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IL SECONDO DOPOGUERRA

 

 

FONTI

 

La cinica spartizione dei Balcani nei preliminari dell'incontro di Yalta

Il seguente brano, tratto dalle memorie di Churchill, illustra la sbrigativa modalità con cui a Mosca, la sera del 9 ottobre 1944, venne steso un accordo preparatorio per la discussione del vertice di Yalta. Lo schema sarebbe poi stato alla base dei trattati di pace e avrebbe consegnato all'influenza sovietica l'intera Europa orientale.

Il momento era favorevole per trattare; perciò io dissi: «Sistemiamo le nostre faccende nei Balcani. I vostri eserciti si trovano in Romania e in Bulgaria, dove noi abbiamo interessi, missioni e agenti. Non procediamo a offerte e controfferte stiracchiate. Per quanto riguarda la Gran Bretagna e la Russia, che ne direste se aveste una maggioranza del 90% in Romania e noi una percentuale analoga in Grecia e partecipassimo invece sul piede di perfetta parità in Jugoslavia?». Mentre si procedeva alla traduzione, trascrissi ciò su un mezzo foglio di carta:

Romania Russia

90 %

gli altri

10 %

     
Grecia Gran Bretagna (d'intesa con gli Stati Uniti)

90 %

Russia

10 %

     
Ungheria  

50 % - 50 %

     
Bulgaria Russia

75 %

gli altri

25 %

Passai il foglietto attraverso il tavolo a Stalin, che nel frattempo aveva udito la traduzione. Ci fu una piccola pausa. Poi prese la sua matita blu e con essa tracciò un grosso segno di "visto" sul foglio, che quindi ci restituì. La faccenda fu così completamente sistemata in men che non si dica.

W. Churchill, La seconda guerra mondiale, parte VI, vol. 1, Mondadori, Milano 1953, pp. 257-258.

Il discorso di Churchill a Fulton

Il 5 agosto 1946 sir Winston Churchill, non più primo ministro in seguito alla sconfitta nelle elezioni del 1945, si recò nello Stato americano del Missouri, dove pronunciò un discorso a Fulton alla presenza del presidente statunitense Truman. Questo discorso, in cui lo statista britannico definì il comunismo come una «tirannia» e ne denunciò la volontà di espansionismo, ebbe una vasta risonanza in tutto il mondo: da alcuni storici viene considerato come l'inizio simbolico della guerra fredda.

Vengo ora al secondo pericolo che minaccia il focolare della gente comune, cioè la tirannia. Non possiamo essere ciechi di fronte al fatto che le libertà godute dai singoli cittadini che fanno parte dell'impero britannico non sono valide in un numeroso gruppo di paesi, certi dei quali anche molto potenti. In tali Stati, la gente è sottoposta al controllo forzato di vari tipi di governi polizieschi, in misura tale che è da considerarsi sbalorditivamente contraria a ogni principio democratico. [...] Un'ombra è caduta sulle scene così recentemente illuminate dalla vittoria degli alleati. Nessuno sa ciò che la Russia sovietica e la sua organizzazione internazionale intendono fare nell'immediato futuro, o quali siano i limiti, se ce ne sono, alle loro tendenze all'espansionismo e al proselitismo. [...] Da Stettino sul Baltico a Trieste sull'Adriatico, è scesa sul continente europeo una cortina di ferro. Dietro quella linea ci sono tutte le capitali degli antichi Stati dell'Europa centrale e orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia, tutte queste famose città e le popolazioni che le circondano si trovano nella sfera sovietica e sono soggette, in una forma o nell'altra, non soltanto all'influenza sovietica, ma a un'altissima e crescente misura di controllo da Mosca. [...] In questi Stati dell'Europa orientale i partiti comunisti, che erano molto piccoli, sono stati portati ad assumere posizioni di preminenza e di potere molto al di là della loro capacità numerica e dappertutto cercano di ottenere un controllo totalitario. Governi polizieschi stanno prevalendo in quasi tutti i casi, e finora, esclusa la Cecoslovacchia, non c'è vera democrazia. [...] I russi stanno facendo tentativi a Berlino per creare un partito quasi-comunista nella zona da loro occupata in Germania con la concessione di favori speciali ai gruppi capeggiati da leaders della sinistra tedesca. [...] Se ora il governo sovietico tenta, con un'azione separata, di dar vita a una Germania filocomunista nella sua zona, questo provocherà nuove serie difficoltà nelle zone inglese e americana, e darà agli sconfitti tedeschi il potere di vendersi ai sovietici o alle democrazie occidentali. Qualsiasi conclusione si possa trarre da questi fatti — perché sono fatti — essa non sarà certamente la costruzione dell'Europa che abbiamo voluto e per la cui liberazione ci siamo battuti. Né è quella che conterrà gli ingredienti essenziali di una pace permanente. Di fronte alla cortina di ferro che è calata sull'Europa ci sono altre cause di ansietà. In Italia il partito comunista è seriamente ostacolato dal fatto che deve appoggiare le pretese sul territorio già italiano all'apice dell'Adriatico del comunista per addestramento maresciallo Tito. E tuttavia il futuro dell'Italia è ancora in bilico. [...] D'altra parte io respingo l'idea che una nuova guerra sia inevitabile. È proprio perché sono così certo che le nostre fortune sono nelle nostre mani e che possiamo salvare il futuro, che sento il dovere di parlare ora che ho l'occasione di farlo. Non credo che la Russia sovietica desideri la guerra. Ciò che essi desiderano sono i frutti della guerra e l'indefinita espansione della loro potenza e della loro dottrina. Ma quello che dobbiamo considerare qui, oggi, mentre siamo ancora in tempo, è la prevenzione permanente della guerra e la creazione di condizioni di libertà e democrazia, il più rapidamente possibile, in tutti i paesi. [Churchill afferma che bisogna abbandonare la vecchia politica dell'equilibrio, tipica dell'Europa ottocentesca e prebellica, per cercare con ogni mezzo di avere la supremazia militare sull'Unione Sovietica. Solo così si potrà avere una vera pace.] Se le democrazie occidentali si uniscono nella stretta aderenza ai principi della Carta delle Nazioni Unite, immensa sarà la loro influenza nella spinta in avanti di questi principi e nessuno probabilmente le molesterà. Se, invece, si dividono o esitano nel compimento del loro dovere, e se si permette a questi anni tanto importanti di scivolare via, allora potrà davvero sopraffarci tutti una catastrofe.

W. Churchill, Discorso del 5 agosto 1946, in J. Morray, Storia della guerra fredda, Editori Riuniti, Roma 1962.

Il Piano Marshall e il Piano Molotov

Il 5 giugno 1947 il segretario di Stato americano George Catlett Marshall illustrò presso l'Università di Harvard le finalità del piano di aiuti finanziari all'Europa.

La verità è che le esigenze dell'Europa, per i prossimi tre o quattro anni, in materia di derrate alimentari ed altri prodotti essenziali che le debbono provenire dall'estero — principalmente dall'America — sono molto maggiori della sua attuale capacità di pagamento, e pertanto essa deve ottenere un aiuto sostanziale, oppure affrontare un aggravamento della sua situazione politica, economica e sociale in misura molto estesa. Il rimedio consiste nel rompere il circolo vizioso e nel ripristinare la fiducia degli Europei nel futuro economico dei loro paesi e dell'Europa nel suo complesso. [...] Prescindendo dall'effetto demoralizzante sul mondo intero e dalle possibilità di disordini per effetto della disperazione delle popolazioni interessate, le conseguenze che ne deriverebbero all'economia degli Stati Uniti dovrebbero essere evidenti per tutti. È del tutto logico che gli Stati Uniti debbano fare tutto quanto è possibile per favorire il ritorno di normali condizioni economiche nel mondo, senza di che non possono esservi né stabilità politica né sicurezza di pace. La nostra politica non è contraria ad un paese o ad una dottrina, ma è contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos. Il suo fine dovrebbe essere la nascita di una economia operante nel mondo, in modo da permettere lo stabilirsi di condizioni politiche e sociali in cui possano esistere le libere istituzioni.

G. C. Marshall, Discorso del 5 giugno 1947, in R. Hofstadter, Le grandi controversie della storia americana, Opere Nuove, Roma 1966.

Nel 1947 il governo statunitense aveva proposto l'adesione al Piano Marshall anche all'URSS, che però rifiutò e accusò gli USA di imperialismo economico. La risposta del blocco comunista fu la creazione del cosiddetto "Piano Molotov", che nel 1949 portò alla nascita del COMECON tra l'URSS e i Paesi dell'Europa orientale.
In un discorso del segretario del Partito Comunista Andrej Zdanov, tenuto nel settembre 1947, viene denunciato l'imperialismo americano.

L'imperialismo americano, come un usuraio, si sforza di sfruttare le difficoltà del dopoguerra dei paesi europei e soprattutto la penuria di materie prime, di combustibili e di derrate alimentari nei paesi alleati che hanno sofferto maggiormente della guerra, per imporre loro le sue schiavistiche condizioni di aiuto. In previsione della crisi economica imminente, gli Stati Uniti si affannano a trovare nuove sfere monopolistiche per l'investimento dei capitali e per lo smercio dei loro prodotti. L'«aiuto» economico degli Stati Uniti persegue il vasto scopo di asservire l'Europa al capitale americano. [...] Ma il controllo economico porta con sé anche la dipendenza politica dall'imperialismo americano. [...] I monopoli americani «salvando» un determinato paese dalla fame e dalla rovina pretendono di privarlo di ogni indipendenza. L'«aiuto» americano porta con sé, quasi automaticamente, un cambiamento della linea politica del paese a cui si estende questo «aiuto»: vanno al potere quei partiti che sono pronti ad attuare, in base alle direttive di Washington, un programma di politica interna e di politica estera gradito agli Stati Uniti.

A. Zdanov, Politica e ideologia, Edizioni Rinascita, Roma 1949.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

Il mondo bipolare nella storiografia

Nel dibattito storiografico sul tema della guerra fredda si distinguono due orientamenti principali: la scuola cosiddetta ortodossa e quella revisionista. La prima ne imputa la responsabilità all'Unione Sovietica, la seconda agli Stati Uniti.
La prima tesi si basa sull'idea che gli Stati Uniti sono costretti a un atteggiamento difensivo rivolto a contenere la spinta espansionistica sovietica ovunque si possa manifestare, stringendo alleanze e sostenendo classi dirigenti di qualsiasi natura, pur di impedire l'ascesa al potere di partiti politici di Sinistra, favorevolmente orientati nei confronti dell'Unione Sovietica.
L'interpretazione revisionista della guerra fredda ha il suo caposcuola in Denna Frank Fleming, che pubblica nel 1961 il volume La guerra fredda e le sue origini (trad. it. Feltrinelli, Milano 1964). Questi, e con lui tutti gli storici che si rifanno alle sue tesi, analizzano la politica estera americana nelle sue autonome scelte e non più in funzione di una risposta all'espansionismo sovietico. Vengono valutate le conseguenze della morte del presidente Roosevelt e dell'indirizzo politico impresso dal nuovo presidente Truman e dai suoi consiglieri, un indirizzo meno accomodante e conciliante nei confronti dell'Unione Sovietica; Roosevelt infatti aveva riconosciuto l'esigenza, da parte di quest'ultima, di crearsi alle frontiere un'insieme di Stati cuscinetto, ossia un cordone di Stati amici per contenere eventuali aggressioni occidentali.
Alcuni tra gli storici revisionisti, come lo stesso Fleming, Ragionieri, Fontaine, attribuiscono l'origine della guerra fredda al tentativo, da parte degli Stati capitalistici, di soffocare il primo Stato socialista della storia.
Alcuni eventi della stessa seconda guerra mondiale vengono interpretati in questa chiave; è il caso della teoria dello storico Gar Alperovitz, che spiega la decisione americana di usare la bomba atomica non tanto per abbreviare la guerra contro il Giappone, quanto per impostare con l'Unione Sovietica un rapporto fondato sulla superiorità militare, determinato dal possesso della bomba atomica.
Più recentemente la polemica tra ortodossi e revisionisti, anche se non può dirsi del tutto conclusa, ha certamente perduto molto di significato e di attualità, anche perché, sul piano storiografico, sono presenti ipotesi di ricerca più produttive, libere dalle contrapposizioni ideologiche che erano esse stesse legate al clima della guerra fredda.
L'approccio dunque più interessante sembra essere quello che inquadra il problema della guerra fredda nel sistema internazionale, dove ogni episodio o evento può essere valutato utilizzando categorie interpretative come dissuasione, persuasione, sovversione, maturate sul terreno della sociologia politica. Esse qualificano i rapporti delle due superpotenze, caratterizzati dalla pace nel terrore, ma anche dall'ingerenza da parte di ciascuna delle due negli affari interni dei Paesi alleati per ottenere obbedienza e collaborazione.
La dissuasione deriva dalla minaccia atomica, la persuasione nei confronti degli alleati dagli aiuti economici e militari promessi, la sovversione dall'inserimento nei conflitti locali, che dà origine a guerre limitate, condotte nell'intento di arginare un possibile vantaggio della parte avversa, vantaggio identificabile anche nell'instaurazione di un governo amico.

L'era dell'atomo

Il lancio della bomba di Hiroshima inaugurò tristemente la cosiddetta "era atomica".
In un libro suggestivo, Robert Jungk va alla ricerca delle responsabilità dei governanti del 1945 e di quelle imputabili allo stesso progresso scientifico, che sfugge al controllo degli scienziati.

Di fronte alle possibilità di trattare la pace, il governo americano si mostrò cieco, soprattutto perché si sapeva in possesso della bomba atomica. Invece di sbrogliare pazientemente il nodo, trovò più comodo tagliarlo con un colpo o due della nuova splendida arma. Certo, la rinuncia al lancio della bomba avrebbe richiesto da parte dei politici e degli strateghi responsabili un notevole coraggio civile. C'era da temere che una volta finita la guerra, tutto il Manhattan Project, che fino ad allora aveva inghiottito quasi due miliardi di dollari, venisse considerato un insensato spreco di denaro. Invece di fama e riconoscimenti, c'erano da attendersi derisione e rimproveri. Il presidente Truman scrive nelle sue memorie di aver deciso il lancio della bomba pronunciando un «sì». Ma il generale Groves afferma: «In verità, egli non fece altro che non dire no. Ci sarebbero voluti dei nervi ben forti per dire no». Se neppure il presidente degli Stati Uniti osò arrestare quell'ingranaggio, molto meno c'era da attendersi dai quattro scienziati atomici dello scientific panel, i quali mai si erano opposti con decisione ai piani dei loro superiori. Essi si sentivano «prigionieri del gigantesco meccanismo», ed erano inoltre insufficientemente informati sulla reale situazione politica e strategica. Ma se, anche senza saper nulla della disposizione del Giappone ad arrendersi, si fossero opposti al lancio per considerazioni puramente umanitarie, quel gesto avrebbe sicuramente fatto profonda impressione su presidenti, ministri e generali. Ma anche questa volta gli scienziati atomici fecero «soltanto il loro dovere». E la somma di migliaia di singole azioni di estrema coscienziosità, finì col condurre a un atto di incoscienza collettiva di dimensioni spaventose.

R. Jungk, Gli apprendisti stregoni, Einaudi, Torino 1958, pp. 218-219.

Negli anni successivi alla guerra mondiale, in un quadro internazionale carico di tensioni, caratterizzato dalla divisione del mondo in due blocchi contrapposti e dall'avvento della guerra fredda, gli arsenali nucleari si potenziano e si diffonde minaccioso sulla Terra il pericolo della distruzione nucleare. Gli ordigni disponibili sono tali in qualità e in quantità da provocare la scomparsa di ogni forma di vita, e si leva l'allarme per il possibile "suicidio" dell'umanità. Quando si delineò un dibattito fra governo e scienziati, di fronte all'enorme portata della nuova invenzione, qualche scienziato (come Oppenheimer, poi processato per «attività antiamericane») non seppe proporre nulla di meglio che una «saggia internazionalizzazione» della bomba, la quale rappresentava una novità troppo sconvolgente per poter rimanere di proprietà d'un solo Paese.
Negli anni seguenti assistiamo al proliferare delle armi atomiche: nel 1949 ci fu il primo esperimento atomico sovietico, nel 1952 fu approntata la bomba all'idrogeno americana e nel 1953 quella sovietica, nel 1957 la prima bomba H inglese ecc.
Nello stesso tempo, ai filosofi, ai politici e alla comunità scientifica internazionale si pose il problema del ruolo della ricerca, del progresso scientifico e delle responsabilità politiche e morali connesse all'uso e alla proliferazione degli armamenti atomici. Su questi temi ci fu un dibattito molto intenso e vivace, e suscitò notevole interesse l'Appello per la pace lanciato nel 1955 da Albert Einstein, Bertrand Russell e altri scienziati di tutto il mondo.
Vi si legge:

Nella tragica situazione cui l'umanità si trova di fronte, noi riteniamo che gli scienziati debbono riunirsi a congresso per accertare i pericoli determinati dallo sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito del progetto annesso. Tutti coloro che hanno una coscienza politica hanno preso fermamente posizione su qualcuno di questi problemi, ma noi vi chiediamo, se potete, di mettere in disparte tali sentimenti e di considerarvi solo come membri di una specie biologica che ha avuto una storia importante e della quale nessuno di noi può desiderare la scomparsa. Parliamo in questa occasione non come membri di questa o quella nazione, continente e fede, ma come esseri umani, membri della specie umana di cui ora è in dubbio la continuazione dell'esistenza. Il mondo è pieno di conflitti e al di sopra di tutti vi è la lotta titanica tra il comunismo e l'anticomunismo. Cercheremo di non dire nemmeno una parola che possa fare appello ad un gruppo piuttosto che a un altro. Tutti ugualmente sono in pericolo e se si comprenderà questo pericolo vi è la speranza che possa essere collettivamente scongiurato. È fuori di dubbio che in una guerra con bombe all'idrogeno le grandi città sarebbero distrutte. Ma questo è solo uno dei minori disastri cui si andrebbe incontro. Anche se tutta la popolazione di Londra, New York e Mosca venisse sterminata, il mondo potrebbe nel giro di alcuni secoli riprendersi. Ma noi ora sappiamo, specialmente dopo l'esperimento di Bikini, che le bombe nucleari possono gradatamente diffondere la distruzione su un'area molto più ampia di quanto non si supponesse. È stato dichiarato, da fonte molto autorevole, che ora è possibile costruire una bomba 2500 volte più potente di quella che distrusse Hiroshima [...]. Una bomba all'idrogeno che esploda vicino al suolo o sotto acqua invia particelle radioattive negli strati superiori dell'aria. Queste particelle cadono lentamente e raggiungono la superficie della terra sotto forma di una polvere o pioggia mortale [...]. Gli scienziati sono unanimi nel ritenere che una guerra con bomba all'idrogeno potrebbe molto probabilmente porre fine alla specie umana. Si teme che qualora venissero impiegate molte bombe all'idrogeno, vi sarebbe una morte universale, immediata solo per una minoranza, mentre la maggioranza morirebbe lentamente torturata dalle malattie e dalla disintegrazione. [...] Questo è dunque il problema che vi presentiamo: dobbiamo porre fine alla razza umana, oppure l'umanità dovrà rinunciare alla guerra?

A. Einstein, Idee e opinioni, Schwarz Editore, Milano 1957, p. 105.

Altri scienziati, tuttavia, considerando il ruolo della fisica nell'attuale sviluppo del pensiero umano, ne sottolineano la novità e l'implicito contenuto positivo.
Scrive Werner Heisenberg:

L'influenza politica della scienza è diventata molto più forte di quel che fosse prima della seconda guerra mondiale, il che ha gravato lo scienziato, specialmente il fisico atomico, di una responsabilità raddoppiata [...]. Nello stesso tempo lo scienziato può fare del suo meglio per promuovere la cooperazione internazionale nel proprio campo. La grande importanza che molti governi annettono al giorno d'oggi alle ricerche di fisica nucleare ed il fatto che il livello del lavoro scientifico è ancora molto diverso nei diversi paesi favorisce la cooperazione internazionale in quest'attività [...]. Questa scienza moderna, poi, va, nel nostro tempo, penetrando in altre parti del mondo in cui la tradizione culturale è stata interamente diversa dalla civiltà europea. Colà gli effetti di questa nuova attività della scienza naturale e della tecnica devono farsi sentire in modo anche più energico che in Europa, giacché trasformazioni essenziali nelle condizioni di vita che hanno richiesto in Europa due o tre secoli dovranno svolgersi lì in pochissimi decenni [...]. Infine, la scienza moderna penetra in quelle ampie aree del nostro mondo attuale dove nuove dottrine sono venute trionfando solo da pochi decenni come fondamenti per nuove e potenti società. Lì la scienza si trova di fronte sia al contenuto di quelle dottrine che risalgono al pensiero filosofico europeo del sec. XIX (Hegel e Marx) sia al fenomeno d'una fede senza compromessi. Poiché la fisica moderna deve svolgere un ruolo importante in questi Paesi per via delle sue applicazioni pratiche, difficilmente si eviterà che l'angustia di quelle dottrine non venga sentita da coloro che hanno veramente capito la fisica moderna ed il suo significato filosofico. Perciò può a questo punto aver luogo un'azione reciproca fra scienza ed orientamento generale del pensiero. Naturalmente, l'influenza della scienza non dovrebbe essere sopravvalutata; ma potrebbe succedere che l'apertura della scienza moderna possa rendere più facilmente evidente a più numerosi gruppi di gente come le dottrine politiche non sono forse così importanti per la società come si era creduto un tempo. In tal modo l'influenza della scienza moderna può favorire un atteggiamento di tolleranza e mostrarsi di conseguenza veramente preziosa.

W. Heisenberg, Fisica e filosofia, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 221-236.

Il ruolo della scienza è qui assunto in funzione critica, come conoscenza capace di contrastare vittoriosamente le ideologie totalizzanti. Tuttavia, una valutazione delle realizzazioni e delle prospettive aperte all'umanità dagli sviluppi della scienza moderna non può prescindere da una considerazione degli aspetti economici e politici. Ecco quanto sostiene in proposito John D. Bernal:

Soltanto quando sia assicurata al mondo la pace e l'attività di uomini e donne possa così essere dedicata al comune benessere, vale la pena di considerare in ogni suo dettaglio il prospero sviluppo e l'utilizzazione della scienza. La questione dell'impiego della scienza per il miglioramento dell'umanità è anche essa primariamente politica, una questione, cioè, che in ultima istanza deve essere risolta dal popolo nel suo complesso. Al popolo, però, è indispensabile a questo fine quella competenza che soltanto gli scienziati posseggono. È perciò compito dello scienziato, almeno per una parte del suo tempo, di uscire dai limiti della sua specializzazione e adoprarsi con tutti gli altri della sua stessa opinione, occupati in lavori professionali, manuali e domestici, alla costruzione di una società dove la scienza possa essere propriamente usata.

J. D. Bernal, Stona della scienza, vol. II, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 495-496.

Politica di potenza, blocchi e guerra fredda

Alla fine della seconda guerra mondiale la configurazione geopolitica del mondo è in fase di ridefinizione.
Il ruolo di grandi potenze esercitato dalle nazioni europee è in declino. Conseguentemente prende avvio il processo di decolonizzazione.
Da questo rivolgimento generale emergono due superpotenze: Stati Uniti e Unione Sovietica, le nazioni che decideranno i nuovi confini del mondo. In realtà, contrariamente a quanto si afferma comunemente, soltanto gli Stati Uniti escono dalla guerra in condizioni economiche e sociali nettamente migliorate rispetto all'anteguerra così da consentir loro di esercitare un ruolo egemonico, mentre l'URSS, per le perdite umane e i danni subiti nel conflitto, è un Paese stremato, incapace di esercitare un ruolo di potenza. Già nell'ultima fase della guerra, gli Stati Uniti mettono in campo tutto il proprio potenziale economico e militare in favore di una politica espansionistica e si sostituiscono, progressivamente e in forme nuove, alle nazioni europee come potenza imperialista.
In breve, gli Stati Uniti diventano la principale espressione dell'imperialismo moderno, assumendo una funzione di primo piano in numerose alleanze militari, tra cui la NATO (North Atlantic Treaty Organization, "Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico"; è l'organizzazione militare del Patto Atlantico, alleanza difensiva tra i Paesi dell'Europa occidentale [Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo, Italia, Stati Uniti e Canada]. Nel 1955 aderirono al patto anche la Grecia, la Turchia e la Germania federale. Nel trattato si dichiarava che qualsiasi attacco militare contro uno dei Paesi membri avrebbe impegnato tutti gli altri alla difesa e alla collaborazione) e la SEATO (South East Asia Treaty Organization, organizzazione con la stessa funzione difensiva per i territori del Sud-Est asiatico).
Per contrastare la politica americana, l'Unione Sovietica si erge a potenza antimperialista. Il suo antimperialismo, tuttavia, viene presto messo in dubbio dalla politica di dominio attuata nei confronti dei Paesi dell'Est europeo.
Queste opposte strategie politiche hanno determinato il corso degli avvenimenti del dopoguerra e spiegano i contrasti e le contraddizioni presenti nel quadro politico internazionale e tra le potenze vincitrici all'indomani della guerra. Infatti, se da un lato si assiste alla costituzione di un sistema di collaborazione e dialogo tra le maggiori potenze, a partire dalle conferenze per la pace e dalla creazione dell'ONU, volti a dare pace e stabilità al mondo intero, dall'altro si fanno a mano a mano più evidenti i motivi di tensione sia in Europa, principalmente con la "questione tedesca", sia in altre parti del mondo, che presto sfociano nella guerra fredda.
Di fatto alle origini della guerra fredda vi sono due opposte esigenze. Per la Russia, indebolita dai guasti della guerra e più attenta alla propria sicurezza che all'espansione, si imponeva una politica che impedisse il dilatarsi del dominio ideologico e militare degli Stati Uniti. Per questi ultimi e i loro alleati europei, si paventava una Russia ritenuta esclusivamente orientata alla distruzione del capitalismo e all'espansione del comunismo nell'intera area europea.
Concluso il conflitto mondiale, si ponevano insieme con urgenza i problemi della definizione dei trattati di pace, della ricostruzione dei Paesi devastati dalla guerra, dell'operatività dell'ONU. Il nuovo presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, formulò la teoria del "contenimento" che così difese nel suo Messaggio al Congresso (il Parlamento americano) del 12 marzo 1947:

L'ONU mira a rendere possibile e duratura la libertà e l'indipendenza di tutti i suoi membri. Non potremo tuttavia realizzare i nostri obiettivi se non siamo disposti ad aiutare i popoli amanti della libertà a mantenere le loro libere istituzioni e la loro libera integrità nazionale contro i movimenti aggressivi che tentano di imporre ad essi regimi totalitari. Questo non è altro che un franco riconoscimento del fatto che i regimi totalitari, diretti e indiretti, minano le fondamenta della pace internazionale e di conseguenza la sicurezza degli Stati Uniti. I popoli di un certo numero di paesi del mondo si sono visti imporre recentemente dei regimi totalitari contrariamente alla loro volontà. Il Governo degli Stati Uniti ha frequentemente protestato contro la coercizione e l'intimidazione usate, in violazione dell'accordo di Yalta, in Polonia, in Romania, e in Bulgaria: devo anche affermare che fatti simili si sono verificati in un certo numero di altri paesi. Nel momento storico che il mondo oggi attraversa, quasi tutte le nazioni si trovano davanti ad un'alternativa di scelta del loro sistema di vita. E troppo spesso questa scelta non è libera. Uno di questi sistemi di vita si basa sulla volontà della maggioranza ed è caratterizzato da libertà di istituzioni, da governi rappresentativi, da libere elezioni, da garanzie di libertà individuali, da libertà di parola e di religione e da libertà dall'oppressione politica. Il secondo sistema di vita si basa invece sul volere di una minoranza imposto con la forza alla maggioranza. I suoi mezzi sono il terrore e l'oppressione, il controllo della radio e della stampa, la disciplina delle elezioni e la soppressione delle libertà personali. Ritengo che la direttiva degli Stati Uniti debba essere quella di sostenere i popoli liberi i quali resistono ai tentativi di coercizione da parte di minoranze armate e di pressioni esterne. Ritengo che dobbiamo aiutare i popoli liberi a forgiare il proprio destino nella maniera che loro più aggrada. Ritengo che anzitutto il nostro aiuto dovrebbe essere concesso sotto quella forma economica e finanziaria che è essenziale per una stabilità ed uno svolgersi ordinato di vita politica. Il mondo non è statico e lo «status quo» non è una cosa sacra. Ma non possiamo permettere dei cambiamenti dello «status quo» in violazione dello statuto dell'ONU, con metodi come la coercizione o con sotterfugi come l'infiltrazione politica. Nell'aiutare le nazioni libere ed indipendenti a mantenere la loro libertà, gli Stati Uniti non faranno altro che applicare i principi dello statuto dell'ONU.

H. Truman, Messaggio al Congresso del 12 marzo 1947, "Relazioni Internazionali", marzo 1947.

All'enunciazione di tali principi seguì l'intervento economico americano (in gran parte destinato a scopi militari) in Grecia e in Turchia.
Andrej J. Višinskij, il delegato sovietico all'ONU, alcuni mesi dopo, quando fu avviato il Piano Marshall, non mancò di sottolineare come questa politica costituisse la fine della cooperazione internazionale tra le grandi potenze e «un tentativo di dettare la propria volontà ad altri Paesi indipendenti servendosi di mezzi economici» ("Relazioni Internazionali", 27 settembre 1947).
In contrapposizione all'espansionismo americano, l'URSS diede vita allora al COMINFORM, con lo scopo di coordinare le politiche dei partiti comunisti. Conseguenza di questa politica fu il colpo di Stato che pose fine nel 1948 al regime democratico in Cecoslovacchia e la clamorosa scomunica, nello stesso anno, del Partito comunista iugoslavo. Fra il 1948 e il 1952 il controllo di Mosca sui Paesi socialisti si accentuò, parallelamente si intensificò lo sforzo di ricostruzione economica e di potenziamento militare, che consentì all'URSS di disporre fin dal 1949 della bomba atomica e di raggiungere in anticipo gli obiettivi del IV Piano Quinquennale.
Giuseppe Mammarella ha scritto:

La paura di un'ipotetica aggressione capitalista sapientemente sfruttata dalla propaganda, offrì la giustificazione per ogni rinuncia materiale e ogni limitazione di libertà e, invece di indebolire il regime, finì per rafforzarlo. Pertanto la guerra fredda, oltre a eliminare ogni speranza di liberalizzazione, allontanava anche quella prospettiva di disintegrazione del sistema anticipata dalla dottrina del «contenimento». Il conflitto con l'Occidente spingeva l'URSS a fare appello e a sfruttare a fondo tutte le risorse umane e materiali, permettendole di realizzare importanti progressi nei settori economico, tecnologico e militare.

G. Mammarella, Storia d'Europa dal 1945 ad oggi, Laterza, Bari 1980, p. 143.

Si rafforza contemporaneamente il blocco occidentale, cui gli aiuti americani si dirigono sia per ispirazione politico-culturale sia per motivi strettamente economici, visto che gli Stati Uniti sono interessati alla ricostruzione dei Paesi europei anche per sviluppare con essi una corrente di scambi commerciali indispensabili per l'espansione della propria organizzazione industriale.
La convergenza di queste motivazioni postulava un collegamento più diretto tra Europa e Stati Uniti. Lo stesso rilancio dell'idea europeistica, in un'Europa in declino, si realizzò a opera degli occidentali Schuman, De Gasperi, Adenauer, che erano nello stesso tempo europeisti e atlantisti.
Era ormai inevitabile la rottura fra Est e Ovest là dove ancora vigeva una divisione per zone d'occupazione come in Germania, relativamente alla quale non si riusciva a firmare un trattato. La città di Berlino, rimasta isolata, quasi un avamposto occidentale in mezzo al territorio tedesco occupato dai Russi, fu causa della crisi del giugno 1948. L'URSS, nell'intento di costringere gli occidentali ad abbandonare Berlino, bloccò di fatto le comunicazioni con la città per via di terra; ebbe allora inizio il gigantesco ponte aereo americano per rifornire Berlino e prese sempre maggiore consistenza il progetto della costituzione di due Germanie, l'una nell'ambito occidentale e l'altra in quello orientale: la Repubblica Federale e la Repubblica Democratica, create poi nel 1949.
Lo studioso Luigi Bonanate, esperto di storia delle relazioni internazionali, propone di usare l'espressione "guerra fredda" come chiave interpretativa del periodo successivo alla seconda guerra mondiale.
Con la costruzione delle armi nucleari la guerra assunse un carattere completamente nuovo, mutando le strategie nei rapporti tra gli Stati. Per anni il timore di una guerra atomica, usata come strumento di dissuasione, tenne gli uomini in una condizione di incertezza, nella convinzione di essere sull'orlo di un conflitto nucleare. In questo periodo, che copre un arco di tempo che giungeva dalla fine della guerra al 1968, Bonanate scorge differenti fasi; di queste però solo la prima che si chiude nel 1956 con la destalinizzazione, ossia con la condanna di Stalin in Unione Sovietica espressa dal XX Congresso del Partito Comunista sovietico, può essere definita guerra fredda in senso proprio:

Un largo consenso caratterizza anche il giudizio sul modo in cui il nuovo sistema internazionale si formò, attraverso la polarizzazione dei diversi Stati sotto l'ala liberatrice ma anche protettrice o degli Stati Uniti o dell'Unione Sovietica, e successivamente al consolidamento di un originale rapporto di «incompatibilità compromissoria» tra i due blocchi: se Stati Uniti e Unione Sovietica erano come dei «fratelli nemici», ciascuno dei due Stati fungeva anche da «fratello maggiore» nei confronti degli alleati. Emerge così un sistema internazionale incomparabile rispetto a tutte le altre formazioni storiche che lo precedettero, non soltanto a causa dell'allargamento della bipolarità, ma piuttosto a causa del perno sul quale il rapporto appena consolidatosi grava: la comparsa delle armi atomiche «costringe» a esser pacifiche anche quelle minoranze che — insoddisfatte dal compromesso tra Unione Sovietica e Stati Uniti — avrebbero in tempi pre-atomici preferito una resa dei conti definitiva. Ben particolare tipo di pace, tuttavia, quello che così va imponendosi, per il quale è persin necessario inventare una formula nuova, la «guerra fredda», che — in quanto periodo storico delimitato, ma anche come modello di situazione tipica che contraddistingue in determinate circostanze i rapporti internazionali — è la chiave interpretativa alla luce della quale si può intraprendere il tentativo di periodizzare significativamente l'età contemporanea. Se è indubbiamente vero, infatti, che la guerra fredda caratterizza fin dal primo dopoguerra i rapporti tra i due blocchi, è anche vero che essa non indica una condizione permanente, ma piuttosto quella iniziale della vita del sistema internazionale contemporaneo. [...] La fase della guerra fredda propriamente intesa (che giunge ad esaurimento nel 1956, con la destalinizzazione e la convergente opposizione statunitense-sovietica all'avventura anglo-francese di Suez, passando attraverso il «disgelo» successivo alla morte di Stalin) è contraddistinta dall'indiscussa accettazione della cosiddetta «dottrina Dulles»*, ovvero della rappresaglia massiccia, la quale, un po' rozzamente, si proponeva di ottenere l'immobilizzazione dell'attivismo ideologico sovietico per mezzo di una minaccia di per sé spropositata, in mancanza di criteri di gradualità, ma alla quale l'Unione Sovietica, molto meno avanzata nel settore atomico e termonucleare, doveva soggiacere, impossibilitata com'era a «vedere il bluff» dullesiano.
 
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prende il nome da Foster Dulles, ministro degli Esteri, il quale minaccia una immediata rappresaglia militare da parte degli Stati Uniti nei confronti dell'Unione Sovietica, inferiore, nei primi anni della guerra fredda, nel settore degli armamenti atomici e termonucleari.

L. Bonanate, Il sistema internazionale, in Guerra e pace, a cura di L. Cortesi, Istituto Universitario Orientale, Napoli 1985, pp. 49-50.

Malgrado le accuse, in parte fondate, di imperialismo economico, il Piano Marshall rivestì un'indiscutibile importanza nella ripresa economica dell'Europa. In uno studio recente lo storico Sergio Romano mette in luce il cambiamento di prospettiva operato dagli Stati Uniti tra la fine della prima guerra mondiale e la fine della seconda, ponendo l'accento sui risultati positivi ottenuti. È interessante notare, comunque, come anche i Paesi dell'Europa orientale fossero potenzialmente interessati agli aiuti economici, e come invece fossero costretti a rifiutare ogni intervento.

Il discorso di Marshall all'Università di Harvard fu la più importante delle decisioni americane dopo la fine della seconda guerra mondiale e manifestò la ferma intenzione degli Stati Uniti di intervenire attivamente nella politica europea con un gesto, anzitutto, di straordinario buon senso economico: gli aiuti per la ricostruzione dell'Europa. Una decisione molto importante, anche perché la posizione assunta dall'America era completamente diversa da quella che gli americani avevano adottato alla fine della prima guerra mondiale. Allora gli americani avevano preteso il rimborso delle somme di denaro prestate ai loro alleati nel corso del conflitto. Eravamo stati alleati, avevamo combattuto insieme contro un nemico comune, ma alla fine della guerra l'America preferì comportarsi da banchiere e chiese che tutto il denaro prestato le fosse restituito. Cominciarono allora negoziati molto lunghi e faticosi che si conclusero con accordi per il pagamento del debito. Questi accordi furono necessari perché il Congresso degli Stati Uniti aveva stabilito per legge che le banche americane, per il futuro, avrebbero concesso prestiti solamente ai paesi che avessero concluso un accordo per il pagamento dei debiti di guerra. Alla fine della seconda guerra mondiale, invece, gli Stati Uniti non soltanto non pretesero restituzioni, ma annunciarono che avrebbero loro stessi dato ingenti somme di denaro, gratuitamente, ai paesi dell'Europa, per la loro ricostruzione. Cominciò subito una frenetica attività diplomatica. I ministri degli Esteri francese e inglese fecero pressione sui sovietici perché anche l'Europa centro-orientale, occupata dall'Armata rossa, aderisse all'offerta americana e tutta insieme l'Europa collaborasse a utilizzare al meglio i fondi predisposti dal governo degli Stati Uniti. Ma l'Unione Sovietica vide nell'offerta il tentativo di interferire nelle vicende politiche dell'Europa e temette che i soldi degli americani non le avrebbero permesso di dominare, come desiderava, i paesi conquistati dell'Europa centro-orientale. Quindi, non soltanto non volle utilizzare i fondi offerti dagli Stati Uniti, ma non volle nemmeno che i paesi da lei occupati li utilizzassero. Vi fu, per la verità, un caso abbastanza interessante: quello della Cecoslovacchia. Il governo di Praga avrebbe volentieri aderito al Piano Marshall, e anzi a un certo punto decise di inviare una delegazione a una conferenza che si teneva a Parigi ed era destinata, per l'appunto, alla ripartizione degli aiuti. Ma il primo ministro cecoslovacco fu convocato a Mosca dove gli fu detto perentoriamente che la Cecoslovacchia non avrebbe partecipato al Piano Marshall.

S. Romano, L'Italia negli anni della Guerra Fredda, Ponte alle Grazie, Milano 2000, pp. 19-20.

Le "democrazie popolari" nell'Europa orientale

Alla fine della seconda guerra mondiale le condizioni economiche dei Paesi orientali erano disastrose. La guerra e l'occupazione nazista avevano provocato distruzioni terribili e altissime perdite di vite umane.
Al momento della Liberazione si formarono governi di coalizione costituiti da partiti di Sinistra e da partiti borghesi antifascisti. La possibilità di effettiva cooperazione tra queste diverse forze politiche tuttavia era minata da due ordini di fatti: il clima della guerra fredda che rendeva più acuti i contrasti fra orientamenti politici liberaldemocratici da un lato e comunisti dall'altro e, soprattutto, il desiderio dell'URSS di avere alle proprie frontiere Stati governati da forze amiche. Nel 1948 i governi di coalizione furono pertanto sostituiti ovunque da partiti comunisti che, eliminate le opposizioni, procedettero alla riforma agraria e alle nazionalizzazioni delle grandi imprese.
Le linee essenziali di questi cambiamenti vengono descritte da Maurice Crouzet:

L'Europa centrale ed orientale, insieme con l'Estremo Oriente, è la parte del mondo che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha subito la rivoluzione più profonda e più completa. Come nella Russia del 1917, i troni sono stati rovesciati, la vecchia aristocrazia è stata dispersa, la proprietà feudale distrutta, i privilegi aboliti, ed è scomparso il vecchio personale politico, messo in disparte, cacciato in esilio o morto. I partiti sono sbocciati o si sono trasformati ed infine sono scomparsi. Le classi dirigenti di questi paesi guardavano un tempo verso Londra, Parigi, Washington o Roma, per riceverne una guida intellettuale o economica, ma, dopo il 1945, l'ispirazione viene da Mosca: «le abitudini e le tradizioni di un millennio sono state rovesciate in un decennio». Nel 1945 sette paesi, a oriente della linea raggiunta dall'esercito sovietico nell'Europa centrale, rimasero nella sua zona d'occupazione e d'influenza: la Cecoslovacchia, la Bulgaria, la Romania, la Polonia, l'Ungheria, la Iugoslavia, l'Albania, per complessivi 909.000 km² di superficie e 70 milioni d'abitanti; ad essi bisogna poi aggiungere la zona orientale della Germania. Questi paesi differivano molto gli uni dagli altri, tanto dal punto di vista della struttura sociale, quanto per la condizione materiale del momento. La Cecoslovacchia era di gran lunga il paese meno toccato materialmente dalla guerra; essendo stata meno esposta ai bombardamenti aerei, essa aveva, anzi, rafforzato il proprio potenziale industriale grazie al trasferimento di industrie tedesche. Invece la Polonia, la Germania orientale, la Romania, l'Ungheria erano state teatro di dure battaglie, di saccheggi e di distruzioni; la Slovacchia, la Iugoslavia e l'Albania erano state completamente devastate dalla guerriglia e dalle rappresaglie e dal duro trattamento da parte degli occupanti. Solo la Bulgaria era stata relativamente risparmiata. Dappertutto, infatti, i Tedeschi si erano abbandonati a violenze e a distruzioni spaventose: 6 milioni di Polacchi, la metà dei quali Ebrei, erano stati assassinati, e in particolare erano stati sistematicamente colpiti gli intellettuali (per esempio, più della metà dei medici); più di 200.000 Cechi erano stati deportati e 28.000 fucilati come ostaggi; a molte centinaia di migliaia ammontavano gli Ungheresi deportati, e mezzo milione di Ebrei magiari erano stati sterminati. [...] Al momento della Liberazione si costituirono dei governi di coalizione, che si chiamarono Fronte popolare, Fronte nazionale democratico, Unione nazionale antifascista, Fronte della Patria, ecc. e raggrupparono tutti gli elementi della popolazione che avevano resistito ai Tedeschi contro le vecchie classi dirigenti compromesse dal collaborazionismo e screditate dalla loro politica. I partiti che entrarono in queste coalizioni avevano diverse basi sociali e diversa l'ideologia, e perseguivano obiettivi remoti assai differenti, ma si erano accordati su di un programma a breve termine, la cui applicazione cominciò subito: epurazione e punizione dei fascisti e dei collaboratori dei Tedeschi, riforme sociali per mezzo di distribuzioni delle terre appartenenti ai Tedeschi e ai loro collaboratori, nonché ai proprietari che avevano abbandonato il territorio nazionale, controllo del potere economico attraverso la nazionalizzazione dell'industria. La situazione interna di questi stati si sviluppò [...] in questa atmosfera internazionale: la lotta trai partiti andò via via aggravandosi, e la minaccia di un ritorno al potere delle vecchie forze contrarie alle riforme provocò un irrigidimento dei partiti comunisti e dell'URSS, desiderosa di non aver più governi ostili sulle sue frontiere. Dal 1945 al 1948 in ciascuno di questi paesi le opposizioni furono gradualmente eliminate, e i governi di coalizione si trasformarono in regimi diretti quasi completamente da comunisti. Quando si mise l'accento sulle riforme sociali radicali ne derivò dapprima una divisione in seno a tutti i partiti democratici tra gli elementi favorevoli alle riforme, che si legarono più strettamente al partito comunista, e quelli che, invece, spaventati dalle riforme, si buttarono nelle braccia degli elementi reazionari: così, tutti i partiti contadini e i partiti democratici subirono scissioni ed eliminarono i capi della loro ala destra ostili all'unità con i comunisti. Ugual sorte ebbero i partiti socialdemocratici: la loro frazione simpatizzante con i partiti occidentali della Seconda Internazionale, non più marxisti, fu eliminata, mentre la maggioranza si fuse con il partito comunista in un «Fronte democratico». I capi dell'ala moderata dovettero ritirarsi a vita privata o andare in esilio.

M. Crouzet, Storia del mondo contemporaneo, Sansoni, Firenze 1959, pp. 254-255.

 

 

 

 

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