronstadt, 8 marzo 1921, in O. Anweiler, Storia dei soviet. 1905-1921,  Laterza, Roma-Bari 1972, p. 467.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

La Rivoluzione russa è stata oggetto d'indagine da parte di numerosi storici di varie tendenze.
Quasi tutti, pur nelle diversità delle interpretazioni, sottolineano la scarsa consistenza della classe borghese russa, rimasta allo stato embrionale, schiacciata dal peso di una società dove vecchio e nuovo coesistevano dando luogo a una stridente contraddizione: da un lato un settore industriale capitalistico avanzato, dall'altro un vasto retroterra arretrato, organizzato come un sistema medievale e patriarcale. Al di sopra vi era un governo, quello zarista, che già prima della guerra mondiale aveva perso la fiducia delle forze sociali e non era in grado di rispondere alle esigenze del Paese.

La guerra giocò un ruolo significativo nell'indebolire il potere dello zar, accentuandone la vulnerabilità: questa relazione tra guerra e rivoluzione è messa in rilievo da alcuni storici, tra cui Seton-Watson.

Una delle prime opere sulla rivoluzione del 1917 è quella dell'americano William Henry Chamberlin, che affronta il tema del contrasto fra l'ideologia di una rivoluzione vittoriosa in un Paese arretrato e la previsione di Marx in merito al primato rivoluzionario dei Paesi più sviluppati.
Secondo Chamberlin la classe operaia russa è stata spinta alla rivoluzione da cause diverse da quelle teorizzate da Marx: non dallo scontro di classe fra borghesia e proletariato, ma da un insieme di fattori quali l'assolutismo zarista che, ostacolando l'organizzazione dei lavoratori, aveva radicalizzato le loro lotte, l'appoggio delle masse contadine povere, la debolezza della borghesia. A ciò inoltre si aggiungevano altre condizioni favorevoli: le grandi concentrazioni operaie come quelle delle fabbriche di Pietroburgo, che facilitavano il diffondersi di idee rivoluzionarie; il ritorno in patria, allo scoppio della guerra, di migliaia di operai emigrati in Occidente, dove avevano avuto occasione di entrare in contatto con i partiti socialisti occidentali.
Chamberlin mette dunque in rilievo la particolare fisionomia della classe operaia russa, che aveva superato l'assoluta ignoranza dei lavoratori orientali senza però aver raggiunto i livelli di vita di quelli occidentali. In questo contesto la propaganda dei bolscevichi, l'ala sinistra del Partito Socialdemocratico russo, ormai costituitosi in partito autonomo, trovò un terreno favorevole ed ebbe largo seguito.
Nell'analisi della Rivoluzione del 1917 vengono distinti due diversi momenti: la fase di febbraio, in cui cadde il governo zarista ed ebbero la prevalenza partiti di carattere borghese, e la Rivoluzione di ottobre, in cui i bolscevichi conquistarono il potere.
Il governo di febbraio deluse le aspettative delle masse popolari, sia per la continuazione della guerra, sia per la mancata riforma agraria. D'altra parte, tanto i menscevichi, l'ala riformista del Partito Socialdemocratico, quanto il Partito Socialista Rivoluzionario non credevano possibile una rivoluzione socialista per l'immaturità delle condizioni economiche e sociali della Russia; pensavano quindi che non si potesse saltare una fase di sviluppo borghese. Questo comportava l'affermazione di uno Stato liberale a carattere parlamentare, sul modello di quelli che si erano costituiti in Occidente, dalla Rivoluzione francese in poi.
Il programma dei bolscevichi era invece costituito da poche, chiare parole d'ordine che esprimevano le aspirazioni popolari: fine della guerra, nazionalizzazione e distribuzione delle terre, controllo operaio sulla produzione. Per questo acquistarono la maggioranza nei Soviet, i Consigli operai che erano sorti fin dalla Rivoluzione del 1905. Essi costituiscono uno dei temi più dibattuti dalla storiografia contemporanea.

Secondo lo storico Oskar Anweiler esiste una ideale continuità nella tradizione federalistico-autonomistica che va dalla Comune di Parigi ai Soviet russi; questa tradizione fa parte dell'anarchismo ed è non soltanto estranea alla tradizione marxista-leninista, ma inconciliabile con essa. Il trionfo del partito bolscevico segnò infatti la fine dei Soviet e fu, per Anweiler, la prova più evidente di questa inconciliabilità.
Alla contrapposizione fra Soviet e partito bolscevico ne corrispose una fra operai e intellettuali rivoluzionari. Non a caso i Soviet nacquero nel 1905, in assenza di una forte organizzazione partitica, quando era prevalente l'esigenza di una direzione unitaria delle lotte, secondo un intreccio di rivendicazioni economiche e politiche. Essi non si proposero l'obiettivo della conquista del potere, ma la convocazione dell'Assemblea Costituente e l'instaurazione di una repubblica democratica. Non i bolscevichi, ma piuttosto i menscevichi e i socialisti rivoluzionari furono favorevoli alla formazione dei Consigli di operai, contadini e soldati. Furono questi partiti infatti a trarre i maggiori risultati dalla rivoluzione di febbraio, perché furono i migliori interpreti delle esigenze libertarie del popolo russo.

Lo storico cecoslovacco Michal Reiman mette in rilievo il ruolo subordinato dei bolscevichi anche nella costituzione del Soviet di Pietrogrado.

Nella prima fase della rivoluzione, il cui risultato fu la fine del potere zarista, si vide subito la fragilità dei partiti borghesi, liberali e democratici, testimoniata dalla inconsistenza politica delle assemblee parlamentari (chiamate Dume) che, come scrive Isaac Deutscher, avevano inaugurato le precedenti rivoluzioni della storia, quella inglese e quella francese. Mancò quindi in Russia la fase parlamentare, costituzionalista, che si era conclusa già prima di febbraio con il fallimento delle Dume. Per questo la Rivoluzione di febbraio veniva considerata acefala, spontanea, anonima, per sottolineare la mancanza di una direzione politica forte e consapevole. Bisogna tuttavia ricordare che in questo giudizio confluiscono le considerazioni relative alla Rivoluzione d'ottobre, quando la direzione politica del gruppo rivoluzionario bolscevico guidato da Lenin fu determinante.

Il governo provvisorio cadde sotto l'azione congiunta di quattro fattori: l'ammutinamento dell'esercito, la pressione dei contadini per il possesso della terra, le rivendicazioni operaie e l'indipendentismo delle varie nazionalità dell'impero zarista.
Secondo uno dei protagonisti della Rivoluzione, Trotzkij, la ribellione dell'esercito fu uno dei fattori decisivi, e infatti Chamberlin la definisce come il più grandioso ammutinamento della storia. Contribuirono a questo fenomeno le tendenze centrifughe delle varie nazionalità; ed esso diede a sua volta impulso alla riforma agraria, sotto la spinta del ritorno nelle campagne dei soldati di origine contadina.

Lo storico inglese George Douglas Howard Cole dà notevole importanza al ruolo rivoluzionario dei contadini, poiché, se è vero che il movimento urbano costituì l'avanguardia della Rivoluzione, certamente l'apporto dei contadini fu decisivo in più di una occasione e, dal punto di vista quantitativo, fu senza dubbio preponderante. Cole mostra come soldati e contadini trovarono nel Partito Socialista Rivoluzionario il loro punto di riferimento politico essenziale. Questo partito, insieme al socialdemocratico, raggruppava nel 1917 il maggior numero di coloro che aspiravano a un ordine sociale nuovo; la differenza tra queste due organizzazioni di Sinistra verteva sul ruolo dell'industrializzazione, che per la socialdemocrazia era fondamentale, mentre per i socialisti rivoluzionari, eredi del populismo ottocentesco, rivestiva un ruolo del tutto secondario. Mentre i socialisti rivoluzionari, nella loro componente di Sinistra, richiamavano in alcuni aspetti il movimento anarchico, i socialdemocratici russi, cioè i menscevichi, erano abbastanza vicini alla socialdemocrazia tedesca, di cui condividevano l'ideale riformistico.

Lo storico inglese Edward Hallet Carr attribuisce la sconfitta dei menscevichi alla loro incapacità di tener conto delle condizioni specifiche della Russia, dove la struttura sociale e politica non consentiva il consolidamento di un regime democratico-borghese. Questo giudizio è largamente condiviso dalla storiografia, che ha affrontato questo problema e ha sottolineato i due errori decisivi commessi dai menscevichi: la sopravvalutazione della borghesia russa che poi non seppe assicurare, caduto lo zarismo, una funzione di governo, e la sottovalutazione del ruolo decisivo dei contadini, compreso invece bene da Lenin.

Nella valutazione del ruolo dei bolscevichi, protagonisti della Rivoluzione d'ottobre, si possono distinguere tre atteggiamenti prevalenti fra gli storici:
 - uno di carattere fortemente critico, ispirato a una ostilità preconcetta nei confronti della Rivoluzione d'ottobre;
 - uno di carattere apologetico, presente soprattutto fra gli storici staliniani;
 - un terzo, infine, di carattere più problematico e critico volto a comprendere il ruolo dei bolscevichi e la loro storia nel contesto dell'epoca.
Quest'ultimo orientamento si è andato sviluppando soprattutto in anni recenti, quando sono cadute le condizioni che sostenevano sia la tendenza apologetica (stalinismo), sia quella denigratoria (l'avversione occidentale per l'Unione Sovietica come Paese socialista).

La Rivoluzione del 1905

Ai principio del secolo il movimento rivoluzionario rinasceva robusto anche in Russia, soprattutto per l'apporto della classe operaia, che si andava sviluppando con il progredire dell'industrializzazione, voluta dal ministro Witte.
Al populismo, ormai logoro ed esaurito, si sostituiva il socialismo marxista, introdotto dall'infiammata propaganda di Plechanov.
Le speranze del rinnovamento del Paese erano riposte dal nuovo movimento soprattutto negli operai, ritenuti più capaci dei contadini di formarsi una coscienza di classe e di organizzare una potente forza d'urto. La diffusione del socialismo marxista fu infatti agevolata dalla progressiva industrializzazione dell'economia russa.
Lo sfruttamento padronale, praticato in termini esosi, suscitò scioperi continui sempre violentemente repressi; la miseria dei disoccupati e dei sottoccupati tra sformò gli operai in elementi attivi e organizzatori della rivoluzione che andava maturando.
L'esempio degli operai incoraggiò i contadini a uscire dalla loro in differenza e incertezza e a passare anch'essi all'azione: gli operai chiesero le fabbriche, i contadini tutte le terre.

In un momento così decisivo e determinante, all'Impero russo mancò la mente necessaria. Nicola II, infatti, si rivelò effettivamente incapace di scegliersi dei collaboratori di valore, del tutto inadatto a guidare un popolo di 130 milioni di abitanti. Egli non seppe impedire la confluenza degli intellettuali (che reclamavano il Parlamento), dei contadini (che volevano la terra) e degli operai (che insorgevano contro lo sfruttamento dei padroni). I tre partiti che rispettivamente ne esprimevano le esigenze, il cadetto, il socialista rivoluzionario e il socialdemocratico, fecero fronte unico.
Lo zar, anziché disarmare il rivoluzionarismo dei partiti con la concessione di coraggiose riforme, si disinteressò sostanzialmente dei problemi lasciando carta bianca ai ministri e ai militari, che si affidarono ai vecchi metodi delle rappresaglie feroci e ai pogrom, cioè i saccheggi e i massacri antisemiti.
Visto vano lo sforzo, si ricorse alla guerra con il Giappone nell'intento di distrarre l'attenzione dalla Rivoluzione e di soffocarla con il prestigio dell'«immancabile vittoria». Vennero invece le sconfitte militari, le umiliazioni del trattato di pace e con esse lo scoppio della Rivoluzione del 1905.

L'iniziativa di Gapon, che intendeva presentare una supplica allo zar perché si interessasse benevolmente degli operai «gettati sempre più in fondo nell'abisso della povertà, dell'ignoranza e della privazione dei diritti da capitalisti che li soffocavano e strangolavano», i continui ammutinamenti degli equipaggi della marina, il ritmo crescente e preoccupante degli scioperi degli operai, dei ferrovieri e degli impiegati, la rivolta dei contadini e il fronte unico dei partiti indussero lo zar, dopo tante manovre dilatorie, a promettere la Costituzione, il Parlamento rappresentativo con funzioni legislative, la concessione di tutte le terre e le libertà civili a ogni russo, ma nonostante il vigore e la decisione degli insorti, la Rivoluzione del 1905 è considerata un fallimento, poiché la gran parte delle promesse non fu di fatto mantenuta e le altre furono attuate, ma con spirito completamente opposto agli interessi degli operai e dei contadini.
L'americano Chamberlin scorge nei contrasti dei partiti, nel programma confuso e nella mancanza di un capo accettato da tutti la causa del fallimento:

Il movimento rivoluzionario del 1905 abbracciava classi che avevano obiettivi assai differenti. L'avvocato, l'uomo d'affari di tendenza liberale e il proprietario terriero desideravano un regime costituzionale sul modello di quelli dell'Europa occidentale. Il rivoluzionario professionista sognava una rivoluzione sociale di più vasta portata. L'operaio pensava a più alti salari e minori ore di lavoro; il contadino a una più larga fetta di terreno da tagliare sulla proprietà del vicino più ricco; il soldato e il marinaio ad un cibo migliore e ad una più mite disciplina. Da questo crogiolo di malcontenti disperati non emerse nessun capo o partito d'importanza nazionale a foggiare un programma pratico destinato al successo.

W. H. Chamberlin, Storia della rivoluzione russa, Einaudi, Torino 1943.

Di questa mancanza di unità d'intenti e di programmi, dei contrasti insanabili tra i partiti, approfittarono lo zar e la classe conservatrice per soffocare la rivoluzione.
L'uomo della controrivoluzione, che svuotò con abilità consumata tutte le richieste di cadetti, socialisti, rivoluzionari e socialdemocratici, fu il ministro Pëtr Arkad'evič Stolypin. «Parlamento democratico e concessione di tutte le terre al Mir» (comunità contadine autogestite dove la terra era possesso comune), vale a dire le parole d'ordine della rivoluzione, divennero parole vuote di effettivo significato democratico.
Commenta Chamberlin:

Se nelle prime Dume il 24% dei deputati fu scelto da elettori contadini, il 4% da operai, il 22% da cittadini che possedevano rendite e pagavano tasse, il 32% da grandi proprietari terrieri, con la riforma del 1907, introdotta dallo Stolypin, l'aristocrazia terriera scelse la metà dei deputati, le classi ricche dei cittadini il 14%, i contadini il 22%, le classi medie cittadine il 12% e gli operai il 2%. La vita parlamentare russa rappresentò il gioco degli interessi di una ristrettissima minoranza di gente soddisfatta. Alle prime Dume democratiche, dette «dell'ira popolare», lo Stolypin sostituì la «Duma dei servi».

W. H. Chamberlin, Storia della rivoluzione russa, Einaudi, Torino 1943.

Con un'abilissima riforma agraria Stolypin seppe rompere il fronte compatto dei contadini e metterli gli uni contro gli altri. Prendendo a pretesto che la causa della loro miseria era il sistema del Mir, che negava la proprietà individuale e definitiva e non li impegnava a produrre sufficientemente, Stolypin concesse a ogni contadino di uscire dalla comunità e di chiedere che la parte di terra di cui godeva l'uso gli fosse data in proprietà personale definitiva, e di potere esercitare su di essa tutti quanti i diritti. In questo modo il contadino era liberato dagli speciali tribunali agrari (i Mir avevano anche l'autonomia giuridica) e poteva partecipare alle elezioni e ai lavori delle assemblee provinciali e comunali alla pari con le altre classi.
Così commenta lo storico Ettore Lo Gatto:

Lo scopo intimo della riforma era di creare un ceto di contadini ricchi che fosse solidale nei suoi interessi con la grande proprietà fondiaria e nel villaggio servisse da contrappeso ai contadini poveri e medi e a sostegno alla monarchia. La sua essenza e importanza stavano nel fatto che essa mirava a una trasformazione della grande proprietà fondiaria a tipo servile in grandi, medie e piccole aziende a tipo capitalistico. Ma in effetti la situazione dominante della grande proprietà fondiaria non uscì scossa dalla riforma; tuttavia, specialmente perché molti proprietari preferivano vendere le loro terre anziché correre il rischio di nuove violenze da parte dei contadini, una certa alterazione nel dominio delle forze si verificò. Si deve riconoscere che un reale miglioramento si verificò nelle condizioni generali dell'agricoltura russa, nella quale in soli cinque anni fu organizzato un milione di piccole aziende di contadini con circa undici milioni di ettari di terra e altrettanti ettari furono sottoposti a miglioramento: un lavoro colossale sebbene soltanto un inizio di fronte a circa 130 milioni di ettari di terra lavorativa a disposizione dei contadini.

E. Lo Gatto, Storia della Russia, Sansoni, Firenze 1947.

Tra la riforma di Stolypin e la prima guerra mondiale vi fu un periodo di tempo di sei anni, troppo breve per potere formulare un giudizio circa le sue possibilità e capacità di evitare una violenta rivoluzione sociale. La sua sperimentazione fu troppo breve per poterne giudicare il reale valore. In ogni caso, nella Rivoluzione del 1905 i contadini ottennero un certo miglioramento; i veri sconfitti furono gli operai.
Sebbene in grande minoranza, essi, durante la Rivoluzione, avevano costituito la forza più organica, decisa e audace; con la costituzione del Soviet avevano dato prova evidente delle loro possibilità politiche e s'erano nettamente differenziati dall'incerta e disunita classe media e dai contadini arretrati e incapaci. Da tutte le riforme essi non ricavarono alcun vantaggio, ma furono sottoposti alla continua sorveglianza della polizia zarista e allo sfruttamento degli industriali.

Bolscevichi e menscevichi

Il Partito Socialdemocratico russo fu fondato nel 1898 da Georgij Plechanov, un marxista che faceva assegnamento prevalentemente sulla crescita del proletariato industriale come forza sociale capace di fare la rivoluzione.
Nel 1903 il partito si divise in due fazioni, entrambe di ispirazione marxista; motivo della divisione fu la diversa concezione che i due gruppi avevano dell'organizzazione del partito: i bolscevichi teorizzavano la formazione di un partito di quadri, di militanti costituenti l'avanguardia di una rivoluzione proletaria; i menscevichi sostenevano un partito socialdemocratico simile a quelli occidentali, soprattutto a quello tedesco, fondato su una organizzazione capillare e di massa.
Le due fazioni convocarono insieme, alla fine del 1905, il IV Congresso, dove vennero posti all'ordine del giorno alcuni problemi fondamentali, tra cui la questione contadina.
Su questo tema emerse un profondo dissenso, che Vittorio Strada descrive in questi termini:

Il IV Congresso del partito operaio socialdemocratico russo fu detto «unificatore» e fu organizzato appunto dai centri dirigenti delle due fazioni, menscevica e bolscevica, che alla fine del 1905 formarono un Comitato centrale unificato per la convocazione del congresso. Il congresso, nel quale i delegati menscevichi erano in maggioranza, si svolse a Stoccolma nell'aprile del 1906. Due furono i punti politici centrali, nei quali si rifletteva l'esperienza di un anno di lotte rivoluzionarie: il problema agrario e la questione della Duma, l'assemblea rappresentativa istituita nel dicembre del 1905. Il movimento rivoluzionario aveva mostrato l'insufficienza del programma agrario socialdemocratico elaborato e ratificato al II Congresso del partito (1903). Tale programma non poteva più limitarsi a progettare soltanto la restituzione ai contadini degli otrezki, gli appezzamenti di terra che, al tempo della riforma del 1861, i proprietari avevano tolto dalla parte assegnata ai contadini e che, trattandosi di arativi, di pascoli o di zone boschive, erano di vitale importanza per i contadini stessi, costretti così a prenderli in affitto dai proprietari. Ormai il movimento contadino aveva posto concretamente il problema di tutta la terra ancora in mano ai grandi proprietari. La relazione di Lenin al Congresso sulla questione agraria non si è conservata, ma il suo punto di vista è facilmente ricavabile da altri scritti del tempo e dal corso della discussione. Esso consisteva sostanzialmente nella proposta di confisca di tutte le terre appartenenti alla Chiesa, ai monasteri, allo Stato, ai proprietari e, in caso di vittoria della rivoluzione, in una loro nazionalizzazione. Alcuni bolscevichi, tra cui Stalin, proponevano invece una divisione della terra dei proprietari e un'assegnazione degli appezzamenti in proprietà privata ai contadini. Costoro, infatti, ritenevano che tra rivoluzione democratico-borghese e rivoluzione socialista intercorresse un periodo abbastanza lungo per giustificare questo assetto dell'agricoltura, mentre Lenin, che puntava su un accelerato passaggio interno dall'una rivoluzione all'altra, vedeva nella nazionalizzazione uno strumento atto a favorire tale trapasso. Ciò non gli impedì di unirsi, tuttavia, per ragioni tattiche, al progetto di coloro che volevano dividere le terre e assegnarle ai singoli contadini. La tesi menscevica, invece, era quella di una municipalizzazione della terra, della quale dovevano disporre gli organi di autogoverno locale. Da questi i contadini avrebbero ricevuto in affitto gli appezzamenti. Contro il progetto della nazionalizzazione vennero avanzate due considerazioni principali. Maslov, lo studioso menscevico della questione agraria, dopo aver fatto notare la varietà di condizioni economiche coesistenti in un paese di così vaste proporzioni come la Russia — varietà che non poteva essere ignorata da un programma agrario come faceva invece la proposta «semplicistica e astratta» di Lenin — affermò che la nazionalizzazione avrebbe avuto l'effetto negativo di unificare in una reazione controrivoluzionaria tutte le diverse zone dell'Impero russo. Secondo Maslov, si sarebbe avuta «non un'unica Vandea, ma una rivolta generale dei contadini contro il tentativo di un intervento da parte dello Stato per disporre degli appezzamenti di terra propri dei contadini, contro il tentativo di nazionalizzarli», e i reazionari si sarebbero serviti di questo tentativo per spingere i contadini a sollevarsi contro i rivoluzionari, per cui «la realizzazione del progetto» di Lenin avrebbe portato «la rivoluzione non alla sua fine, ma al suo inizio». Inoltre Maslov criticava i «comitati contadini» che Lenin aveva progettato per servire da tramite tra il centro e i contadini dopo la nazionalizzazione, mentre per i menscevichi tale tramite, dopo la municipalizzazione, doveva essere costituito da organi di autogoverno locale.

V. Strada, La polemica tra bolscevichi e menscevichi, in Aa.Vv., Storta del marxismo, Einaudi, Torino 1979, pp. 445-446.

Gli storici non hanno mancato di cercare le ragioni del successo dei bolscevichi, che, benché minoritari tra le altre forze politiche, anche se meglio organizzati, riuscirono a realizzare una rivoluzione in un Paese arretrato come la Russia, quando, secondo la stessa analisi della società condotta da Marx, essa avrebbe dovuto essere possibile solo in un Paese a capitalismo avanzato.
Chamberlin spiega così la vittoria del partito bolscevico:

Come fu possibile a Lenin e alla sua schiera relativamente ristretta di seguaci — è dubbio se ci fossero più di venticinquemila bolscevichi nel territorio della Russia e fuori, al momento della caduta del regime zarista — conquistare e conservare il potere contro l'accanita resistenza delle antiche classi dirigenti, sostenute dai governi degli Alleati? Gli stessi capi bolscevichi certe mattine devono essere rimasti sorpresi di svegliarsi e trovarsi ancora a Mosca, nello storico Cremlino. La maggior parte dei loro avversari al principio erano convinti che il loro governo sarebbe durato non più di qualche settimana, e giudicarono la sua continuazione come una specie d'infausto miracolo. Ma nella storia come nella scienza naturale non ci sono miracoli. In essa opera soltanto la legge di causalità. Due furono le cause fondamentali della Rivoluzione bolscevica, senza le quali il genio direttivo di un Lenin, l'entusiasmo e l'audacia di un Trotskij, la devozione fanatica di un Dzerzinskij, la fredda risolutezza di uno Stalin sarebbero stati vani. La prima fu il sistema di governo zarista con tutte le sue conseguenze politiche, economiche e sociali; la seconda, e più immediata, fu la guerra mondiale. Lo zarismo spianò la via al bolscevismo in parecchi modi. Esercitando un'energica repressione sulle giovani classi medie russe, negò loro l'opportunità di educarsi all'esperienza e alla responsabilità amministrativa e diede alla vita politica della Russia dell'anteguerra un aspetto del tutto accademico. La sua caduta improvvisa spalancò per conseguenza un vuoto enorme, che le forze liberali della società russa erano troppo scarse per colmare. La politica sociale ed economica dello zarismo, e soprattutto la sua incapacità a soddisfare il bisogno di terra dei contadini, e il frequente impiego della polizia nel reprimere i tentativi degli operai di organizzarsi, fecero in modo di creare un costante fermento di ostilità in mezzo alla parte più intelligente e attiva delle classi diseredate, che costituivano l'enorme maggioranza della popolazione. In tempi ordinari questo fenomeno poteva essere represso per mezzo di spie, di agenti provocatori, della polizia e dei cosacchi; ma quando tutto il sistema cedette sotto il poderoso urto della guerra, questo fermento doveva portare la sollevazione molto più lontano di quanto potessero desiderare i liberali ed anche i socialisti moderati. La Russia aveva un numero relativamente ristretto di «proletari», nel senso di operai industriali salariati, al momento della rivoluzione. Da questo punto di vista le prospettive potevano sembrare sfavorevoli per i rivoluzionari che si consideravano discepoli del Marx. Ma la Russia aveva un numero immenso di indigenti, che non avevano radici né in città né in campagna. In confronto alla Gran Bretagna o alla Germania, alla Francia o all'America, la Russia aveva un numero molto più grande d'individui che vivevano perpetuamente al limite tra la estrema povertà e l'inedia vera e propria, ai quali ben si poteva attribuire la definizione di Marx di gente che non aveva nulla da perdere se non le catene. Durante la guerra crebbe immensamente il numero della gente sradicata, diseredata, amareggiata, convinta di non aver nulla da perdere e, se mai, qualche cosa da guadagnare da uno sconvolgimento radicale della società. La guerra tolse a molte famiglie contadine l'ultimo lavoratore e l'ultimo cavallo; essa accrebbe la miseria nelle città. Quando poi incominciò il movimento di ritirata delle truppe russe dinanzi ai Tedeschi che avanzavano, le autorità militari devastarono deliberatamente alle loro spalle vaste estensioni di paese nella Polonia e nelle Province baltiche, respingendo gli infelici abitanti verso l'interno della Russia in qualità di miserabili profughi. Questo aggiunse un nuovo elemento di miseria e di agitazione.

W.H. Chamberlin, Storia della rivoluzione russa, Einaudi, Torino 1943.

Lo storico Massimo L. Salvadori affronta il tema del rapporto tra rivoluzione bolscevica e socialdemocrazia nell'analisi di Kautsky, il maggior teorico del Partito Socialdemocratico tedesco.
La riflessione di Kautsky verte su un punto nodale della Rivoluzione d'ottobre, cioè la creazione della dittatura del partito bolscevico dopo la presa del potere. Egli ritiene che la mancanza di un consenso adeguato e di una macchina produttiva efficiente, che garantisse uno sviluppo economico moderno, siano state le cause fondamentali del passaggio, da parte del partito bolscevico, da una concezione democratica a una concezione dittatoriale del potere.
A questo proposito Salvadori nota:

Secondo Kautsky la spiegazione della genesi della concezione della dittatura propria dei bolscevichi, cioè della dittatura come mera violenza esercitata dal partito al potere, derivava dal modo stesso della presa del potere da un lato e dalle difficoltà incontrate nell'esercizio di questo dall'altro. I bolscevichi avevano potuto trionfare non per forza propria, ma per gli effetti che sulla dissoluzione del tessuto sociale aveva avuto l'azione di un elemento né proletario né socialista: l'azione del contadiname, che in Russia costituiva ancora, a differenza che nei paesi sviluppati, «un elemento di ribellione». Sennonché i contadini, raggiunti i propri fini, avevano costituito un fattore politicamente «apatico». Così, favoriti dalla debolezza del governo provvisorio e dagli effetti della guerra, i bolscevichi poterono attuare il proprio colpo di Stato. Ma, dopo la presa del potere, l'arretratezza russa si volse contro i bolscevichi stessi, i quali si trovarono di fronte alla mancanza di «tutte le premesse per il conseguimento del proprio scopo». I bolscevichi, giunti al potere senza il consenso della maggioranza, dovevano gestire il potere privi di un consenso sufficiente e privi di una macchina produttiva moderna adeguata. Per cui si trovarono nella necessità di abbandonare la via democratica, che fino a poco prima avevano condiviso, per diventare teorici di una via dittatoriale come condizione normale del potere. A questo punto, però, i bolscevichi si contorcevano in una contraddizione insuperabile: mentre erano il partito più radicale del socialismo, potevano conservare il potere solo con i metodi più reazionari della borghesia e non erano in grado di superare le difficoltà create dalla arretratezza economico-sociale. Presentatisi alla ribalta della rivoluzione come il partito più socialista, erano condannati a divergere al massimo dalle loro premesse iniziali. Ma un simile divorzio fra teoria e prassi rendeva troppo pericolosa per i bolscevichi ogni verifica del consenso; sicché i bolscevichi risposero nell'unico modo possibile: la costruzione di una dittatura burocratica, che essi intendevano sottrarre per un tempo indefinito ad ogni verifica democratica: «L'assoluto dominio della burocrazia ha il suo fondamento sulla ipotesi di una durata senza fine: la oppressione violenta di qualsiasi opposizione costituisce il suo principio costitutivo».

M. L. Salvadori, Kautsky e la rivoluzione socialista 1880-1938, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 252-253.

Kautsky faceva risaltare come la situazione russa fosse tale da determinare la vittoria dei bolscevichi sui menscevichi in quanto le parole d'ordine dei primi erano più rispondenti alle esigenze delle masse popolari; nello stesso tempo tuttavia le medesime condizioni che avevano facilitato la vittoria sarebbero state in un secondo momento un ostacolo alla possibilità di governo. I contadini erano stati un alleato prezioso durante la Rivoluzione, ma sarebbero diventati un fattore di divisione in seguito.
Salvadori ripercorre il ragionamento di Kautsky e mette a fuoco il dissenso tra bolscevichi e menscevichi:

Analizzando le condizioni sociali ed economiche, faceva risaltare le difficoltà, e anzitutto quella derivante dal fatto che per 3/4 la popolazione russa fosse legata ad una campagna arretrata. Ma non mancava di mettere in risalto alcuni importanti lati positivi: l'esistenza nelle grandi città, centro della vita politica, di una «grande industria molto moderna»; lo spirito rivoluzionario di un proletariato (si noti quanto segue) «del tutto libero dalle tradizioni borghesi, che gravano sui proletari dell'Europa occidentale»; la guida di questo proletariato da parte di capi marxisti. Tutto sarebbe dunque dipeso dal modo in cui sarebbe stata affrontata la grande contraddizione segnata dall'esistenza di un proletariato rivoluzionario avanzato in un paese globalmente molto arretrato. Analizzando la politica dei bolscevichi e dei menscevichi di fronte al problema che aveva diviso le due correnti del socialismo russo, vale a dire come impedire il «potere unico» della borghesia, Kautsky metteva in risalto i fattori che avevano favorito il trionfo della linea bolscevica. I menscevichi avevano puntato su un governo di coalizione; i bolscevichi su una dittatura del proletariato sostenuta dalla parte rivoluzionaria dei contadini e sulla pace immediata. La fame di terra dei contadini e la volontà di pace delle masse, rimaste senza risposta, avevano fatto pendere decisamente la bilancia dalla parte dei bolscevichi, determinandone la vittoria. Ma, proseguiva Kautsky, i fattori che hanno dato loro la vittoria sono quegli stessi che costituiscono una minaccia grave dopo la presa del potere, a causa delle contraddizioni interne ai rapporti di classe. Quel proletariato avanzato minoritario che ha potuto prendere il potere nelle città (e rendersi così padrone dell'intero paese poiché solo queste hanno pesato nella lotta decisiva) sfruttando la lotta di classe democratica dei contadini nelle campagne, assunto il potere vedrà rovesciarsi in elemento negativo il fatto di controllare solo le città, dovrà fronteggiare l'anarchia nelle campagne, vedrà ingigantirsi il pericolo della guerra civile nel momento in cui schiaccerà con la violenza la borghesia. «Il modo di pensare dei bolscevichi – scrive Kautsky – era il più semplice, e il più corrispondente alla situazione di classe del proletariato; ma anche quello che minacciava di inasprire al massimo la contraddizione fra l'intenso sforzo del proletariato e il basso grado di sviluppo dell'impero». I bolscevichi dovevano ormai tener conto delle minacce provenienti in primo luogo dal particolarismo contadino.

M. L. Salvadori, Kautsky e la rivoluzione socialista, Feltrinelli, Milano 1976, p. 248.

La «dittatura del proletariato»

Immediatamente dopo la definitiva presa del potere (novembre 1917), il governo bolscevico emanò una serie di provvedimenti che, seppur parzialmente giustificabili dall'eccezionalità della situazione, erano lesivi dei diritti fondamentali dell'uomo. Furono infatti soppresse le libertà di stampa, di sciopero, di riunione, di proprietà.
A questo si accompagnò anche una lotta senza quartiere ai cosiddetti "nemici del popolo", cioè gli oppositori del nuovo regime. Furono accomunati sotto questa denominazione gli appartenenti alle vecchie classi privilegiate (aristocrazia e alta borghesia), accusati di essere affamatori del popolo, i religiosi, gli ufficiali di rango superiore, i principali membri dei partiti liberali o di ispirazione non marxista: insomma, tutti coloro che potevano essere utili alla causa della "controrivoluzione".
Già sotto Lenin, però, le epurazioni colpirono anche membri del Partito Comunista, specie i più moderati menscevichi o coloro che guardavano alle idee della socialdemocrazia europea.
Lo storico Carlo Pinzani, appuntando l'attenzione sul problema più generale del governo delle società di massa nel XX secolo, mostra come, in occasione della guerra civile in Russia, il governo bolscevico assunse atteggiamenti chiaramente antidemocratici.

Ma la conseguenza più importante della guerra civile e dell'intervento straniero doveva essere l'esaltazione del terrore rivoluzionario di derivazione giacobina, che i bolscevichi praticarono largamente e che costituiva non solo una patente contraddizione con la componente umanistica e libertaria della tradizione socialista ma, sul piano internazionale, contrastava anche in maniera clamorosa con l'universalità dell'appello leninista, che pure tanto ascolto riceveva nelle masse dei diseredati. In definitiva, anche alla rivoluzione russa si può applicare il giudizio di Engels a proposito della rivoluzione francese e secondo il quale «i popoli che si vantano di aver fatto una rivoluzione scoprono sempre il giorno dopo che essi non sapevano quel che facevano e che la rivoluzione compiuta non assomigliava minimamente a quella che intendevano fare». [ ... ] Invece di evolvere verso un approfondimento della democrazia di massa e di una forma di governo che, attraverso la promozione del benessere e dell'eguaglianza, ottenesse il consenso della maggioranza dei popoli sovietici, il regime rivoluzionario imboccò rapidamente il cammino verso la tirannide più aperta.

C. Pinzani, Il secolo della paura. Breve storia del Novecento, Editori Riuniti, Roma 1998, pp. 78 e 86.

Uno degli avvenimenti che maggiormente scosse il governo sovietico fu l'ammutinamento della guarnigione della marina a Kronstadt, nelle immediate vicinanze di Pietrogrado, da sempre fedele a Lenin e che aveva avuto un ruolo attivo nelle fasi principali della Rivoluzione.
Questi marinai, che continuarono fino all'ultimo a proclamarsi fedeli alla rivoluzione proletaria, chiedevano che i Soviet diventassero espressioni democratiche dei lavoratori e non degli organi controllati dal Partito Comunista. La repressione ordinata da Lenin, come osserva Oskar Anweiler,  fu spietata:

Quali furono gli obiettivi dell'insurrezione? Il movimento nacque spontaneamente dal malcontento delle masse per i risultati del dominio comunista. All'inizio non si trattava affatto di un'azione cosciente rivolta a rovesciare con le armi il regime bolscevico. Fu l'atteggiamento inflessibile del governo ad aggravare la situazione e a spingere i marinai di Kronstadt a proclamare la «terza rivoluzione», che avrebbe dovuto abbattere la dittatura comunista. Tipico è per esempio il fatto che Lenin non venisse criticato [...]. Le loro rivendicazioni, esposte in forma non sempre chiara nelle «Izvestija» rivoluzionarie, riflettevano le più vive aspirazioni degli operai e dei contadini del momento. Gli insorti chiedevano infatti, oltre alla restaurazione delle libertà politiche, la fine della politica agraria comunista con i suoi interventi e le sue violenze contro la proprietà contadina, e l'abolizione della diseguaglianza di razioni di generi alimentari nelle città. Essi volevano inoltre infrangere i privilegi della burocrazia del partito e dello Stato e sopprimere il controllo comunista sull'esercito. [...] Gli insorti erano sostenitori incondizionati del sistema consiliare, ma di un sistema consiliare autonomo, democratico, liberato dai vincoli che imponeva la posizione di monopolio del partito comunista. [...] I bolscevichi a loro volta si accorsero benissimo del pericolo che rappresentava per loro la parola d'ordine «soviet liberi», che minacciava di mettere in questione la legittimità del loro potere. L'idea consiliare, nella sua forma più pura, era in contraddizione insanabile con la dittatura del partito. Essi cercarono perciò con ogni mezzo di impedire l'estensione dell'incendio [ ... ]. Non ci furono elezioni libere, né il controllo del partito sui soviet fu allentato. Nello stesso tempo furono eliminati gli ultimi resti dei partiti non bolscevichi. I gruppi d'opposizione furono soppressi senza un formale decreto di dissoluzione: i loro membri o furono arrestati, o ritrattarono pubblicamente le loro convinzioni politiche; alcuni leaders poterono andare all'estero, ad altri fu fatto un processo politico.

O. Anweiler, Storia dei Soviet 1905-1921, Laterza, Roma-Bari 1972, p. 465 e ss.

La Rivoluzione d'ottobre e la questione delle nazionalità

L'Impero zarista era plurinazionale, mentre il cuore della Rivoluzione era stata la Russia; uno dei problemi quindi che si pose ai bolscevichi, conquistato il potere, era regolare i rapporti tra nazionalità diverse all'interno dell'ex-Impero, garantendo contemporaneamente un forte governo centrale e, nello stesso tempo, evitando di dare alla Russia un ruolo privilegiato a danno delle altre regioni dell'immenso territorio.
Di questo problema era perfettamente consapevole Lenin, che, già malato e in parte tagliato fuori dall'esercizio politico attivo, sottolineò gli errori compiuti da Stalin, di cui temeva l'autoritarismo e l'arroganza. D'altronde, nella concezione marxista il nazionalismo era visto come un fenomeno sociale transitorio, subordinato alla lotta di classe e destinato a essere superato in una società senza classi.
Prima della Rivoluzione il diritto delle nazioni all'autodeterminazione, ossia il diritto dei popoli di condurre una vita politica indipendente, era diventato uno dei punti focali del programma bolscevico sulla questione delle nazionalità. Lenin infatti intendeva combinare tutti gli elementi di opposizione allo zarismo, tutte le manifestazioni di lotta e di protesta per sferrare un attacco capace di rovesciare il regime. Il progetto dell'autodeterminazione consentì quindi ai bolscevichi di ottenere l'appoggio dei numerosi movimenti nazionali che andavano formandosi nelle varie parti dell'Impero russo.
Il numero delle nazionalità ufficialmente riconosciute nel censimento del 1926 era di 190 (ridotte a 104 nel censimento del 1970). Il problema venne formalmente risolto con il federalismo, unico strumento adatto a riunire le varie etnie sparse nell'ex-Impero, che tuttavia, in realtà, non si realizzò mai nell'Unione Sovietica.
In un testo di Victor Zaslavsky, sociologo russo emigrato in Canada, si legge:

[...] se per federalismo si intende sovranità territoriale in campo economico e politico, niente del genere è riscontrabile nell'URSS. Il sistema monopartitico, l'economia pianificata al centro e l'imponente burocrazia insediata a Mosca precludono un effettivo federalismo. Ma il federalismo sovietico fu concepito con intenti diversi, cioè come mezzo per far convivere varie nazionalità in uno stato multietnico, e come importante strumento di una politica di quadri.

V. Zaslavsky, Dopo l'Unione Sovietica, Il Mulino, Bologna 1991, p. 14.

L'esportazione della Rivoluzione russa

Il carattere internazionale della Rivoluzione bolscevica era una convinzione profondamente radicata in tutto il gruppo dirigente nella fase iniziale e condivisa da quanti, in Europa, scorgevano nel successo dell'ottobre del 1917 l'avvio di un più generale processo di cambiamento della società.
Quando nel novembre 1918 una rivolta militare abbatté il regime imperiale in Germania e salirono al potere i socialdemocratici, sembrò che l'intera Europa fosse pronta a insorgere.
I comunisti (specie quelli tedeschi, guidati da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg) si organizzarono in vari Paesi e crearono veri e propri moti insurrezionali. A Brema (Germania), in Ungheria, in Baviera e in Slovacchia nel 1919 furono abbattuti i governi locali e proclamate delle repubbliche sovietiche, che chiesero immediatamente l'appoggio e il riconoscimento della Russia. Anche a Berlino, in gennaio, si era tentata l'insurrezione armata, ma il tentativo fu stroncato nel sangue. Nel giro di pochi mesi anche gli altri movimenti furono repressi o si spensero da soli.
La storiografia si è interrogata sulle motivazioni che impedirono alla rivoluzione proletaria partita dalla Russia di attecchire in Europa. Lo storico Chamberlin spiega questo fatto con la mancanza, negli altri Stati europei, delle condizioni che avevano reso possibile la Rivoluzione russa: la vita dei contadini, tranne che in Spagna, era assai meno difficile che in Russia, grazie alle riforme agrarie; in Russia erano estremamente deboli i ceti medi, presenti con forza, invece, nel resto d'Europa; un altro fattore di stabilizzazione sociale in molti Paesi era la tradizione socialdemocratica riformista.

I bolscevichi considerarono sempre la loro rivoluzione come avente carattere e significato internazionali. Anche nelle ore più oscure dei rovesci militari e del disastro economico, essi si sostennero nella fede che la classe operaia di tutta Europa sarebbe venuta in loro soccorso diffondendo la rivoluzione negli altri paesi. Questo non avvenne. La Rivoluzione russa si fermò alle frontiere alquanto ridotte della Russia. Porterebbe troppo lontano indagare una per una le ragioni per cui le formule rivoluzionarie che trionfarono in Russia fallirono negli altri paesi d'Europa [ ... ]. Alcune tra le ragioni più importanti si possono però sommariamente indicare. In nessun altro paese europeo c'era un gruppo di rivoluzionari così indurito, sperimentato e fanatizzato dalla persecuzione governativa come i bolscevichi in Russia, e nessun altro paese europeo forniva condizioni sociali ed economiche così favorevoli come la Russia a un sommovimento su larga scala volto ad annientare la proprietà individuale. A eccezione probabilmente della Spagna, nessun'altra nazione aveva in seno un problema agrario così acuto come la Russia. I nuovi Stati che o si distaccarono dalla compagine del cessato Impero russo o vennero in vita o si ampliarono per effetto dei trattati di pace furono solleciti nel disarmare il malcontento dei contadini mediante riforme agrarie più o meno radicali. E nelle nazioni dell'Europa occidentale i più dei contadini erano già in tali condizioni economiche che in Russia sarebbero stati considerati kulaki, e quindi naturalmente alieni da una rivoluzione sovvertitrice con programma di espropriazione generale e totale. D'altra parte, nell'Europa occidentale e centrale la classe media era molto più forte e più numerosa rispetto a tutta la popolazione che non in Russia, e non si mostrava disposta a farsi mettere al muro da una dittatura proletaria. Certamente paesi come l'Inghilterra e la Germania possedevano una classe operaia assai più numerosa, più istruita e meglio organizzata che non la Russia; eppure le speranze fondate sopra questo fatto da Lenin e da Trotskij andarono deluse, perché gli operai dell'Europa occidentale che avevano già un tenore di vita più elevato, risposero fiaccamente e inefficacemente agli appelli degli apostoli comunisti della rivolta armata mondiale. La Rivoluzione russa ha dato la prova di fatto dell'errore di una opinione generalmente diffusa tra i socialisti dell'anteguerra: che il socialismo si sarebbe affermato – con mezzi pacifici o violenti – prima nei paesi di alta civiltà capitalistica, nel momento in cui il capitalismo avesse terminato la sua funzione di progresso. Il successo di una rivoluzione marxista in Russia [ ... ] e l'insuccesso parallelo di tutti i consimili tentativi in altri paesi hanno dimostrato che è più facile annientare il capitalismo là dove esso è già debole e scarsamente progredito, com'era nella Russia dell'anteguerra, che non in quei paesi dove ha già avuto un lungo ciclo di sviluppo e si è affermato come parte costitutiva dell'ordine sociale.

W. H. Chamberlin, Storia della rivoluzione russa, Einaudi, Torino 1943.

Lo storico Francesco Benvenuti mette in risalto come l'esperienza rivoluzionaria sovietica, pur non riuscendo a espandersi immediatamente in tutta Europa, ebbe fin dall'inizio la tendenza a porsi come modello per i popoli europei ed extraeuropei. Il nome stesso assunto dal Paese (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) toglieva ogni riferimento propriamente geografico, quasi fosse un progetto iniziale che avrebbe dovuto poi contenere tutti i popoli del mondo.

Dopo il 1905, Lenin affermò che questo tipo di rivoluzione nelle aree periferiche dello sviluppo economico mondiale avrebbe potuto rimettere in moto il movimento rivoluzionario nel cuore stesso del capitalismo europeo. Per un certo periodo, il rapporto di dipendenza reciproca tra il movimento socialista nei paesi, rispettivamente, avanzati e arretrati sarebbe stato invertito: il segnale dell'avvio della rivoluzione nell'Europa avanzata sarebbe venuto dai secondi. Una tale evoluzione di idee avvicinò notevolmente Lenin alla concezione di Trockij del carattere «permanente», cineticamente continuo, delle rivoluzioni modernizzanti nei paesi arretrati. [...] Lenin vide nella conquista del potere per via insurrezionale la possibilità di perseguire simultaneamente diversi obiettivi, in realtà politicamente eterogenei: una rivoluzione popolare e nazionale nel suo paese, a direzione bolscevica; la rigenerazione subitanea del socialismo internazionale e l'avvio di una rivoluzione planetaria ad opera di forze sia socialiste, sia nazionaliste e anticolonialiste. Nelle sue Tesi dell'aprile 1917 egli affermò che in Russia si apriva una prospettiva ravvicinata, se non di costruzione integrale del socialismo, almeno dell'instaurazione di un potere rivoluzionario dai fini esplicitamente socialisti. Una tale insurrezione avrebbe contribuito a riportare lo sviluppo storico mondiale sui binari originariamente previsti da Marx. Solo dopo l'adempimento di questo compito i rivoluzionari russi avrebbero riconsegnato la direzione di un socialismo rinnovato ai compagni dei paesi più avanzati. Lenin calcolò che la situazione morale e politica creata dalla guerra in Europa avrebbe straordinariamente amplificato gli effetti internazionali di una rivoluzione russa che si fosse proclamata «socialista». Le condizioni di guerra avrebbero elevato un futuro governo bolscevico a protagonista di primo piano della politica mondiale.

F. Benvenuti, Storia della Russia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1999.

 

 

 

 

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