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SOCRATE
La vita di Socrate e il problema delle fonti
Socrate nacque ad Atene nel 470/469 a.C. e morì nel 399 a.C. in seguito a
condanna per "empietà" (fu accusato di non credere agli dei della città e di
corrompere i giovani; ma dietro tali accuse si nascondevano risentimenti di
vario genere e manovre politiche). Fu figlio di uno scultore e di una levatrice.
Non fondò una Scuola, come gli altri filosofi, ma tenne il suo insegnamento in
luoghi pubblici (nei ginnasi, nelle pubbliche piazze), come una sorta di
predicatore laico, esercitando un fascino grandissimo non solo sui giovani, ma
anche su uomini di tutte le età, e questo gli procurò avversioni e inimicizie.
Aristofane come prima fonte
Sembra sempre più chiaro che nella vita di Socrate debbano essere distinte due
fasi. Nella prima egli frequentò i fisici, in particolare Archelao, che
professava una dottrina simile a quella di Diogene di Apollonia (conciliando in
maniera eclettica le teorie di Anassimene e Anassagora). Nella seconda fase,
invece, risenti degli influssi della Sofistica e ne fece propri i problemi, pur
polemizzando fermamente contro le soluzioni dei medesimi date dai maggiori
sofisti. Se così è, non risulta strano il fatto che Aristofane, nella celebre
commedia Le nuvole, rappresentata nel 423 e quindi quando Socrate aveva circa 45
anni, abbia raffigurato un maestro assai diverso da quello che ci presentano
Platone e Senofonte, ricordato nell'età della vecchiaia.
Socrate non scrisse nulla, ritenendo che il suo messaggio fosse comunicabile
attraverso la viva parola, attraverso il dialogo e l' "oralità dialettica". I
discepoli hanno fissato per iscritto una serie di dottrine a lui attribuibili,
ma che spesso, tuttavia, sono discordanti tra loro, se non addirittura
contraddittorie. Aristofane mette in caricatura un Socrate che, come abbiamo
visto, non è quello dell'ultima maturità; Platone, nella maggior parte dei suoi
dialoghi, idealizza il maestro e lo fa portavoce anche delle proprie dottrine,
cosicché risulta difficilissimo stabilire che cosa appartenga effettivamente a
Socrate e cosa, invece, costituisca il frutto di ripensamenti e rielaborazioni
del discepolo.
Senofonte, nei suoi scritti socratici, presenta un Socrate in dimensioni
ridotte, con tratti che a volte sconfinano addirittura nel banale (sembra
impossibile che gli Ateniesi possano aver avuto motivo di mandare a morte un
uomo qual è il Socrate descrittoci da Senofonte).
La grande fonte platonica
Aristotele parla occasionalmente di Socrate; tuttavia spesso le sue affermazioni
sono state prese come le più oggettive. Ma Aristotele non gli fu contemporaneo.
Poté documentarsi circa quanto riferisce, ma gli mancò il contatto diretto con
il personaggio – un contatto che, nel caso di Socrate, risulta insostituibile.
Infine, i vari fondatori delle cosiddette "Scuole socratiche minori" ci hanno
lasciato ben poco e questo materiale non getta luce se non su un aspetto
parziale del maestro. Stando così le cose, qualcuno ha sostenuto la tesi
dell'impossibilità di ricostruire la figura "storica" e il pensiero effettivo di
Socrate, e le ricerche socratiche sono cadute per alcuni lustri in seria crisi.
Oggi si va facendo strada il criterio non della scelta tra le varie fonti o
della combinazione eclettica delle medesime, ma quello che si può definire della
"prospettiva del prima e del dopo Socrate". Noi constatiamo che, a partire dal
momento in cui Socrate agisce in Atene, la letteratura in genere e quella
filosofica in particolare registrano una serie di novità di considerevole
portata, che poi resteranno, nell'ambito dello spirito della grecità,
acquisizioni irreversibili e punti di riferimento costanti.
Il criterio storico-ermeneutico
Ma c'è di più: tutte le fonti indicano in modo concorde proprio Socrate come
autore di tali novità, in maniera sia esplicita sia implicita. Dunque, con un
elevato grado di probabilità, noi potremmo far risalire a Socrate quelle
dottrine che le nostre fonti riferiscono a Socrate e che i documenti in nostro
possesso confermano essere novità che la cultura greca recepisce dal momento in
cui Socrate agisce in Atene. Riletta sulla base di questi criteri, la filosofia
socratica risulta aver avuto un'influenza tale sullo svolgimento del pensiero
greco, e in genere sugli sviluppi del pensiero occidentale, da essere
paragonabile a una vera e propria rivoluzione spirituale.
L'uomo è la sua psyché
Dopo un periodo di tempo passato ad ascoltare la parola degli ultimi
naturalisti, ma senza esserne per nulla soddisfatto, Socrate concentrò
definitivamente il suo interesse sulla problematica dell'uomo. I naturalisti,
nel cercare di risolvere il problema del principio e della physis, si sono
contraddetti al punto da sostenere tutto e il contrario di tutto (l'essere è
uno, l'essere è molti; niente si muove, tutto si muove; nulla si genera né si
distrugge, tutto si genera e tutto si distrugge); ciò significa che essi si sono
posti dei problemi insolubili per l'uomo. Socrate dunque si è concentrato
sull'uomo, come i sofisti, ma, a loro differenza, ha saputo giungere al fondo
della questione, tanto da ammettere, malgrado la sua generale affermazione di
non sapere (di cui diremo più avanti), di essere sapiente in questa materia.
La scoperta dell'essenza dell'uomo
I naturalisti hanno cercato di rispondere al problema di quali siano la natura e
la realtà ultima delle cose, Socrate cerca invece di rispondere a questa
domanda: "Che cos'è la natura e la realtà ultima dell'uomo?", "Che cos'è
l'essenza dell'uomo?". La risposta è, finalmente, precisa e inequivoca: l'uomo è
la sua anima, dal momento che è appunto la sua anima a contraddistinguerlo in
maniera specifica da qualunque altra cosa. E per "anima" Socrate intende la
ragione e la sede dell'attività pensante ed eticamente operante. In breve:
l'anima è per Socrate l'io consapevole, ossia la coscienza e la personalità
intellettuale e morale.
— La pittura, Parrasio, non è rappresentazione di quel che si
vede? E infatti, i corpi bassi e alti, all'ombra e alla luce, ruvidi e morbidi,
aspri e lisci, giovani e vecchi, voi li imitate ritraendoli mediante i colori.
— È vero, disse.
— E quando raffigurate modelli di bellezza, siccome non è facile trovare un uomo
perfetto in ogni parte, voi, mettendo insieme i più bei `dettagli presi da
ciascun individuo, fate sì che appaia bello il corpo intero.
— Facciamo proprio così, disse.
— E che? L'atteggiamento dell'anima estremamente seducente, dolce, amabile,
piacevole, attraente, riuscite a riprodurlo o non si può imitare?
— Come si può imitare, o Socrate, ciò che non ha proporzione di parti, né
colore, né alcuna cosa di quelle che ora hai enumerato, e non è in nessun modo
visibile?
— Eppure, riprese Socrate, non può l'uomo guardare qualcuno con siynpatia o
inimicizia?
— Credo di sì, disse.
— E tutto ciò non si può rendere nell'espressione degli occhi?
— Senza dubbio.
— E ti sembra che abbiano lo stesso atteggiamento del volto quelli che
s'interessano al bene e al male degli amici e quelli che non se ne interessano?
— No certo, per Zeus: chi s'interessa ha un'espressione contenta quando gli
amici stanno bene, diventa cupo se stanno male.
— Dunque, pure questo si può ritrarre?
— E come!
— E anche la magnificenza, la liberalità, la grettezza, l'ignobilità, la
temperanza, la prudenza, la tracotanza e la volgarità traspaiono dal volto e
dall'atteggiamento dell'uomo sia fermo che in movimento.
— È vero.
— Dunque si possono imitare?
— E come!
— E pensi che si contempli più volentieri quel che lascia trasparire caratteri
belli, buoni, amabili, o quel che li lascia trasparire brutti, cattivi, odiosi?
— Oh, c'è una bella differenza, Socrate! [Senofonte, Memorabili, III, 10,
1 sgg.]
A seguito di questa sua scoperta, come è stato
giustamente rilevato, Socrate ha dato il via alla tradizione morale e
intellettuale sulla quale l'Europa si è spiritualmente costruita. E uno dei
maggiori storici del pensiero greco ha ulteriormente precisato: «La parola
anima, per noi, in grazia delle correnti spirituali attraverso cui è passata per
la storia, suona sempre con un accento etico e religioso; come le parole
servizio di Dio e cura d'anime (pure usate da Socrate) essa suona cristiana. Ma
questo alto significato, essa lo ha preso per la prima volta nella predicazione
protrettica di Socrate» (W. Jaeger).
La cura dell'anima Se l'essenza
dell'uomo è l'anima, curare se stessi significa allora curare non il proprio
corpo bensì la propria anima, e insegnare agli uomini la cura della propria
anima è il compito supremo dell'educatore; appunto il compito che Socrate
ritenne di aver avuto dal dio, come si legge nell'Apologia:
O miei concittadini di Atene, io vi sono obbligato e vi amo; ma obbedirò piuttosto al Dio che a voi; e finché io abbia respiro, e finché io ne sia capace, non cesserò mai di filosofare e di esortarvi e ammonirvi, chiunque io incontri di voi e sempre, e parlandogli al mio solito modo, così: « O tu che sei il migliore degli uomini, tu che sei Ateniese, cittadino della più grande città e più rinomata per sapienza e potenza, non ti vergogni tu a darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante più puoi, e della fama e degli onori; e invece della intelligenza e della verità e della tua anima, perché ella diventi quanto è possibile ottima, non ti dai affatto né pensiero né cura? ». E se taluno di voi dirà che non è vero, e sosterrà che se ne prende cura, io non lo lascerò andare senz'altro, né me ne andrò io, ma sì lo interrogherò, lo studierò, lo confuterò; e se mi paia che egli non possegga virtù ma solo dica di possederla, io lo svergognerò dimostrandogli che le cose di maggior pregio egli tiene a vile e tiene in pregio le cose vili. E questo io lo farò a chiunque mi càpiti, a giovani e a vecchi, a forestieri e a cittadini; e più ai cittadini; a voi, dico, che mi siete più strettamente congiunti. Ché questo, voi lo sapete bene, è l'ordine del Dioe io sono persuaso che non ci sia per voi maggior bene nella città di questa mia obbedienza al Dio. Né altro in verità io faccio con questo mio andare attorno se non persuadere voi, e giovani e vecchi, che non del corpo dovete aver cura né delle ricchezze né di alcun'altra cosa prima e più che dell'anima, sì che ella diventi ottima e virtuosissima; e che non dalle ricchezze nasce virtù, ma dalla virtù nascono ricchezze e tutte le altre cose che sono beni per gli uomini, così ai cittadini singolarmente come allo Stato [Apologia di Socrate, 29d-30b]
Uno dei ragionamenti fondamentali fatto da Socrate per provare questa tesi è il seguente. Una cosa è lo "strumento" di cui ci si avvale e un'altra è il "soggetto" che si avvale dello strumento. Ora, l'uomo si avvale del proprio corpo come di uno strumento, il che significa che sono cose distinte il soggetto che è l'uomo e lo strumento che è il corpo. Alla domanda, quindi, "che cos'è l'uomo", non si potrà rispondere che è il suo corpo, bensì che è "ciò che si serve del corpo". Ma la «psyché, l'anima [cioè l'intelligenza] è ciò che si serve del corpo», cosicché la conclusione è inevitabile: «L'anima ci ordina di conoscere chi ci ammonisce: "Conosci te stesso"»:
Socrate — Su dunque, con quale mai arte ci possiamo dare cura di
noi stessi?
Alcibiade — Non saprei dire.
Socrate — In questo però si è d'accordo: che non con l'arte con la quale
renderemo migliore una qualunque delle cose nostre, ma con l'arte che renderà
migliori noi stessi?
Alcibiade — È vero.
Socrate — Ora, avremmo conosciuto mai qual è l'arte che rende migliore il
calzare, se non avessimo conosciuto il calzare?
Alcibiade — Impossibile.
Socrate — Né l'arte che fa migliori gli anelli, se noi avessimo ignorato
l'anello.
Alcibiade — È vero.
Socrate — E allora? Qual è l'arte di rendere migliori noi stessi, lo potremo
sapere mai, se noi ignoriamo che cosa siamo noi stessi?
Alcibiade — Impossibile.
Socrate — E dunque, conoscer se stesso è una cosa facile ed era forse un uomo da
nulla quello che nel tempio di Delfi ha consacrato quel motto? o è invece una
cosa difficile e non da tutti?
Alcibiade — A me, o Socrate, spesso è sembrato fosse cosa da tutti, spesso
difficilissima.
Socrate — Ma, o Alcibiade, facile o no, per noi è così: se ci conosceremo, noi
sapremo forse anche qual è la cura che dobbiamo avere di noi stessi; se non ci
conosceremo, non lo sapremo mai.
Alcibiade — Così è.
Socrate — Su dunque, in che modo si potrebbe trovare cos'è questo « se stesso »?
[...]
Socrate — E l'uomo non si serve di tutto il corpo?
Alcibiade — Certo.
Socrate — Ma s'è detto che altro è chi si serve di una cosa, altro la cosa della
quale egli si serve?
Alcibiade – Sì.
Socrate – Altro dunque è l'uomo, altro il suo corpo.
Alcibiade – Parrebbe.
Socrate – Che cos'è dunque l'uomo?
Alcibiade – Non so dire.
Socrate – Questo però puoi dirlo, che egli è ciò che si serve del corpo.
Alcibiade – Si.
Socrate – E che altro è ciò che si serve del corpo, se non l'anima?
Alcibiade – Non è altro [ ... ].
Socrate – L'anima, quindi, ci ordina di conoscere chi ci ammonisce: « Conosci te
stesso » [Alcibiade maggiore, 128d-130e]
E a tal punto di consapevolezza e di riflessione critica Socrate aveva portato questa sua dottrina da giungere addirittura a dedurre tutte le conseguenze che logicamente ne scaturiscono, come di seguito vedremo.
L'etica socratica
La nuova tavola dei valori I Greci chiamavano areté quello che noi oggi chiamiamo virtù, intendendo con questo termine ciò che rende una cosa buona e perfetta in ciò che è; o, meglio ancora: areté indica quell'attività o modo di essere che perfeziona ciascuna cosa facendola essere ciò che deve essere. (I Greci parlavano, quindi, anche di una virtù propria dei vari strumenti, degli animali, ecc.; ad esempio, la "virtù" del cane è quella di essere buon guardiano, quella del cavallo di correre veloce, e così via). La "virtù" dell'uomo non potrà essere, di conseguenza, se non ciò che fa si che l'anima sia quale per sua natura deve essere, ossia buona e perfetta. E tale è, secondo Socrate, la "scienza" o "conoscenza", mentre il "vizio" sarà la privazione di scienza e di conoscenza, vale a dire l'ignoranza".
– In generale, dunque, dissi io, tutti quelli che prima dicevamo
beni non pare che di loro natura si possano chiamare beni di per se stessi, ma
piuttosto ci risulta così: se son diretti dalla ignoranza si rivelano mali
maggiori dei loro contrari, perché più capaci di servire ad una cattiva
direzione; se invece sono governati dal giudizio e dalla scienza, sono beni
maggiori; per se stessi né gli uni né gli altri hanno valore.
Ed egli: Pare che sia come tu dici.
– E che si deduce dunque da queste premesse? che tutto il resto non è né bene né
male e delle due cose che rimangono la scienza è un bene, l'ignoranza un male [Eutidemo,
281 d-e]
Socrate, in tal modo, opera una rivoluzione della tradizionale tavola dei valori. I valori veri non sono quelli legati alle cose esteriori, come la ricchezza, la potenza, la fama, e nemmeno quelli legati al corpo, come la vita, la vigoria, la salute fisica e la bellezza, ma solamente i valori dell'anima che si assommano tutti quanti nella "conoscenza":
Sappiate che, se uno è bello, non gliene importa nulla, ma l'apprezza tanto poco, quanto nessuno crederebbe: né gl'importa se è ricco, o se ha altro pregio di quelli che la gente leva al cielo; ma ritiene che tutte queste cose non valgano nulla, e che noi siamo nulla, ve lo dico io [Convivio, 216 d-e]
– Forse, Socrate, il bene più indiscutibile è la felicità.
– A meno che non la si componga di beni discutibili, Eutidemo.
– E quali dei beni che costituiscono la felicità sarebbe discutibile?
– Nessuno, purché non vi includiamo la bellezza, la forza, la ricchezza, la fama
e altro di simile.
– Eppure bisogna includerli, disse: come si potrebbe essere felici senza?
– Per Zeus, esclamò Socrate, ma allora vi includeremo ciò da cui provengono
tanti disagi agli uomini. Molti per la loro bellezza sono rovinati da quanti
perdono la ragione di fronte a una persona leggiadra: molti, fidando nella loro
forza, mettono mano a opere troppo grandi e incorrono in non piccoli mali:
molti, svigoriti dalla ricchezza, periscono nelle insidie cui si espongono;
molti per la fama e la potenza politiea soffrono grandi disgrazie [Senofonte,
Memorabili, IV, 2, 34 sgg.].
Questo, beninteso, significa non
che tutti i valori tradizionali siano da considerare disvalori, bensì,
semplicemente, che "per se stessi non hanno valore". Diventano valori solo se
sono usati come la "conoscenza" esige, ossia in funzione dell'anima e della sua
areté; per se stessi, né gli uni né gli altri hanno valore.
I paradossi dell'etica socratica La tesi socratica
sopra illustrata implicava due conseguenze che sono state subito considerate
come dei "paradossi", ma che sono assai importanti e vanno perciò opportunamente
chiarificate.
- La virtù (ciascuna e tutte le virtù: sapienza, giustizia,
fortezza, temperanza, ecc.) è scienza (conoscenza) e il vizio (ciascuno e tutti
i vizi) ignoranza.
- Nessuno pecca volontariamente e chi fa il male lo fa per
ignoranza del bene.
Queste due proposizioni riassumono quello che è stato denominato
"intellettualismo socratico", in quanto riducono il bene morale a un fatto di
conoscenza, dato che non è ritenuto possibile conoscere il bene e non farlo.
L'intellettualismo socratico ha influenzato tutto il pensiero dei Greci, al
punto di diventare quasi un minimo comune denominatore di qualunque sistema
nell'età classica come in quella ellenistica. Pur nel loro eccesso, le due
proposizioni sopra enunciate contengono alcune istanze molto importanti.
In primo luogo, è da rilevare la potente carica sintetica della prima
proposizione. Infatti l'opinione comune dei Greci prima di Socrate (compresa
quella dei sofisti, che pure pretendevano di essere "maestri di virtù")
considerava le diverse virtù come una pluralità (una cosa è la "giustizia",
un'altra è la "santità", un'altra ancora è la "saggezza", e cosi via), della
quale non si sapeva cogliere il nesso essenziale, ossia quel qualcosa che fa
essere le diverse virtù una unità (quel qualcosa che le fa essere tutte e
ciascuna, appunto, "virtù"). Per di più tutti avevano accolto le diverse virtù
come qualcosa di fondato sulle abitudini, sul costume e sulle convenzioni
accolte dalla società. Socrate, invece, tenta di sottoporre al dominio della
ragione la vita umana e i suoi valori (cosi come i naturalisti avevano cercato
di sottoporre al dominio della ragione il cosmo e le sue manifestazioni). E
poiché, per lui, la natura stessa dell'uomo è la sua anima, ossia la ragione, e
le virtù sono ciò che perfeziona e attua pienamente la natura dell'uomo, ossia
la ragione, è evidente che le virtù risultano essere una forma di scienza e di
conoscenza, perché sono appunto la scienza e la conoscenza a perfezionare
l'anima e la ragione.
Più complesse sono le motivazioni che stanno alla base del
secondo paradosso. Secondo Socrate l'uomo, per sua natura, ricerca sempre il
proprio bene e, quando fa il male, in realtà non lo fa in quanto male, ma perché
si aspetta di ricavarne un bene. Dire che il male è "involontario" significa che
l'uomo si inganna nell'aspettarsi un bene da esso, e che, in realtà, fa un
errore di calcolo: in ultima analisi sbaglia, cioè è vittima di "ignoranza".
[Socrate] non poneva confini fra sapienza [= scienza ] e saggezza, ma riteneva sapiente e saggio chi, conoscendo le cose belle e buone, sapesse usarne, conoscendo le brutte, sapesse guardarsene. Interrogato se reputasse sapienti e moralmente deboli quelli che, pur sapendo quel che devono fare, facevano l'opposto, rispose: « No, non più che insipienti e moralmente deboli. Io credo che tutti gli uomini scelgono con ogni mezzo possibile quel che più giova ai loro interessi e questo compiono. E penso che quelli che seguono una strada sbagliata non sono né sapienti [ = in possesso di conoscenza] né saggi ». Diceva che la giustizia e ogni altra virtù era sapienza. Ogni cosa giusta e ogni altra forma di attività fondata sulla virtù erano, a suo parere, belle e buone: chi conosce il bello e il buono niente può preferirgli; invece, chi non lo conosce, non può farlo, e se lo tenta, sbaglia: dunque, chi sa, compie cose belle e buone, chi non sa, non può compierle, ma se vi mette mano, sbaglia. E poiché le cose giuste e tutte le altre, belle e buone, si realizzano mediante la virtù, è chiaro che la giustizia e ogni virtù sono scienza [Senofonte, Memorabili, III, 9, 4 sgg.]
Socrate reputava che le virtù fossero ragionamenti, infatti sosteneva che fossero tutte scienze [Aristotele, Etica Nicomachea, Z 13, 1144 b 28 sgg.]
È strano [...], pensava Socrate, che dove vi è scienza regni qualcosa di diverso e soggioghi l'uomo come uno schiavo. Socrate infatti combatteva del tutto quest'idea, come se, secondo lui, non esistesse la mancanza di padronanza di sé; egli pensava infatti che nessuno possa agire consciamente contro ciò che è meglio, bensì possa farlo soltanto per ignoranza [Aristotele, Etica Nicomachea, H 2, 1145 b 23-27]
Ora, Socrate ha perfettamente ragione quando dice che la conoscenza è condizione
necessaria per fare il bene (perché, se non conosco il bene, non lo posso fare);
ma esagera quando ritiene che sia condizione, oltre che necessaria, anche
sufficiente. Socrate cade, insomma, in un eccesso di razionalismo.
Per fare il bene, infatti, occorre altresì il concorso della "volontà". Ma sulla
"volontà" i filosofi greci non hanno soffermato la loro attenzione, mentre essa
diventerà centrale ed essenziale nell'etica cristiana. Per Socrate, in
conclusione, è impossibile dire "vedo e approvo il meglio, ma nell'agire mi
attengo al peggio", perché chi vede il meglio necessariamente anche lo fa. Di
conseguenza, per Socrate, così come per quasi tutti i filosofi greci, il peccato
si riduce a un "errore di calcolo", a un "errore di ragione", ossia
all-ignoranza" del vero bene.
La scoperta del concetto di libertà
La più significativa manifestazione dell'eccellenza della psyché o ragione umana
si esplica in quello che Socrate ha denominato "autodominio" (enkráteia), ossia
il dominio di sé negli stati di piacere, dolore e fatica, nell'urgere delle
passioni e degli impulsi: «Ogni uomo, giudicando l'autodominio la base della
virtù, dovrebbe procurare di averlo». Si tratta, in sostanza, del dominio della
razionalità sull'animalità, ovvero significa rendere l'anima signora del corpo e
degli istinti legati al corpo.
— In conclusione mi sembra che, secondo te, o Socrate, chi si
lascia vincere dai piaceri del corpo non ha niente a che vedere con nessuna
virtù.
— Certo, Eutídemo, disse Socrate. Che differenza c'è fra l'uomo privo di dominio
di sé e l'animale più selvaggio? Chi non discerne il meglio e cerca di fare
comunque quanto sommamente gli piace, in che differisce dalle bestie più
irragionevoli? [Senofonte, Memorabili, IV, 5, 11 sg.]
Ben si comprende, di conseguenza, come Socrate abbia espressamente identificato in ciò la libertà umana. L'uomo veramente libero è colui che sa dominare i suoi istinti; il vero schiavo è colui che non sa dominarli e ne diventa vittima.
– Dimmi, Eutidemo, gli chiese, ritieni tu che la libertà sia un
possesso nobile e magnifico e per l'uomo, in particolare, e per uno Stato?
– Quant'altro mai, rispose.
– E chi è dominato dai piaceri del corpo, e per questi non riesce a compiere le
azioni migliori, lo credi un uomo libero, costui?
– Niente affatto.
– E non è forse perché ti pare degno d'un libero compiere le azioni migliori,
che ritieni?: degno d'un libero avere chi può impedire di compierle?
– Proprio così, disse.
– Ora, coloro che sono privi del dominio di sé non ti sembrano ignobili?
– Certo, per Zeus, a ragione.
– E ti sembra che coloro che sono privi del dominio di sé siano solo impediti di
compiere le azioni più belle o anche costretti a commettere le più brutte?
– In verità, non mi par che siano meno costretti a queste che impediti in
quelle.
– E che padroni sono, secondo te, coloro che trattengono dalle azioni più belle
e costringono alle più brutte?
– I peggiori, indubbiamente, per Zeus.
– E qual è, secondo te, la peggiore schiavitù?
– A mio parere quella presso i padroni peggiori.
– E coloro che sono privi di dominio di sé non sono schiavi della peggiore
schiavitù?
– Lo credo [Senofonte, Memorabili, IV, 5, 2 sgg.]
Strettamente connesso a questo concetto di autodomauo e di libertà è quello di "autarchia", vale a dire di "autonomia". Dio non ha bisogno di nulla, e il sapiente è colui che più si avvicina a questo stato perché cerca di aver bisogno di pochissimo. Infatti al saggio che vince gli istinti ed elimina ogni cosa superflua basta la ragione per vivere felice.
Mi sembra, Antifonte, che la felicità consista, secondo te, nella mollezza e nel dispendio: io, invece, pensavo che non aver bisogno di niente è divino, di pochissimo è vicinissimo al divino: ora il divino è la perfezione stessa e quel che è più vicino al divino e più vicino alla perfezione [Senofonte, Memorabili, I, 6, 10]
Come è stato giustamente rilevato, ci troviamo qui di fronte a una nuova
concezione dell'eroe. L'eroe era tradizionalmente colui che era capace di
vincere tutti i nemici, i pericoli, le avversità e le fatiche esterne; il nuovo
eroe è invece colui che sa vincere i nemici interiori, che si annidano
all'interno del suo animo.
Un nuovo concetto di felicità La maggior parte dei filosofi greci, a partire da
Socrate, aveva presentato al mondo il proprio messaggio di felicità. In greco
felicità si dice eudaimonia, che alla lettera significa l'aver avuto in sorte un
demone custode buono e favorevole, che garantisce una buona sorte e una vita
prospera e piacevole. I presocratici avevano interiorizzato questo concetto; già
Eraclito aveva scritto che «il carattere morale è il vero demone dell'uomo e che
la felicità è ben diversa dai piaceri», e Democrito aveva detto che «la felicità
non si ha nei beni esteriori e l'anima è la dimora della nostra sorte».
Perfezionamento dell'anima mediante
virtù
Il discorso di Socrate approfondisce e fonda in maniera sistematica questi
concetti, sulla base delle premesse che abbiamo illustrato sopra. La felicità
non può venire dalle cose esteriori né dal corpo, ma solamente dall'anima,
perché questa e solo questa è la sua essenza. E l'anima è felice quando è
ordinata, ossia virtuosa. Come la malattia e
il dolore fisico sono disordine del corpo, cosi la salute dell'anima è l'ordine
dell'anima, e questo ordine spirituale o interiore armonia è la felicità.
Polo — Evidentemente, o Socrate, neppure del Gran Re dirai di
sapere che è felice!
Socrate — E direi semplicemente il vero, perché io non so come egli stia quanto
a interiore formazione e quanto a giustizia.
Polo — Ma come? Tutta la felicità consiste in questo?
Socrate — Secondo me, si, o Polo. Infatti io dico che chi è onesto e buono, uomo
o donna che sia, è felice, e che l'ingiusto e malvagio è infelice [Gorgia,
470e]
Se cosi è, secondo Socrate, l'uomo virtuoso inteso in tal senso «non può patire nulla di male, né in vita né in morte». Non in vita, perché gli altri possono danneggiargli gli averi o il corpo, ma non rovinargli l'armonia interiore e l'ordine dell'anima. Non dopo la morte, perché, se c'è un aldilà, il virtuoso avrà un premio per la sua condotta mentre se non c'è, ha già vissuto bene nell'aldiqua e l'aldilà è come un essere nel nulla. In ogni caso, fu ferma fede di Socrate che la virtù ha già il suo vero premio in se medesima intrinsecamente, cioè essenzialmente, e che vale la pena essere virtuosi, perché la virtù stessa è già un fine. Perciò, secondo Socrate, l'uomo può essere felice in questa vita quali che siano le circostanze in cui gli tocca vivere e a prescindere da quale sia la situazione nell'aldilà:
Una di queste due cose è il morire: o è come un non essere più nulla, e chi è morto non ha più nessun sentimento di nulla; o è proprio, come dicono alcuni, una specie di mutamento e di migrazione dell'anima da questo luogo quaggiù a un altro luogo [Apologia di Socrate, 40c]
L'uomo è il vero artefice
della propria felicità o infelicità.
La rivoluzione della non violenza
Sulle ragioni che meritarono la condanna a Socrate si è discusso moltissimo. Dal
punto di vista giuridico, è chiaro che il reato imputatogli sussisteva. Egli
"non credeva agli dei della città", perché credeva in un Dio superiore, e
"corrompeva i giovani", perché insegnava loro questa dottrina. Tuttavia,
essendosi difeso in tribunale strenuamente, cercando di dimostrare di essere
nella verità, e non essendo riuscito a convincere i giudici, accettò la condanna
e si rifiutò di fuggire dal carcere, malgrado gli amici avessero già organizzato
ogni cosa per la fuga. Le sue motivazioni sono esemplari: la fuga avrebbe
significato violazione del verdetto, e, quindi, violazione della legge.
Le vere armi di cui l'uomo dispone sono la sua ragione e la persuasione. Se,
facendo uso della ragione, l'uomo non riesce nella persuasione ai suoi
obiettivi, deve rassegnarsi, perché la violenza, come tale, è cosa empia.
Platone fa dire a Socrate: «Non si deve disertare, né ritirarsi, né abbandonare
il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro luogo, bisogna
fare quello che la patria e la città comandano, oppure persuaderle in che
consiste la giustizia: mentre far uso di violenza è cosa empia». E Senofonte
scrive: «Preferi, morire, rimanendo fedele alle leggi, anziché vivere
violandole».
Già Solone, nel consegnare un corpus di leggi alla città di Atene, aveva
proclamato ad alta voce: «Non voglio valermi della violenza della tirannide», ma
della giustizia. Ma la posizione che assunse Socrate fu ancora più importante.
Con lui la concezione della rivoluzione della non violenza viene, oltre che
esplicitamente teorizzata, dimostrata addirittura accettando la propria morte, e
in questo modo viene trasformata in una "conquista per il sempre". Ancora Martin
Luther King, il leader nero americano della rivoluzione della non violenza, nel
suo celebre discorso del 1963 («I have a dream») si appellava proprio a questi
principi socratici, oltre che a quelli cristiani.
La teologia socratica
Qual era la concezione di Dio che Socrate insegnava, e che offrì il pretesto ai
nemici per mandarlo a morte, in quanto contraria agli "dei in cui credeva la
città"? Era la concezione, indirettamente preparata dai filosofi naturalisti e
culminata nel pensiero di Anassagora e di Diogene di Apollonia, del
Dio-intelligenza ordinatrice. Socrate, però, affranca tale concezione dai
presupposti propri di questi filosofi (soprattutto di Diogene),
de-fisicizzandola e spostandola su un piano il più possibile scevro dei
presupposti propri della precedente "filosofia della natura". Su questo tema
poco sappiamo da Platone, mentre Senofonte ci informa con ampiezza. Ecco il
ragionamento che leggiamo nei Memorabili e che costituisce la prima prova
razionale dell'esistenza di Dio che ci sia pervenuta e che offrirà la base di
tutte le prove successive.
- Ciò che non è semplice opera del caso, ma risulta costituito per
raggiungere uno scopo e un fine, postula un'intelligenza che l'ha prodotto a
ragion veduta; in particolare se osserviamo l'uomo, notiamo che ciascuno e tutti
i suoi organi sono finalizzati in maniera che non possono essere assolutamente
spiegabili come opera del caso, ma solamente come opera di una intelligenza che
ha espressamente ideato questa finalizzazione.
- Contro questo argomento si potrebbe obiettare che, mentre gli artefici
di quaggiù si vedono accanto alle loro opere, questa Intelligenza non si vede.
Ma — rileva Socrate — l'obiezione non regge, perché nemmeno la nostra anima
(ossia l'intelligenza) si vede, eppure nessuno osa affermare che, dal momento
che l'anima non si vede, non c'è, e che noi facciamo tutto ciò che facciamo a
caso (ovvero senza intelligenza).
- Infine, secondo Socrate, è possibile stabilire, sulla base dei privilegi
che l'uomo ha rispetto a tutti gli altri esseri (come ad esempio la struttura
fisica più perfetta, e soprattutto il possesso dell'anima e dell'intelligenza),
che l'artefice divino si è preso cura dell'uomo in una maniera del tutto
particolare.
L'argomento, come si vede, ruota intorno a questo nucleo centrale: il mondo e
l'uomo sono costituiti in modo tale (ordine, finalità) che solo una causa
adeguata (ordinante, finalizzante e, dunque, intelligente) ne può dare ragione.
E a coloro che respingevano questo ragionamento, Socrate, con la sua ironia,
faceva notare che noi abbiamo una piccola parte di tutti gli elementi che
nell'universo sono presenti in gran massa e che questo nessuno osa negarlo; e,
allora, come potremmo pretendere di esserci portata via, noi uomini, tutta
quanta l'intelligenza che esiste, e che al di fuori di noi uomini non ci possa
essere altra intelligenza? L'incongruenza logica di tale pretesa è evidente.
Il Dio di Socrate, dunque, è intelligenza che conosce ogni cosa senza eccezione,
è attività ordinatrice e Provvidenza. Una Provvidenza, tuttavia, che si occupa
del mondo e degli uomini in generale, e anche dell'uomo virtuoso in particolare
(per la mentalità degli antichi il simile ha comunanza con il simile e quindi
Dio ha strutturale comunanza con il buono), ma non del singolo uomo in quanto
tale (e meno che mai del malvagio). Una Provvidenza che si occupa del singolo in
quanto tale si presenterà solo nel pensiero cristiano.
Il daimónion socratico
Fra i capi di accusa contro Socrate c'era anche l'aver introdotto "nuovi daimónia", ossia nuove entità divine. Socrate, nell'Apologia, dice a questo proposito:
In me si verifica un qualcosa di divino e demoniaco [ ... ]: e questo qualcosa è come una voce che mi si fa sentire dentro fin da quando ero fanciullo, e che, allorché si fa sentire, sempre mi trattiene dal fare quello che io sono sul punto di fare, mentre non mi esorta mai a fare [Apologia di Socrate, 31 c-d]
Segno o voce divina
Il daimónion socratico era, dunque, "una voce divina" che gli vietava
determinate cose: egli lo interpretava come una sorta di privilegio che lo aveva
salvato più volte dai pericoli o da esperienze negative.
In primo luogo, è da rilevare che il daimónion non ha nulla a che vedere con
l'ambito delle verità filosofiche. Infatti, la voce divina interiore non rivela
affatto a Socrate la sapienza umana di cui egli è portatore né alcuna delle
proposizioni generali o particolari della sua etica. Per Socrate i principi
filosofici traggono la loro validità dal logos e non da divina rivelazione. In
secondo luogo, Socrate non collega al daimónion neppure la sua scelta morale di
fondo, che, pure, ritiene essere giunta da un comando divino. Al contrario, il
daimónion non ordina, ma vieta.
Escluso l'ambito della filosofia e della scelta etica di fondo, non resta che
l'ambito degli eventi e delle azioni particolari. Ed è proprio a questo che
tutti i testi a disposizione sul daimónion socratico fanno riferimento.
Si tratta, quindi, di un fatto che riguarda l'individuo Socrate e gli eventi
particolari della sua esistenza: era un "segno" che, come abbiamo detto, lo
distoglieva dal fare cose particolari, da cui avrebbe tratto danno. La cosa
dalla quale più fermamente lo distolse fu la partecipazione attiva alla vita
politica. Insomma, il daimónion è qualcosa che riguarda l'eccezionale
personalità di Socrate ed è da mettere sullo stesso piano di certi momenti di
intensissima concentrazione, assai vicini a rapimenti estatici, in cui Socrate,
come ci dicono le nostre fonti, qualche volta si immergeva. Il daimónion,
pertanto, non è da porre in connessione con la filosofia di Socrate; egli stesso
tenne le due cose ben distinte e separate, e lo stesso deve fare l'interprete.
Il metodo dialettico
Le finalità
Anche il metodo e la dialettica di Socrate risultano legati alla sua scoperta
dell'essenza dell'uomo come psyché, perché tendono in maniera perfettamente
consapevole a spogliare l'anima dall'illusione del sapere e in questo modo a
curarla, al fine di renderla idonea ad accogliere la verità. Pertanto le
finalità del metodo socratico sono fondamentalmente di natura etica ed
educativa, e solo secondariamente e mediatamente di natura logica e
gnoseologica.
Insomma: il dialogare con Socrate portava a un "esame dell'anima", e a un
rendere conto della propria vita, ossia a un "esame morale", come ben rilevavano
i contemporanei.
Nicia – O Lisimaco, mi pare che Socrate tu lo conosca solo
attraverso suo padre, e con lui non ti ci sia trovato mai, se non quand'era
ragazzo, che, accompagnando il padre tra la gente del demo, ti sia stato qualche
volta accanto, o in un tempio o in qualche altra adunanza consimile. Ma, da che
è cresciuto, tu non l'hai più incontrato, a quel che vedo.
Lisimaco – E perché, o Nicia?
Nicia – Perché, a quanto mi sembra, tu non sai che chiunque gli stia vicino e si
metta con lui a ragionare, quale che sia il soggetto preso a trattare,
trascinato nelle spire del discorso, è inevitabilmente costretto ad andare
innanzi, fin che non casca a render conto di sé, e a dire in che modo viva e in
che modo sia vissuto; e, una volta che c'è cascato, Socrate non lo lascia più,
se non ne ha vagliato ben bene ogni parola. Io ho l'abitudine di frequentarlo e
so che in questo non gli si sfugge, come pure so benissimo che non gli sfuggirò
neppure io. Perché, o Lisimaco, io ho piacere a star con lui, e credo non sia
male d'aver qualcuno che ci ricordi che non siam vissuti e non viviamo come si
dovrebbe, ché anzi si è inevitabilmente indotti ad esser più accorti per
l'avvenire, quando a simili prove non ci si sottragga, e, secondo il detto di
Solone, ci si mostri disposti e si ritenga giusto di dover continuare a imparar
sempre fino a che c'è vita, e non si creda che con la vecchiaia ci abbia a
venire necessariamente anche il senno. Per me, in ogni modo, non è cosa nuova e
neppure sgradita l'essere messo al vaglio da Socrate; e lo sapevo già da un
pezzo che, presente Socrate, il discorso si sarebbe aggirato non sui giovinetti,
ma su noi stessi [...] [Carmide, 154 d-e]
E proprio in questo "dover rendere conto della
propria vita", che era il fine specifico del metodo dialettico, Socrate addita
la vera ragione che gli costò la vita: far tacere Socrate con la morte per molti
significava liberarsi dal dover "mettere a nudo la propria anima". Ma il
processo messo in moto da Socrate era ormai irreversibile e la soppressione
fisica della sua persona non poteva in alcuna maniera arrestarlo.
La struttura
Stabilita la finalità del metodo socratico, dobbiamo ora individuarne la
struttura. La dialettica di Socrate coincide con lo stesso dialogare (dia-logos)
di Socrate che consta di due momenti essenziali: la confutazione e la maieutica.
Nel far questo, Socrate si avvaleva della maschera del non sapere e della
temutissima arma dell'ironia. Ciascuno di questi punti va ben compreso.
«So di non sapere»
I sofisti più famosi si ponevano nei confronti dell'uditore nel superbo
atteggiamento di chi sa tutto; al contrario Socrate, che sa di non sapere,
considera l'interlocutore come qualcuno da cui ha tutto da imparare.
Su questo non sapere socratico si è molto equivocato, fino a considerarlo
l'inizio del pensiero scettico. In realtà, esso voleva essere un'affermazione di
rottura:
- nei confronti del sapere dei naturalisti, che si era rivelato vano;
- nei confronti del sapere dei sofisti, che troppo spesso s'era rivelato
mera saccenteria;
- nei confronti del sapere dei politici e dei cultori delle varie arti,
che quasi sempre si rivelava inconsistente e acritico.
Sapere divino e sapere umano
Ma c'è di più. Il significato dell'affermazione del non sapere socratico si
calibra esattamente se lo si mette in relazione con il sapere di Dio oltre che
con quello degli uomini. Abbiamo già visto come per Socrate Dio sia onnisciente,
dal momento che la sua conoscenza si estende dall'universo all'uomo, senza
restrizione di sorta. Ebbene, è proprio paragonandolo alla statura di questo
sapere divino che il sapere umano si mostra in tutta la sua fragilità e
pochezza. In quest'ottica non solo quell'illusorio sapere di cui abbiamo
discorso prima, ma anche la stessa sapienza umana socratica risultano un non
sapere. Del resto, nell'Apologia, è Socrate stesso che, interpretando la
sentenza data dall'oracolo di Delfi secondo cui nessuno era più sapiente di
Socrate, esplicita questo concetto:
Unicamente sapiente è il dio: e questo egli volle significare nel suo oracolo, che poco vale o nulla la sapienza dell'uomo; e, dicendo Socrate sapiente, non volle, io credo, riferirsi propriamente a me Socrate, ma solo usare il mio nome come di un esempio; quasi avesse voluto dire così: « O uomini, quegli tra voi è sapientissimo il quale, come Socrate, abbia riconosciuto che in verità la sua sapienza non ha nessun valore » [Apologia di Socrate, 23 a-b]
E la contrapposizione fra "sapere divino" e "sapere umano" era un'antitesi cara a tutta la sapienza greca, che Socrate torna quindi a ribadire. Infine, è da rilevare il potente effetto ironico di benefico scuotimento che il principio del non sapere provocava nei rapporti con l'uditore da cui scaturiva la scintilla del dialogo.
L'ironia e la maieutica
L'ironia è la caratteristica peculiare della dialettica socratica, non solo dal
punto di vista formale, ma altresì da quello sostanziale. In generale, ironia
significa "dissimulazione". Nel nostro caso specifico, indica il gioco
scherzoso, molteplice e vario delle finzioni e degli stratagemmi messi in atto
da Socrate per costringere l'interlocutore a dar conto di se medesimo.
Un'ironia metodica Insomma:
lo scherzo è sempre in funzione di uno scopo serio e, dunque, è sempre metodico.
Talora, nelle sue simulazioni ironiche, Socrate fingeva addirittura di
accogliere come propri i metodi dell'interlocutore, specie se questi era un uomo
di cultura, e in particolare un filosofo, e giocava a ingrandirli fino al limite
della caricatura, per rovesciarli con la stessa logica che era loro propria fino
a inchiodarli nella contraddizione.
Ma, al di sotto delle varie maschere che via via Socrate assumeva, erano sempre
visibili i tratti della maschera essenziale, quella del non sapere e
dell'ignoranza: si può anzi dire che, in fondo, le policrome maschere
dell'ironia socratica altro non erano che varianti di quella principale, che,
con un multiforme e abilissimo gioco di dissolvenze, veniva alla fine rivelata.
Restano ancora da chiarirei due momenti della confutazione e della maieutica che
rappresentano i momenti costitutivi strutturali della dialettica socratica.
La confutazione (élenchos) costituiva in un certo senso la pars destruens
del metodo, ossia il momento in cui Socrate portava l'interlocutore a
riconoscere la propria ignoranza. Egli costringeva a definire l'argomento
intorno a cui verteva l'indagine; poi scavava in vario modo nella definizione
fornita, esplicitava e sottolineava le manchevolezze e le contraddizioni che
implicava; esortava, quindi, a tentare una nuova definizione, e con il medesimo
procedimento la criticava e la confutava; e così egli procedeva fino al momento
in cui l'interlocutore si riconosceva ignorante. È evidente che sui saccenti e
sui mediocri la discussione provocava irritazione o reazioni ancora peggiori. Ma
nei migliori la confutazione provocava un effetto di purificazione dalle false
certezze, ossia un effetto di purificazione dall'ignoranza, sicché Platone
poteva scrivere a questo riguardo:
Per tutte queste cose [...] noi dobbiamo affermare che la confutazione è la più grande, è la fondamentale purificazione, e chi non ne fu beneficato, si tratti pure del Grande Re, non, c'è da pensarlo altrimenti che come impuro delle più gravi impurità e privo di educazione e pure brutto proprio in quelle cose in relazione alle quali conveniva fosse purificato e bello al massimo grado uno che veramente avesse voluto essere un uomo felice [Sofista, 230e]
O Socrate, avevo udito, prima ancora di incontrarmi con te, che tu non fai altro che dubitare e che fai dubitare anche gli altri: ora, come mi sembra, mi affascini, mi incanti, mi ammalii completamente, così che son diventato pieno di dubbi. E mi sembra veramente, se è lecito celiare, che tu somigli moltissimo, quanto alla figura e quanto al resto, alla piatta torpedine marina; anch'essa, infatti, fa intorpidire chi le si avvicina e la tocca: e mi pare che, ora, anche tu abbia prodotto su di me un effetto simile. Infatti, io ho l'anima e la bocca intorpidite e non so più che cosa risponderti. Eppure più e più volte intorno alla virtù ho tenuto assai numerosi discorsi e di fronte a molte persone e molto bene, come almeno mi sembrava; ora, invece, non so neppure dire che cos'è. E mi sembra che tu abbia bene deliberato di non varcare il mare Ja qui e di non viaggiare: se tu, infatti, facessi cose simili, in altra città, verresti cacciato immediatamente come ciurmadore [Menone, 80 a-b]
E così passiamo al secondo momento del metodo dialettico.
Per Socrate, l'anima può raggiungere la verità solo "se ne è gravida"; egli
infatti, come abbiamo visto, si professava ignorante, e quindi negava
recisamente di essere in grado di comunicare agli altri un sapere o, per lo
meno, un sapere costituito da determinati contenuti. Ma come la donna che è
gravida nel corpo ha bisogno dell'ostetrica per partorire, cosi il discepolo che
ha l'anima gravida della verità ha bisogno di una sorta di spirituale arte
ostetrica, che aiuti questa verità a venire alla luce, e questa è appunto la
"maieutica" socratica.
La fondazione della logica
Per molto tempo si è sostenuto che Socrate, con il suo metodo, abbia scoperto i
principi fondamentali della logica occidentale, ossia il concetto, l'induzione e
la tecnica del ragionamento. Oggi, tuttavia, gli studiosi si mostrano molto più
cauti. Socrate mise in moto quel processo che portò alla scoperta della logica e
contribuì in modo determinante a questa scoperta, ma non vi giunse egli stesso
in modo riflesso e sistematico.
I presupposti della logica
La domanda "che cos'è?", con cui Socrate martellava gli interlocutori, non
implicava già la conoscenza del concetto universale con tutte le conseguenze
logiche che ciò presuppone. Egli infatti con quella sua domanda voleva mettere
in moto tutto il processo ironico-maieutico e non giungere a definizioni
logiche. Socrate ha spianato la via che doveva portare alla scoperta del
concetto e della definizione e, prima ancora, alla scoperta dell'essenza
platonica, e ha esercitato anche un notevole impulso in questa direzione, ma non
ha stabilito quale sia la struttura del concetto e della definizione; in
effetti, gli mancavano ancora molti degli strumenti necessari a questo scopo
che, come abbiamo detto, risultano essere scoperte posteriori (platoniche e
aristoteliche). Lo stesso rilievo vale a proposito dell'induzione, metodo che
Socrate di certo largamente applicò col suo costante portare l'interlocutore dal
caso particolare alla nozione generale, avvalendosi soprattutto di esempi e di
analogie, ma che non individuò a livello teoretico, e che, quindi, non teorizzò
in modo riflesso. Del resto l'espressione "ragionamenti induttivi" non solo non
risulta socratica, ma, propriamente, nemmeno platonica: essa è tipicamente
aristotelica e suppone tutte le acquisizioni degli Analitici, come vedremo più
avanti. Aristotele, peraltro, avrebbe più tardi sentenziato:
Socrate si occupava di questioni etiche e non della natura nella sua totalità, ma nell'ambito di quelle ricercava l'universale, avendo per primo fissato la sua attenzione sulle definizioni. Orbene, Platone accettò questa dottrina socratica, ma credette, a causa di quella convinzione che egli aveva accolta dagli eraclitei [cioè quelle dottrine secondo cui tutte le cose sensibili sono in perenne flusso], che le definizioni si riferissero ad altre realtà e non alle sensibili: infatti egli riteneva impossibile che la definizione universale si riferisse a qualcuno degli oggetti sensibili, e perché soggetti a continuo mutamento: egli allora denominò codeste altre realtà Idee e affermò che i sensibili esistono accanto ad esse [...] [Aristotele, Metafisica, A 6, 987 b 1 sgg.]
Socrate [...] cercava l'essenza delle cose e a buona ragione: infatti egli cercava di seguire il procedimento sillogistico, e il principio dei sillogismi è appunto l'essenza [...]. In effetti due sono le scoperte che a giusta ragione si possono attribuire a Socrate: i ragionamenti induttivi e la definizione universale: scoperte, queste, che costituiscono la base della scienza [Aristotele, Metafisica, M 4, 1078 b 23-30]
A questo modo di ragionare [proprio dei Platonici] diede l'avvio Socrate mediante le definizioni; Socrate, però, non separava le definizioni dalle cose particolari [Aristotele, Metafisica, M 9, 1086 b 2 sgg.]
In conclusione, Socrate fu dotato di un formidabile ingegno logico, ma non si
spinse mai a formulare consapevolmente o a elaborare a livello tecnico quelle
future e importanti scoperte logiche di cui pure si possono trovare i germi
nella sua dialettica.
E così si spiegano i motivi per cui le differenti Scuole socratiche imboccarono
direzioni tanto diverse: alcuni seguaci puntarono esclusivamente sulle finalità
etiche, trascurando le implicane logiche e ontologiche che invece furono
sviluppate da altri, come Platone; altri ancora svilupparono, invece,
quell'aspetto dialettico che sfocia nell'Eristica.
Conclusioni
Il discorso socratico apportava una quantità di acquisizioni e di novità, ma
lasciava una serie di problemi aperti.
- In primo luogo, il suo discorso sull'anima, che si limitava a
determinare l'opera e la funzione dell'anima medesima (l'anima è ciò per cui noi
siamo buoni o cattivi), esigeva una serie di approfondimenti: se essa si serve
del corpo e lo domina, vuol dire che è altro dal corpo e che ontologicamente se
ne distingue. E, allora, che cos'è? Qual è il suo "essere"? Qual è la sua
differenza rispetto al corpo? • Analogo discorso si deve fare a proposito di
Dio. Socrate riesce a defisicizzarlo. Il suo Dio si colloca decisamente al di
sopra dell'orizzonte dei fisici. Ma che cos'è questa Divina Intelligenza? In che
cosa si distingue dagli elementi fisici?
- Inoltre la sconfinata fiducia socratica nel sapere, nel logos in
generale (e non solo nel suo contenuto particolare), riceve una scossa assai
dura soprattutto negli esiti problematici della maieutica. Il logos socratico,
in ultima analisi, non è in grado di far partorire ogni anima, ma solo quelle
gravide. È una confessione piena di molteplici implicane che, però, Socrate non
sa e non può esplicitare: il logos e lo strumento dialogico che su di esso
interamente si fonda non bastano a produrre o, quanto meno, non bastano a far
riconoscere la verità e a far vivere nella verità. Al logos socratico molti
hanno voltato le spalle: perché non erano "gravidi", dice il filosofo. Ma,
allora, chi feconda l'anima, chi la rende gravida? È una domanda che Socrate non
s'è posto e alla quale non avrebbe potuto in ogni caso rispondere: e, a ben
guardare, il cespite di questa difficoltà è quello stesso che ci presenta il
comportamento dell'uomo che "vede e conosce il meglio" eppure "fa il peggio". E
se, posta in questa forma, Socrate ha creduto di aggirare la difficoltà con il
suo intellettualismo, posta nell'altra forma, non ha saputo aggirarla e l'ha
elusa con l'immagine della "gravidanza", bellissima, ma per nulla risolutrice.
- Un'ultima aporia chiarirà ancora meglio la forte tensione interna del
pensiero di Socrate. Il nostro filosofo presentò il suo messaggio come valido in
particolare per gli Ateniesi, e sembrò in qualche modo rinchiuderlo negli
angusti limiti di una polis. Il suo non fu dunque un messaggio per la Grecità
intera, meno che mai per tutta l'umanità. Condizionato, evidentemente, dalla
situazione socio-politica, non sembrò accorgersi che quel messaggio non solo
oltrepassava le mura di Atene, ma andava addirittura al di là dei limiti della
polis greca, in senso cosmopolitico.
- L'aver additato nell'anima l'essenza dell'uomo, nella conoscenza la vera
virtù, nell'autodominio e nella libertà interiore i principi cardine dell'etica
portava alla proclamazione dell'autonomia dell'individuo in quanto tale. Ma solo
i socratici minori trarranno in parte tali deduzioni e solo i filosofi dell'età
ellenistica le porteranno a esplicita formulazione. "Erma bifronte" si potrebbe
chiamare Socrate: da un lato il suo non sapere sembra piegare alla negazione
della scienza, dall'altro sembra essere via d'accesso a un'autentica superiore
scienza; il suo messaggio può essere letto sia come mera esortazione morale sia
come apertura verso le platoniche scoperte della metafisica. Se da un lato la
sua dialettica può apparire perfino sofistica ed eristica, dall'altro si
costituisce come fondamento della logica scientifica; e il suo messaggio, che
pare circoscritto nelle mura della polis ateniese, da un altro punto di vista si
apre, in dimensioni cosmopolite, al mondo intero. In effetti, i socratici minori
coglieranno una faccia dell'Erma e Platone quella opposta, come vedremo nelle
pagine che seguono. Quel che è certo, però, è che del messaggio generale di
Socrate è debitore l'intero Occidente.
PLATONE
A Platone attribuiamo la scoperta del soprasensibile.
Rispetto ai suoi predecessori, infatti, Platone ha innalzato il livello della
speculazione circa il principio (arché) dal piano fisico al piano metafisico.
Egli è persuaso che la ragion d'essere delle cose non possa risiedere nella
dimensione (= dimensionamento, stima operata dalla mens) materiale delle
stesse, ma che debba concepirsi come appartenente a una dimensione d'essere
ulteriore, extracorporea, svincolata dal rapporto con il quantitativo,
necessaria e connotata dalle caratteristiche del principio parmenideo: l'unità,
l'ingenerabilità e l'incorruttibilità.
La scoperta del soprasensibile matura in Platone lungo un percorso
speculativo arduo e faticoso, quello dialettico, a differenza delle "facili"
elaborazioni dei predecessori che si sono lasciati sospingere dall'intuito,
veloce, ma impreciso, che li ha condotti ad attingere a obiettivi non
premeditati. Platone si dissocia dai predecessori, sostenendo di avere adottato
la "seconda navigazione", sospingendo cioè a remi, non a vela, il proprio
pensiero nell'indagine sull'essere.
L'approdo platonico all'intelligibile, la dimensione soprasensibile del puro
pensiero, ha impresso una svolta epocale allo sviluppo del pensiero teoretico,
istitutrice di quella differenza di piani ontologici che da lì in poi, ha sempre
caratterizzato l'indagine degli orizzonti ultimativi della realtà.
La semantica del sentire e dell'intelligere
Alla luce di quanto detto, occorre prestare grande attenzione, in filosofia,
all'uso preciso e tecnico dei termini derivati dai verbi latini intelligere e
sentire, cruciali in questa fase della ricerca. Nel linguaggio
comune, infatti, tali termini vanno soggetti a un uso estremamente equivoco.
Soprattutto l'accezione comune di "sensibile", come di "colui che è
languidamente disposto alla cagionevolezza sentimentale", finisce per impedire
un'adeguata comprensione dell'ottenimento platonico della nuova prospettiva di
pensiero.
"Sensibile", infatti, significa propriamente "ciò che è suscettibile di
sensazione", vale a dire qualsiasi oggetto che cada, in qualche maniera, entro
il dominio delle sensazioni. Soltanto in questo modo ciò che è "intelligibile"
può stare a significare l'oggetto della dimensione propria del pensiero, e non
"qualcosa che sia difficile da comprendersi", come fosse "difficile" o
"cervellotico".
Si osservi, dunque, attentamente la seguente tabella dei significati.
da sent- |
da intell- |
||
sensazione |
atto del sentire, esercizio della facoltà sentitiva |
intellezione |
atto dell'intelligere, esercizio della facoltà intellettiva |
sensuale |
relativo, inerente al senso, proprio del senso |
intellettuale |
relativo, inerente all'intelletto, proprio dell'intelletto |
sensibile |
che può essere sentito, suscettibile di sensazione |
intelligibile |
che può essere intelletto, suscettibile di intellezione |
senso [participio passato] |
ciò che è stato fatto oggetto di sensazione |
intelletto [participio passato] |
ciò che è stato fatto oggetto di intellezione |
sensitivo |
proprio dell'atto della sensazione |
intellettivo |
proprio dell'atto dell'intellezione |
senziente [participio presente] |
ciò che sente |
intelligente [participio presente] |
ciò che “intellige” |
sentenza [non in uso] |
facoltà sensitiva |
intelligenza |
facoltà intellettiva |
1. La questione platonica
La vita e le opere
Platone nacque ad Atene nel 428/427 a.C. Il suo vero nome era Aristocle;
Platone è un soprannome derivatogli, come riferiscono alcuni, dal suo vigore
fisico, oppure, come riferiscono altri, dall'ampiezza del suo stile o dalla
vastità della sua fronte (in greco platos vuol dire appunto "ampiezza",
"larghezza", "estensione"). Il padre vantava fra i suoi antenati il re Codro,
mentre la madre una parentela con Solone. 2 quindi ovvio che Platone fin da
giovane vedesse nella vita politica il proprio ideale: la nascita,
l'intelligenza e le attitudini personali, tutto lo spingeva in quella direzione.
È questo un dato biografico assolutamente essenziale e che inciderà, a fondo,
nella sostanza stessa del suo pensiero.
Aristotele ci riferisce che Platone fu
dapprima discepolo dell'eracliteo Cratilo e poi di Socrate (l'incontro di
Platone con Socrate avvenne probabilmente attorno ai vent'anni). Quel che è
certo è che Platone, come la maggior parte degli altri giovani, dapprima
frequentò Socrate non per fare della filosofia lo scopo della propria vita, ma
per meglio prepararsi attraverso di essa alla vita politica. Gli eventi
indirizzarono poi in altro senso la vita di Platone.
Un primo contatto diretto
con la vita politica Platone lo dovette avere nel 404-403 a.C., quando
l'aristocrazia prese il potere e due suoi congiunti, Carmide e Crizia, ebbero
parti di primo piano nel governo oligarchico: ma si trattò indubbiamente di
un'esperienza amara e deludente, a causa dei metodi faziosi e violenti che
Platone vide mettere in atto proprio da coloro in cui aveva nutrito fiducia.
Il
disgusto per i metodi della politica praticata in Atene raggiunse il culmine nel
399 a.C., quando Socrate fu condannato a morte dal gruppo di democratici che
aveva ripreso il potere. Così Platone si convinse che per il momento era bene
per lui tenersi lontano dalla politica militante. Dopo il 399 a.C. Platone fu a Megara con alcuni altri socratici, ospite di Euclide (probabilmente per evitare
possibili persecuzioni che potevano derivargli dall'aver fatto parte del circolo
socratico), ma non si trattenne a lungo.
Il primo viaggio in Sicilia Nel
388 a.C., quando aveva circa quarant'anni, parti alla volta dell'Italia. Se,
come ci è riferito, Platone fu anche in Egitto e a Cirene, ciò dovette avvenire
anteriormente al 388 a.C.; ma di questi viaggi l'autobiografia contenuta nella
Lettera VII tace. A spingerlo in Italia dovette certamente essere il desiderio
di conoscere le comunità dei pitagorici (conobbe infatti Archita). Durante
questo viaggio, fu invitato in Sicilia, a Siracusa, dal tiranno Dionigi I al
quale sperava di inculcare l'ideale del re-filosofo (che già egli aveva esposto
nel Gorgia, opera che precede il viaggio). A Siracusa Platone venne ben presto
in urto col tiranno e con la corte (proprio sostenendo quei principi espressi
nel Gorgia); strinse invece un forte vincolo di amicizia con Dione, parente del
tiranno, in cui Platone credette di trovare un discepolo capace di diventare
re-filosofo. Dionigi si irritò al punto di farlo vendere come schiavo da un
ambasciatore spartano a Egina (forse, più semplicemente, costretto a sbarcare a
Egina che era in guerra con Atene, Platone fu trattenuto come schiavo), ma,
fortunatamente, fu riscattato da Anniceride di Cirene, che si trovava laggiù.
Al ritorno ad Atene fondò l'Accademia (in un ginnasio sito nel parco dedicato
all'eroe Accademo, da cui il nome Accademia), e il Menone è verosimilmente il
primo proclama della nuova scuola. L'Accademia si affermò ben presto e richiamò
giovani e anche uomini illustri in grande numero.
Secondo e terzo viaggio in Sicilia
Nel 367 a.C. Platone si recò una seconda volta in Sicilia. Morto Dionigi I, gli
era succeduto il figlio Dionigi II, che, a dire di Dione, ben più del padre
avrebbe potuto favorire i disegni di Platone. Ma Dionigi II non si rivelò
diverso: esiliò Dione, accusandolo di tramare contro di lui, e trattenne Platone
quasi come un prigioniero. Solo perché impegnato in una guerra, Dionigi lasciò,
infine, che Platone ritornasse ad Atene.
Nel 361 a.C. Platone si recò una terza volta in Sicilia. Ritornato ad Atene,
infatti, vi trovò Dione che lì si era rifugiato, il quale lo convinse ad
accogliere un nuovo pressante invito di Dionigi (che lo rivoleva a corte al fine
di completare la propria preparazione filosofica), sperando che, in tal modo,
Dionigi avrebbe riammesso anche lui a Siracusa. Ma fu un grave errore credere
nei mutati sentimenti di Dionigi. Platone avrebbe rischiato addirittura la vita,
se non fossero intervenuti Archita e i Tarantini a salvarlo (Dione riuscì, nel
357 a.C., a prendere il potere in Siracusa, ma per non molto; fu infatti ucciso
nel 353 a.C.).
Nel 360 Platone ritornò ad Atene e vi rimase alla direzione dell'Accademia, fino
alla morte, avvenuta nel 347 a.C.
Le opere Gli scritti di Platone
ci sono pervenuti nella loro completezza. L'ordinamento che a essi è stato dato
dal grammatico Trasillo (I secolo d.C.) è basato sul contenuto dei trentasei
scritti stessi che sono stati suddivisi nelle seguenti nove tetralogie:
1.
Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone;
2. Cratilo, Teeteto,
Sofista, Politico;
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro;
4.
Alcibiade I, Alcibiade II, Ipparco, Amanti;
5. Teagete, Carmide, Lachete,
Liside;
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone;
7. Ippia minore,
Ippia maggiore, Ione, Menesseno;
8. Clitofonte, Repubblica, Timeo, Crizia;
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere.
La corretta interpretazione e la valutazione di questi scritti pongono una serie
di complessi problemi, che, nel loro insieme, costituiscono quella che è stata
denominata la questione platonica.
Autenticità e cronologia degli scritti
Il primo problema che sorge di fronte ai trentasei scritti riguarda
l'autenticità: sono tutti opera di Platone oppure ve ne sono anche di
inautentici e se sì quali sono?
Su tale problema la critica dell'Ottocento ha a lungo dibattuto, giungendo anche
a dubitare dell'autenticità di quasi tutti i dialoghi; poi, il problema è venuto
perdendo ogni mordente e, oggi, si tende a ritenere autentici addirittura tutti
i dialoghi.
Il secondo problema riguarda la cronologia di questi scritti. Non si tratta di
un semplice problema di erudizione, giacché il pensiero platonico si è via via
sviluppato, crescendo su se medesimo. A partire dalla fine dell'Ottocento, in
parte grazie al criterio stilometrico (ossia dello studio scientifico delle
caratteristiche stilistiche delle varie opere), si è riusciti a fornire al
problema una risposta almeno parziale.
Si è partiti dalle Leggi, che sono certamente l'ultimo scritto di Platone
e, dopo un'accurata messa a punto delle caratteristiche stilistiche di
quest'opera, si è cercato di stabilire quali altri scritti corrispondano a
queste caratteristiche: si è così potuto concludere, anche tramite altri criteri
collaterali, che verosimilmente gli scritti dell'ultimo periodo sono,
nell'ordine: Teeteto, Parmenide, Sofista, Politico,
Filebo, Timeo, Crizia e Leggi.
La Repubblica appartiene alla fase centrale della produzione platonica,
che è preceduta da Fedone e Simposio, ed è seguita dal Fedro.
Si è potuto accertare che un gruppo di dialoghi rappresenta il periodo di
maturazione e di passaggio dalla fase giovanile alla fase più originale: il
Gorgia appartiene verosimilmente al periodo subito anteriore al primo viaggio in
Italia e il Menone a quello immediatamente seguente. A questo periodo di
transizione risale, probabilmente, anche il Cratilo. Il Protagora
è forse il coronamento della prima attività.
Gli altri dialoghi, soprattutto quelli brevi, sono per la maggior parte scritti
giovanili, come, del resto, è confermato dalla tematica squisitamente socratica
che in essi viene discussa. Alcuni, poi, possono certamente essere stati
ritoccati e parzialmente rifatti in età matura.
In ogni modo, allo stato attuale degli studi, una volta accertato che i
cosiddetti "dialoghi dialettici" (Parmenide, Sofista, Politico,
Filebo) sono opera dell'ultimo Platone, e che i grandi dialoghi
metafisici sono opere della maturità, anche se riguardo ai primi scritti permane
incertezza, è possibile ricostruire il pensiero platonico in modo abbastanza
soddisfacente.
Dapprima, egli trattò una problematica prevalentemente etica (etico-politica),
muovendo esattamente dalla posizione alla quale era pervenuto Socrate. In
seguito, egli si rese conto della necessità di recuperare le istanze della
filosofia della physis. Ma il recupero delle istanze onto-cosmologiche dei
fisici avvenne in modo originalissimo e, anzi, mediante un'autentica rivoluzione
del pensiero che Platone stesso chiamò "seconda navigazione", quella
navigazione, cioè, che lo portò alla scoperta del soprasensibile (dell'essere
soprafisico), come vedremo nel secondo paragrafo di questo capitolo.
Suddivisione delle opere di Platone |
|||||
Scritti giovanili e socratici |
Scritti della maturità |
Scritti della vecchiaia |
|||
Apologia |
Eutidemo |
Menone |
Repubblica |
Teeteto |
Timeo |
Critone |
Ippia minore |
Fedone |
Fedro |
Parmenide |
Crizia |
Ione |
Cratilo |
Simposio |
Sofista |
Leggi |
|
Lachete |
Ippia maggiore |
Politico |
Lettere VII-VIII |
||
Liside |
Menesseno |
Filebo |
|||
Carmide |
Gorgia |
||||
Eutifrone |
Protagora |
Le dottrine non scritte
Soprattutto nel corso degli ultimi decenni, è emerso in primo piano un terzo
problema, quello delle cosiddette dottrine non scritte, che ha reso la
"questione platonica" assai più complessa, ma che per molti aspetti è risultato
d'importanza decisiva.
Oggi, infatti, molti studiosi ritengono che dalla soluzione di questo problema
dipenda la corretta comprensione del pensiero platonico in generale e della
storia stessa del Platonismo dell'antichità.
Le lezioni sulle realtà ultime
Fonti antiche ci riferiscono che Platone, all'interno dell'Accademia, tenne dei
corsi intitolati Intorno al Bene, che non volle mettere per iscritto. In
questi corsi egli trattava delle realtà ultime e supreme, ossia dei principi
primi, e addestrava i discepoli a intendere tali principi con un severo
tirocinio metodico e dialettico. Platone era profondamente convinto che queste
"realtà ultime e supreme" non si potessero comunicare se non mediante opportuna
preparazione e severe verifiche che potevano aver luogo solo nel vivo dialogo e
nella dimensione della oralità dialettica. Intorno a questo punto Platone si è
dimostrato fermissimo e la sua decisione è stata categorica: «Su queste cose non
c'è un mio scritto, né ci sarà mai».
Alcuni dei discepoli che assistettero alle lezioni devono aver messo per
iscritto queste dottrine dal momento che alcune di queste relazioni ci sono
pervenute. Platone disapprovò, anzi condannò espressamente questi scritti,
ritenendoli nocivi e inutili, per le ragioni dette; ma ammise anche che alcuni
di questi discepoli avevano ben compreso le sue lezioni.
In conclusione, per capire Platone dobbiamo fare i conti oltre che con i
dialoghi scritti anche con queste "dottrine non scritte" tramandateci dalla
tradizione indiretta, che riguardano proprio la chiave di volta dell'intero
sistema. Oggi molti sono convinti che alcuni dialoghi e soprattutto certe parti
di essi, ritenute in passato enigmatiche o problematiche, ricevano nuova luce
proprio se messe in connessione con le "dottrine non scritte".
Socrate nei dialoghi platonici
Platone non volle scrivere sui principi ultimi, ma anche intorno a quelle
cose sulle quali ritenne di poter scrivere rifiutò di essere "sistematico" e
cercò di riprodurre lo spirito del dialogare socratico, imitandone le
peculiarità, ossia riproducendone quel reinterrogare senza posa, con tutte le
impennate del dubbio, con gli improvvisi squarci che maieuticamente spingono
alla verità senza rivelarla ma sollecitando l'anima dell'ascoltatore a trovarla,
con le drammatiche rotture che preparano a ulteriori ricerche.
Espresse diffidenza per la scrittura sistematica, ritenendola più nociva che
utile, come ebbe a dire nel dialogo Fedro, presentando il mito di Theut,
nel quale il re d'Egitto, Tamus esprime un giudizio negativo nei confronti della
scoperta fatta dal dio delle lettere dell'alfabeto e della scirttura:
Furono molte le
osservazioni che Tamus si dice abbia fatto a Theuth su ciascuna arte, sotto
ambedue i riguardi, sì che sarebbe necessario un lungo discorso per esporle. Ma
quando si fu alle lettere dell'alfabeto, « Questa conoscenza, Maestà —disse
Theuth — renderà gli Egizi più sapienti e più atti a ricordare. Poiché si è
trovata la medicina della memoria e del sapere ». E quegli rispose: « 0
ingegnosissimo Theuth, altri ha la capacità di produrre le arti, altri di
discernere quale danno od utilità spetti in sorte a coloro che se ne serviranno.
E ora tu, padre delle lettere dell'alfabeto, dici per affetto il contrario di
ciò che esse valgono. Poiché questa scoperta farà si che nell'anima dei discenti
trovi luogo il dimenticare per l'indebolirsi della memoria, in quanto che essi
fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori per mezzo di segni estranei,
non dal di dentro di se medesimi. Perciò hai trovato la medicina non della
memoria, bensì del richiamare alla memoria. E agli studiosi appresti opinione,
non già verità; poiché trovandosi, in virtù tua, nella possibilità di essere
uditori di molte cose senza impararle, acquistano la persuasione di avere
numerose conoscenze, quando invece, secondo che suole accadere, sono ignoranti e
di poco piacevole compagnia, diventati, come sono, portatori di opinioni invece
che sapienti [...]
Crederesti che essi [i discorsi] parlino esprimendo un pensiero, ma se fai loro
qualche domanda mosso dal desiderio di capire, annunziano soltanto una cosa, la
stessa sempre. Una volta, poi, che sia scritto, il discorso rotola per ogni
luogo, rimanendo in tutto il medesimo fra coloro che se ne intendono, come
parimenti fra coloro a cui è estraneo, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E
se gli si fa torto e viene non giustamente biasimato, ha sempre bisogno
dell'aiuto del padre; poiché egli non può difendersi e aiutarsi da sé [Fedro,
274 e - 275 e]
Un nuovo genere letterario Nacque
così il dialogo socratico, che divenne addirittura un vero e proprio genere
letterario, adottato da numerosi discepoli di Socrate e poi anche da filosofi
successivi. Di questo genere Platone fu probabilmente l'inventore e senza
dubbio l'unico autentico rappresentante, giacché in lui soltanto è riconoscibile
la vera natura del filosofare socratico, che negli altri scrittori decade in un
trito manierismo.
Dunque, lo scritto filosofico per Platone sarà dialogo, e Socrate sarà per lo
più il protagonista (costituendo la principale maschera di Platone), che
discuterà con uno o più interlocutori; accanto a questi, altrettanto importante
sarà il ruolo del lettore, che verrà chiamato in causa egli pure come
interlocutore assolutamente insostituibile, perché proprio al lettore sarà
spesso lasciato il compito di trarre maieuticamente la soluzione di molti dei
problemi discussi. Dunque, il Socrate dei dialoghi è in realtà Platone, e il
Platone scritto, per le ragioni sopra spiegate, va letto tenendo presente il
Platone non scritto. È in ogni caso errato leggere i dialoghi come fonte del
tutto autonoma del pensiero platonico ripudiando così la tradizione indiretta.
Il significato del mito in Platone
Abbiamo visto che la filosofia è nata come affrancamento del logos dal mito e
dalla fantasia. I sofisti fecero un uso funzionale (qualcuno ha detto
illuministico, ossia razionalistico) del mito; ma Socrate ne condannò anche
quest'uso, esigendo il rigoroso procedimento dialettico. Platone, dapprima,
condivise questa posizione socratica, ma già a partire dal Gorgia rivalutò
l'espediente mitologico, che successivamente utilizzò in modo costante e al
quale attribuì una grande importanza. Come si spiega questo fatto? Come mai la
filosofia torna a sussumere, cioè a ricondurre nel proprio ambito, il mito? È
forse, questa, un'involuzione, una parziale abdicazione della filosofia alle
proprie prerogative, una rinuncia alla coerenza, o, in ogni caso, un sintomo di
sfiducia in sé? In breve, che senso ha il mito in Platone?
A questo problema è stato risposto in modi diversissimi e le sue soluzioni più
estreme sono giunte, nell'Ottocento, da Hegel e, successivamente, dalla Scuola
di Heidegger. Hegel (e quanti lo seguirono) vide nel mito platonico un impaccio
al pensiero, un'immaturità del logos che non ha ancora acquistato la sua piena
libertà. Per contro, la Scuola di Heidegger ha additato nel mito la più
autentica espressione del pensiero platonico. Infatti il logos coglie l'essere,
ma non ha vita e il mito viene in soccorso proprio per spiegare la vita, non
coglibile con il logos.
Platone rivaluta il mito allorché comincia a rivalutare alcune tesi di fondo
dell'Orfismo e della sua tendenza mistica e la componente religiosa. In lui il
mito è espressione di fede e di credenza più che di fantasia. In effetti, in
molti dialoghi, dal Gorgia in poi, la filosofia di Platone, per quanto
concerne certi temi, diventa una forma di fede ragionata: il mito cerca una
chiarificazione nel logos, e il logos cerca un completamento nel mito. Platone,
insomma, affida alla forza del mito il compito, quando la ragione sia giunta ai
limiti estremi delle sue possibilità, di superare intuitivamente questi limiti,
elevando lo spirito a una visione, o almeno a una tensione, che si può dire
metarazionale.
Il mito: una forma di fede ragionata
Inoltre è da notare questo in modo particolare: il mito di cui Platone fa uso è
essenzialmente diverso dal mito prefilosofico che non conosceva ancora il logos.
Esso fa da stimolo al logos e lo feconda, e perciò è un mito che, mentre viene
creato, viene, insieme, anche demitizzato, e viene dal logos stesso spogliato
dei suoi elementi fantastici, per fargli mantenere solo i poteri allusivi e
intuitivi. Ma ecco l'esemplificazione più chiara di ciò che abbiamo affermato,
in un passo del Fedone, che fa seguito immediatamente alla narrazione di uno
dei più grandiosi miti con cui Platone ha cercato di raffigurare le sorti delle
anime nell'aldilà:
Certamente, sostenere che le cose siano veramente così come io le ho esposte, non si conviene a un uomo che abbia buon senso; ma sostenere che o questo o qualcosa di simile a questo debba accadere delle nostre anime e delle loro dimore, dal momento che è risultato che l'anima è immortale: ebbene, questo mi pare che si convenga e che metta conto di arrischiarsi a crederlo, perché il rischio è bello! E bisogna che, con queste credenze, noi facciamo l'incantesimo a noi medesimi: éd è per questo che io da un pezzo protraggo il mio mito [Fedone, 114 d]
Dunque, se si vuol capire Platone, occorre lasciare al mito il suo ruolo e la sua valenza; sono in errore sia chi lo vuole cancellare, a beneficio del puro logos, sia chi lo vuole preporre e sovraordinare a esso, quasi fosse un suo superamento (mitologia).
2. La teoria delle idee
La scoperta della metafisica
Il significato metafisico della
"seconda navigazione" Esiste un punto fondamentale della filosofia
platonica dalla cui comprensione dipendono per intero la nuova impostazione di
tutti i problemi della filosofia e il nuovo clima spirituale che fa da sfondo a
tali problemi e alle loro soluzioni. Questo punto consiste nella scoperta
dell'esistenza di una realtà soprasensibile, ossia di una dimensione soprafisica
dell'essere (di un genere di essere non fisico), della quale la precedente
filosofia della physis non aveva avuto alcun sentore. Tutti i
naturalisti, infatti, avevano cercato di spiegare i fenomeni ricorrendo a cause
di carattere fisico e meccanico (acqua, aria, terra, fuoco, caldo, freddo,
condensazione, rarefazione, ecc.).
Dice Platone che Anassagora stesso, che pure aveva ben visto la necessità di
introdurre una Intelligenza universale per giungere a spiegare le cose, non
seppe sfruttare questa sua intuizione e continuò a dare un peso preponderante
alle cause fisiche tradizionali. Ma – e questo il fondo del problema – le cause
di carattere fisico e meccanico sono le "vere cause", o sono, invece, semplici
"con-cause", ossia semplici cause al servizio di quelle più alte? Causa di ciò
che è fisico e meccanico non sarà, forse, qualcosa che non è fisico e non è
meccanico?
Per rispondere a questi problemi, Platone intraprese quella che egli stesso
chiama con un'immagine emblematica la "seconda navigazione". Nell'antico
linguaggio marinaresco, seconda navigazione era detta quella che si
intraprendeva quando, caduto il vento e non funzionando più le vele, si poneva
mano ai remi. Nell'immagine platonica, la prima navigazione simboleggia il
percorso della filosofia fatto seguendo il vento della filosofia naturalistica;
la "seconda navigazione" rappresenta, invece, l'apporto personale di Platone, la
navigazione fatta con le proprie forze e perciò assai più faticosa. La prima
navigazione si era rivelata sostanzialmente fuori rotta, perché i filosofi
presocratici non erano riusciti a spiegare il sensibile con il sensibile
medesimo; la seconda navigazione trova invece la nuova rotta che porta alla
scoperta del soprasensibile, ossia dell'essere intellegibile. Nella prima
navigazione si rimane ancora legati ai sensi e al sensibile, nella seconda
navigazione Platone tenta, per contro, un radicale affrancamento dai sensi e dal
sensibile e un massiccio spostamento sul piano del ragionamento puro e di ciò
che si può cogliere con puro intelletto e mente pura.
Due esempi chiarificatori addotti da
Platone Il senso di questa "seconda navigazione" risulta particolarmente
chiaro dagli esempi che lo stesso Platone adduce.
Vogliamo spiegare perché una cosa è bella? Ebbene, per spiegare tale "perché" il
naturalista si richiamerebbe a elementi puramente fisici, quali sono il colore,
la figura e altri di questo genere. Ma – dice Platone – queste non sono "vere
cause", bensì mezzi o concause. Occorre, dunque, postulare l'esistenza di
un'ulteriore causa, che dovrà essere, per essere vera causa, qualcosa non di
sensibile ma di intellegibile. Essa è l'Idea, o "forma" pura del Bello in sé,
che, con la sua partecipazione, presenza o comunanza o, comunque, con un certo
rapporto determinante, fa sì che le cose empiriche siano belle, cioè si
realizzino, mediante forma, colore e proporzione, come è bene che siano e come
devono essere appunto per essere belle. Ed ecco un secondo esempio non meno
eloquente.
Socrate si trova in carcere e attende di essere condannato. Perché è in carcere?
La spiegazione naturalistico-meccanicistica non è in grado di dire se non
questo: perché Socrate ha un corpo che è fatto di ossa e di nervi, muscoli e
giunture, che sono capaci, con l'allentarsi e con il tendersi, di muovere e
piegare le membra: per questo motivo Socrate avrebbe mosso e piegato le gambe,
sarebbe andato in carcere e tuttora vi si troverebbe. Orbene, ognuno vede
l'inadeguatezza di tale spiegazione: essa non ridà affatto il vero "perché", la
ragione per cui Socrate è in carcere, ma spiega solo il mezzo o lo strumento di
cui Socrate si è avvalso per andare e restare in carcere col suo corpo. La vera
causa per cui Socrate è andato e si trova in carcere non è di ordine meccanico e
materiale, bensì di ordine superiore, è un valore spirituale e morale: egli ha
deciso di accettare il verdetto dei giudici e di sottostare alla legge di Atene,
giudicando che questo fosse il bene e il conveniente. E in conseguenza di questa
scelta di carattere morale e spirituale egli, poi, ha mosso i muscoli e le gambe
e si è recato ed è rimasto in carcere.
I due piani dell'essere La
"seconda navigazione" conduce, dunque, a riconoscere l'esistenza di due piani
dell'essere: uno fenomenico e visibile, l'altro invisibile, metafenomenico,
coglibile con la sola mente, e dunque puramente intellegibile.
— E non è forse vero
che, mentre queste cose mutevoli tu le puoi vedere o toccare o percepire con gli
altri sensi corporei, quelle, invece, che permangono sempre identiche non c'è
altro mezzo con cui si possano cogliere, se non col puro raziocinio e con la
mente, perché queste cose sono invisibili e non si possono cogliere con la
vista?
— Verissimo, rispose, quello che dici.
— Poniamo dunque, se vuoi, egli soggiunse, due specie di esseri: una visibile e
l'altra invisibile.
— Poniamole, rispose.
— E che l'invisibile permanga sempre nella medesima condizione e che il visibile
non permanga mai nella medesima condizione.
— Poniamo anche questo, disse. [Fedone, 79a]
Possiamo senz'altro affermare che la platonica "seconda navigazione" costituisce
una conquista che segna, a un tempo, la fondazione e la tappa più importante
della storia della metafisica. Infatti, tutto il pensiero occidentale sarà
condizionato, in modo decisivo, da questa "distinzione", nella misura in cui
l'accetterà o meno: infatti, in quest'ultimo caso, dovrà giustificare
polemicamente la non accettazione, e da tale polemica rimarrà pure sempre
dialetticamente condizionato.
È solo dopo la "seconda navigazione" platonica che si può parlare di "materiale"
e "immateriale", "sensibile" e "soprasensibile", "empirico" e "metaempirico",
"fisico" e "soprafisico". Ed è alla luce di queste categorie che i fisici
anteriori risultano essere materialisti e la natura e il cosmo non costituiscono
più la totalità delle cose che sono, ma solo la totalità delle cose che
appaiono. Il vero essere consiste nella realtà intellegibile.
L'iperuranio, ovvero il mondo delle idee
Queste cause di natura non fisica, queste realtà intellegibili, sono state
denominate da Platone prevalentemente con i termini idea ed éidos, che stanno a
indicare la "forma". Le Idee di cui parlava Platone non sono, quindi, dei
semplici concetti, ossia delle rappresentazioni puramente mentali (solo molto
più tardi il termine assumerà questo significato), ma sono "entità", "sostanze".
Le Idee, insomma, non rappresentano semplici pensieri, ma sono ciò che il
pensiero pensa, quando si sia liberato dal sensibile, sono "il vero essere",
"l'essere per eccellenza". In breve: le Idee platoniche sono le essenze delle
cose, ossia ciò che fa si che ciascuna cosa sia ciò che è.
Che cosa sono le idee Platone ha
anche usato il termine "paradigma", per indicare che le Idee costituiscono come
il permanente "modello" di ciascuna cosa (come deve essere ciascuna cosa).
I caratteri basilari delle Idee, stando ai testi, si possono riassumere nei sei
seguenti, che costituiscono punti di riferimento imprescindibili per capire
Platone:
- l'intellegibilità (l'Idea è per eccellenza oggetto dell'intelletto e
coglibile solo dall'intelletto);
- l'incorporeità (l'Idea appartiene a una dimensione totalmente diversa
dal mondo corporeo sensibile);
- l'essere in senso pieno (le Idee sono l'essere che veramente è);
- l'immutabilità (le Idee sono sottratte a qualsiasi forma di cambiamento,
oltre che al nascere e al perire);
- la perseità (le Idee sono in sé e per sé, ossia assolutamente
oggettive);
- l'unità (le Idee sono, ciascuna, una unità, unificante la molteplicità
delle cose che di esse partecipano).
Le espressioni più famose con le quali Platone ha indicato le Idee sono
indubbiamente in sé, per sé, e anche in sé e per sé (il bello-in-sé, il
bene-in-sé, ecc.), assai spesso fraintese, e diventate oggetto di aspre
polemiche, già dal momento in cui Platone le ha coniate. Queste espressioni, in
realtà, indicano il carattere di non relatività e quello di stabilità: in una
parola, esprimono l'assolutezza. Affermare che le Idee sono "in sé e per sé"
significa dire che, ad esempio, il Bello o il Vero non sono tali solo
relativamente al singolo soggetto (come voleva ad esempio Protagora), non sono
manipolabili dal capriccio del singolo, ma, al contrario, si impongono al
soggetto in modo assoluto. Affermare che le Idee sono "in sé e per sé" significa
che esse non sono trascinate nel vortice del divenire in cui si ritrovano le
cose sensibili: le cose belle sensibili diventano brutte, ma ciò non implica che
diventi brutta la causa del bello, ossia l'Idea del bello. Insomma: le vere
cause di tutte le cose sensibili, che per loro natura mutano, non possono mutare
esse medesime, altrimenti non sarebbero le "vere cause", non sarebbero le
ragioni ultime e supreme.
Per spiegare la trascendenza metafisica delle Idee occorre richiamare il mito
dell'Iperuranio, usato nel Fedro e diventato celeberrimo (il mito
dell'auriga, che si analizzerà più avanti), anche se non
sempre è stato inteso in modo corretto:
La regione sopraceleste [Iperuranio] nessuno dei poeti che son quaggiù cantò mai, né mai canterà, in maniera degna. La cosa sta così. E bisogna che si abbia, una buona volta, il coraggio di dire il vero, specialmente da chi sta parlando del vero. L'incolore e non delimitata e non visibile essenza [= Idea = essere], che veramente è, che solo dall'intelletto, pilota dell'anima, si può contemplare, e intorno alla quale volge la conoscenza vera, – occupa tale luogo. E dunque la ragione dell'essere divino, nutrita da pura intelligenza e conoscenza, e ogni anima cui prema accogliere ciò che le è conforme, vedendo finalmente ciò che è, s'allieta e contemplando la verità se ne nutre e ne gode, fino a che il movimento circolare non l'abbia riportata al punto donde è mossa. Nel suo giro essa (l'anima) vede la giustizia stessa, vede la saggezza, vede la scienza [ = le Idee di giustizia, di saggezza, di scienza], non quella cui è congiunto il divenire, né quella che è altra quando è scienza di un altro di quelli che noi qui chiamiamo esseri [ = empirici e fenomenici], bensì la scienza che è scienza di ciò che veramente è. E dopo che ha parimenti contemplato tutti gli altri esseri reali [ = le altre Idee] e di essi si è saziata, scende di nuovo all'interno del cielo, e torna a casa [ Fedro, 247 c-e ]
Iperuranio significa "luogo sopra il
cielo" o "sopra il cosmo fisico", e quindi è rappresentazione mitica ed è
immagine che, se intesa correttamente, indica un luogo che non è affatto un
luogo. Infatti le Idee sono subito descritte come aventi caratteri tali che non
hanno nulla a che vedere con un luogo fisico: sono senza figura, prive di
colore, invisibili e sono coglibili da noi solo con l'intelligenza. Dunque, l'Iperuranio
è l'immagine dell'a-spaziale mondo dell'intellegibile (del genere dell'essere
soprafisico).
Resta da chiarire il grande problema del rapporto che intercorre fra mondo delle
Idee e mondo sensibile.
L'interpretazione dei rapporti fra il mondo delle Idee e il mondo sensibile fu
fraintesa già da parte di alcuni contemporanei e perfino da alcuni discepoli di
Platone, e addirittura da Aristotele. In effetti, nei suoi scritti Platone
presenta differenti prospettive al riguardo, affermando che tra sensibile e
intellegibile c'è un rapporto di mimesi (mímesis) o imitazione; oppure di
metessi (méthexis) o partecipazione; oppure di koinonía o
comunanza; oppure ancora di parousía o presenza.
Fedone Platone nel
Fedone ha detto esplicitamente che questi termini dovevano essere intesi
come semplici proposte sulle quali egli nello scritto non intendeva affatto
insistere, e alle quali non voleva dare la consistenza di una risposta
ultimativa.
- Il sensibile è mimesi dell'intellegibile perché lo imita, pur senza mai
riuscire a eguagliarlo (nel suo divenire continuo s'avvicina, crescendo, al
modello ideale e poi se ne allontana corrompendosi).
- Il sensibile, nella misura in cui realizza la propria essenza,
«partecipa», cioè «ha parte dell'intellegibile» (è proprio per questo suo aver
parte dell'Idea che è, ed è conoscibile).
- Si può dire che il sensibile abbia una comunanza, cioè una tangenza, con
l'intellegibile, giacché questo è causa e fondamento di quello: ciò che il
sensibile ha di essere e di conoscibilità lo desume dall'intellegibile e, nella
misura in cui ha questo essere e questa intellegibilità, ha comunanza con
l'intellegibile.
- Infine, si può anche dire che l'intellegibile «è presente» nel
sensibile, nella misura in cui la causa è nel causato, il principio è nel
principiato, la condizione è nel condizionato. In tal modo diventa chiaro anche
il celebre termine «paradigma», o «modello», con cui Platone designa il ruolo
delle Idee nei confronti dei sensibili che le «imitano» e ne sono in certo senso
una «copia». Con il termine «paradigma» egli esprime quella che, con linguaggio
moderno, si potrebbe chiamare la «funzione normativa ontologica» dell'Idea, cioè
il come le cose devono essere per essere quelle determinate cose che sono.
L'Idea di santità è «paradigma» perché esprime come le cose o le azioni debbano
essere fatte per venir dette sante; l'Idea di bellezza è «paradigma» perché
esprime come le cose debbano essere formalmente strutturate per essere e venir
dette belle, e tosi via.
In conclusione, con la teoria delle Idee Platone ha inteso dire questo: il
sensibile si spiega solo ricorrendo alla dimensione del soprasensibile, il
relativo con l'assoluto, il mobile con l'immobile, il corruttibile con l'eterno.
La struttura del mondo delle idee
Superamento dell'Eleatismo Il
mondo delle Idee è costituito da una molteplicità, in quanto vi sono Idee di
tutte le cose: Idee di valori estetici, di valori morali, delle varie realtà
corporee, degli enti geometrici e matematici, ecc. Tali Idee sono ingenerate,
incorruttibili, immutabili, come l'essere eleatico.
Il parricidio di Parmenide Ora,
la distinzione dei due piani dell'essere, sensibile e intellegibile, superava
definitivamente l'antitesi fra Eraclito e Parmenide. Il perenne fluire con tutti
i caratteri a esso relativi è proprio dell'essere sensibile; invece
l'immutabilità e tutto ciò che essa implica è propria dell'essere intellegibile.
Ma restavano da risolvere i due grandi problemi che l'Eleatismo aveva sollevato
e che i pluralisti non avevano saputo risolvere: come possano esistere i "molti"
e come possa esistere un "non essere". Sono due problemi strettamente
connessi, perché hanno il medesimo fondamento, come si è visto. Per poter
formulare la propria concezione delle Idee, che implica una strutturale
molteplicità, Platone doveva risolvere ambedue i problemi in maniera netta
operando, nei confronti di Parmenide, quello che lui stesso definì un
parricidio.
Parmenide: l'uno implica i molti
Già nel dialogo che reca emblematicamente il titolo Parmenide, che è
forse il più difficile di tutti i dialoghi, Platone aveva messo in crisi la
concezione dell'unità quale era intesa dagli eleati. L'uno (o l'unità) non può
venire pensato in maniera assoluta, ossia in maniera tale da escludere ogni
molteplicità: l'uno non è senza i molti, così come i molti non sono senza l'uno.
Ma la soluzione della possibilità dell'esistenza della molteplicità è fornita da
Platone nel dialogo Sofista, per bocca di un personaggio al quale egli non dà
volto e che denomina emblematicamente "il Forestiero di Elea". Parmenide ha
ragione quando dice che non esiste il non essere inteso come la negazione
assoluta dell'essere; ma ha torto nel credere che sia questa l'unica forma di
non essere.
Sofista: non-essere come diverso
Esiste il non essere come "diversità" o "alterità", cosa, questa, che gli eleati
non avevano compreso. Ogni Idea, per essere quell'Idea che è, deve essere
diversa da tutte le altre, ossia deve "non essere" tutte le altre.
Dunque non ci si dica che, mentre noi dichiariamo che il non essere è il contrario dell'essere, noi osiamo proclamare ch'esso è. Perché noi, di un certo contrario dell'essere abbiamo detto di non curarci da un pezzo, se sia o non sia, se esso sia razionale o se del tutto sia irrazionale. Quanto a ciò che s'è detto ora, che il non essere è, o ci si deve convincere, dimostrandoci che s'è errato, o, finché a questo non si riesca, bisogna che tutti dicano quello che diciamo noi: che vi è scambievole mescolanza dei generi, e che l'essere ed il diverso, penetrando attraverso tutti, e compenetrandosi l'un con l'altro, fanno sì che il diverso, partecipando dell'essere, è, in virtù di tale partecipazione; è, tuttavia, non quello di cui partecipa, ma diverso, ed essendo però diverso dall'essere, è evidente che non può essere che non essere! Poiché l'essere, poi, partecipa del diverso, sarà diverso dagli altri generi; ed essendo, con ciò, diverso dagli altri generi, non è nessuno di essi in singolo, né la totalità degli altri, lui escluso; così che, a sua volta, l'essere, incontestabilmente, infinite e infinite volte non è, e così anche gli altri, presi singolarmente e in totale, per molti rispetti sono e per molti altri non sono [Sofista, 258 e - 259 b]
E così ogni
Idea ha una data dose di essere, ma infinito non essere, nel senso che, proprio
per essere quella che è, deve non essere tutte le altre, come si è visto.
Infine, Parmenide è superato anche con l'ammissione di una "quiete" e di un
"movimento" ideali nel mondo intellegibile: ciascuna Idea è immobilmente se
medesima; ma è, dinamicamente, un ideale "movimento" verso le altre, in quanto
partecipa di altre, oppure esclude la partecipazione di altre.
Da quanto fin qui si è detto, risulta evidente che Platone poteva concepire il
suo mondo delle Idee come un sistema gerarchicamente organizzato e ordinato, in
cui le Idee inferiori implicano quelle superiori, su su sino all'Idea che sta al
vertice della gerarchia, che è condizione di tutte e non è condizionata da
nessuna (l'incondizionato o l'assoluto).
Repubblica
Questo principio incondizionato di cui Platone parla nella Repubblica è l'Idea
del Bene. E del Bene egli ha detto che non solo è il fondamento che rende le
Idee conoscibili e la mente conoscente, ma addirittura che «produce l'essere e
la sostanza», e che «il Bene non è sostanza o essenza, ma ancora al di sopra
della sostanza, essendo a questa superiore in dignità gerarchica e in potenza».
– Allora questo
[principio] che dà la verità alle cose conosciute e a chi le conosce le
condizioni per conoscerle, dirai che è l'idea del bene, la quale è causa di
conoscenza e di verità in quanto questa è conosciuta per mezzo
dell'intelligenza. E così essendo pur belle e l'una e l'altra, la conoscenza e
la verità, se quest'altra la ritieni ancora più bella, riterrai giustamente: la
scienza poi e la verità [...] ritenerle affini al Bene è giusto, ma ritener che
siano il Bene o l'una o l'altra non è giusto, ché la condizione del Bene è da
porsi anche più in alto.
– Di bellezza miracolosa, disse, tu parli, se essa procaccia scienza e verità ed
è in sé per bellezza sopra di queste [ ... ].
– [ ... ] Considera meglio ancora la sua immagine così.
– In che modo? Il sole, io credo, non dirai che soltanto doni alle cose vedute
la capacità di esser viste, ma anche la generazione e l'accrescimento e il
nutrimento, non essendo però esso generazione.
– E come no?
— E così anche alle cose conosciute riterrai che il Bene non solo procacci il
conoscere, ma anche l'essere e la sostanza da questo ad esse proceda, non
essendo il Bene sostanza [o essenza, ousìa], ma ancora al di là della
sostanza, come superiore in dignità e in potere [Repubblica, 508 e - 509
b]
Su questo principio incondizionato e assoluto, che è al di sopra dell'essere e da cui derivano tutte le Idee, Platone nei dialoghi non ha più scritto nulla e ha invece riservato ciò che aveva da dire alla dimensione della "oralità", ossia alle sue lezioni.
La dottrina dei Principi primi e supremi: Uno (Bene) e Diade indefinita
In passato si è ritenuto che le lezioni orali di Platone costituissero la
"fase finale" del pensiero platonico; per contro, i più recenti e approfonditi
studi hanno dimostrato che esse furono tenute parallelamente alla composizione
dei dialoghi, almeno a partire dall'epoca di composizione del Simposio e
del Fedone e sono centrali nella Repubblica.
Uno-Bene Dalle relazioni dei
discepoli intorno a queste lezioni si può ricavare quanto segue. Il principio
supremo che nella Repubblica è chiamato "Bene", nelle dottrine non scritte era
detto "Uno". La differenza è però perfettamente spiegabile, perché, come subito
vedremo, l'Uno riassume in sé il Bene, in quanto tutto ciò che l'Uno produce è
bene (il bene è l'aspetto funzionale dell'Uno, come ha acutamente rilevato
qualche interprete). All'Uno era contrapposto un secondo principio, ugualmente
originario, ma di rango inferiore, inteso come principio indeterminato e
illimitato, e come principio di molteplicità.
Diade, dualità indefinita Era
denominato Diade o Dualità di grande-e-piccolo, in quanto principio tendente, a
un tempo, all'infinita grandezza e all'infinita piccolezza, e pertanto detto
anche Dualità indefinita (o indeterminata o illimitata).
Dalla cooperazione di questi due principi originari scaturisce la totalità delle
Idee. L'Uno agisce sulla molteplicità illimitata come principio limitante e
determinante, ossia come principio formale (principio che dà forma, in quanto
determina e de-limita), mentre il principio della molteplicità illimitata funge
da sostrato (come materia intellegibile, per dirla con terminologia posteriore).
Ciascuna e tutte le Idee risultano, di conseguenza, come un "misto" dei due
principi (delimitazione di un illimite). L'Uno, inoltre, in quanto delimita, si
manifesta come Bene, perché la delimitazione dell'illimitato, che si configura
come una forma di unità nella molteplicità, è "essenza", "ordine", perfezione,
valore.
Ecco le conseguenze che ne derivano.
- L'Uno è principio di essere (perché, come abbiamo visto, l'essere, ossia
l'essenza, la sostanza, l'Idea, nasce dalla delimitazione dell'illimitato).
- È principio di verità e conoscibilità, perché solo ciò che è determinato
è intellegibile e conoscibile.
- È principio di valore, perché la delimitazione implica, come si è visto,
ordine e perfezione, ossia positività.
Infine, per quanto è possibile concludere procedendo da una serie di indizi,
Platone ha definito l'unità come "misura" e, più precisamente, come "misura
esattissima".
Filebo Questa teoria, che
è attestata soprattutto da Aristotele e dai suoi commentatori antichi, risulta
però confermata largamente dal dialogo Filebo e rivela una chiara
ispirazione pitagorica. Essa traduce in termini metafisici quella che può
considerarsi caratteristica più peculiare dello spirito della grecità, che in
tutti i suoi vari aspetti si è manifestato come un porre un limite a ciò che è
illimite, come un trovare l'ordine e la giusta misura. Due rilievi essenziali
restano ancora da fare per comprendere la struttura del mondo delle Idee di
Platone.
Sofista La "generazione"
delle Idee dai principi (Uno e Diade) «non è da intendersi come un processo di
carattere temporale, bensì come una metafora per illustrare un'analisi di
struttura ontologica; essa ha lo scopo di rendere comprensibile alla conoscenza,
che si svolge in maniera discorsiva, l'ordinamento dell'essere che è
aprocessuale e atemporale» (H. Krámer). Di conseguenza, quando si dice che sono
generate "prima" determinate Idee e "dopo" altre Idee, significa non porre una
successione cronologica, ma una graduazione gerarchica, ossia "anteriorità" e
"posteriorità" ontologica. In tal senso, subito dopo i principi vengono le Idee
più generali, come, ad esempio, le cinque supreme Idee di cui parla il dialogo
Sofista (Essere, Quiete, Movimento, Identità, Diversità) e altre come
queste (ad esempio: Uguaglianza, Disuguaglianza, Somiglianza, Dissomiglianza,
ecc.).
È certo, tuttavia, che i Numeri Ideali non coincidono con quelli reali, essendo
unici, irripetibili e dunque non soggetti a operazioni aritmetiche. Questa
virata in direzione della matematica indicherebbe un recupero delle dottrine
orali del Pitagorismo. Si può ipotizzare, pertanto, che il cosmo appaia a
Platone sempre più come un ordine i cui modelli essenziali siano rintracciabili
nei numeri prima ancora che nelle Idee.
Gli enti matematici Ricordiamo
infine che, per Platone, nel gradino più basso della gerarchia del mondo
intellegibile stanno gli enti matematici.
Questi enti (a differenza dei Numeri Ideali) sono molteplici (vi sono molti uno,
molti triangoli, ecc.), pur essendo intelligibili. Per questo motivo Platone li
ha chiamati enti "intermedi", cioè enti che stanno a metà strada fra le Idee e
le cose.
I principi da cui nasce il mondo sensibile
La dottrina del Demiurgo nel
Timeo Dal mondo sensibile,
mediante la "seconda navigazione", siamo risaliti al mondo dell'intellegibile in
quanto sua "vera causa". Una volta compresa la struttura del mondo
intellegibile, è possibile comprendere meglio la genesi e la struttura del mondo
sensibile. Come il mondo intellegibile deriva dall'Uno (il principio formale) e
dalla Diade indeterminata (il principio materiale intellegibile), così il mondo
fisico deriva dalle Idee che fungono da principio formale e da un principio
materiale, questa volta sensibile, ossia da un principio illimitato e
indeterminato di carattere fisico.
Mentre nella sfera dell'intellegibile l'Uno agisce sulla Diade indeterminata,
senza bisogno di mediatori, perché ambedue i principi sono di natura
intellegibile, non è così nella sfera del sensibile. La materia o ricettacolo
sensibile, che Platone chiama chora (spazialità), è solamente «partecipe
in qualche modo oscuro dell'intellegibile», ed è in balia di un movimento
informe e caotico:
[ ... ] è sempre la
stessa, perché non perde affatto la sua potenza, ma riceve sempre tutte le cose,
e in nessun modo prende mai una forma simile ad alcuna di quelle cose che
entrano in essa: perché essa di sua natura è la matrice formativa di tutto, che
è mossa e figurata dalle cose che vi entrano, e appare, per causa di esse, ora
in una forma e ora in un'altra: e le cose ch'entrano ed escono son sempre
immagini di quelle che esistono sempre (le Idee), improntate da esse in modo
ineffabile e meraviglioso [ ... ].
Perciò la madre e il ricettacolo delle cose generate visibili e pienamente
sensibili, non dobbiamo chiamarla né terra, né aria, né fuoco, né acqua, né
alcuna delle cose che sono nate da queste o da cui queste sono nate; ma, dicendo
che è una specie invisibile e informe e ricettrice di tutto, e partecipe in
qualche modo oscuro dell'intelligibile, e incomprensibile, non c'inganneremo. [Timeo,
50 b-c, 51 a-b]
Come è possibile, allora, che le Idee intellegibili agiscano
sul ricettacolo sensibile e che dal caos nasca il cosmo sensibile?
La risposta di Platone è la seguente. Esiste un Demiurgo, vale a dire un
dio-artefice, un dio pensante e volente (e dunque personale), il quale,
prendendo come "modello" il mondo delle Idee ha plasmato la chora, ossia
il ricettacolo sensibile, secondo questo "modello" e, in questo modo, ha
generato il cosmo fisico.
Lo schema in base a cui Platone spiega il mondo sensibile è, dunque,
chiarissimo: c'è un modello (mondo ideale), c'è una copia (il mondo sensibile) e
c'è un Artefice che ha fatto la copia giovandosi del modello. Il mondo
dell'intellegibile (il modello) è eterno, come eterno è anche l'Artefice
(l'intelligenza); invece il mondo sensibile costruito dall'Artefice è nato,
ossia è stato generato nel senso vero e proprio del termine.
Ma perché il Demiurgo ha voluto generare il mondo? L'Artefice divino ha generato
il mondo per "bontà" e amore di bene. Dice Platone nel Timeo:
Diciamo dunque per qual cagione l'artefice fece la generazione e quest'universo. Egli era buono e in uno buono nessuna invidia nasce mai per nessuna cosa. Immune dunque da questa, volle che tutte le cose divenissero simili a lui quanto potevano. Se qualcuno accetta questa dagli uomini prudenti come la principale cagione della generazione e dell'universo, l'accetta molto rettamente. Perché Dio volendo che tutte le cose fossero buone e, per quant'era possibile, nessuna cattiva, prese dunque quanto c'era di visibile che non stava quieto, ma si agitava sregolatamente e disordinatamente, e lo ridusse dal disordine all'ordine, giudicando questo del tutto migliore di quello. Ora né fu mai, né è lecito all'ottimo di far altro se non la cosa più bella. [Timeo, 29 e - 30 a]
«Perché Dio,
volendo che tutte le cose fossero buone e, per quanto era possibile, nessuna
cattiva, prese quanto c'era di visibile che non stava quieto, ma si agitava
irregolarmente e disordinatamente, lo ridusse dal disordine all'ordine,
giudicando questo del tutto migliore di quello. Infatti, né fu mai, né è lecito
all'ottimo di far altro se non la cosa più bella».
L'anima del mondo Dunque, il
Demiurgo ha fatto l'opera più bella possibile, animato dal desiderio di bene: il
male e il negativo che restano in questo mondo sono dovuti al margine di
irriducibilità della materia sensibile all'intellegibile, dell'irrazionalità al
razionale.
Platone concepisce il mondo come vivente e intelligente perché giudica il
vivente e l'intelligente più perfetto del non-vivente e del non-intelligente.
Pertanto il Demiurgo ha dotato il mondo, oltre che di un corpo perfetto, di
un'anima e di un'intelligenza perfette.
Ragionando dunque trovò che delle cose naturalmente visibili, se si considerano nella loro interezza, nessuna, priva d'intelligenza, sarebbe stata mai più bella di un'altra, che abbia intelligenza, e ch'era impossibile che alcuna cosa avesse intelligenza senz'anima. In base a questo ragionamento, componendo l'intelligenza nell'anima e l'anima nel corpo, fabbricò l'universo, affinché l'opera da lui compiuta fosse la più bella secondo natura e la più buona che si potesse. Così dunque secondo ragione verosimile si deve dire che questo mondo è veramente un animale animato e intelligente generato dalla provvidenza di Dio [Timeo, 30 b - c]
Così egli ha creato l'anima del mondo
(avvalendosi di tre principi: l'essenza, l'identico e il diverso) e, nell'anima,
il corpo del mondo.
Il mondo, così, è una sorta di "dio visibile"; e "dei visibili" sono le stelle e
gli astri. E poiché quest'opera del Demiurgo è perfetta, non si corrompe: il
mondo è nato, ma non perirà.
Il tempo e il cosmo In quanto
eterno, il mondo intellegibile è nella dimensione dell' "è", senza l' "era" e
senza il "sarà". Il mondo sensibile, invece, è nella dimensione del tempo che è
«l'immagine mobile dell'eterno», come una sorta di svolgimento dell' "è"
attraverso l' "era" e il "sarà". E pertanto implica generazione e movimento.
Poiché il padre, che l'aveva generato, vide muoversi e vivere questo mondo divenuto immagine degli eterni Dei, se ne compiacque, e pieno di letizia pensò di farlo ancor più somigliante al suo modello. Come dunque questo [modello] è un Vivente eterno, i così anche quest'universo egli cercò, secondo il suo potere, di renderlo tale. Ora la natura del Vivente era eterna, e questa proprietà non era possibile conferirla pienamente a chi fosse stato generato: e perciò pensa di creare una immagine mobile dell'eternità, e ordinando il cielo crea dell'eternità che rimane nell'unità un'immagine eterna che procede secondo il numero, quella che abbiarno chiamato tempo. E i giorni e le notti e i mesi e gli anni, che non c'erano prima che il cielo nascesse, fece allora in modo che potessero nascere, mentre creava quello. Tutte queste sono parti di tempo, e l'era e il sarà sono forme generate di tempo, che noi inconsapevolmente riferiamo a torto all'eterna essenza. [Timeo, 37 c e]
Il tempo, dunque, è nato «insieme con il cielo», ossia con la generazione del
cosmo: il che significa che "prima" della generazione del mondo non c'era un
tempo.
Così il mondo sensibile risulta "cosmo", ordine perfetto, che segna il trionfo
dell'intellegibile sulla cieca necessità della materia a opera del Demiurgo.
Si tratta di una concezione del cosmo che oggi dovrebbe fornire uno stimolo per
un ripensamento di molte posizioni assunte dai fisici e dai cosmologi, che
sostituiscono l'idea del caos a quella del cosmos per spiegare
l'Universo.
Dio e il divino in Platone
Abbiamo più volte fatto uso dei termini "divino" e "dio" nell'esporre il
pensiero platonico, e qui è venuto il momento di determinare quale sia
propriamente il senso della teologia platonica. Qualcuno ha detto che Platone è
stato il fondatore della teologia occidentale. E l'affermazione è esatta solo se
la si intende in un determinato senso. La "seconda navigazione", cioè la
scoperta del soprasensibile, doveva dare a Platone per la prima volta la
possibilità di vedere il divino appunto nella prospettiva del soprasensibile,
come poi farà ogni successiva evoluta concezione del divino. Tant'è che noi oggi
riteniamo fondamentalmente come equivalente credere al divino e credere al
soprasensibile. Sotto questo profilo, Platone è indubbiamente il creatore della
teologia occidentale, nella misura in cui ha scoperto la categoria
(l'immateriale) secondo cui è pensabile il divino. Tuttavia occorre subito
aggiungere che Platone, pur avendo guadagnato il nuovo piano del soprasensibile
e pur avendo impiantato su di esso la problematica teologica, ripropone la
visione, che è una costante di tutta la filosofia e della mentalità greca,
secondo la quale il divino è strutturalmente molteplice.
Intanto, nella teologia platonica, noi dobbiamo distinguere il "divino"
impersonale da Dio e dagli dei personali. Divino è il mondo ideale, in tutti i
suoi piani. Divina è l'Idea del Bene, ma non è Dio-persona; dunque, al sommo
della gerarchia dell'intellegibile c'è un Ente divino (impersonale) e non un dio
(personale), cosi come Enti divini (impersonali) e non dei (personali) sono le
Idee. Caratteri di persona, cioè di Dio, ha invece il Demiurgo, che conosce e
vuole: ma egli è gerarchicamente inferiore al mondo delle Idee, giacché non solo
non lo crea, ma ne dipende. Il Demiurgo non crea nemmeno la chora o
materia, di cui è fatto il mondo, che preesiste essa pure; e cosi egli è
"plasmatone" o "artefice" del mondo, non creatore del mondo. Dei creati dal
Demiurgo sono anche gli astri e il mondo (concepiti come intelligenti e
animati). Platone sembra addirittura mantenere alcune divinità di cui parlava
l'antico politeismo tradizionale. Divina è l'anima del mondo, divine sono le
anime delle stelle e le anime umane, accanto alle quali vanno annoverati anche i
demoni protettori, che egli accoglie dalla tradizione, e i demoni mediatori, di
cui l'esempio più tipico è Eros. Come si vede, il politeismo si rivela
strutturale, proprio nel più teologico dei pensatori della Grecia. A questo
riguardo Aristotele saprà fare un passo oltre, in quanto, invertendo i termini
della gerarchia, anteporrà un dio che ha caratteri di persona al divino
impersonale: ma nemmeno Aristotele, come nessun greco, saprà guadagnare una
visione monoteistica, che l'Occidente conoscerà solo dai testi della Bibbia.
3. La conoscenza e la dialettica
L'anamnesi, radice della conoscenza
Abbiamo finora parlato del mondo dell'intellegibile, della sua
struttura e del modo in cui esso si riverbera sul sensibile. Resta ora da
esaminare in quale modo l'uomo possa accedere conoscitivamente
all'intellegibile. E in generale bisogna chiedersi: come avviene e che cos'è la
conoscenza?
Il problema della conoscenza era stato già affrontato in qualche modo dai
filosofi precedenti, ma nessuno di loro lo aveva impostato in forma specifica e
definitiva. Platone è il primo a porlo in tutta la sua chiarezza, grazie alle
acquisizioni strutturalmente legate alla grande scoperta del mondo
intellegibile, anche se, ovviamente, le soluzioni che propone restano in gran
parte aporetiche. La prima risposta al problema della conoscenza si trova nel
Menone. Gli eristi avevano tentato di bloccare capziosamente la questione,
sostenendo che la ricerca e la conoscenza sono impossibili: infatti, non si può
cercare e conoscere ciò che ancora non si conosce, perché, se anche lo si
trovasse, non lo si potrebbe riconoscere, mancando il mezzo per effettuare il
riconoscimento; e neppure ciò che già si conosce può essere cercato, appunto
perché già lo si conosce. È proprio per superare questa aporia che Platone trova
una nuovissima via: la conoscenza è "anamnesi", cioè una forma di "ricordo", un
riemergere di ciò che esiste già da sempre nell'interiorità della nostra anima.
Il
Menone Il Menone
presenta la dottrina in una duplice maniera: una mitica e una dialettica. La
prima maniera, di carattere mitico-religioso, si rifà alle dottrine
orfico-pitagoriche, secondo le quali, come sappiamo, l'anima rinasce più volte e
così è immortale. L'anima, pertanto, ha visto e conosciuto la realtà tutta, la
realtà dell'aldilà e la realtà dell'aldiqua. Se così è, conclude Platone, è
facile capire come l'anima possa conoscere e apprendere: essa deve semplicemente
trarre da se medesima la verità che sostanzialmente possiede da sempre: e questo
"trarre da sé" è un "ricordare".
Ma, subito dopo, sempre nel Menone, le parti vengono rovesciate: la
conclusione diventa interpretazione filosofica di un dato di fatto sperimentato
e accertato, mentre ciò che prima era presupposto mitologico con funzione di
fondamento diventa invece conclusione. Infatti, dopo l'esposizione mitologica,
Platone fa un "esperimento maieutico" di forte ispirazione socratica. Interroga
uno schiavo, ignaro di geometria, e riesce a fargli risolvere, solamente
ponendogli delle domande alla maniera di Socrate, una complessa questione di
geometria (implicante la conoscenza del teorema di Pitagora). Dunque – argomenta
Platone – poiché lo schiavo non aveva prima mai studiato la geometria, e poiché
non gli era stata fornita da nessuno la soluzione, dal momento che egli l'ha
saputa raggiungere da solo, non resta che concludere che egli l'ha tratta da se
stesso, dalla propria anima, ossia che se ne è ricordato. E qui, come è chiaro,
la base dell'argomentazione, lungi dall'essere un mito, è una constatazione di
fatto: così come lo schiavo, ogni uomo in generale può trarre e ricavare da se
medesimo verità che prima non conosceva e che nessuno gli ha insegnato.
Gli studiosi hanno spesso scritto che la dottrina dell'anamnesi è nata in
Platone da influssi orfico-pitagorici; ma, dopo quanto abbiamo spiegato, è
chiaro che almeno altrettanto peso ebbe, nella genesi della dottrina, la
maieutica socratica. È evidente che, infatti, per poter maieuticamerite far
sorgere la verità dall'anima, la verità deve sussistere nell'anima. La dottrina
dell'anamnesi viene così a presentarsi, oltre che come un corollario della
dottrina della metempsicosi orfico-pitagorica, altresì come la giustificazione e
l'inveramento della possibilità stessa della maieutica socratica.
Il
Fedone
Un'ulteriore riprova dell'anamnesi Platone l'ha fornita nel Fedone,
rifacendosi soprattutto alle conoscenze matematiche (che ebbero enorme
importanza nel determinare la scoperta dell'intellegibile). Platone argomenta
quanto segue. Noi constatiamo con i sensi l'esistenza di cose uguali, maggiori e
minori, quadrate e circolari, e altre analoghe. Ma, a una attenta riflessione,
noi scopriamo che i dati che ci fornisce l'esperienza – tutti i dati, senza
eccezione di sorta – non si adeguano mai, in modo perfetto, alle corrispondenti
nozioni che, pure, noi possediamo indiscutibilmente: nessuna cosa sensibile è
mai "perfettamente" e "assolutamente" quadrata o circolare, eppure noi abbiamo
queste nozioni di uguale, di quadrato e di circolo "assolutamente perfetti".
Allora bisogna concludere che fra i dati dell'esperienza e le nozioni che noi
abbiamo esiste un dislivello: le conoscenze che noi abbiamo contengono un
qualcosa di più rispetto ai dati empirici. E da dove può mai derivare questo
plus? Se, come si è visto, non deriva e non può strutturalmente derivare dai
sensi, cioè dal mondo esteriore, non resta che concludere che viene da noi
stessi. Ma non può venire da noi come fosse creazione del soggetto pensante: il
soggetto pensante non "crea" questo plus, lo "trova" e lo "scopre"; esso, anzi,
si impone al soggetto oggettivamente e indipendentemente da ogni potere del
soggetto medesimo. Dunque, i sensi ci danno solo conoscenze imperfette; la
nostra mente (il nostro intelletto) in occasione di questi dati, scavando e
quasi ripiegandosi su di sé, trova le corrispondenti conoscenze perfette. E
poiché non le produce, è chiaro che essa le ritrova in sé e le ricava da sé come
un "originario possesso", "ricordandole".
I gradi della conoscenza
L'anamnesi spiega la "radice" o la "possibilità" della conoscenza, in quanto
spiega che il conoscere è possibile perché abbiamo nell'anima un'intuizione
originaria del vero. Per determinare le tappe e i modi specifici del conoscere
dobbiamo fare riferimento alla Repubblica e ai dialoghi dialettici.
Repubblica Nella
Repubblica Platone parte dal presupposto che la conoscenza e proporzionale
all'essere, in modo che solo ciò che è massimamente essere è perfettamente
conoscibile, mentre il non essere è assolutamente inconoscibile. Ma, poiché
esiste anche una realtà intermedia fra essere e non essere, cioè il sensibile,
che è un misto di essere e non essere (perché soggetto a divenire), allora
Platone conclude che di questo "intermedio" c'è appunto una conoscenza
intermedia fra scienza e ignoranza, una conoscenza che non è vera e propria
conoscenza e che si chiama "opinione" (doxa).
L'opinione, tuttavia, per Platone è spesso fuorviante. Essa può anche essere
verace e retta, ma non può mai avere in sé la garanzia della propria correttezza
e resta sempre labile, come è labile il mondo sensibile cui essa si riferisce.
Per fondare l'opinione, occorrerebbe, come Platone dice nel Menone, legarla col
"ragionamento causale", cioè fissarla con la conoscenza della causa (dell'Idea):
ma, allora, essa cesserebbe di essere opinione e diverrebbe scienza o
episteme.
Platone specifica poi che tanto l'opinione (doxa), quanto la scienza (episteme)
hanno ciascuna due gradi: l'opinione si divide in mera immaginazione (eikasía)
e in credenza (pistis), mentre la scienza si divide in conoscenza mediana
(diánoia) e in pura intellezione (nóesis). E, stante il principio
di proporzionalità sopra illustrato, ciascun grado e forma di conoscenza ha un
corrispettivo grado e una corrispettiva forma di realtà e di essere.
L'immaginazione e la credenza corrispondono a due gradi del sensibile, e,
rispettivamente, si riferiscono la prima alle ombre e alle immagini sensibili
delle cose, la seconda alle cose e agli oggetti sensibili stessi. La conoscenza
mediana e l'intelligenza a loro volta si riferiscono a due gradi
dell'intellegibile (o, secondo alcuni critici, a due modi di cogliere
l'intellegibile); la diánoia è la conoscenza matematico-geometrica, la
nóesis la pura conoscenza dialettica delle Idee. La diánoia ha ancora
a che fare con elementi visivi (ad esempio le figure che si tracciano nelle
dimostrazioni geometriche) e con ipotesi; la nóesis è coglimento puro
delle Idee e del principio supremo e assoluto da cui tutte dipendono (ossia
l'Idea del Bene).
La dialettica
Di norma gli uomini comuni si fermano ai primi due gradi della prima forma
del conoscere, cioè all'opinare; i matematici salgono alla diánoia; solo
il filosofo accede alla nóesis e alla suprema scienza. L'intelletto e
l'intellezione, lasciati le sensazioni e ogni elemento legato al sensibile,
colgono, con un procedimento che è insieme discorsivo e intuitivo, le pure Idee,
i loro nessi positivi e negativi, cioè tutti i loro legami di implicanza e di
esclusione, e risalgono da Idea a Idea, fino al coglimento della suprema Idea,
ossia dell'Incondizionato. E questo procedimento per cui l'intelletto passa o
trascorre da Idea a Idea è la "dialettica", cosicché il filosofo è il
"dialettico" per eccellenza.
Solo mediante la dialettica si giunge
alla verità Ben si comprende, pertanto, come – soprattutto dalla
Repubblica in poi – Platone abbia cercato di approfondire in tutti i modi questo
concetto di dialettica, anche nei suoi scritti oltre che nelle sue lezioni.
Anzi, i dialoghi posteriori alla Repubblica si chiamano dialettici, e dimostrano
come e in che misura essere filosofi significa essere dialettici, in quanto solo
mediante la dialettica si giunge alla verità. La dialettica ha due forme
particolari mediante le quali opera.
- C'è, in primo luogo, una dialettica ascensiva, che è quella che libera
dai sensi e dal sensibile, porta alle Idee e poi, da Idea a Idea, alla suprema
Idea con procedimento sinottico (che via via abbraccia la molteplicità
nell'unità).
- In secondo luogo c'è una dialettica discensiva, la quale, compiendo il
cammino opposto, parte dall'Idea suprema, o da Idee generali, e, procedendo per
divisione (procedimento diairetico), cioè distinguendo via via Idee particolari
contenute nelle generali, giunge alle Idee che non includono in sé ulteriori
Idee. In questo modo la dialettica discensiva giunge a stabilire il posto che
una data Idea occupa nella struttura gerarchica del mondo ideale, e perciò
giunge a comprendere la complessa trama di rapporti che collega le parti e il
tutto. Insomma, la dialettica nel suo senso globale porta alla comprensione
perfetta di quella cosa "mirabile" di cui parla il Filebo, ossia porta a
capire come «i molti siano l'uno e l'uno sia i molti». Nel suo grado supremo,
questo tipo di conoscenza è esattamente quella che il Demiurgo (l'Intelligenza
divina) possiede in maniera perfetta: si tratta della scienza che permette di
ridurre la "molteplicità" in "unità" e di nuovo far derivare dall' "unità" la
"molteplicità". Questo aspetto della dialettica viene illustrato con ampiezza
specialmente nei dialoghi dell'ultima fase.
Sofista Un esempio
significativo è tratto dal Sofista (218e-221c), dove il protagonista,
Teeteto, invita lo Straniero a ricercare una definizione per "sofista" a partire
dal metodo diairetico o dicotomico. Il procedimento consiste nel suddividere in
due l'intero scelto come punto di partenza per ridurlo progressivamente nelle
sue varie forme, scegliendo di volta in volta quella più utile alla definizione
dell'oggetto d'indagine, fino a giungere a un'idea indivisibile. A questo punto
lo Straniero, prima di cimentarsi nella ricerca dell'esatta definizione di
"sofista", decide di partire con un esempio più semplice, dando cioè la
definizione di "pesca con la lenza". Il punto di partenza su cui entrambi i
dialoganti sono d'accordo è che la pesca con la lenza è un'arte.
Giunti a questo punto, la definizione di pesca con la lenza può essere ricavata riunendo i vari aspetti emersi nel corso del procedimento diairetico illustrato: la pesca con la lenza è un'arte di acquisizione tramite cattura e attraverso la caccia di esseri animati remiganti nel mare, eseguita attraverso percussione e con l'uso di un amo usato dal basso verso l'alto. Per concludere, potremo dire che la dialettica è il coglimento, fondato sull'intuizione intellettuale, del mondo ideale, della sua struttura, del posto che ciascuna Idea occupa, in rapporto alle altre, in questa struttura: e questa è la "verità". Come è evidente, il nuovo significato di "dialettica" dipende interamente dagli esiti della "seconda navigazione".
4. L'arte e l'amore platonico
L'arte come allontanamento dal vero
In stretta connessione con la tematica metafisica e dialettica va vista la
problematica platonica dell'arte. Platone, infatti, nel determinare l'essenza,
la funzione, il ruolo e il valore dell'arte si preoccupa solamente di stabilire
quale valore di verità essa abbia, ossia: se e in che misura si avvicini al
vero; se renda migliore l'uomo; se socialmente abbia valore educativo o no. E la
sua risposta, come è noto, è del tutto negativa: l'arte non dirvela ma vela il
vero perché non è una forma di conoscenza; non migliora l'uomo ma lo corrompe
perché è menzognera; non educa ma diseduca perché si rivolge alle facoltà
arazionali dell'anima, che sono le parti inferiori di noi. Già nei primi scritti
Platone assume un atteggiamento negativo di fronte alla poesia, considerandola
decisamente inferiore alla filosofia per le seguenti ragioni.
- Il poeta non è mai tale per scienza e per conoscenza, ma per irrazionale
intuito.
- Il poeta, quando compone, è "fuori di sé", è "invasato", e quindi
inconsapevole: non sa dar ragione di ciò che fa, né sa insegnare ad altri ciò
che fa.
- Il poeta è poeta per "sorte divina", non per virtù di conoscenza.
Repubblica, libro X Più
precise e determinate sono le concezioni dell'arte che Platone esprime nel libro
decimo della Repubblica. L'arte, in tutte le sue espressioni (cioè sia
come poesia, sia come arte pittorica e plastica), è, dal punto di vista
ontologico, una "mimesi", una "imitazione" di eventi sensibili. Ora, noi
sappiamo che le cose sensibili sono, dal punto di vista ontologico, un'
"immagine" dell'eterno "paradigma" dell'Idea, e perciò distano dal vero nella
misura in cui la copia dista dall'originale. Ebbene, se l'arte, a sua volta, è
imitazione delle cose sensibili, allora ne consegue che essa viene a essere "una
imitazione di una imitazione", una copia che riproduce una copia, e quindi essa
rimane "tre volte lontana dalla verità".
A quale dei due
scopi è diretta in ogni caso la pittura? Forse a imitare l'essere come è o a
imitare l'apparenza come appare? è essa imitazione della parvenza o della
verità?
— Della parvenza, disse lui.
— Lungi dunque dal vero è l'arte imitativa, e, come si vede, eseguisce ogni
cosa, perché non tocca che una piccola parte di ciascuna, e, questa, solo come
un fantasma.
[...]
L'imitatore non avrà né scienza né retta opinione di ciò che imita, se vada bene
o se vada male.
— Non parrebbe.
— Grazioso dunque il poeta che imita, quanto all'intelligenza di ciò che fa!
— Non direi troppo.
— Ma ciò non pertanto egli imiterà senza sapere per che verso ciascuna cosa sia
buona o cattiva; ma, come sembra, secondo che paia bella ai più che non
capiscono niente, così la imiterà.
— E che altro potrebbe imitare?
— Ebbene, su questo, come pare, siamo già abbastanza d'accordo, che della cosa
imitata l'imitatore non sa nulla che valga nulla, e che l'imitazione è uno
scherzo e non una cosa seria, e che quelli che si danno alla poesia tragica, sia
in giambi, sia in esametri, sono imitatori quanto più si può essere.
— Precisamente.
[...]
La pittura e in genere l'arte imitativa, come esegue l'opera sua restando
lontano dalla verità, così si rivolge a quella parte di noi che è più lontana
dalla saggezza, e ci si fa amica per uno scopo che non è né sano né vero. [Repubblica,
X, 598 b - 603 b]
Dunque, l'arte figurativa imita la mera parvenza e così i poeti parlano senza sapere e senza conoscere ciò di cui parlano, e il loro parlare è, dal punto di vista del vero, un gioco, uno scherzo. Di conseguenza Platone è convinto che l'arte si rivolga non alla parte migliore, ma alla parte meno nobile della nostra anima. L'arte è pertanto corruttrice e va in larga misura bandita, o addirittura eliminata dallo Stato perfetto, a meno che essa non si sottometta alle leggi del bene e del vero. Platone – si noti – non negò l'esistenza e il potere dell'arte, ma negò che l'arte potesse valere solo per se stessa: l'arte o serve il vero o serve il falso e tertium non datur. Abbandonata a se stessa, l'arte serve il falso. Dunque, se vuole "salvarsi", deve assoggettarsi alla filosofia, che sola è capace di raggiungere il vero e, allo stesso modo, il poeta deve sottostare alle regole del filosofo.
La retorica come mistificazione del vero
Gorgia Nell'antichità
classica la retorica aveva un'importanza grandissima, come abbiamo visto
trattando dei sofisti. Essa non era, come per noi moderni, qualcosa che ha a che
fare con l'artificio letterario e che quindi si colloca ai margini della vita
pratica, ma era forza civile e politica di primissimo ordine. Secondo Platone,
la retorica (l'arte dei politici ateniesi e dei loro maestri) è mera piaggeria,
è lusinga, è adulazione, è contraffazione del vero. Come l'arte pretende di
ritrarre e di imitare tutte le cose senza averne vera conoscenza, cosi la
retorica pretende di persuadere e di convincere tutti su tutto senza avere
alcuna "conoscenza". E come l'arte crea meri fantasmi, cosi la retorica crea
vane persuasioni e illusorie credenze. Il retore è colui che, pur non sapendo,
ha l'abilità, nei confronti dei più, di essere persuasivo più di chi veramente
sa, giocando sui sentimenti e sulle passioni. La retorica (come l'arte) si
rivolge quindi alla parte peggiore dell'anima, alla parte credula e instabile.
Pertanto il retore è lontano dal vero quanto l'artista e, anzi, ancora di più,
perché volutamente dà ai fantasmi del vero le parvenze del vero e rivela quindi
una malizia che l'artista non ha, o ha solo in parte. E come alla poesia va
sostituita la filosofia, cosi alla retorica va sostituita la "vera politica",
che coincide con la filosofia. Poeti e retori stanno al filosofo cosi come le
parvenze stanno alla realtà e come i fantasmi della verità stanno alla verità.
Fedro Questo
aspro giudizio sulla retorica, pronunciato nel Gorgia, viene alquanto
ammorbidito nel Fedro, dove si riconosce all'arte dei discorsi, ossia
alla retorica, un diritto all'esistenza, a patto che essa si sottometta alla
verità e alla filosofia. Solo conoscendo la natura delle cose, mediante la
dialettica, e la natura dell'anima umana, alla quale sono diretti i discorsi,
sarà possibile costruire una vera arte retorica, una vera arte di persuadere con
i discorsi.
L'amore platonico come via alogica all'assoluto
La tematica della bellezza non viene collegata da Platone con la tematica
dell'arte (che è imitazione di mera parvenza, e non rivelatrice
dell'intellegibile bellezza), bensì con quella dell'eros e dell'amore, inteso
come forza mediatrice fra sensibile e soprasensibile, forza che eleva,
attraverso i vari gradi della bellezza, alla metaempirica Bellezza in sé. E
poiché il Bello, per i Greci, coincide col Bene, o è comunque un aspetto del
Bene, cosi Eros è forza che eleva al Bene, e l'«erotica» si rivela come una via
alogica che porta all'Assoluto.
Simposio Nel
Simposio Platone ci dà una splendida analisi di Amore: Amore non è né
bello né buono, ma è sete di bellezza e di bontà. Amore non è quindi un dio (Dio
è solo e sempre bello e buono), ma nemmeno un uomo. Non è mortale e neppure
immortale: egli è uno di quegli esseri demoniaci "intermedi" fra uomo e Dio.
Siccome dunque Amore è figlio di Penia e di Poros ecco qual è la sua condizione. Intanto, è povero sempre; e non è affatto delicato e bello, come per lo più si crede; bensì, duro, ispido, scalzo, senza tetto; giace per terra sempre, e nulla possiede per coprirsi; riposa dormendo sotto l'aperto cielo nelle vie e presso le porte. Insomma riferisce chiara la natura di sua madre, dimorando sempre insieme con povertà. Da parte di padre invece, Amore insidia con accorti espedienti i belli nel corpo e nell'anima; è valoroso, audace. È veemente. Cacciatore possente è Amore, intreccia sempre astuzie e intrighi; ansioso di possedere perspicace visione e ricco d'espedienti per procurarsela. Amante per tutta la vita di sapienza, filosofo cioè. Potente incantatore, esperto di filtri, sofista. E la sua natura non è né mortale né immortale; ma, un momento, nel medesimo giorno quand'ogni espediente bene gli procede, è tutto in fiore e tutta vita, un momento successivo Amore muore, e torna poi in vita grazie alla paterna natura; ma, quanto è riuscito a procurarsi, a poco a poco via sempre gli sfugge. Insomma Amore non è mai del tutto povero; né, d'altra parte, del tutto ricco. Si trova in mezzo fra ignoranza e sapienza. [Convito, 203 c-e]
Amore è dunque filo-sofo, nel senso più pregnante del termine. La sophia,
cioè la sapienza, è posseduta solo da Dio; l'ignoranza è propria di colui che è
totalmente alieno da sapienza; la filosofia è propria, invece, di chi non è né
ignorante né sapiente, non possiede il sapere ma vi aspira, è sempre in cerca, e
ciò che trova gli sfugge e lo deve cercare oltre, appunto come fa l'amante.
Quello che gli uomini comunemente chiamano amore non è che una piccola parte del
vero amore: amore è desiderio del bello, del bene, della sapienza, della
felicità, dell'immortalità, dell'Assoluto. L'Amore ha molte vie che portano a
vari gradi di bene (ogni forma di amore è desiderio di possedere il bene per
sempre): ma vero amante è colui che le sa percorrere tutte fino in fondo, fino a
raggiungere la suprema visione di ciò che è assolutamente bello.
- Al più basso grado nella scala dell'amore è l'amore fisico, che è
desiderio di possedere il corpo bello al fine di generare nel bello un altro
corpo: e già questo amore fisico è desiderio di immortalità e di eternità,
«perché la generazione, pur in mortale creatura, è perennità e immortalità».
- Poi c'è il grado degli amanti, che sono fecondi non nei corpi ma nelle
anime, che portano germi che nascono e crescono nella dimensione dello spirito.
E fra gli amanti nella dimensione dello spirito si trovano, via via sempre più
in alto, gli amanti delle anime, gli amanti delle arti, gli amanti della
giustizia e delle leggi, gli amanti delle pure scienze.
- E, infine, al sommo della scala d'amore c'è la folgorante visione
dell'Idea del Bello in sé, dell'Assoluto.
Fedro Nel Fedro,
Platone approfondisce ulteriormente il problema della natura sintetica e
mediatrice dell'amore, ricollegandolo con la dottrina della reminiscenza.
L'anima, come sappiamo, nella sua originaria vita al seguito degli dei, ha visto
l'Iperuranio e le Idee; poi, perdendo le ali e precipitando nei corpi, ha tutto
dimenticato. Ma, sia pure a fatica, filosofando, l'anima "ricorda" quelle cose
che un tempo vide. Questo ricordo, nello specifico caso della Bellezza, avviene
in un modo del tutto particolare, perché sola fra tutte le altre Idee ha avuto
la sorte privilegiata di essere «straordinariamente evidente e
straordinariamente amabile». Questo emergere dell'ideale Bellezza nel bello
sensibile infiamma l'anima, che è presa dal desiderio di levarsi a volo, per
ritornare nel luogo da dove è discesa. E questo desiderio è appunto Eros,
che, con l'anelito al soprasensibile, fa rispuntare all'anima le sue antiche ali
e la eleva.
Ma chi è ancor fresco di iniziazione, chi è uno di coloro che un tempo molto contemplarono, se scorge un volto di fattura divina che imiti il bene e il bello, oppure una ideale immagine di corpo, dapprima ha un brivido e qualcuno dei timori d'allora lo invade; di poi seguitando a guardare, sente venerazione come per un Dio [ ... ] . E dopo che ha visto, con repentino trapasso dal brivido lo prende insolito sudore e ardore; poiché ricevendo attraverso gli occhi l'effluvio del bello, rimane infiammato, e di esso la natura dell'ala si abbevera; quando, poi, egli s'è riscaldato, sciogliesi ciò che sta intorno alle gemme e che da lungo tempo, rappreso dall'aridità, impediva loro di germogliar dalla radice lo stelo dell'ala sotto la intera figura dell'anima: poiché un tempo l'anima era tutta alata. [Fedro, 251 a-b]
L'amore ("l'amore platonico") è nostalgia dell'Assoluto, trascendente tensione al metaempirico, forza che ci spinge a ritornare all'originario nostro essere-presso-gli-dei.
5. La concezione dell'uomo
Concezione dualistica dell'uomo
Abbiamo in precedenza spiegato come il rapporto fra le Idee e le cose non sia
"dualistico" nel senso usualmente inteso, dato che le Idee sono la "vera causa"
delle cose. È dualistica invece (in certi dialoghi in senso totale e radicale)
la concezione platonica dei rapporti tra anima e corpo. Si introduce, infatti,
oltre alla componente metafisica, la componente religiosa dell'Orfismo, la quale
trasforma la distinzione fra anima (soprasensibile) e corpo (sensibile) in una
opposizione. Per questo motivo, il corpo è inteso non tanto come il ricettacolo
dell'anima, che a essa deve la vita e le sue capacità (e quindi come uno
strumento a servizio dell'anima quale lo intendeva Socrate), quanto piuttosto
come "tomba" e "carcere" dell'anima, ossia come luogo di espiazione dell'anima.
Il corpo carcere dell'anima
Finché abbiamo un corpo, dice Platone, siamo "morti", perché noi siamo
fondamentalmente la nostra anima, e l'anima, finché è in un corpo, è come in una
tomba, e quindi mortificata; il nostro morire (con il corpo) è vivere, perché,
morendo il corpo, l'anima viene liberata dal carcere. Il corpo è radice di ogni
male, è fonte di insani amori, passioni, inimicizie, discordie, ignoranza e
follia: ed è appunto tutto questo che mortifica l'anima.
E io non mi meraviglierei se Euripide affermasse il vero là dove dice: « Chi può sapere se il vivere non sia morire e morire non sia vivere? » e che noi, in realtà, forse siamo morti. Io ho già sentito dire, infatti, anche da uomini sapienti, che noi, ora, siamo morti e che il corpo è per noi una tomba. [Gorgia, 492 e]
Questa concezione negativa del corpo si attenua alquanto nelle ultime opere di Platone, ma non scompare mai del tutto. Detto questo, è peraltro necessario rilevare che l'etica platonica è solo in parte condizionata da questo esasperato dualismo; infatti i suoi teoremi e corollari di fondo poggiano sulla distinzione metafisica di anima (ente affine all'intellegibile) e corpo (ente sensibile), più che sulla contrapposizione tipica dell'Orfismo di anima (demone) e corpo (tomba e carcere). Da quest'ultima derivano la formulazione estremistica e l'esasperazione paradossale di alcuni principi, i quali restano, in ogni caso, validi nel contesto platonico, anche sul puro piano ontologico. La "seconda navigazione" resta, in sostanza, il vero fondamento dell'etica platonica.
Fuga dal corpo, fuga dal mondo
Precisato questo, esaminiamo subito i due paradossi più noti dell'etica
platonica, che sono stati tosi spesso fraintesi, perché si è guardato più alla
loro esteriore coloritura misteriosofica che non alla loro sostanza metafisica:
alludiamo ai due paradossi della fuga dal corpo e della fuga dal mondo.
- Il primo paradosso è sviluppato soprattutto nel Fedone.
Sembra che ci sia un sentiero che ci porti, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione: che, cioè, fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. Infatti il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell'essere. Inoltre, esso ci riempie di amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di molte vanità, di guisa che, come suol dirsi, veramente, per colpa sua, non ci e neppure possibile fermare il nostro pensiero su alcuna cosa. [ ... ]. E così noi siamo distolti dalla filosofia, per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un momento di tregua e riusciamo a rivolgerci alla ricerca di qualche cosa, ecco che, improvvisamente, esso si caccia in mezzo alle nostre ricerche e, dovunque, provoca turbamento e confusione e ci stordisce, sì che, per colpa sua, noi non possiamo vedere il vero. [Fedone, 66 b-e]
L'anima
deve cercare di fuggire il più possibile dal corpo, e perciò il vero filosofo
desidera la morte e la vera filosofia è "esercizio di morte". Il senso di questo
paradosso è molto chiaro. La morte è un episodio che ontologicamente riguarda
unicamente il corpo; essa non solo non danneggia l'anima, ma le arreca grande
beneficio, permettendole di vivere una vita più vera, una vita tutta raccolta in
se medesima, senza ostacoli e veli, e interamente congiunta con l'intellegibile.
Questo significa che la morte del corpo dischiude la vera vita dell'anima.
Pertanto il senso del paradosso non cambia rovesciandone la formulazione, anzi
si specifica meglio: il filosofo è colui che desidera la vera vita (morte del
corpo) e la filosofia è esercizio di vera vita, della vita nella pura dimensione
dello spirito. La "fuga dal corpo" è il ritrovamento dello spirito.
- Anche il significato del secondo paradosso, quello della "fuga dal
mondo", è chiaro. Del resto, Platone stesso ce lo svela nel modo più esplicito
nel Teeteto, spiegandoci che fuggire dal mondo significa diventare
virtuosi e cercare di assimilarci a Dio:
Il male non può perire, ché ha pur da esserci sempre qualcosa di opposto e contrario al bene; né può aver sede fra gli dei, ma deve di necessità aggirarsi su questa terra e intorno alla nostra natura mortale. Ecco perché anche ci conviene adoperarci di fuggire di qui al più presto per andare lassù. E questo fuggire è un assomigliarsi a Dio per quel che a uomo è possibile; e assomigliarsi a Dio è acquistar giustizia e santità e insieme sapienza. [Teeteto, 176 a-b]
Come si vede, i due paradossi hanno un significato identico: fuggire dal corpo vuol dire fuggire dal male del corpo mediante virtù e conoscenza; fuggire dal mondo vuol dire fuggire dal male del mondo, sempre mediante virtù e conoscenza; seguire virtù e conoscenza vuol dire farsi simile a Dio, che, come è detto nelle Leggi, è "misura" di tutte le cose.
La purificazione dell'anima
Il senso del "misticismo" platonico Già Socrate aveva riposto nella "cura dell'anima" il supremo compito morale dell'uomo. Platone ribadisce il comandamento socratico, ma vi aggiunge una mistica coloritura, precisando che "cura dell'anima" significa "purificazione dell'anima". Questa purificazione si realizza quando l'anima, trascendendo i sensi, si impossessa del puro mondo dell'intellegibile e dello spirituale, a esso congiungendosi come a ciò che le è congenere e connaturale. Qui la purificazione, ben diversamente dalle cerimonie iniziatrici degli orfici, coincide con il processo di elevazione alla suprema conoscenza dell'intellegibile. Ed è proprio su questo valore di purificazione riconosciuto alla scienza e alla conoscenza (valore che in parte già gli antichi pitagorici, come abbiamo visto, avevano scoperto) che bisogna riflettere per comprendere le novità del "misticismo" platonico: esso non è estatica e alogica contemplazione, ma catartico sforzo di ricerca e di progressiva ascesa alla conoscenza. E, tosi, si capisce perfettamente come, per Platone, il processo della conoscenza razionale sia a un tempo processo di "conversione" morale: infatti, nella misura in cui il processo della conoscenza ci porta dal sensibile al soprasensibile, ci converte dall'uno all'altro mondo, ci porta dalla falsa alla vera dimensione dell'essere. Dunque, l'anima si cura, si purifica, si converte e si eleva "conoscendo". E in ciò sta la vera virtù.
L'immortalità dell'anima
Per Socrate era sufficiente comprendere che l'essenza dell'uomo è la sua
anima (psyché) per fondare la nuova morale. Non era quindi necessario, a suo
avviso, stabilire se l'anima sia o no immortale; la virtù ha il suo premio in se
medesima, così come il vizio ha il castigo in se medesimo.
Invece per Platone il problema dell'immortalità diventa essenziale: se, con la
morte, l'uomo si dissolvesse tótalmente nel nulla, la dottrina di Socrate non
basterebbe per confutare i negatori di ogni principio morale (quali erano i
sofisti politici, di cui è esempio paradigmatico Callicle, personaggio del
Gorgia). Del resto, la scoperta della metafisica e l'accettazione del nucleo
essenziale del messaggio orfico imponevano la questione dell'immortalità come
fondamentale. Ben si spiega quindi che Platone sia più volte tornato
sull'argomento. In breve nel Menone, e poi nel Fedone con tre
massicce prove, e poi ancora con ulteriori prove di rincalzo nella Repubblica
e nel Fedro.
Fedone e Timeo La prova
centrale del Fedone si può riassumere in breve nel modo seguente. L'anima
umana – dice Platone – è capace di conoscere le realtà immutabili ed eterne; ma,
per poter cogliere queste, essa deve avere, necessariamente, una natura a loro
affine: altrimenti quelle rimarrebbero al di fuori della sua capacità di
comprensione; dunque, come quelle sono immutabili ed eterne, cosi anche l'anima
deve essere immutabile ed eterna:
— Poniamo dunque, se
vuoi, egli soggiunse, due specie di esseri: una visibile e l'altra invisibile.
— Poniamole, rispose.
— E che l'invisibile permanga sempre nella medesima condizione e che il visibile
non permanga mai nella medesima condizione.
— Poniamo anche questo, disse.
— Ebbene, che altro c'è in noi, riprese Socrate, se non, da un lato, il corpo e,
dall'altro, l'anima?
— Non c'è altro, disse.
— E il corpo a quale delle due specie di cose diremo che è più simile e più
affine?
— È chiaro a tutti che è più simile e più affine alla specie visibile.
— E l'anima è visibile o è invisibile?
— Agli uomini, almeno, o Socrate, non è visibile, disse.
— Ma noi non stiamo ora parlando di cose visibili o invisibili alla natura
umana? 0 tu pensi a qualche altra natura?
— Sì, alla natura umana.
— Che cosa diciamo, dunque, dell'anima? Che è visibile o che non è visibile?
— Che non è visibile.
— Allora è invisibile.
— Sì.
— Dunque, l'anima è più simile all'invisibile che non il corpo; questo, invece,
è più simile al visibile.
— Di necessità, o Socrate.
— E non dicevamo poco fa anche questo: che, cioè, quando l'anima si avvale del
suo corpo per fare qualche indagine, servendosi della vista o dell'udito o di
altra percezione sensoriale (infatti far ricerca per mezzo del corpo significa
far ricerca per mezzo dei sensi), allora essa è tratta dal corpo verso le cose
che non permangono mai identiche ed erra e si confonde e barcolla come ubriaca,
perché tali sono appunto le cose cui si attacca?
— Certamente.
— Ma quando l'anima, restando in sé sola e per sé sola, svolge la sua ricerca,
allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immortale, immutabile, e, avendo
natura affine a quello, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca
essere in sé e per sé sola; e, allora, cessa di errare e in relazione a quelle
cose rimane sempre nella medesima condizione, perché immutabili sono quelle cose
alle quali si attacca. E questo stato dell'anima si chiama intelligenza.
— Perfetto!, disse. Ciò che tu dici è bello e vero, o Socrate.
— Orbene, in base alle cose dette prima e a quelle che abbiamo dette ora, a
quale delle due specie a te pare che l'anima assomigli di più?
— A me pare, o Socrate, che chiunque, anche il più duro di mente, debba
ammettere, messo così sulla strada, che l'anima, sotto ogni rispetto, è più
simile a ciò che è immutabile che non a ciò che non è immutabile.
— E il corpo?
— All'altro.
— Considera ora la questione anche da quest'altro punto di vista. Quando anima e
corpo sono uniti insieme, la natura impone al corpo di servire e di lasciarsi
governare e all'anima di dominare e di governare. Orbene, anche per questo
rispetto, quale dei due ti pare simile a ciò che è divino e quale a ciò che è
mortale? 0 non ti pare che ciò che è divino debba governare e comandare, e ciò
che è mortale debba essere governato e servire?
— A me pare.
— Dunque l'anima a quale dei due assomiglia?
— È chiaro, o Socrate, che l'anima assomiglia a ciò che è divino e che il corpo
assomiglia a ciò che è mortale.
— E ora osserva, o Cebete, se dalle cose che abbiamo dette non consegue che
l'anima sia in sommo grado simile a ciò che è divino, immortale, intelligibile,
uniforme, indissolubile, sempre identico a se medesimo, mentre il corpo è in
sommo grado simile a ciò che è umano, mortale, multiforme, inintelligibile,
dissolubile e mai identico a se medesimo. Abbiamo qualcosa da dire contro queste
conclusioni, o Cebete? 0 non è così?
— No, non abbiamo nulla da dire. [Fedone, 79 a - 80 b]
L'altra prova che fornisce il Fedone [102 b - 107 b] e derivata da
alcune caratteristiche strutturali delle Idee. Le Idee contrarie non possono
combinarsi fra loro e stare insieme, perché, appunto in quanto contrarie, si
escludono a vicenda. Ma non possono (per conseguenza) nemmeno combinarsi e stare
insieme le cose sensibili che partecipano essenzialmente di queste Idee. Se così
è, allorché una Idea entri in una cosa, necessariamente l'Idea contraria che era
nella cosa scompare e cede il posto (non solo l'Idea di grande e quella di
piccolo non si possono combinare fra loro e si escludono nettamente a vicenda
quando siano in se e per sé considerate, ma si escludono a vicenda altresì il
grande e il piccolo che sono nelle cose: sopraggiungendo l'uno, l'altro scompare
e cede il posto). E la medesima cosa si verifica non solo per i contrari in sé,
ma anche per tutte quelle Idee e cose che, pur non essendo fra loro contrarie,
hanno in sé i contrari quali loro attributi essenziali: non solo caldo e freddo
si escludono nel modo che si è sopra detto, ma anche fuoco e freddo, neve e
caldo. Il fuoco non ammetterà mai in sé l'Idea del freddo e la neve non
ammetterà mai in sé l'Idea del caldo; al sopravvenire del caldo la neve deve
dileguarsi e cedere il posto, e al sopravvenire del freddo il fuoco deve
dileguarsi e cedere il posto. Ora veniamo all'anima ed applichiamo ad essa
quanto si è ora stabilito. L'anima ha come carattere essenziale la vita e l'Idea
di vita: è essa, infatti, che porta la vita nel corpo e la mantiene (e questo –
è bene tenerlo presente – per il Greco è ancor più ovvio che per noi, perché,
anche dal punto di vista strettamente linguistico, psyché richiama la nozione di
vita e significa anche, in molti contesti, semplicemente vita). E, poiché la
morte è il contrario della vita, in base al principio stabilito, l'anima, avendo
come carattere essenziale la vita, non potrà strutturalmente accogliere in se la
morte, e dunque sarà immortale. Pertanto, al sopraggiungere della morte, si
corromperà il corpo e l'anima se ne andrà altrove. In conclusione: l'anima, che
implica per sua essenza la vita, non può accogliere, appunto per questa ragione
di carattere strutturale, la morte, perché Idea di vita e Idea di morte si
escludono totalmente: l'espressione «anima morta» e una pura assurdità, è una
contraddizione in termini, come «neve-calda», «fuoco-freddo». Pertanto anima =
Idea di vita = ciò che per sua natura è e dà vita = incorruttibile = immortale =
eterna.
Nel Timeo Platone precisa che le anime sono generate dal Demiurgo, con la
stessa sostanza con cui è stata fatta l'anima del mondo (composta di "essenza",
di "identità" e di "diversità"); esse hanno dunque una nascita, ma, per preciso
statuto divino, non sono soggette a morte, cosi come non è soggetto a morte
tutto ciò che è direttamente prodotto dal Demiurgo.
Delle varie prove che Platone fornisce, un punto resta acquisito: l'esistenza e
l'immortalità dell'anima hanno senso unicamente se si ammette un essere
soprasensibile, metaempirico, che Platone chiama mondo delle Idee, ma che non
significa, in ultima analisi, se non questo: l'anima è la dimensione
intellegibile, metaempirica, incorruttibile, dell'uomo. Con Platone l'uomo ha
scoperto di essere a due dimensioni. E l'acquisizione sarà irreversibile, perché
anche coloro che negheranno una delle due dimensioni daranno alla dimensione
fisica, che crederanno di dover mantenere, un significato tutto diverso da
quello che essa aveva quando l'altra era ignorata. L'anima, in cui Socrate
(superando la visione omerica e presocratica e gli aspetti irrazionali della
visione orfica) additava il "vero uomo", identificandola con l'io consapevole,
intelligente e morale, riceve con Platone la sua adeguata fondazione ontologica
e metafisica e una precisa collocazione nella visione generale della realtà.
La metempsicosi
Per avere un'idea precisa del destino delle anime dopo la morte, occorre, in
primo luogo, chiarire la concezione platonica della "metempsicosi". Come
sappiamo, la metempsicosi è la dottrina che indica la trasmigrazione dell'anima
in vari corpi, quindi la "rinascita" della medesima in differenti forme di
viventi. Platone la riprende dagli orfici, ma la amplifica in vario modo
presentandola fondamentalmente in due forme complementari.
Fedone La prima forma è
quella che ci viene presentata nel modo più dettagliato nel Fedone. Qui
si dice che le anime che hanno vissuto una vita eccessivamente legata ai corpi,
alle passioni, agli amori e ai godimenti di essi non riescono a separarsi, con
la morte, interamente dal corporeo, diventato a esse connaturato. Queste anime
vagano per un certo tempo, per paura dell'Ade, attorno ai sepolcri come
fantasmi, fino a che, attratte dal desiderio del corporeo, non si legano
nuovamente a corpi e non solo di uomini ma anche di animali, a seconda della
bassezza del tenore di vita morale tenuto nella precedente vita. Invece quelle
anime che sono vissute secondo virtù, non quella filosofica, ma quella comune,
si reincarneranno in animali mansueti e socievoli, o ancora in uomini probi.
«Ma – dice Platone – alla stirpe degli dei non è concesso giungere a chi non
abbia coltivato la filosofia e non se ne sia andato dal corpo completamente
puro, ma è concesso solamente a colui che fu amante del sapere».
Repubblica Nella
Repubblica Platone parla di un secondo genere di reincarnazione dell'anima,
notevolmente diverso da questo. Le anime sono in numero limitato, sicché, se
tutte quante avessero, nell'aldilà, un premio o un castigo eterni, a un certo
momento non ne resterebbero più sulla terra. Per questo evidente motivo Platone
ritiene che il premio e il castigo ultraterreni per una vita vissuta sulla terra
debbano avere una durata limitata e un termine fisso. E poiché una vita terrena
dura al massimo cento anni, Platone, evidentemente influenzato dalla mistica
pitagorica del numero dieci, ritiene che la vita ultraterrena debba avere una
durata di dieci volte cento anni, ossia di mille anni (per le anime che hanno
commesso crimini grandissimi e insanabili, la punizione continua anche oltre il
millesimo anno). Trascorso questo ciclo, le anime devono ritornare a incarnarsi.
Fedro Analoghe idee
emergono dal mito del Fedro (sia pure con differenze nelle modalità e nei
cicli di tempo), da cui risulta che le anime ciclicamente ricadono nei corpi e
poi risalgono al cielo.
Ci troviamo, dunque, di fronte a un ciclo "individuale" di reincarnazioni,
legato cioè alle vicende dell'individuo, e a un ciclo "cosmico", che è il ciclo
millenario. Appunto a quest'ultimo si riferiscono i due celebri miti: di Er,
contenuto nella Repubblica, e del carro alato, contenuto nel Fedro, che ora
esamineremo.
Il mito di Er
Repubblica Nel celebre mito di Er, con cui si chiude la Repubblica, si narra il ritorno delle anime su questa terra. Terminato il loro viaggio millenario, le anime convengono su una pianura, dove viene determinato il loro destino futuro. E a questo riguardo Platone opera un'autentica rivoluzione della tradizionale credenza greca, secondo la quale sarebbero gli dei e la Necessità a decidere il destino dell'uomo. I "paradigmi delle vite", dice al contrario Platone, stanno in grembo alla Moira Lachesi, figlia di Necessità; ma essi non sono imposti, bensì solo proposti alle anime, e la scelta è interamente consegnata alla libertà delle anime stesse. L'uomo non è libero di scegliere se vivere o non vivere, ma è libero di scegliere come vivere moralmente, ossia se vivere secondo la virtù o secondo il vizio:
«E raccontò Er che, come giunsero quivi, dovettero andar da Lachesi; e che un profeta, prima di tutto, dispose le anime in ordine, e prendendo poi dalle ginocchia di Lachesi le sorti e i paradigmi delle vite, salito sopra un alto pulpito disse: Questo dice la vergine Lachesi, figlia della Necessità: "Anime effimere, è questo il principio d'un altro periodo di quella vita che è un correre alla morte. Non sarà il demone a scegliere voi, ma sceglierete voi il vostro demone. E il primo tratto a sorte scelga primo la vita alla quale poi dovrà di necessità essere legato. La virtù non ha padrone: secondo che ciascuno la onora o la dispregia, avrà più o meno di lei. La colpa è di chi sceglie. Dio non ne ha colpa"».
Detto questo, il profeta di Lachesi getta a sorte i numeri per stabilire
l'ordine con cui ciascuna anima deve recarsi a scegliere: il numero che tocca a
ciascuna anima è quello che le cade più vicino. Quindi il profeta stende sul
prato i paradigmi delle vite (paradigmi di tutte le possibili vite umane e anche
animali), in numero molto superiore a quello delle anime presenti. Il primo cui
tocca la scelta ha a disposizione molti più paradigmi di vita che non l'ultimo;
ma questo non condiziona in maniera irreparabile il problema della scelta: anche
per l'ultimo resta la possibilità di scelta di una vita buona, anche se non di
una vita ottima.
La scelta fatta da ogni anima viene poi suggellata dalle altre due Moire, Cloto
e Atropo, e diventa, tosi, irreversibile. Le anime bevono, quindi, la
dimenticanza nelle acque del fiume Amelete ("fiume della dimenticanza") e poi
scendono nei corpi, in cui realizzano la vita scelta. Abbiamo detto che la
scelta dipende dalla libertà delle anime, ma sarebbe più esatto dire dalla
conoscenza, o dalla scienza della vita buona e di quella cattiva, cioè dalla
filosofia, che per Platone diventa, dunque, forza che salva nell'aldiqua e
nell'aldilà, per sempre. L'intellettualismo etico è qui spinto a conseguenze
estreme:
«Poiché, se uno sempre – dice Platone – quando giunga alla vita di qua, si dia a filosofare sanamente, e la sorte della scelta non gli tocchi tra gli ultimi, c'è per lui la possibilità, giusto quanto Er riferiva di quel mondo, non solo di esser felice in questa terra, ma anche il viaggio di qui a là e di nuovo a qui non sarà sotterraneo e malagevole, ma piano e per il cielo».
Il mito del carro-alato
Fedro Platone ha
riproposto nel Fedro una visione dell'aldilà ancora più complessa. Le
ragioni sono probabilmente da ricercare nel fatto che nessuno dei miti sinora
esaminati spiega la causa della discesa delle anime nei corpi, la primigenia
vita delle anime stesse, e le ragioni della loro affinità con il divino.
Originariamente l'anima era presso gli dei e viveva al seguito degli dei una
vita divina, ed è caduta in un corpo sulla terra per una colpa. L'anima è come
un carro *alato condotto da un auriga e tirato da due cavalli. Mentre i due
cavalli degli dei sono egualmente buoni, i due cavalli delle anime degli uomini
sono di razza diversa: uno è buono, l'altro cattivo e la guida risulta difficile
(l'auriga simboleggia la ragione, i due cavalli le parti alogiche dell'anima,
ossia quella irascibile e quella concupiscibile, su cui torneremo più avanti;
secondo alcuni, però, simboleggerebbero i tre elementi con cui il Demiurgo nel
Timeo ha foggiato l'anima). Le anime procedono al seguito degli dei, volando per
le strade del cielo, e la loro meta è quella di pervenire periodicamente,
insieme agli dei, fino alla sommità del cielo, per contemplare ciò che sta al di
là del cielo, l'Iperuranio (il mondo delle Idee) o, come anche Platone dice, «la
Pianura della verità». Ma, a differenza di ciò che accade per gli dei, per le
nostre anime è ardua impresa il poter contemplare l'Essere che è al di là del
cielo, e il potere pascersi nella Pianura della verità, soprattutto a causa del
cavallo di razza cattiva, che tira in basso. Cosi avviene che alcune anime
riescano a vedere l'Essere o almeno una certa parte di esso, e per questo motivo
continuano a vivere con gli dei. Invece altre non riescono a giungere alla
Pianura della verità: si ammassano, fanno ressa e, non riuscendo a salire l'erta
che porta alla sommità del cielo, si scontrano e si calpestano; nasce una zuffa,
in cui le ali si spezzano e, fattesi per conseguenza pesanti, queste anime
precipitano sulla terra. Dunque, finché un'anima riesce a vedere l'Essere e a
pascersi nella Pianura della verità non cade in un corpo sulla terra, e, di
ciclo in ciclo, continua a vivere in compagnia degli dei e dei demoni. La vita
umana, alla quale l'anima, cadendo, dà origine, è moralmente più perfetta a
seconda che essa più abbia "veduto" la verità nell'Iperuranio e moralmente meno
perfetta a seconda che meno abbia "veduto". Alla morte del corpo, l'anima viene
giudicata e, per un millennio, come già sappiamo dalla Repubblica, godrà premio
sconterà pene, corrispondenti ai meriti o demeriti della vita terrena. E dopo il
millesimo anno ritornerà a reincarnarsi.
Rispetto alla Repubblica, nel Fedro c'è un'ulteriore novità.
Passati diecimila anni, tutte le anime rimettono le ali e ritornano presso gli
dei. Quelle anime che per tre vite consecutive hanno vissuto secondo filosofia,
fanno eccezione, e godono di una sorte privilegiata, in quanto rimettono le ali
dopo tremila anni. È chiaro quindi che, nel Fedro, il luogo in cui le anime
vivono con gli dei (e a cui fanno ritorno ogni diecimila anni) e il luogo in cui
godono il premio millenario per ogni vita vissuta sono differenti.
6. Lo stato ideale
La Repubblica platonica
Filosofia e politica Platone
fa pronunciare a Socrate, nel Gorgia, queste parole: «Io credo di essere tra
quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, e il
solo tra i contemporanei che la pratichi». La "vera arte politica" è l'arte che
"cura l'anima" e la fa essere "virtuosa" quanto più è possibile, e perciò è
l'arte del filosofo. La tesi, quindi, che a partire dal Gorgia in poi Platone ha
maturato e ha espresso in modo tematico nella Repubblica, è appunto quella della
coincidenza della vera filosofia con la vera politica. Solo se il politico
diventa "filosofo" (o viceversa) può costruirsi la vera Città, ossia lo Stato
fondato sul supremo valore della giustizia e del bene. È chiaro, però, che
queste tesi risultano pienamente intellegibili solo se si recupera il loro senso
storico, e, in particolare, se si recuperano alcune concezioni squisitamente
greche:
- l'antico senso della filosofia come "conoscenza dell'intero" (delle ragioni
supreme di tutte le cose);
- il senso della riduzione dell'essenza dell'uomo alla sua "anima" (psyché);
- la coincidenza fra individuo e cittadino;
- la città-stato come orizzonte di tutti i valori morali e come unica possibile
forma di società.
Solo tenendo ben presente questo, si può capire la struttura della Repubblica,
che è il capolavoro di Platone e quasi la summa del pensiero del nostro
filosofo, almeno di quello che egli ha messo per iscritto. Costruire la Città
vuol dire conoscere l'uomo e il suo posto nell'universo. Infatti, dice Platone,
lo Stato non è se non l'ingrandimento della nostra anima, una sorta di
gigantografia che riproduce in vaste dimensioni quello che c'è nella nostra
psyché. E il problema centrale della natura della "giustizia", che
costituisce l'asse attorno al quale ruotano tutti gli altri temi, riceve
adeguata risposta proprio osservando come nasce (o si corrompe) una Città
perfetta.
Uno Stato nasce perché nessuno di noi è "autarchico", ossia non basta a se
stesso e ha bisogno dei servigi di molti altri uomini:
- di tutti coloro che provvedono ai bisogni materiali (dal cibo, ai vestiti,
alle abitazioni);
- di alcuni uomini addetti alla custodia e alla difesa della Città;
- di pochi uomini che sappiano adeguatamente governare.
La Città ha quindi bisogno di tre classi sociali:
- quella dei contadini, degli artigiani, dei mercanti;
- quella dei custodi;
- quella dei reggitori.
La prima classe è costituita di uomini in cui prevale l'aspetto "concupiscibile"
dell'anima, che è l'aspetto più elementare. Questa classe sociale è buona quando
vi predomina la virtù della "temperanza", che è una specie di ordine, di dominio
e di disciplina dei piaceri e dei desideri, ed è anche la capacità di
sottomettersi alle classi superiori nel modo conveniente. Le ricchezze e i beni,
che sono amministrati esclusivamente da questa classe, non dovranno essere né
troppi né troppo pochi.
La seconda classe è costituita da uomini in cui prevale la forza "irascibile"
(volitiva) dell'anima, vale a dire da uomini che assomigliano ai cani di buona
razza, ossia dotati, a un tempo, di mansuetudine e di fierezza. La virtù di
questa classe sociale deve essere la "fortezza" o il "coraggio". I custodi
dovranno vigilare, oltre che sui pericoli che possono venire dall'esterno, su
quelli che possono venire dall'interno. Ad esempio, dovranno evitare che nella
prima classe si produca troppa ricchezza (che genera ozio, lusso, amore
indiscriminato di novità), oppure troppa povertà (che genera vizi opposti).
Inoltre, dovranno fare in modo che lo Stato non cresca né rimpicciolisca troppo.
Dovranno altresì curare che le mansioni affidate ai cittadini siano quelle
corrispondenti alle loro nature, e che si impartisca a ciascuno l'educazione
conveniente.
I governanti, infine, dovranno essere coloro che avranno saputo amare la Città
più degli altri e avranno saputo compiere il loro compito con zelo e,
soprattutto, che avranno saputo conoscere e contemplare il Bene. Nei governanti
predomina, quindi, l'anima razionale, e la loro virtù specifica è la "sapienza".
Dunque, la Città perfetta è quella in cui predominano la temperanza nella prima
classe sociale, la fortezza o coraggio nella seconda, e la sapienza nella terza.
La giustizia altro non è che l'armonia che si instaura fra queste tre virtù:
quando ciascun cittadino e ciascuna classe sociale attendono alle funzioni che
sono loro proprie nel modo migliore e fanno quello che per natura e per legge
sono chiamati a fare, allora si realizza la perfetta giustizia.
Le tre parti dell'anima; i loro nessi
con le tre classi e con le virtù cardinali Come abbiamo visto, secondo
Platone lo Stato è un ingrandimento dell'anima. In effetti, in ciascun uomo sono
presenti le tre facoltà dell'anima che si ritrovano nelle tre classi sociali
dello Stato. Ed ecco la prova. Di fronte agli stessi oggetti c'è in noi:
- una tendenza che ci spinge a essi e che è desiderio;
- un'altra che invece ci trattiene da essi e domina il desiderio ed è la
ragione;
- e una terza tendenza, che è quella per cui ci adiriamo e infiammiamo, che non
è né ragione né desiderio (non è ragione, perché è passionale, e non è
desiderio, perché spesso contrasta con esso, come, ad esempio, quando ci
adiriamo per aver ceduto al desiderio).
Dunque, come tre sono le classi dello Stato, così sono tre le parti dell'anima:
- l'appetitiva (epithymetikón);
- l'irascibile (thymoeidés);
- la razionale (loghistikón).
L'irascibile", per sua natura, sta prevalentemente dalla parte della ragione, ma
può allearsi anche alla parte più bassa dell'anima, se guastata da una cattiva
educazione. Di conseguenza, ci sarà anche perfetta corrispondenza fra le virtù
della Città e quelle dell'individuo.
L'individuo è "temperante" quando le parti inferiori armonizzano con la
superiore e ubbidiscono a essa; è "forte" o "coraggioso" quando la parte
"irascibile" dell'anima sa mantenere con fermezza i dettami della ragione
attraverso tutti i pericoli; è "sapiente" quando la parte razionale dell'anima
possiede la vera scienza di ciò che giova a tutte le parti (scienza del bene). E
la "giustizia" verrà a essere quella disposizione dell'anima secondo cui
ciascuna parte dell'anima stessa fa ciò che deve fare e come lo deve fare.
Come si educano le tre classi di
cittadini Ecco, dunque, il concetto di giustizia "secondonatura": che
"ciascuno faccia ciò che gli compete di fare", i cittadini e le classi dei
cittadini nella Città e le parti dell'anima nell'anima. La giustizia c'è al di
fuori, nelle sue manifestazioni, solo se è presente dentro, nella sua radice,
ossia nell'anima.
Platone ha così dedotto la "tavola delle virtù" ossia la tavola di quelle che
successivamente verranno dette virtù "cardinali". Essa risulta intrinsecamente
legata alla psicologia platonica, e in particolar modo alla triplice distinzione
di anima concupiscibile, irascibile e razionale. Ma la Città perfetta deve avere
un'educazione perfetta. Se per la prima classe di cittadini non serve una
speciale educazione, perché arti e mestieri si apprendono facilmente con la
pratica, per la classe dei custodi dello Stato è indispensabile un'educazione
accurata.
La cultura (poesia e musica) e la ginnastica saranno gli strumenti più idonei
per educare il corpo e l'anima del custode. È l'antica paideia ellenica che
Platone riforma però in modo ben preciso: la poesia sarà purificata da tutto ciò
che è falso, la musica dovrà infondere coraggio in guerra e spontaneità nelle
opere di pace e scopo della ginnastica dovrà essere l'irrobustimento di
quell'elemento della nostra anima da cui deriva il coraggio.
Per questa classe Platone propone la "comunanza" di tutti i beni, comunanza
degli uomini e delle donne, e quindi dei figli, e l'abolizione di qualunque
proprietà di beni materiali. Doveva essere, dunque, compito della classe
inferiore, a cui era concesso il possesso dei beni, provvedere alle necessità
materiali dei custodi. Uomini e donne della classe dei custodi avrebbero dovuto
ricevere l'identica educazione e svolgere le identiche mansioni. I figli, subito
sottratti ai genitori, sarebbero stati allevati e educati in luoghi opportuni,
senza conoscerli mai.
Tale audacissima concezione fu proposta da Platone con l'intento di creare una
grande famiglia, in cui tutti si amassero come padri, madri, figli, fratelli,
sorelle, parenti. Egli credeva di eliminare così le ragioni che alimentano
l'egoismo e le barriere del "mio-tuo". Tutti avrebbero dovuto dire "è nostro".
Il bene privato avrebbe dovuto essere trasformato in bene comune.
L'educazione che Platone prevedeva per i governanti coincideva con il tirocinio
richiesto per l'apprendimento della filosofia (data la coincidenza di vero
filosofo e vero politico) e doveva durare fino a 50 anni (Platone la chiamava la
"lunga strada"). Fra i 30 e i 35 anni doveva avvenire il tirocinio più
difficile, ossia il cimento con la dialettica, e dai 35 ai 50 anni doveva
avvenire una ripresa dei contatti con la realtà empirica (con l'assunzione di
varie mansioni). La finalità dell'educazione del politico-filosofo consisteva
nel giungere a conoscere e a contemplare il Bene, la "cognizione massima", e nel
plasmare se medesimo secondo il Bene, per poi calare il Bene stesso nella realtà
storica. In tal modo, il "Bene" è emerso come principio primo da cui dipende il
mondo ideale; il Demiurgo è risultato essere il generatore del cosmo fisico
perché "buono"; il "Bene" emerge come fondamento della Città e dell'agire
politico.
Si comprendono, pertanto, le affermazioni di Platone nel finale del libro IX
della Repubblica, secondo le quali «poco importa se ci sia o possa esserci» tale
Città; basta che ciascuno viva secondo le leggi di questa Città, ossia secondo
le leggi del bene e della giustizia. Insomma, prima che nella realtà esterna,
ossia nella storia, la Città platonica si realizza nell'interiorità dell'uomo. È
questa, al limite, la sua vera sede.
Il Politico e le Leggi
Nella Repubblica Platone distingue, accanto alla forma di governo da
lui ideata, ossia un'aristocrazia di filosofi, quattro forme che rappresentano
una progressiva corruzione di quella, e precisamente:
- la timocrazia = forma di governo fondata sull'onore considerato come valore
supremo;
- l'oligarchia = forma di governo fondata sulla ricchezza;
- la democrazia = forma di governo fondata su una libertà portata all'eccesso;
- la tirannide = forma di governo fondata sulla violenza derivata dalla licenza
in cui si è risolta la libertà.
Platone ritiene (ed è questa una delle sue più cospicue scoperte) che le forme
di governo corrispondano esattamente al livello morale delle coscienze dei
cittadini.
Dopo la Repubblica, Platone tornò a occuparsi espressamente della
tematica politica soprattutto nel Politico e nelle Leggi. Non
ritrattò il progetto della Repubblica, perché questo rappresenta un
ideale, ma cercò di dar forma ad alcune idee che giovassero alla costruzione di
uno "Stato secondo", ossia che viene dopo quello ideale, uno Stato che tenga
maggiormente conto degli uomini come sono effettivamente e non solo come
dovrebbero essere.
Nella Città ideale non esiste il dilemma se debba essere sovrano l'uomo di Stato
o la legge, perché la legge non è altro che il modo in cui l'uomo di Stato
perfetto realizza nella Città il Bene contemplato. Ma nello Stato reale, dove
ben difficilmente potrebbero trovarsi uomini capaci di governare "con virtù e
scienza" al di sopra della legge, deve essere sovrana la legge, e quindi occorre
elaborare costituzioni scritte.
Le costituzioni storiche, che sono imitazioni di quella ideale (o corruzioni
della medesima), possono essere tre:
- se è un uomo solo che governa e imita il politico ideale, si ha la monarchia;
- se è una moltitudine di uomini ricchi che imita il politico ideale, si ha
l'aristocrazia;
- se è il popolo tutto che governa e cerca di imitare il politico ideale, si ha
la democrazia.
Quando queste forme di costituzione si corrompono e i governanti cercano il
proprio tornaconto e non quello pubblico nascono:
- la tirannide;
- l'oligarchia;
- la demagogia.
Se gli Stati sono ben governati, la prima forma di governo è la migliore; quando
sono corrotti, invece, è migliore la terza forma, perché la libertà resta
garantita.
Nelle Leggi Platone raccomanda, infine, due concetti basilari: quello di
"costituzione mista" e quello di "uguaglianza proporzionale". Troppo potere
produce l'assolutismo tirannico e troppa libertà produce demagogia. Il meglio
sta nella libertà temperata dall'autorità in "giusta misura". La vera
uguaglianza non è quella dell'astratto egualitarismo a tutti i costi, ma quella
"proporzionale". La "giusta misura" domina da un capo all'altro delle Leggi,
e, anzi, di essa Platone rivela espressamente il fondamento, ancora una volta
squisitamente teologico, affermando che, per noi uomini, «la misura di tutte le
cose è Dio».
Il mito della caverna
Si colloca proprio al centro della Repubblica. Il mito è stato via via
visto come simboleggiante la metafisica, la gnoseologia e la dialettica, e anche
l'etica e la mistica platonica: è il mito che esprime tutto Platone, e, con
esso, quindi, concludiamo l'esposizione e l'interpretazione del suo pensiero.
Immaginiamo degli uomini che vivano in un'abitazione sotterranea, in una caverna
che abbia l'ingresso aperto verso la luce per tutta la sua larghezza, con un
lungo andito d'accesso; e immaginiamo che gli abitanti di questa caverna siano
legati alle gambe e al collo in modo che non possano girarsi e che quindi
possano guardare unicamente verso il fondo della caverna. Immaginiamo poi che,
appena fuori dalla caverna, vi sia un muricciolo ad altezza d'uomo e che dietro
questo (e quindi interamente coperti dal muricciolo) si muovano degli uomini che
portano sulle spalle statue e oggetti lavorati in pietra, in legno e in altri
materiali, raffiguranti tutti i generi di cose. Immaginiamo, ancora, che dietro
questi uomini arda un grande fuoco, e che, in alto, splenda il sole. Infine,
immaginiamo che la caverna abbia una eco e che gli uomini che passano al di là
del muro parlino fra loro, in modo che dal fondo della caverna le loro voci
rimbalzino, riproducendosi per effetto dell'eco. Ebbene, se tosi fosse, quei
prigionieri non potrebbero vedere altro che le ombre delle statuette che si
proiettano sul fondo della caverna e udrebbero l'eco delle voci: ma essi
crederebbero, non avendo mai visto altro, che quelle ombre siano l'unica e vera
realtà e crederebbero anche che le voci dell'eco siano le voci prodotte dalle
ombre. Ora, supponiamo che uno di questi prigionieri riesca a sciogliersi con
fatica dai ceppi; ebbene, costui con fatica riuscirebbe ad abituarsi alla nuova
visione che gli apparirebbe; e, abituandosi, vedrebbe le statuette muoversi al
di sopra del muro, e capirebbe che quelle sono ben più vere delle cose che prima
vedeva e che ora gli appaiono come ombre. E supponiamo che qualcuno tragga il
nostro prigioniero fuori della caverna e al di là del muro; ebbene, egli
resterebbe abbagliato prima dalla gran luce, e poi, abituandosi, imparerebbe a
vedere le cose stesse, prima nelle loro ombre e nei loro riflessi nell'acqua,
quindi le vedrebbe in se stesse, e, infine, vedrebbe il sole, e capirebbe che
solo queste sono le realtà vere e che il sole è la causa stessa di tutte le
altre cose.
I quattro significati Il mito
simboleggia:
- innanzitutto i vari gradi ontologici della realtà, cioè i generi dell'essere
sensibile e soprasensibile con le loro suddistinzioni: le ombre della caverna
sono le mere parvenze sensibili delle cose, le statue le cose sensibili; il muro
è lo spartiacque che divide le cose sensibili e le soprasensibili; al di là del
muro le cose vere simboleggiano il vero essere e le Idee, e il sole simboleggia
l'Idea del Bene;
- in secondo luogo, il mito simboleggia i piani della conoscenza nei suoi due
differenti livelli e nei loro vari gradi: la visione delle ombre simboleggia
Feikasía o immaginazione, e la visione delle statue simboleggia la pistis o
credenza; il passaggio dalla visione delle statue alla visione degli oggetti
veri e alla visione del sole, prima mediata e poi immediata, rappresenta la
dialettica nei vari gradi e la pura intellezione;
- in terzo luogo, il mito della caverna simboleggia anche l'aspetto ascetico,
mistico e teologico del platonismo: la vita nella dimensione dei sensi e del
sensibile è vita nella caverna, così come la vita nella dimensione dello spirito
è vita nella pura luce; il volgersi dal sensibile all'intellegibile è
espressamente rappresentato come "liberazione dai ceppi", come con-versione; e
la visione suprema del sole e della luce in sé è visione del Bene e
contemplazione del Divino;
- ma il mito della caverna esprime anche la concezione politica squisitamente
platonica: Platone parla, infatti, anche di un "ritorno" nella caverna di colui
che si era liberato dalle catene, di un ritorno che ha come scopo la liberazione
dalle catene di coloro in compagnia dei quali egli prima era stato schiavo. E
questo è indubbiamente il ritorno del filosofo-politico, il quale, se seguisse
il suo solo desiderio, resterebbe a contemplare il vero, e invece, superando il
suo desiderio, scende per cercare di salvare anche gli altri (il vero politico,
secondo Platone, non ama il comando e il potere, ma usa comando e potere come
servizio, per attuare il bene). Ma a chi ridiscende che cosa potrà mai capitare?
Egli, passando dalla luce all'ombra, non vedrà più, se non dopo essersi
riabituato al buio; faticherà a riadattarsi ai vecchi usi dei contubernali,
rischierà di non essere da loro capito, e, preso per folle, potrà perfino
rischiare di essere ucciso: come è successo a Socrate, e come potrebbe succedere
a chiunque testimoni in dimensione socratica.
Ma l'uomo che ha "visto" il vero Bene dovrà e saprà correre questo "rischio",
che è poi quello che dà senso alla sua esistenza.
ARISTOTELE
Intorno al 366/65 a. C., all'età di diciotto anni, Aristotele si trasferì ad Atene e incominciò a frequentare l'Accademia di Platone. Vi rimase per ben vent'anni, cioè fino alla morte del maestro, avvenuta nel 347, quando decise di uscirne a motivo della direzione presa dalla scuola sotto la guida di Speusippo. Intorno al 343/42 Filippo il macedone lo chiamò a corte e gli affidò l'educazione del figlio Alessandro, il futuro Alessandro Magno. Nel 335/34 fece ritorno ad Atene e vi fondò, presso un edificio attiguo al tempio di Apollo Licio, la propria scuola, il Liceo (o Peripato, dal verbo peripatèin, che significa “passeggiare”, visto che le lezioni si tenevano, appunto, passeggiando per il giardino). Dopo anni fecondi di produzione, morì nel 322, in esilio a Calcide, dopo essere stato coinvolto dalla reazione antimacedone conseguente alla morte di Alessandro avvenuta nel 323.
Aristotele e Platone
È rilevante il fatto che Aristotele frequentasse per ben vent'anni la scuola
di Platone, partecipando attivamente alla discussione della dottrina del
maestro, fino a giungere al suo superamento attraverso una metafisica propria
capace di rispondere alla principali aporie del platonismo.
Aristotele non è l'anti-Platone, ne è invece un fecondissimo interprete che ha
proceduto sulla linea platonica della “seconda navigazione”. Ha criticato la
dottrina platonica delle Idee ed è giunto alla fine a negare che esistano Idee o
Forme trascendenti. Ma con questo, egli non ha affatto inteso negare che
esistano realtà soprasensibili: egli ha voluto dimostrare, invece, che il
soprasensibile non è quale Platone pensava essere.
Platone nelle Idee soprasensibili aveva indicato la “causa” delle cose. In
quanto cause delle cose, le idee erano state da lui intese immanenti nella
relazione con le cose, in quanto soprasensibili, invece, erano state pensate
come altro dalle cose e quindi trascendenti. Come potessero le Idee essere
insieme immanenti e trascendenti Platone non riuscì mai a spiegarlo. In ogni
caso Platone, che non aveva interesse per i fenomeni sensibili come tali, si era
preoccupato di indagare la struttura del mondo ideale come tale, piuttosto che
la sua relazione con quello sensibile.
Aristotele, per contro, reagiva energicamente a questo ordine di considerazioni,
ritenendo che la trascendenza delle idee non avrebbe potuto mai spiegare
l'esistenza e la conoscenza delle cose sensibili. Pertanto, il filosofo di Stagira introduceva la teoria delle forme immanenti, cioè strutture interiori
alle cose che ne plasmano e ne informano la materia. Il mondo platonico delle
Idee trascendenti, diventa la struttura intelligibile immanente alle cose.
Ciò non ha condotto Aristotele ad abbandonare la concezione del soprasensibile, ma a perfezionarla: oltre alle forme, infatti, Aristotele pone al vertice della realtà un Dio-Motore immobile primo, un certo numero di altre realtà analoghe al Motore primo e le anime intellettive; Aristotele, cioè, alla concezione platonica del soprasensibile inteso prevalentemente come intelligibile, sostituisce una concezione del soprasensibile inteso prevalentemente come intelligenza.
Le differenze di fondo individuabili fra Aristotele e Platone, invece, si
possono così descrivere:
- manca in Aristotele l'afflato mistico e religioso che caratterizzava l'opera
platonica, con la sua tensione escatologica;
- Platone era interessato alle scienze matematiche, ma non provava interesse
per le scienze empiriche, salvo la medicina, ed era generalmente privo di
curiosità per i fenomeni fisici e genericamente empirici,
Aristotele, invece, aveva grandissimo interesse per quasi tutte le scienze
empiriche e per i fenomeni anche considerati in quanto tali, che, di fronte al
disprezzo platonico, riteneva di poter e di dover salvare attraverso il loro
fondamento metafenomenico (al di là del fenomenico);
- alla forza poetica dello stile dei dialoghi platonici fa riscontro
lo spirito scientifico di Aristotele, che in luogo di opere coinvolgenti come
quelle platoniche, propone una sistemazione stabile dei quadri della
problematica del sapere filosofico.
Il distacco da Platone
Per Platone la realtà è idea. Il termine idea ha a che fare con la radice del
verbo vedere; l'idea è una visione, un'intuizione intellettuale, una
rappresentazione archetipica che abita in un mondo sovraceleste e
sovrasensibile: l'iperuranio. Per Aristotele, invece, la realtà è sostanza, che
è nel contempo, analogicamente, rappresentante individuale di qualsiasi specie
di cose e natura intima del medesimo, sua forma o sua essenza.
Nella “Scuola di Atene” di Raffaello, Platone e Aristotele sono raffigurati
rispettivamente con il dito della mano alzato verso l'alto e con il palmo della
mano aperto e disteso ad indicare il basso. Aristotele era un discepolo di
Platone, ha frequentato la sua scuola per anni, ma ha “preferito la verità” (amicus
Plato, sed magis amica veritas), si è staccato da lui e ha organizzato
un'altra scuola, il Perípato.
Il sapere platonico è finalizzato alla pedagogia e alla politica: Platone vuole
educare l'uomo per costruire la città ideale. Il filosofo, per Platone, è colui
che contempla il mondo iperuranio e da tale contemplazione trae gli spunti per
organizzare la società ideale (la visione platonica diviene utopia). Per
Aristotele il vero filosofo è colui che si sofferma nella contemplazione, una
contemplazione della realtà e non dell'archetipo. Il sistema di Platone si
proietta in verticale, gerarchizzando gli ordini di realtà dal nulla all'ideale
archetipo; il sistema di Aristotele si occupa di tutti i campi della realtà,
orizzontalmente e fenomenologicamente puntando lo sguardo al profondo delle
cose.
La critica a Platone
La spiegazione platonica è il frutto di uno sforzo teoretico considerevole
(la cosiddetta “seconda navigazione”) e l'approdo al mondo puramente
intelligibile, vale a dire alla realtà soprasensibile delle idee, è stato di
sicuro un traguardo di enorme valore rispetto alla speculazione precedente. Le
idee platoniche sono un criterio validissimo di interpretazione del mondo, nella
misura in cui stabiliscono che la verità consiste nell'aspetto intelligibile
della realtà, non in quello sensibile, che risulta, invece, soltanto opinabile
nel suo incessante divenire. Di fronte a un dato qualsiasi di realtà (il solito
tavolo) tutto ciò che è suscettibile di sensazione (colore, odore, densità,
suono, gusto) risulta effimero e contingente rispetto al suo nocciolo “veramente
significativo”, uno schema di natura tale da essere suscettibile soltanto di
un'apprensione intellettuale, cioè che può rappresentarsi soltanto a titolo di
idea e non di sensazione.
L'idea è qualcosa di inimmaginabile, qualcosa che deve prescindere, pena il
rischio del suo misconoscimento, da qualsiasi forma di finzione o di
immaginazione. L'idea di tavolo, infatti consiste nel corrispettivo della sua
definizione: arredamento da appoggio, ma deve prescindere ed esulare totalmente
da qualsiasi rappresentazione “visiva” di un benché generico tavolo, pena
l'impossibilità di ritenere autentica l'originaria scoperta del tavolo da parte
del suo primo utilizzatore.
Ora, la soluzione platonica dell'iperuranio, il mondo alternativo in cui l'idea
risiede intelligibilmente nella sua perfetta realtà immateriale, porta con sé
una pregiudiziale dualistica (di radicale opposizione) nei confronti dell'intera
realtà, costituita appunto di idea, la sua dimensione reale e vera, e di
materia, la sua dimensione reduplicativa e, per tanto imperfetta, per non dire
degenerata in un incessante sequenza di negazioni. Per Platone il mondo delle
cose sensibili è copia, imitazione, falsità.
Aristotele, per contro, sente la necessità di non svalutare il sensibile, cioè
il mondo delle realtà concrete, ma di salvarlo (di salvare il “fenomeno”, ciò
che appare) per darne pienamente ragione senza dover ricorrere a una realtà
oltremondana, a suo parere fonte di confusione e di complicazione piuttosto che
di semplificazione. Aristotele obietta a Platone che, se il mondo iperuranio
fosse reale come alternativa al mondo delle cose concrete, allora ogni cosa
dovrebbe trovare la propria ragion d'essere in una realtà estranea,
completamente estranea, e perciò individua tanto quanto il concreto materiale.
Ma ciò comporterebbe come spiacevole conseguenza l'incontrollabile
proliferazione dell'idea stessa, che per ogni singola cosa, anche la più
insignificante (come un certo pelo della barba), dovrebbe esistere un modello
archetipo, contraddittoriamente molteplice nella misura di tutte le (infinite)
singole caratteristiche e affezioni di quella cosa (come l'esser curvo piuttosto
che l'esser bianco o l'esser lungo o corto e liscio o riccio ecc.). Per un pelo,
... quante idee!
Aristotele è d'accordo con Platone nel sostenere che ciò che di valido si dà in
realtà è ciò che corrisponde al suo aspetto intelligibile, ma è fermamente
convinto che, nella spiegazione delle cose, non si debba ricorrere a un
paradigma trascendente (un modello che supera, che va al di là della stessa
realtà), ma si debba pensare a un principio immanente (insidente, che rimane
all'interno) alla cosa medesima di cui è ragione; un principio, ovviamente, di
natura intelligibile, la forma.
La forma, per Aristotele, significa il profilo interiore, la struttura,
l'impalcatura logica delle cose, l'aspetto intelligibile ed universale
riconoscibile (astraibile) in esse mediante un'intenzione della ragione.
Gli scritti
Logica, metafisica, fisica e psicologia, zoologia, politica, etica e poetica
costituiscono gli interessi di Aristotele, il quale, diversamente da Platone, la
cui filosofia era costruita in funzione della pedagogia e della politica, pensa
a una formazione enciclopedica, cioè aperta a tutti i rami della conoscenza
scientifica, in tutte le sue regioni d'essere.
Due note:
- tradizionalmente si distinguono nel corpus aristotelico opere
essoteriche, cioè rivolte al pubblico esterno alla scuola del Peripato, e opere
esoteriche, quelle su cui veramente avveniva l'insegnamento e il dibattito
all'interno della scuola.
- le opere di logica vengono raggruppate dalla tradizione nel corpus che
prende il nome di organon, che in greco significa strumento; ciò sta a
significare che la logica gode di uno statuto sui generis, essendo, più che
scienza vera e propria, lo strumentario metodologico e argomentativo di tutte le
scienze, il criterio trasversale della loro correttezza sintattica e semantica.
Il Corpus aristotelicum nell'ordinamento attuale, si apre con l'Organon,
che è il titolo con cui, a partire dalla tarda antichità, è stato designato
l'insieme dei trattati di logica, che sono: Categorie, De
Interpretatione, Analitici Primi, Analitici Secondi, Topici,
Confutazioni Sofistiche.
Seguono le opere di filosofia naturale e cioè: La Fisica, Il Cielo,
La generazione e la corruzione, La Meteorologia.
Connesse con queste sono le opere di psicologia costituite dal trattato
Sull'anima e da un gruppo di opuscoli raccolti sotto il titolo di Parva
naturalia.
L'opera più famosa è costituita dai quattordici libri della Metafisica.
Vengono quindi i trattati di filosofia morale e politica: l'Etica Nicomachea,
la Grande Etica, l'Etica Eudemia, la Politica.
Infine sono da ricordare la Poetica e la Retorica.
Fra le opere riguardanti le scienze naturali l'imponente Storia degli animali,
Le parti degli animali, Il moto degli animali, La generazione
degli animali.
La ripartizione delle scienze
Per scienza Aristotele intende una disciplina dimostrativa.
Le scienze, per Aristotele, si distinguono in:
- scienze teoretiche, che ricercano il sapere in sé medesimo, a
prescindere da qualsiasi scopo di ordine operativo;
- scienze pratiche, inerenti al sapere come mezzo per raggiungere la
perfezione morale;
- scienze poietiche o produttive, che ricercano il sapere in
vista del fare o produrre oggetti.
Le scienze teoretiche si distinguono come tali (cioè in quanto “teoretiche”)
perché si dedicano alla pura speculazione della realtà, a prescindere da
qualsiasi intervento in essa da parte dell'uomo. Metafisica, Fisica (che comprende la Psicologia) e Matematica, le scienze
teoretiche, sono considerate da Aristotele le più elevate per dignità e per
valore.
Si occupano di realtà
necessarie, cioè di tutto ciò che non può non essere diversamente da come è, di
ciò che è inevitabile perché fissato così com'è dalla sua stessa ragion d'essere
così com'è. Esempio di una realtà necessaria è qualsiasi definizione di ordine
geometrico (la somma degli angli interni di un triangolo è equivalente a un
angolo piatto, 180°) o qualsiasi definizione di essenza (l'uomo è l'animale
ragionevole).
Ciò che è necessariamente non può non essere.
Le scienze pratiche si occupano del possibile, cioè del non necessario. Ciò risulta ovvio se si pensa che, di fronte alla volontà, tutto è possibile.
LA METAFISICA
“Metafisica” non è un termine aristotelico. Probabilmente esso è stato coniato in occasione dell'edizione delle opere di Aristotele fatta da Andronico di Rodi, nel primo secolo a. C., per una questione di ... spazio: metà tà physiká, letteralmente, significa “dopo la fisica”, espressione adottata come titolo per quel fascicolo di appunti aristotelici, di materia diversa e difficilmente classificabile e che non potevano rientrare nelle opere di altro genere, che fu posto, appunto, “a fianco”, “dopo” i volumi di Fisica nella classificazione bibliotecaria dell'intera opera del filosofo.
Le definizioni aristoteliche di metafisica sono:
- scienza delle cause e dei principi primi;
- scienza dell'essere in quanto essere (o meglio: dell'ente in quanto
ente);
- scienza della sostanza;
- scienza di Dio e della sostanza soprasensibile.
Tali definizioni sono, rispettivamente, in linea con tutta la tradizione
precedente
. che, da Talete a Platone, aveva ricercato l'arché o causa prime di
tutta la realtà,
. che da Parmenide a Platone aveva costituito il centro di interesse ontologico
della filosofia,
. che, dopo il superamento del monismo eleatico-parmenideo, precisa quale sia
il significato primario dell'essere, l'essere fondamentale,
. che considerava il “principio” nella sfera del divino.
Aristotele, dal canto suo, usava per lo più l'espressione filosofia prima
o anche teologia per designare la metafisica, in opposizione alla
filosofia seconda o fisica. La metafisica, secondo Aristotele nasce
nell'uomo a motivo della meraviglia che egli prova di fronte alle cose; nasce
dal puro amore di sapere, dal bisogno tutto umano di conoscere il perché
ultimativo delle cose.
La scienza delle cause
La causalità è, ovviamente, presente nei filosofi venuti prima di Aristotele,
Platone, in primo luogo, ma anche in precedenza, fino a Talete. La causalità,
infatti è intimamente connessa con il problema filosofico del “perché”, della
ragion d'essere.
In Aristotele, tuttavia, la causalità trova la sua prima
formulazione organica e, presumibilmente, completa nel contesto della filosofia
prima. Aristotele enumera quattro ordini di cause:
- materiale, vale a dire ciò di cui una sostanza è fatta, come ad esempio il
bronzo per la statua o il legno per l'armadio;
- efficiente (o agente), cioè ciò da cui una sostanza è fatta o mossa (o si
trasforma nel divenire), nel significato dell'operatore (o del realizzatore) di
una sostanza, come il vasaio per l'anfora o il carpentiere per l'imbarcazione,
ma anche come il sole per la crescita o l'umore per l'istinto;
- formale, ciò per cui una sostanza è quella sostanza che è, cioè l'intimo
profilo intelligibile di una sostanza, da non confondere, certo, con la sua
esteriorità materiale o il suo volto fisico; si tratta di quella delineazione
essenziale che corrisponde, nel linguaggio alla definizione della cosa, come la
ragionevolezza attribuita all'animale nel caso dell'uomo;
- finale, ciò in vista di cui (alla luce di cui) una sostanza è pienamente
realizzata o intelligibile, la causa primaria (in senso metafisico, cioè anche ultimativa)
che costituisce il senso stesso della causalità degli altri ordini di cause.
La causa finale
Proprio la causa finale esige un'ulteriore chiarimento, data la sua statura
di fondamento della stessa causalità.
Il fine, in filosofia, non può coincidere con lo scopo, cioè l'obiettivo
dell'azione di una sostanza, pena l'insignificanza di qualsiasi proposizione di
senso metafisico. Sulla questione del fine (o della finalità) sta o cade tutta
la pregnanza della metafisica. Facciamo un esempio per capire.
A spasso per un parco naturale, ad onta della natura incontaminata e della
verginità dell'ambiente, mi imbatto improvvisamente, sul limitare di una
magnifica radura, in un frigorifero riverso al suolo. Che orrore, che criminale
quel pendaglio da forca che per disfarsi di un elettrodomestico ingombrante ha
pensato bene di abbandonarlo in quel modo incivile! Certo, è un frigorifero;
magari ancora funzionante, se supportato dalla necessaria erogazione di corrente
elettrica. Potrebbe ancora realizzare il proprio scopo conservando i cibi a
temperatura ridotta, ciò per cui è stato costruito. Eppure quel frigorifero è un
assurdo, un dato incomprensibile, perché così abbandonato non realizza la
propria finalità.
Che cos'è, dunque la finalità? Non può essere certo lo scopo cui una cosa
qualsiasi tende con la sua azione. Se, ad esempio, la finalità dell'uomo
coincidesse con la crescita e con l'età adulta, diventerebbe d'obbligo
chiedersi, una volta raggiunta l'età adulta, quale altra finalità dovrebbe
governare il suo agire. Forse la vecchiaia e, al termine di tutto, la morte? I
fini non realizzano, in quanto tali, ma soltanto in ragione di un orizzonte più
ampio, la finalità appunto, all'interno della quale ottengono significato.
L'adulto, allora, può essere sì la finalità dell'uomo, ma come il significato della
piena maturità, che sta a monte di qualsiasi uomo, a fondare la significatività
della sua crescita e della sua vita intera. L'essere adulto, in questo caso,
diventa il fine anche del vecchio e del morente, pur non potendo esserne lo
scopo, vista l'irreversibilità del tempo.
La finalità del frigorifero, invece, è l'economia domestica, non la
conservazione dei cibi.
D'altronde, qual è la finalità dell'uomo? Forse uno
scopo che l'uomo si propone? Se così fosse, l'uomo sarebbe inevitabilmente
frustrato, perché ad ogni scopo raggiunto se ne aggiungerebbe un altro, e un
altro ancora, fino a quando la fine interromperebbe inesorabilmente la catena.
La finalità dell'uomo non è uno scopo, ma la sua stessa posizione nell'ordine
dell'essere; la finalità dell'uomo consiste nella realizzazione della manifestatività dell'essere, cioè nella coscienza. La finalità dell'uomo è
l'intelligenza (la sua forma è la razionalità), l'intelligenza che consiste
(letteralmente) nella “lettura intima” delle cose, nell'identificazione
(dell'uomo) nella loro natura essenziale. L'intelletto (participio passato di
senso passivo del verbo intelligere), infatti, altro non è se non la natura
della cosa in quanto “letta nell'intimo” (intel-letta) nell'ordine della
rappresentazione.
La finalità, quindi, costituisce l'orizzonte di comprensibilità delle cose
(che divengono nel mondo), il contesto previo all'interno del quale esse godono
di significato pieno, anche a prescindere da una loro singolare ed empirica
realizzazione (come nel caso in cui un individuo, per motivi di ordine
accidentale, non possa realizzare appieno la propria forma). Essa è l'orizzonte di intelligibilità di una
sostanza, il panorama entro il quale il suo significato si manifesta, il tessuto
di relazioni che costituiscono una sostanza come un elemento integralmente
comprensibile nel tutto, la condizione di senso. La finalità è un punto di
partenza e, solo in seconda istanza, anche un punto di arrivo (tò ou éneka).
A questo punto dovrebbe risultare chiaro perché, a prescindere dalla finalità,
ogni causalità perda di significato. Perché infatti costruire un frigorifero al
di fuori di un'idea di economia domestica? Perché vivere al di fuori di un
orizzonte di intelligenza? La finalità è intimamente connessa con la non
contraddittorietà: qualcosa è quel qualcosa e non può non essere quel qualcosa
che è.
La prima “storia della filosofia”: Metafisica I
Discutendo della causalità, nel primo libro della sua Metafisica,
Aristotele si propone di descrivere e di commentare le prese di posizione dei
suoi predecessori. Da Talete, infatti, cioè dal VII secolo, la filosofia si è
interrogata, in un modo o nell'altro, sulla questione del principio cosmico,
cioè sull'origine causale dell'intero complesso naturale che costituisce il
teatro dell'esperienza.
Costruendo una prima, piccola, storia della filosofia, Aristotele passa in
rassegna le risposte offerte dai suoi più illustri predecessori, non senza
mettere in evidenza, a suo giudizio, i progressi, i regressi e le aporie
(problematicità irrisolte) dei discorsi filosofici precedenti, a cominciare da
Talete di Mileto, ritenuto da lui (come da noi) il padre del discorso
filosofico.
Guardando al passato nella prospettiva del concetto di causa Aristotele affronta
infine i diversi problemi del platonismo e critica la dottrina del maestro (come
si è già visto), benché aperta alla pluralità delle cause.
In Platone, in effetti, vengono contemplate la causa materiale (la chora),
la causa formale, le Idee, e la causa efficiente, il Demiurgo, ma a giudizio di
Aristotele manca ancora l'ordine di causalità fondamentale, quella finale, che
si fa carico della giustificazione della causalità in generale.
È in questo senso che Aristotele supera la concezione dell'intelligibile
platonico assegnando invece all'intelligenza il primato nell'ordine dell'essere.
Solo un'intelligenza (fondamentale) è capace di assicurare senso completo alle
cose entro il quadro di un mondo coerente.
La teologia, ovvero la dimostrazione della sostanza soprasensibile
Per Aristotele esistono tre generi di sostanze gerarchicamente ordinate, due
di natura sensibile e uno di natura soprasensibile:
- sostanze sensibili che nascono e che periscono (tutto ciò che si trova al di
sotto del cielo sublunare);
- sostanze sensibili incorruttibili (tutto ciò che costituisce i pianeti e i
cieli ad essi relativi);
- Dio e le altre intelligenze motrici (preposte al movimento delle diverse
sfere di cui il cielo consiste).
I primi due generi di sostanze sono costituiti di materia e forma (sono
ilemorfiche), dei quattro elementi quelle corruttibili, di etere puro quelle
incorruttibili. La sostanza soprasensibile è, invece forma del tutto priva di
materia. Di quest'ultima si occupa la metafisica in quanto scienza di Dio.
L'esistenza del soprasensibile viene dimostrata da Aristotele con un
ragionamento complesso.
Se tutte le sostanze fossero corruttibili (ipotesi per assurdo) non esisterebbe
assolutamente nulla di incorruttibile.
Ma – dice Aristotele – il tempo e il movimento sono incorruttibili. Il tempo,
infatti, non si è generato né si corromperà, visto che, anteriormente alla
generazione del tempo, avrebbe dovuto esserci un “prima” e posteriormente alla
distruzione del tempo avrebbe dovuto esserci un “poi”, ma essi non sono che
tempo. Per il movimento, poi, vale un ragionamento analogo, perché il tempo non
è altro che una determinazione del movimento (lo si vedrà nella Fisica).
Un movimento eterno, dunque, non può esistere se non in ragione di una causa
adeguata ad esso, cioè un principio primo che sia eterno: se eterno è il
movimento, infatti, eterno deve essere anche il suo principio, la sua ragion
d'essere.
Tale principio, tuttavia non può essere, a sua volta, in movimento, ma deve
essere immobile, perché un ricorso infinito a motori in movimento di
realtà in atto di movimento risulta assurdo, in quanto non sarebbe possibile, a
partire dall'infinito, constatare l'attualità del movimento esistente nell'oggi.
Se immobile, il principio non può che essere un puro atto, dal momento
che la presenza di margini di potenzialità in esso implicherebbero la necessità
di un principio motore a sua volta anteriore necessario per l'attuazione di tali
potenzialità.
Ora, un principio eterno, immobile e puramente attuale non può che essere una
sostanza soprasensibile, del tutto priva di materia, cioè di potenzialità
(principio di potenzialità), come si voleva dimostrare.
Come può muovere un principio motore che rimanga assolutamente immobile?
Aristotele risponde: «come l'oggetto amato muove l'amante», cioè come l'oggetto
del desiderio supremo, vale a dire la perfezione assoluta. La causalità del
Primo Principio dunque non è una causalità di tipo efficiente, ma una causalità
finale, un orizzonte totale che assicura senso a tutto ciò che in esso è
compreso.
Il primo motore immobile è Dio, e come tale gode, immobile, di ogni perfezione:
esso è vita, vivo della migliore specie di vita, cioè di vita intellettuale;
esso è pensiero di pensiero, cioè pensiero pensante ciò che di più
perfetto esiste (ovvero se stesso) in quanto pensiero.
Come tale, in quanto privo di qualsiasi ombra di potenzialità, esso è
disinteressato del mondo: è il mondo, infatti, che si interessa ad esso, in
quanto orizzonte di totale perfezione, ma esso, come tale, non può che rimanere
nella sua perfetta e indifferente immobilità, non può piegarsi a curare le cose
del mondo. Amato, non ama.
L'ente “in quanto” ente
Veniamo ora al significato dell'essere. La metafisica è scienza
dell'essere, o meglio scienza dell'ente, perché considera le realtà esistenti
in quanto realtà, non in quanto specificamente determinate secondo le diverse
configurazioni essenziali.
L'essere delle piante è studiato dalla botanica (le piante sono enti
vegetali); l'essere del mondo in quanto realtà materiale in movimento è
studiato dalla fisica (il mondo è ente in movimento); l'essere degli armenti,
dei volatili, dei pesci è studiato dalla zoologia (armenti, volatili e pesci
sono enti animali).
L'essere in quanto tale, invece, o meglio l'ente in quanto ente è studiato
dalla metafisica, che si occupa di piante, corpi materiali e animali non
relativamente alle loro singole specificità, ma in quanto, appunto,
generalmente enti. Tutte le cose che sono, partecipano dell'essere, sono,
cioè, enti. La metafisica, dunque, studia il loro essere “in quanto” tale. La formula “in quanto” significa “nella misura in cui”, “per quanto si
consideri”, ecc... “Ente in quanto ente” significa che lo studio della
metafisica si concentra sull'essere dell'ente a prescindere dal suo grado di
partecipatività.
L'essere dell'ente è un concetto analogo. Ciò significa che essere si dice
(si predica) in molti modi; quando infatti in qualsiasi proposizione usiamo il
verbo essere, considerato in se stesso esso assume significati diversi.
Diciamo preliminarmente che un termine può essere univoco, equivoco o
analogo a
seconda delle sue prerogative di predicabilità:
- univoco è il termine che si
predica sempre nel medesimo significato (ad esempio il nome triangolo);
- equivoco
è il termine che si predica di realtà del tutto differenti (ad esempio cane, che
si dice del quadrupede, del percussore nelle armi da fuoco e della
costellazione; pesca si dice del frutto e della pratica di caccia ittica);
- analogo è il termine che si predica di cose differenti, ma in
ragione di (in relazione a) un unico principio di significato (ad esempio l'aggettivo sano, che
si dice dell'individuo, del sangue, del cibo e dell'ambiente in ragione del
significato della salute intesa ora come qualità, ora come sintomo, ora come
causa, ora come effetto).
L'essere (dell'ente) è dunque un termine/concetto analogo, che riveste diversi significati; Aristotele ne seleziona quattro: esso, infatti, si dice come accidente, come categoria, come vero e come atto/potenza.
L'accidente
È ciò che accade, che capita: l'essere, infatti si dice (si predica) di tutto
ciò che si manifesta, in qualsiasi modo si manifesti.
Se si dice, ad esempio:
«il cielo è blu», l'essere blu del cielo viene predicato accidentalmente, perché
in quel momento e in quel luogo il cielo è di un bel blu terso. Se si dice:
«sono seduto», l'esser seduto si predica accidentalmente, perché in quel preciso
istante capita che io sia seduto, non supino né in piedi, il che, peraltro,
sarebbe possibile.
Le categorie
Il termine categoria proviene dall'antico linguaggio forense del mondo greco,
quando significava capo d'accusa, imputazione di reato. Categorizzare
significava accusare, cioè riconoscere un soggetto all'interno di una
fattispecie criminale.
Aristotele ha improntato filosoficamente il termine
“categoria”, assegnandogli il compito di indicare i predicati dell'essere, cioè tutte
le possibili “imputazioni” di cui un soggetto reale può essere fatto segno.
A suo parere sono dieci (omaggio al pitagorismo) i generi ai quali è possibile
ricondurre tutti i predicati:
- la Sostanza gode
di un primato: si dice “per sé” e non “per altro”, cioè si predica sempre in
riferimento a se stessa e mai in riferimento ad altro. Ciò significa che quando si
predica una sostanza (ad esempio uomo), il predicato è capace di presentarsi da
sé solo, senza bisogno di un soggetto (sostanziale) di inerenza. Quando infatti
si predicano altre categorie (ad esempio bianco), allora il predicato si
appoggia necessariamente a un soggetto di inerenza, (per esempio il bianco
dell'uomo o
il bianco del tavolo).
- la Qualità e gli altri generi predicamentali, invece, si dicono della
sostanza “per altro”. Ad esempio, come si è detto, quando si dice che il tavolo è bianco. Il bianco inerisce (“si
applica”, “si appiccica”) al tavolo come sua qualità; il tavolo si porta dietro
il suo bianco.
- la Quantità. Ad esempio, il banco pesa un tot, cioè il peso (o le misure) gli ineriscono.
- la Relazione dice il riferimento della sostanza ad altro da sé. Il
banco sta accanto all'altro, appoggia al muro. La relazione non è una sostanza
“terza” tra due sostanze, il banco e il muro dell'esempio, ma è una proprietà
sia del banco sia del muro, inerente ad essi.
- il Luogo. Bisogna spiegarsi: Aristotele, com'è ovvio, non conosceva Newton;
pertanto, non concepiva lo spazio nei termini di relazioni quantitative tra
tempo e velocità, nei termini cioè di rapporti numerici misurabili, ma lo
intendeva, per così dire, come l'involucro ultrasottile e impalpabile di una
cosa, come il primo limite che costituisce il profilo di ogni ente, come l'abito
attillatissimo di ogni cosa. Il nostro solito tavolo, quindi, non si sposta di
luogo in luogo, secondo Aristotele, ma “si porta appresso” il suo
proprio luogo, ovunque venga spostato. Il luogo è, per così dire, il volume della porzione di
mondo
entro la quale si raccoglie ciascuna sostanza.
- il Tempo. Fabbricato nel 1998: ha già 16 anni.
- l'Azione. Il nostro tavolo preme sul tappeto, urta il muro, ostacola il
passaggio.
- la Passione. Il nostro tavolo subisce un'incisione da parte di un vandalo, sopporta un carico.
- l'Abito. Si tratta di una categoria difficile da identificare: potremmo
chiamarla comportamento acquisito, profilo assunto in seguito all'uso, quasi
deformazione contratta per usura: ad esempio il piano del nostro tavolo si è incurvato per l'uso ormai
decennale e per l'umidità dell'ambiente.
- il Sito. Analogamente dobbiamo procedere in modo congetturale anche per
questa categoria, di difficile chiarificazione. Si tratterebbe di una forma di
contesto all'interno del quale la sostanza acquista un ruolo proprio. Ad
esempio, il nostro
tavolo è “da gioco”.
Aristotele non ha codificato con questo una distinzione rigorosa di ambiti predicamentali; la sua ricerca è, invece, fenomenologica, volta a raggruppare i predicati, senza la pretesa di incasellarli rigidamente. I predicati di qualità possono infatti confluire nella categoria della relazione, così quelli di luogo; abito e sito sono di difficile individuazione; ciò che è quantitativo, poi, è per Aristotele anche qualitativo, senza creare contraddizione. Ci muoviamo, infatti, nell'ambito dell'analogia.
L'esser vero
Il vero, per Aristotele, è l'equivalente dell'essere, perché vale la convinzione
ingenua (non critica) che tutto ciò che è, proprio in quanto è, si manifesta e
quindi appare alla coscienza, nel significato della sua verità: dire “essere” e
dire “esser vero”, per Aristotele è immediatamente equivalente. La riflessione
successiva (non di Aristotele) porterà a individuare nel vero uno dei cinque
predicati cosiddetti “trascendentali” (uno, vero, buono, cosa e alcunché), cioè
capaci di essere convertibili con l'ente, e quindi più ampi delle configurazioni
categoriali.
Atto e potenza
L'essere in atto significa l'esercizio reale di qualcosa, la sua
configurazione presente, l'essere in potenza, invece, ne significa l'esercizio
possibile, la sucettibilità o la versatilità.
La coppia atto/potenza si rivela decisiva, in Aristotele, per la spiegazione del
divenire.
Atto e potenza: il divenire
Il divenire delle cose è un dato. Il problema è pensarlo e, quindi, darne un'interpretazione filosofica.
Eraclito aveva presentato addirittura il divenire come il vero nome dell'essere,
predicando della realtà il suo divenire e non il suo essere. Parmenide, per
contro, aveva stigmatizzato la via del divenire come via della falsità, legata
all'illusione dei sensi, legando invece saldamente la verità al criterio
razionale dell'essere, espresso dal principio di non contraddizione: l'essere è e
non può non essere. Il che, tuttavia, aveva paralizzato il discorso filosofico.
Nel Sofista già Platone aveva superato l'impasse parmenidea scoprendo la
modalità del diverso (cioè del contrario) accanto a quella del contraddittorio,
e in base ad essa aveva
potuto riconoscere che il “non essere altro” del qualcosa significa la sua
diversità nell'ambito dell'essere e non, contraddittoriamente, l'opposto
dell'essere, ovvero il suo completo e radicale non-essere.
Tuttavia, benché si mostrasse in grado di interpretare il mondo delle idee, finalmente
gerarchizzabile, il modello platonico non si era
dimostrato in grado di offrire una spiegazione esauriente al divenire delle cose
sensibili e aveva aperto all'interno della realtà un'insanabile frattura tra mondo indiveniente
(soprasensibile) e mondo
diveniente (sensibile).
Aristotele, invece, riesce a superare lo scoglio della contraddizione di ciò
che è e che trascorre nel non essere e, viceversa, di ciò che non è e che viene
all'essere, grazie ai significati ontologici di atto e potenza, in virtù dei
quali il passaggio dall'essere al non essere e dal non essere all'essere non implica
più la contraddizione del principio parmenideo secondo cui
l'essere è e non può non essere.
Mediante i modi di essere dell'atto e della potenza, infatti, Aristotele offre la spiegazione del divenire
mantenendosi sul piano esclusivo dell'essere, dal momento che le formule “essere in atto” e “essere in potenza”,
relativamente al qualcosa, significano entrambe l'essere del qualcosa, senza
implicare alcuna parvenza di non essere.
Nella lingua di Aristotele, atto si diceva enérgheia e/o entelécheia;
potenza si diceva dýnamis.
Vediamo nel dettaglio i significati dei tre
termini per meglio comprendere la valenza della coppia aristotelica atto-potenza:
- enérgheia si traduce in italiano energia, che significa,
sottilizzando, “in-ergía”, “in-operatività”, nel senso in cui diciamo: «è in
atto un forte temporale», «è in atto un colpo di Stato», ecc.;
- entelécheia è intraducibile, ma si potrebbe traslitterare in
“in-finalizzazione”, cioè lo stato di raggiungimento della piena corrispondenza
alla finalità, che, se si ricorda, non significa lo scopo, ma l'orizzonte di
piena comprensibilità della sostanza: possiamo parlare della piena realizzazione
dell'essere;
- dýnamis si traduce potenzialità, potenziale, e trova una sua immediata
esemplificazione nel concetto di “dinamite”, ovvero qualcosa che si trova in una
condizione di totale inerzia, ma che è suscettibile di esprimere un'energia devastante,
se opportunamente innescato.
L'esperienza insegna che oltre il modo dell'essere in atto, qualcosa si presenta
anche secondo il modo di essere in potenza, cioè di essere capace di
diventare altro da sé: il seme, ad esempio, in atto come seme, è nel contempo pianta in potenza, e la
pianta, a sua volta, in atto come pianta, è, nel contempo, frutto in potenza, o seme, oppure, altrimenti,
barca o armadio. Il tutto senza contraddizione, cioè fatto salvo il principio
per cui l'essere non può non essere l'essere che è (nello stesso tempo e sotto
il medesimo rispetto).
Resta da osservare che, dal punto di vista gnoseologico (conoscitivo; da
gnósis = conoscenza) e dal punto di vista ontologico l'essere in atto detiene
il primato, cioè ricopre un ruolo fondativo e riveste un significato ultimativo
(finalizzante).
Per Aristotele viene prima la gallina, non l'uovo; dalla
gallina, infatti deduco l'uovo, non viceversa.
La soluzione aristotelica del divenire, il passaggio dalla potenza all'atto
grazie all'innesco di una causa efficiente, permette di spiegare la
trasformazione (trans-forma, da una forma all'altra) senza incorrere nel vietato
impiego del non-essere. Atto e potenza, infatti, sono modi dell'essere,
entrambi, senza ricorso all'inintelligibile nulla.
Ciò, peraltro, non sembra far scadere il teorema aristotelico in un sistema del
necessitarismo per cui ad ogni potenza corrisponda un atto ineluttabile;
Aristotele, a maggior ragione, sembra proporsi come il filosofo della contingenza, in
quanto la complessità delle cause in gioco nel divenire è tale da garantire, in
linea di fatto, l'aleatorietà e l'opinabilità delle conseguenze, non certo la loro necessità. È
infatti vero che dal seme di melo nasce sempre (o meglio “innanzitutto e per lo
più”) un melo, ma non è detto che, dal melo, sopravvenienti altre cause, derivi
una nuova specie di frutto.
Il “fissismo” del sistema aristotelico sembra
piuttosto essere un'interpretazione a posteriori più che un implicita
conseguenza della sua applicazione alla natura concreta.
La metafisica come scienza della sostanza (usiologia)
La sostanza, si è visto, è la categoria che si predica di per sé, che risulta
significativa in se stessa senza dover inerire ad altro per trarne significato
compiuto.
Con il termine sostanza (ousía), poi,
Aristotele intende significare, secondo l'analogia:
- la Forma;
- il Substrato;
- il Sinolo.
La sostanza è il principio della filosofia aristotelica; mentre per Platone la
realtà si configurava in modo pieno e perfetto come idea, per Aristotele il
significato più consistente della realtà è quello della sostanza, cioè, in prima
istanza, il significato di tutte le cose che si offrono all'esperienza
dell'uomo, a partire dallo sguardo che osserva la natura del mondo fenomenico.
Aristotele, al di là di Platone, non vuole svalutare il fenomeno, la realtà che
appare ai sensi, ma lo vuole interpretare e ne fa l'oggetto proprio della sua
speculazione filosofica.
La Forma
Il corrispettivo immanente dell'idea platonica, già lo sappiamo, è la
forma (morphé), che in Aristotele gioca il ruolo di principio di
determinazione e di versante attuale delle cose. La forma è il profilo
interiore di tutto ciò che è in quanto è ciò che è, è la causa formale della
sostanza, rappresenta la differenza specifica di ogni ente che si esprime nella
definizione.
Aristotele usa una formula un po' criptica per designare la forma: “ciò che era
l'essere”.
Per esaminarne il significato dobbiamo partire dalla considerazione del tempo
del verbo che vi compare: l'imperfetto. L'imperfetto è il tempo
dell'indeterminazione del tempo, cioè quel tempo che esprime un passato non del
tutto passato che continua anche nel presente e che si estende al futuro; si
tratta, cioè, di un passato eterno che non ha inizio né ha fine.
Ora, alla luce di tale osservazione, possiamo dire che la forma corrisponde alla
continuità dell'essere, a ciò che, nelle cose, al di là dei mutamenti di
superficie, permane identico al di sotto del tempo. La forma è ciò che
l'essere era. L'essere inteso come la permanenza, infatti, non è, ma
“era”, proprio come quando i bimbi, giocando nel mondo delle loro finzioni
extratemporali, si dicono l'un l'altro: «facciamo che tu eri l'autista
del bus, e io ero il signore che doveva salire. Allora, tu non ti
fermavi al mio cenno e io, infuriato, ti gridavo le più terribili
maledizioni... Dai, lo facciamo?».
La forma, dunque, dice la delineazione fissa di una cosa, ciò che non muta sotto le apparenze: l'intelligenza razionale, infatti, in cui consiste la dignità umana permane anche al di sotto delle sembianze brutali dell'individuo cerebroleso e preesiste nell'individuo allo stato embrionale e ancora non nato: sono uomini!
Il Substrato
Il corrispettivo dell'indeterminata chóra platonica, la “regione
informe” di cui il Demiurgo dispone per plasmare il mondo, è in Aristotele il
principio di indeterminazione (versante potenziale) presupposto in
qualsiasi realtà concreta appartenente al mondo, disponibile come la cera ad
assumere la forma di qualsiasi sigillo impresso.
Il substrato è la materia (ýle), ma
non è materiale, non si può “toccare”; esso è frutto di un'operazione mentale di
progressiva sottrazione di qualsiasi determinazione formale, fino alla più
debole.
Il sub-strato, che letteralmente significa “sdraiato di sotto”, è la
sostanza che funge da soggetto di inerenza delle forme, quali che siano; è ciò
che si presta e che, per così dire, si prostituisce, rendendosi disponibile per
assumere tutte le possibili forme.
Il Sinolo
Sýnolon è termine
intraducibile; significa il “con-tutto”, il “tutto intero”, il “tutto insieme”.
È la sostanza nel suo significato più proprio e più aristotelico. Sinolo sono
tutte le cose che si incontrano nell'esperienza, strutturate di materia e di
forma in un insieme integrale e significativo, concreto e saldo in se stesso,
fintantoché non interviene una causa di dissoluzione che opera la
trasformazione.
Il sinolo è ciascuna realtà ilemorfica.
La sostanza sinolo, poi, gode di tutti i seguenti caratteri:
- si predica di per sé, indipendentemente da qualsiasi inerenza predicativa ad
altro;
- sussiste separatamente, in quanto, grazie alla sua compiutezza, è
indipendente da altro;
- è determinata;
- è unica ed integrale nel suo essere, anche se risulta dall'aggregazione di
elementi o di componenti (es.: il “mucchio”);
- è sempre in atto in quanto considerata di per sé.
la fisica
La seconda scienza teoretica per Aristotele è la fisica (o “filosofia
seconda”), la quale ha come oggetto di indagine la realtà sensibile,
intrinsecamente caratterizzata dal movimento. Il termine fisica non deve trarre
in inganno: non si tratta della scienza della natura galileianamente intesa,
vale a dire quantitativamente intesa, ma di una scienza qualitativa della
natura, una sorta di ontologia del sensibile. Siamo di fronte a una
considerazione squisitamente filosofica della natura.
Il soprasensibile, continua ad essere considerato causa e ragion d'essere del
sensibile e il metodo applicato è lo stesso metodo della metafisica.
Il mutamento (movimento)
Il movimento è un dato di fatto originario, per Aristotele, e non può essere
messo in dubbio da alcuna considerazione di tipo ontologico (nel senso
parmenideo del termine); esso, come sappiamo, è precisamente il passaggio
dall'essere in potenza all'essere in atto (sempre sul piano dell'essere). Le
categorie secondo le quali avviene il mutamento sono: 1) la sostanza, 2) la
qualità, 3) la quantità, 4) il luogo.
Quindi, secondo ciascuna delle quattro categorie, avremo il mutamento:
- di generazione e corruzione;
- di alterazione;
- di aumento e diminuzione;
- di traslazione.
Naturalmente nell'ambito della fisica valgono le considerazioni fatte circa la
dottrina delle cause: forma e materia sono cause intrinseche del divenire,
mentre la causa efficiente costituisce il motore in atto che opera il passaggio
dalla potenza all'atto del divenire stesso della sostanza e il tutto trova la
sia ragion d'essere nell'orizzonte finalistico, per il quale ogni mutamento
acquista la valenza di realizzazione e di perfezionamento dell'essere.
Aristotele ha distinto la realtà sensibile in due sfere fra loro nettamente
differenziate: da un lato il mondo cosiddetto sublunare e dall'altro il
mondo sopralunare o celeste. Il mondo sublunare è caratterizzato
da tutte quante le forme di mutamento, fra le quali predominano la generazione e
la corruzione. Invece i cieli sono caratterizzati dal solo movimento locale, e
precisamente dal movimento circolare. La differenza tra i due mondi, entrambi
sensibili, consiste nella diversa materia di cui sono costituiti.
La materia in
cui risiede la potenza dei contrari (cioè le condizioni delle varie specie di
mutamento qualitativo e quantitativo), infatti, è data dai quattro elementi
(terra, acqua aria e fuoco) che possono trasformarsi tra loro (l'acqua
raffreddata dà luogo alla terra, l'aria riscaldata al fuoco, l'aria raffreddata
all'acqua e l'acqua riscaldata all'aria); la materia che possiede solo la
potenza di passare da un punto ad un altro, e che quindi è suscettibile di
ricevere il solo movimento locale, invece, è l'etere (letteralmente significa:
“che corre sempre”), detto anche “quint'essenza”.
Mentre il movimento
caratteristico dei quattro elementi è rettilineo (dal basso verso l'alto quelli
leggeri o dall'alto verso il basso quelli pesanti), quello dell'etere è invece
circolare perché l'etere non è né pesante né leggero.
L'etere è ingenerato e
incorruttibile, non soggetto ad accrescimento e ad alterazione né ad altre
affezioni che implichino questi mutamenti; perciò i cieli sono incorruttibili.
Lo spazio e il vuoto
Gli oggetti non sono nel non-essere, che non esiste, ma
sono in un “dove”, ossia in un luogo, che dunque è qualcosa che è.
L'esperienza
mostra che esiste, prima di tutto, un «luogo naturale» cui ciascuno degli
elementi tende, quando non sia contrastato da un ostacolo: fuoco e aria tendono verso l'alto,
terra e acqua verso il basso. Alto e basso non sono qualcosa di relativo a noi,
bensì qualcosa di oggettivo, sono determinazioni naturali.
Il luogo viene
definito come tò próton periéchon (= il più vicino “avente attorno”), cioè una
certa forma di limite (o di limitare) impalpabile della sostanza. È da intendersi
come il contenente, ma non come il recipiente, cioè come qualcosa di contiguo al
contenuto, un recipiente che non si può dissociare dalla sostanza cui inerisce.
È la porzione di realtà che soddisfa la sostanza. Da tale definizione di luogo segue che non è pensabile un luogo fuori
dell'universo, cioè fuori del tutto, né un luogo in cui sia l'universo: il cielo,
infatti è il tutto e come tale non può essere in altro. Così, il movimento del
cielo sarà possibile solo nel senso della circolarità su se medesimo, non
essendoci “posto” per una qualsiasi traslazione. Il vuoto, pertanto, è
impossibile; se al contrario fosse possibile, dovrebbe considerarsi un luogo dove non c'è nulla, una
contraddizione in termini.
Il tempo
Il tempo non esiste.
Una parte di esso,
infatti non è più; un'altra parte non è ancora. L'istante tra le due parti, poi,
non ha dimensione alcuna, è soltanto un limite, una soglia tra l'una e l'altra
(tra il futuro e il passato).
Dunque, il tempo è fatto di nulla e, pertanto non
esiste.
Per parlare di tempo, quindi, occorre parlare di mutamento e di anima, i
due termini imprescindibili della realtà del tempo.
Quando infatti non mutiamo
nulla all'interno del nostro animo, o non avvertiamo nessun mutamento, ci pare
che il tempo non sia trascorso. Diciamo, invece, che il tempo compie il suo
percorso quando abbiamo percezione del prima e del poi nel movimento.
Il tempo,
perciò, è il numero (numerazione) del movimento secondo il prima e il poi (cioè
secondo le fasi del divenire). Se si escludesse il numerante (l'anima), il numerato
(il tempo) non sarebbe dato.
Il tempo è un atto di pensiero.
La "quint'essenza" e la divisione del mondo
Aristotele ha distinto la realtà sensibile in due sfere fra loro nettamente
differenziate: da un lato il mondo cosiddetto sublunare, cioè il cielo della
Terra, dall'altro il mondo sopralunare o celeste, cioè tutta la realtà dal cielo
della Luna in su.
Il mondo sublunare è caratterizzato dalle quattro forme di mutamento, con il
predominio della generazione-corruzione, i cieli, invece sono caratterizzati dal
solo movimento locale nella sua forma perfetta circolare.
Mentre il mondo sublunare è costituito dai quattro elementi di Empedocle, terra,
acqua, aria e fuoco, suscettibili di reciproca trasformazione, e quindi
coinvolti nelle diverse forme di mutamento, il mondo celeste è costituito da un
quinto elemento, il quale, per la caratteristica propria di essere costantemente
in corsa, si chiama etere. Nei cieli la traslazione non è rettilinea, ma
circolare, in quanto solo essa è compatibile con la dottrina del luogo
dell'mondo.
LA PSICOLOGIA
L'anima
Per Platone l'anima è la realtà vera dell'uomo, in quanto componente di
ordine ideale dualisticamente unita per incorporazione alla materia che
costituisce una fastidiosa zavorra, sede della concupiscenza e delle passioni,
da cui liberarsi attraverso la pratica delle virtù. Il concupiscibile e
l'irascibile, le due parti dell'anima (o due anime) che il Noûs cerca di
governare, si presentano nel mito come cavalli bizzosi che comportano la caduta
dell'auriga (l'anima intellettuale) nel mondo delle immagini corporee.
Di Platone, la dottrina psicologica di Aristotele conserva soltanto l'idea della
tripartizione, che tuttavia viene reinterpretata secondo il consueto criterio
fenomenologico che governa gli interessi dello Stagirita.
L'anima è definita da Aristotele nell'ordine della finalità: essa, infatti, è
atto (entelécheia) primo di un corpo fisico organico, che possiede la
vita in potenza. L'anima costituisce la finalizzazione di un ente organico che,
potenzialmente, è capace di esercitare determinate facoltà vitali, legate al suo
livello di specializzazione. Tale finalizzazione, appunto, prende il nome di
anima (psyché).
Fenomenologicamente (vale a dire a partire da uno sguardo
che si sforza di mettere in evidenza l'essenziale delle cose che si manifestano
nella realtà) Aristotele distingue tre livelli di animazione degli organismi:
- un primo livello vegetativo, le cui proprietà consistono nella nutrizione e
nella riproduzione;
- un secondo livello animale, le cui proprietà consistono nella sensazione e
nel movimento;
- un terzo livello intellettuale, le cui proprietà consistono nell'astrarre e
nel conoscere.
A proposito del livello intellettuale dell'anima nella tradizione si è imposto un interminabile dibattito, a motivo della poca chiarezza dei termini usati da Aristotele per parlarne. Nel passo più significativo del trattato Sull'anima, infatti, Aristotele dice che questa facoltà dell'intelletto è “separata”, senza peraltro precisare bene in che senso debba intendersi tale connotazione dell'intelletto; ciò ha prodotto, nella tradizione successiva, una discussione senza fine che ha dato origine a diverse correnti di pensiero aristotelico, diversamente impostate a seconda del significato attribuito a tale separatezza dell'intelletto.
Non c'è dubbio,
dunque, che l'anima non è separabile dal corpo, o almeno non lo sono alcune sue
parti, se essa è per sua natura divisibile: infatti l'atto di alcune parti di
essa sono gli atti delle parti del corpo corrispondenti. Ma nulla vieta che
almeno alcune altre parti siano separabili, per il motivo che non sono atti di
alcun corpo [...].
Per quanto riguarda l'intelletto e la facoltà speculativa, nulla, in certo
senso, è chiaro: sembra però che si tratti di un genere di anima diverso (ghénos
éteron) e che esso solo possa essere separato (endéchetai chorízesthai)
dal corpo come l'eterno dal corruttibile. Invece, le altre parti dell'anima
è chiaro [...] che non sono separabili. (L'anima, B 1, 413 a 4-7; B 2,
413 b 24-29)
La conoscenza
Per comprendere senza fraintendere il concetto aristotelico di conoscenza,
bisogna considerare che, dall'età moderna in poi (da Cartesio in avanti nella
storia del pensiero), ci siamo abituati a pensare la conoscenza come un
immagazzinamento di esperienza, che avviene all'interno di una sostanza che si
chiama (variamente) pensiero, mente, intelletto, cervello, ecc. La conoscenza si
configura nel nostro sentire comune come un bagaglio, come una realtà che
"entra", chissà come, chissà dove.
Per la mentalità antica, invece la conoscenza è una dinamica di assimilazione
alla/della realtà del mondo, l'essere del quale, in un suo modo proprio,
consiste nella verità, cioè nella relazione di manifestatività che si attua in
quanto "apparire". L'essere dell'ente, infatti, nella misura in cui appare ed
esiste, si manifesta "a", cioè è sotto forma di conoscenza in quanto si fa
presente alla coscienza.
La natura dell'intelletto, infatti, è per Aristotele la stessa natura delle cose, in quanto
astratte e conosciute (intellette), in quanto rappresentate.
L'intelletto, cioè, non è una cosa, ma “le”
cose in quanto conosciute; tale manifestazione dell'essere, quella
intellettuale, costituisce la prerogativa della fascia più elevata di
partecipazione all'atto d'essere all'interno dalla natura, cioè la modalità
dell'intelligenza, che, come già si è visto, costituisce la natura del Motore
immobile (pensiero di pensiero).
La stratificazione degli “intelletti”, cioè delle conoscenze acquisite,
costituisce per Aristotele una sorta di abito intellettuale, cioè di possesso o
di patrimonio a disposizione della conoscenza, che costituisce la scienza: essa
si definisce “abito intellettuale” (ciò che è avuto dalla conoscenza), la
familiarità con i principi e le nozioni.
Aristotele, dunque, distingue un
intelletto agente e un intelletto recettivo, l'uno paragonabile a un fascio di
luce che investe l'intelligibile (la forma) da astrarre e da conoscere nella realtà,
l'altro che effettivamente conosce, facendosi capace delle cose sotto l'aspetto
della forma (o della specie astratta). Naturalmente ciò non significa che si
diano nell'uomo "due" intelletti, quasi una forma di schizofrenia, ma che,
filosoficamente, nell'intelletto si possono considerare l'aspetto potenziale e
l'aspetto attuale, cosa che non accade al livello massimo dell'intelligenza, nel
Motore immobile, che consiste di un'attualità assoluta.
Le cose, dunque, si presentano all'indagine filosofica come realtà intelligibili,
vale a dire in potenza alla conoscenza, suscettibili di conoscenza, e come realtà
intellette, cioè attualmente realizzate entro l'orizzonte della manifestatività
dell'intelligenza.
Il complesso sensitivo
L'ambito (animale) della conoscenza comprende una complessa articolazione di
funzioni che, in prima istanza, si distingue nell'apparato dei sensi esterni e
di quelli interni. I sensi esterni sono i cinque sensi cui siamo abituati a
pensare parlando in generale di sensi. È comunque da tenere presente che il
termine “senso” (come il termine intelletto) è in realtà da considerarsi un
participio passato (sensato), il che sta a significare che in verità il senso
non è l'organo di senso, come comunemente siamo abituati a pensare, ma l'oggetto
proprio della sensazione, cioè il sensibile che si è attuato attraverso,
appunto, la sensazione. Il senso, dunque, è la (cosa) “vista”, il (suono)
“udito”, il (sapore) “gus(ta)to”, l'(odore) “olfatto”, il (ruvido) “tatto”: una
serie di participi passati, dal verbo udire, vedere, ecc.
Ogni organo di senso ha un sensibile proprio (come il colore per la vista e il
suono per l'udito) e dei sensibili comuni (come la forma per la vista e per il
tatto).
I sensi interni sono quattro, vale a dire memoria, immaginazione, estimativa e
senso comune.
Possiamo facilmente associare la memoria al ricordo e
l'immaginazione alla combinazione e alla dissociazione dei referti dei sensi
esterni o interni, mentre dobbiamo considerare l'estimativa come quel senso che
presiede all'appetito e al rifiuto, all'attrazione e alla ripulsa. Il senso
comune, infine, è la regia interna della sensazione, cioè il sensorio che
permette l'organizzazione unitaria di tutti i dati della sensazione, coordinati
e conformati secondo un “fantasma sensibile”, ciò che, in definitiva, viene
sottoposto alla “radiazione” dell'intelletto agente e da cui viene astratta la
forma intelligibile, per la conoscenza intellettuale del concetto.
Il problema della separatezza dell'intelletto
L'atto intellettivo è analogo all'atto percettivo, in quanto è un ricevere o assimilare le forme intelligibili, così come quello era un assimilare la forma sensibile, ma differisce profondamente dall'atto percettivo, perché non è mescolato al corpo e al corporeo:
Circa la parte dell'anima, con cui essa conosce e pensa – sia essa qualcosa di separato, oppure di non separabile spazialmente ma solo idealmente – bisogna vedere quale caratteristica essa possiede, e come mai si produce il pensare. Ora, se [per assurdo] il pensare è come il sentire, deve essere un subire alcunché da parte del pensato, o qualche altra cosa del genere. Ma allora, a rigore, esso non deve subir nulla, ma soltanto accogliere la forma, e diventare in potenza simile alla cosa ma non già di fatto la stessa cosa: insomma la relazione del pensante al pensato deve essere simile a quella del senziente al sentito. Occorre, di conseguenza, che l'intelletto, in quanto pensa tutto, sia scevro di ogni mescolanza, come appunto Anassagora dice che deve essere affinché possa "dominare" il che vuol dire: affinché possa conoscere. Qualunque cosa estranea, che si presentasse in mezzo, opererebbe infatti come un ostacolo e una preclusione: quindi l'intelletto non può avere proprio nessuna natura, se non appunto questa, dell'essere potenzialità. Quel che dunque, nell'anima, chiamiamo Noûs (e intendo, con questo nome, ciò con cui l'anima pensa e opina) non è, in atto, nessuna delle realtà esistenti, prima del suo effettivo pensare. E perciò non è ragionevole che esso sia commisto col corpo: perché subito acquisterebbe una certa qualità, e sarebbe freddo o caldo, oppure sarebbe uno strumento di una certa specie, come è l'organo del senso. Ora, invece, non è nulla di questo. E hanno ragione quelli che dicono che l'anima è il luogo delle forme ideali: salvo che ciò non va detto di tutta l'anima, ma solo di quella pensante, e che le forme ideali non vi esistono in atto ma solo in potenza. E che l'immunità dal subire azione non sia uguale nel caso della facoltà intelligente e di quella senziente, è chiaro se si considerano gli organi di senso, e la sensazione stessa. Se infatti, in ciò che vien percepito sensibilmente, la percepibilità è troppo intensa, il senso non può sentire: così, i suoni troppo forti non vengono distinti, e lo stesso vale per i colori troppo luminosi, e per gli odori troppo violenti. Ma quando l'intelletto pensa un pensiero che sta al più alto livello della pensabilità, non perciò esso ha minore capacità di pensare le cose di minor conto, anzi ne ha di più. Ché l'organo del senso non sta senza il corpo, mentre l'intelligenza sta per conto suo. E quando, in tal modo, l'intelligenza diventa tutte le cose, così come accade a colui che vien chiamato sapiente quando trasforma la sua capacità in atto (e ciò ha luogo quando questo suo attuarsi dipende solo da lui stesso), anche allora essa è, in certo modo, in potenza, per quanto non nello stesso senso in cui lo era prima di aver appreso e di aver scoperto. Così allora l'intelletto può pensare da se medesimo.
Anche il conoscere intellettivo, dunque, così come quello percettivo, è
spiegato da Aristotele in funzione delle categorie metafisiche di potenza e
atto.
L'intelligenza è, di per sé, capacità e potenza di conoscere le pure forme; a
loro volta, le forme sono contenute in potenza nelle sensazioni e nelle immagini
della fantasia; occorre pertanto qualcosa che traduca in atto questa doppia
potenzialità, in modo che il pensiero si attualizzi cogliendo in atto la forma,
e la forma contenuta nella immagine diventi concetto in atto colto e posseduto:
E c'è dunque un intelletto potenziale in quanto diventa tutte le cose e c'è un intelletto agente in quanto tutte le produce, che è come uno stato simile alla luce: infatti anche la luce in un certo senso rende i colori in potenza colori in atto. E questo intelletto è separato, impassibile e non mescolato e intatto per sua essenza: infatti l'agente è sempre superiore al paziente e il principio è superiore alla materia [...]. Separato [dalla materia], esso è solamente ciò che appunto è, e questo solo è immortale ed eterno.
Riguardo al paragone con la luce, è da pensare che, come i colori non
sarebbero visibili e la vista non li potrebbe vedere, se non ci fosse la luce,
così le forme intelligibili che sono contenute nelle immagini sensibili
resterebbero in queste allo stato potenziale e l'intelletto potenziale non
potrebbe a sua volta coglierle in atto, se non ci fosse come una luce
intelligibile, che permetta all'intelletto di "vedere" l'intelligibile e a
questo di essere veduto in atto.
L'affermazione, invece, secondo la quale l'intelletto viene dal di fuori,
significa che esso è irriducibile al corpo per sua intrinseca natura, e che
dunque trascende il sensibile. Il che significa che nell'uomo c'è una dimensione
metempirica, soprafisica, divina. L'intelletto agente, quindi, rispecchia i
caratteri del divino e soprattutto la sua assoluta impassibilità:
Ma l'intelletto sembra che sia in noi come una realtà sostanziale e che non si corrompa. Infatti, se si corrompesse, dovrebbe corrompersi per l'indebolimento della vecchiaia. Ora accade invece ciò che accade agli organi sensoriali: se un vecchio ricevesse un occhio adeguato, vedrebbe alla stessa maniera di un giovane. Pertanto la vecchiaia non è dovuta ad una affezione che patisce l'anima, ma il soggetto in cui l'anima si trova, come avviene negli stati di ubriachezza e nelle malattie. L'attività del pensare e dello speculare illanguidisce quando un'altra parte all'interno del corpo si guasta, ma essa è di per sé impassibile (apathés). Il ragionare, l'amare o l'odiare non sono affezioni dell'intelletto, ma del soggetto che possiede l'intelletto, appunto in quanto possiede l'intelletto. Perciò una volta che questo soggetto sia perito, non ricorda e non ama: infatti ricordare e amare non sono propri dell'intelletto ma del composto che è perito e l'intelletto è certamente qualcosa di più divino e impassibile.
Questo intelletto è individuale? Come può venire "dal di fuori"? Che rapporto
ha con l'individualità e l'io? Quale rapporto ha con il comportamento morale? È
completamente sottratto a qualsiasi destino escatologico? Che senso ha il suo
sopravvivere al corpo?
Sono problemi cui Aristotele non ha fornito una risposta.
L'etica
La disciplina morale (etica) concerne gli atti umani, cioè quegli atti che
sono presieduti da deliberazione, in quanto è in gioco qualcosa che promuove
(nel bene) o lede (nel male) la dignità stessa dell'uomo, cioè la sua
specificità razionale e la sua libertà.
In quanto disciplina degli atti, la morale concerne
i fini che motivano le scelte dell'uomo, primo fra tutti la felicità. La
felicità, in quanto sommo bene, risulta desiderabile di per sé, cioè non in
vista di altro da sé.
Tra bene ed essere non corre differenza, in quanto si dice bene l'essere nella
sua piena realizzazione, non qualcos'altro che esuberi dall'essere stesso;
d'altronde, essere e fine (nel senso di finalità, non certo di scopo) si
identificano, in quanto la finalità rappresenta l'orizzonte di significato entro
il quale ogni cosa si realizza, quindi il suo essere pienamente.
Felicità e virtù
Stante la revisione del platonismo, per la quale
Aristotele ha escluso che il significato della realtà sia un'idea trascendente,
così anche per il fine primario, la felicità, dobbiamo egualmente pensare che
essa non possa trovarsi al di fuori dell'uomo, in un mondo separato, ma che
debba inerire intimamente all'uomo e quindi proporsi come fine e bene immanente. Il bene supremo per l'uomo, perciò, il fine felicitante, potrà identificarsi con ciò che gli è
primariamente peculiare dal punto di vista dell'essere, cioè con la ragione e con l'attività secondo ragione.
Operare secondo ragione, tuttavia, implica l'operare secondo il criterio della virtù, cioè mediante quelle
disposizioni che favoriscono la realizzazione dei fini. La felicità, dunque,
consiste in un'attività dell'anima secondo virtù.
Come ogni livello dell'anima
ha un'attività peculiare, così ciascuno ha una sua peculiare virtù, tenendo
comunque conto del fatto che la virtù veramente umana è quella in cui rientra
l'attività della ragione. Pertanto, dobbiamo osservare che, mentre la facoltà
vegetativa non impegna la ragione, la facoltà sensitiva, pur essendo di per sé
irrazionale, in qualche modo partecipa della ragione, nella misura in cui viene
temperata nei suoi appetiti propri. Si può allora parlare, a questo livello di
“virtù etiche”.
Quando infine prendiamo in considerazione la facoltà
intellettiva, allora questo sarà il campo della virtù più propriamente umana,
che prenderà il nome di “virtù dianoetica” (dianoetico significa “attraverso il
conoscitivo”).
Le virtù etiche e le virtù dianoetiche
Le virtù etiche sono numerose come numerosi sono gli impulsi e gli appetiti sensitivi che la
ragione è chiamata a moderare.
Si apprendono mediante l'esercizio e si
consolidano come “abiti” dell'animo in chi si esercita costantemente. Consistono
nella moderazione degli estremi, cioè nella “medietà” delle inclinazioni: tra
l'eccesso della temerarietà e il difetto della pavidità (entrambi vizi) si
troverà, mediante l'esercizio razionalmente governato, il giusto mezzo del
coraggio; tra il difetto dell'avarizia e l'eccesso della prodigalità ci sarà il
giusto mezzo della liberalità; tra il difetto dell'ostilità e l'eccesso
dell'adulazione ci sarà il giusto mezzo dell'amabilità; ecc.
Al di sopra delle
virtù etiche, secondo Aristotele, si collocano le virtù della parte più elevata
dell'anima, cioè dell'anima razionale. Sostanzialmente le virtù dianoetiche sono
due, la saggezza e la sapienza, relative rispettivamente alla conoscenza delle
cose contingenti e transitorie e a quella delle cose necessarie e immutabili.
In
ordine alla felicità, al primo posto dobbiamo collocare la vita condotta secondo
le virtù dianoetiche, in secondo luogo quella condotta secondo le virtù etiche.
La felicità della vita contemplativa porta in qualche modo al di là dell'umano,
realizzando una sorta di tangenza con la divinità, la cui vita può soltanto
essere vita contemplativa (pensiero di pensiero). Assimilarsi a Dio significa
contemplare il vero così come Dio lo contempla, e anche, contemplare Dio, che è
la suprema razionalità.
L'amicizia e il piacere
Legata alla felicità è, secondo Aristotele, l'amicizia, imprescindibile per una
vita soddisfacente, insieme con una relativa indipendenza dovuta agli agi e alle
ricchezze. Tre sono le cose che l'uomo ama e per cui fa amicizia: l'utile, il
piacevole e il buono. A seconda che un uomo cerchi in un altro l'utile, il
piacevole o il buono, nasce un'amicizia di specie diversa. Tre, dunque, sono le
specie di amicizia.
L'amicizia è tuttavia un fatto accidentale; colui che è amato, infatti, non
viene amato per via di quello che è, ma in quanto procura chi un bene chi un
piacere. Data questa caratteristica, pertanto, l'amicizia duratura è quella
fondata sulla virtù, quella dei buoni e dei simili nella virtù. Per essere amici
veri, quindi, occorre essere proporzionati negli atteggiamenti e nelle
aspettative, nonché nel ceto di appartenenza, e nelle caratteristiche più
salienti.
L'amicizia intesa come benevolenza e gratuità, invece, è un concetto del tutto
alieno alla mentalità aristotelica.
La risonanza soggettiva della felicità oggettivamente goduta è il piacere, che si manifesta, appunto, ogniqualvolta la felicità si realizza in un ambito della vita. Il piacere non è, per Aristotele, una forma di riempimento o di completamento, ma è un'attività in ogni momento perfetta: il piacere si accompagna ad ogni attività e la perfeziona. Il criterio del piacere è, ancora una volta la virtù, attraverso la quale è possibile stabilire una gerarchia di piaceri, più o meno buoni.
Psicologia dell'atto morale
Aristotele tenta di superare l'intellettualismo etico e i suoi paradossi. Da
buon realista, infatti, si è accorto che la dimensione dell'intelletto spiega il
bene e il male dal punto di vista ideale, nell'ambito cioè della della
conoscenza, ma non dà nessun contributo interpretativo quando si tratta di
distinguere tra la conoscenza del bene e del male e la loro attuazione.
In primo luogo chiarisce come si distinguano le azioni volontarie da quelle
involontarie: le prime sono quelle il cui principio risiede in chi agisce, le
seconde sono quelle che si compiono per costrizione o per ignoranza. Secondo
Aristotele, peraltro, sono volontarie anche le azioni degli animali e le azioni
spontanee dell'uomo o anche quelle che si producono sotto l'influsso delle
passioni.
In secondo luogo Aristotele spiega che le azioni volontarie più proprie
dell'uomo sono caratterizzate da una scelta (prohaíresis),
la quale implica un ragionamento e una riflessione, cioè implica una
deliberazione.
Per deliberazione si stabiliscono quali siano le azioni che servono per
raggiungere uno scopo, per scelta si attuano tali azioni scartando tutto ciò che
sarebbe irrealizzabile.
La scelta, tuttavia non corrisponde ancora alla volontà: essa infatti,
riguarda i mezzi per raggiungere il fine, non il fine stesso. È invece la
volizione del fine che ci rende buoni o malvagi, ma ancora una volta tale
volizione appare essere un fatto teoretico piuttosto che pratico, cioè legato
intellettualisticamente al sapere delle cose e piuttosto che al volere.
Di fatto Aristotele sposta il problema dei paradossi intellettualistici della
morale, introducendo la mediazione della deliberazione e della scelta tra l'uomo
e il fine, ma non lo risolve. Bisognerà attendere il Cristianesimo per avere
un'idea chiara, grazie al supporto della Rivelazione, sul significato della
volontà del bene e del male.
LA POLITICA
Lo Stato
Il bene del singolo individuo e il bene dello Stato sono della medesima
natura, consistendo ambedue nella virtù, tuttavia il bene dello Stato è più
importante, più bello, più perfetto e più divino.
La ragione di ciò è da cercare
nella natura dell'uomo, la quale dimostra che egli non è assolutamente capace di
vivere isolatamene, e che ha bisogno, proprio per essere se medesimo, di avere
rapporti con i suoi simili in ogni momento della sua esistenza.
Per Platone lo Stato nasce dai bisogni dell'uomo, per Aristotele, invece, lo
Stato scaturisce dalla stessa natura dell'uomo in quanto tale. L'uomo è
naturalmente socievole.
In primo luogo la natura ha distinto gli uomini in maschi e femmine, che si
uniscono a formare la prima comunità, vale a dire la famiglia, per la
procreazione e per il soddisfacimento dei bisogni elementari.
Poiché, tuttavia, le famiglie non bastano a se stesse, sorge il villaggio, che è
una comunità più ampia fatta per soddisfare in modo più completo e organico ai
bisogni della vita.
Ciò è sufficiente a soddisfare i bisogni della vita in generale, ma non basta a
garantire le condizioni della vita perfetta, cioè della vita morale secondo
virtù. Nello Stato, pertanto, l'individuo trova le leggi, le magistrature e in
genere tutte le istituzioni che lo portano a uscire dal proprio egoismo (autoreferenzialità esclusiva)
e a vivere secondo ciò che è oggettivamente buono.
L'uomo è più socievole di ogni altro animale che viva in greggi: l'uomo è l'unico animale dotato di parola, che serve a indicare l'utile e il dannoso, il giusto e l'ingiusto. Pertanto, chi non possa entrare a far parte di una comunità, e chi non abbia bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma o è una belva o è un dio.
La famiglia
È costituita da quattro elementi:
- il rapporto marito-moglie;
- i rapporti padre-figli;
- il rapporto padrone-servi;
- l'arte di procacciarsi le ricchezze (crematistica).
Circa il terzo elemento, Aristotele ritiene che, al fine di acquisire proprietà e ricchezze, la famiglia debba disporre degli idonei strumenti, tra i quali egli considera indispensabili gli schiavi, che egli ritiene per natura portati esclusivamente a servire.
Per quanto concerne il quarto punto, invece, Aristotele distingue tre modi
per procurarsi beni e ricchezze:
. tramite caccia, pastorizia e agricoltura;
. tramite il baratto, cioè lo scambio di beni equivalenti;
. tramite un innaturale commercio in denaro, che fa uso di tutti gli strumenti
idonei ad aumentare senza limiti la ricchezza.
Quest'ultimo modo, detto crematistica, viene considerato pericoloso da
Aristotele, in quanto per esso è facile essere portati a scambiare ciò che è un
semplice mezzo di arricchimento (il denaro) con il fine dell'arricchimento
stesso.
Una sana economia è quella che si limita ai primi due modi di arricchimento e che tende a procurare quanto basta a soddisfare i bisogni naturali che hanno un limite fissato dalla natura stessa.
Il cittadino
Per essere cittadino nel vero senso del termine (polítes)
occorre la partecipazione ai tribunali o alle magistrature, occorre cioè
prendere parte all'amministrazione della Città.
Per Aristotele, pertanto, il numero dei cittadini all'interno della comunità
statale, è ristretto, mentre tutti gli altri uomini rientrano nello Stato a
titolo più che altro di mezzi per soddisfare ai bisogni dei primi.
Le forme costituzionali
Il problema politico consiste nello
stabilire in che modo lo Stato possa costituirsi.
La costituzione è la struttura
che dà ordine alla città, stabilisce le cariche e il loro funzionamento e
soprattutto definisce l'autorità sovrana.
Il potere sovrano può essere
esercitato:
- da un solo uomo;
- da pochi uomini;
- dalla maggioranza degli
uomini.
In tutti questi tre casi, poi, l'autorità può essere esercitata in modo
corretto o in modo scorretto; si hanno di conseguenza tre forme di costituzioni rette
(monarchia, aristocrazia, politía) e altrettante forme
di costituzioni degenerate (tirannide, oligarchia, democrazia [demagogia]).
Tutte e tre le
forme di governo, quando sono rette, sono naturali e quindi buone, perché il
bene dello Stato consiste nel mirare al bene comune, tuttavia, in linea di
diritto, Aristotele non fa mistero che sarebbe la monarchia la forma migliore di
governo, benché, per forte senso realistico, sia poi portato a considerare la politía
la più conveniente tra le forme di governo, in quanto è via di mezzo tra
democrazia e oligarchia e valorizza il ceto medio, garanzia di stabilità
(secondo il criterio della medietà della virtù).
LA POETICA
Il terzo genere delle scienze è quello delle scienze produttive o
poietiche. Esse insegnano a fare e a produrre cose, oggetti, strumenti,
secondo regole e conoscenze precise. Costituiscono un sapere che non è né fine a
se stesso e nemmeno un sapere voltò a beneficio di che agisce, bensì volto a
beneficio dell'oggetto prodotto.
Le scienze poietiche, nel loro complesso, non interessano se non indirettamente,
la ricerca filosofica, eccezion fatta per le “arti belle”, cioè le arti che
imitano la natura e che, prive di utilità pragmatica, ne riproducono o ricreano
taluni aspetti, con materiale plasmabile, con colori, suoni o parole.
Aristotele si limita peraltro alla trattazione della sola poesia e, in
particolare della poesia tragica e di quella epica.
Platone aveva fortemente biasimato l'arte, appunto perché la intendeva come
imitazione di cose materiali e quindi come imitazione di imitazioni, copia di
copie, parvenza di parvenze. Aristotele, per contro, a partire dal suo punto di
vista più aperto al fenomeno sensibile, interpreta l'imitazione come un'attività
che, per così dire ricrea le cose secondo una nuova dimensione essenziale.
Per Aristotele, il poeta (al contrario dello storico) descrive e rappresenta
l'universale, trasfigura le cose, facendole assurgere ad un'altitudine
universalizzata, anche utilizzando il paradossale e l'impossibile a patto che il
tutto risulti verosimile.
L'universalità della rappresentazione della poesia nasce dalla sua capacità di
riprodurre gli eventi secondo la legge della verosimiglianza e della necessità;
d'altronde la poesia non è tout court filosofia in quanto il suo
universale non è l'universale logico, ma qualcosa a sé stante, che gode di un
valore autonomo.
I canoni del fare artistico si sintetizzano nel rispetto dell'oggetto e nel
rispetto della convenienza del modo espressivo all'oggetto; nella tragedia
nell'unità di luogo, di tempo e di azione.
A proposito della tragedia, che costituisce l'asse portante della sua
poetica, Aristotele dice che essa è imitazione di un'azione seria e compiuta in
se stessa, con una certa estensione, la quale, mediante una serie di casi che
suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l'animo da
siffatte passioni.
In tal senso si potrebbe interpretare che Aristotele accordi alla tragedia (e
con essa all'arte) una funzione pedagogico-politica, quale strumento di stimolo
alla virtù per il cittadino che ne fruisce; ma la spiegazione della catarsi non
è concorde tra gli interpreti.
la logica
All'interno del corpo delle opere di Aristotele gli scritti di logica sono
raccolti nell'Organon, che in greco significa “strumento”.
Ciò segnala un
problema che deve essere analizzato prima di addentrarsi nell'indagine delle
diverse parti della logica stessa, vale a dire se la logica
sia o non sia una scienza.
Aristotele sembra propendere per la seconda ipotesi,
che ritiene che la logica si costituisca come strumento di conduzione del
discorso di qualsiasi disciplina scientifica che a sua volta se ne serva.
La
logica, cioè, appare come un impianto tecnico, come un corredo di attrezzature,
che trovano la loro applicazione all'interno dello sviluppo delle discipline
scientifiche, non un metodo, quindi, ma un criterio di correttezza e di
completezza dei sistemi scientifici applicato durante lo svolgimento della
ricerca.
La logica, però, può anche considerarsi scienza
nell'accezione di “epistemologia”, cioè di disciplina che studia la
scientificità delle scienze, la disciplina che descrive e prescrive i canoni
della scientificità di un discorso.
Il termine “logica”, comunque, non è di uso
aristotelico, ma risale alla più tarda filosofia stoica (età ellenistica);
quando parlava di logica, Aristotele intendeva l'analitica.
Nel sistema
aristotelico la logica mantiene una relazione strettissima con la metafisica,
dal momento che, per Aristotele, le strutture del pensiero e le strutture
dell'essere si sovrappongono per identificarsi, vista la profondissima
similarità tra essere e pensiero.
L'intelligibilità delle sostanze, infatti,
coincide con la loro formalità essenziale, e le dinamiche dell'essere
corrispondono alle dinamiche del vero.
I libri di logica dell'Organo
aristotelico sono:
- Categorie
- (trattato) Sull'interpretazione
- Analitici primi
- Analitici secondi
- Topici
- Elenchi (significa “confutazioni”) sofistici.
I “capitoli” della logica sono: il concetto, la proposizione, il
ragionamento.
Il concetto (e la definizione)
Come si è già avuto modo di vedere, una tradizione manualistica consolidata assegna la
scoperta del concetto a Socrate.
In realtà, Socrate e Platone hanno
rispettivamente posto le basi ed elaborato la dialettica per codificare il
significato del concetto, servendosene abbondantemente all'interno della
loro dialettica, ma non ne sono stati i consapevoli scopritori.
Per avere una
speculazione matura sul concetto, infatti, bisogna rivolgersi ad Aristotele, il
primo consapevole teorizzatore della logica.
Nel contesto dell'ironia, Socrate
stringeva l'avversario a dichiarare senza equivoci la propria posizione sul “che
cos'è” delle problematiche in questione, e certamente, l'interrogativo “che
cos'è” presuppone come risposta l'individuazione del concetto, ma soltanto con
Aristotele il primo elemento logico, il concetto, appunto, riceve un'adeguata
attenzione come oggetto di studio.
Il concetto è il primo elemento del discorso, è
la conoscenza elementare (nel senso che è l'elemento primario di ogni
conoscenza); è una nozione (notizia, nota interiore) universale e necessaria.
Universale significa “che si dice, si predica di molti”, il che implica
l'astrattezza, la non-individualità, e la pura intelligibilità, slegata da
qualsiasi concretezza materiale; necessario significa “strutturale,
strutturalmente costituente, irrinunciabile” (necessario, in filosofia, non
comporta nessuna relazione di bisogno, né alcuna forma di relazione con la
figura del destino).
Un concetto, date tali caratteristiche, non contiene
alcunché di “visibile”, di “palpabile”, ecc.; è una pura astrazione che si
costituisce come possibilità di riconoscimento di una determinata natura
all'interno della complessità del reale.
Il concetto di ruota, per esempio, non
è certo dotato di pneumatico né di mozzo, né di raggio; corrisponde
semplicemente all'intuizione della possibilità del rotolamento. È il concetto,
infatti, che permette la scoperta e l'invenzione (del fuoco, della ruota, dello
scaldabagno, ecc.).
Il concetto non è né vero né falso, dal momento che si tratta di un pura intuizione.
Il concetto si esprime nella definizione, che,
ancora, non è né vera né falsa, ma può essere “buona” o “non buona”.
Una buona
definizione contiene in sé stessa soltanto due elementi, il genere prossimo
(cioè il più vicino nella scala dei generi) e la differenza specifica, cioè la
causa formale della propria specificità. Ad esempio: uomo è il concetto che si
esprime nella definizione “animale ragionevole”; se si dicesse diversamente, per
esempio, che uomo è “ente
ragionevole”, la definizione sarebbe meno soddisfacente della prima perché il
genere ente non è nella prossimità della specie razionale, ma di diversi gradi a
monte, talché ci si potrebbe domandare a buon diritto se l'uomo sia anche
vegetale, visto che una specie dell'ente vivente è anche quella vegetale, oltre
che quella animale.
I cinque concetti predicabili sono:
- sostanza (ad es.:
uomo);
- genere (ad es.: animale);
- specie (ad es.: razionale);
- proprietà
(ad es.: educabile);
- accidente (ad es.: musico).
I generi della predicazione sono le dieci categorie già considerate in
metafisica.
Dei concetti possiamo
considerare le caratteristiche di estensione e di comprensione, tra loro in
relazione di proporzionalità inversa.
L'estensione consiste in quella
caratteristica di generalità per cui un concetto è capace di raccogliere in sé
una vasta gamma orizzontale di specie a sé subordinate; la comprensione, al
contrario, consiste nell'opposta caratteristica di peculiarità, per la quale un
concetto significa con molta precisione, senza ovviamente poter raccogliere in
se che una ristrettissima gamma di realtà.
La proposizione
Esprime in forma
logica il giudizio, cioè l'atto con cui la nostra mente afferma o nega qualcosa.
La proposizione congiunge o disgiunge un soggetto e un predicato, cioè afferma
qualcosa di qualcosa o lo nega.
Della proposizione prendiamo in considerazione la qualità e la
quantità.
Qualitativamente le proposizioni sono o affermative o negative.
Quantitativamente sono universali, particolari e singolari; la quantità proposizionale è determinata dal quantificatore, cioè dall'operatore di
quantità:
- universale: tutti, ogni, nessuno;
- particolare: qualche, alcuni,
qualche ... non, alcuni ... non;
- singolare: questo, quel, nome proprio (non).
Le relazioni verofunzionali tra proposizioni sono regolate secondo il seguente schema quadratico, costruito dalla tradizione medievale:
Le contrarie possono essere entrambe false o l'una vera e l'altra falsa.
Le
contraddittorie sono necessariamente l'una falsa e l'altra vera, in quanto
interpretano il principio di non contraddizione.
Le subcontrarie possono essere entrambe vere o l'una vera e l'altra falsa.
Per quanto riguarda
le subalterne, è rilevante il fatto che dalla verità dell'universale è
deducibile la verità della particolare, ma non viceversa, mentre dalla falsità
dell'universale non è deducibile la falsità della particolare, ma viceversa
dalla falsità della particolare è deducibile la falsità dell'universale.
Alla
proposizione assertoria si affianca la proposizione modale.
La modalità di una
proposizione dipende dall'operatore modale, che interviene sul significato del
“detto” assertivo, condizionandolo con le connotazioni di necessità e
possibilità (e contingenza).
La proposizione modale, dunque, è introdotta da:
- è
necessario che,
- è possibile che,
- è contingente che.
È ovvio che l'operatore
modale condiziona la verofalsità della proposizione.
L'argomentazione
L'argomentazione è una sequenza di proposizioni concatenate.
L'argomentazione, formulazione logica del ragionamento, può essere deduttiva o
induttiva.
Nell'argomentazione deduttiva si procede da premesse (conoscenze) universali per ottenere conseguenze (conoscenze) particolari.
Il
sillogismo è la forma più significativa di ragionamento deduttivo.
Il sillogismo
è quel ragionamento in cui, poste alcune (due) premesse, segue di necessità una
conclusione in quanto le premesse sono date.
Esso si compone, dunque, di tre
proposizioni che associano o dissociano in tutto tre termini:
- una premessa
maggiore (perché contiene il termine detto estremo maggiore),
- una premessa
minore (perché contiene il termine detto estremo minore),
- una conclusione, che
associa o dissocia i due estremi grazie al terzo termine presente in entrambe le
premesse che viene detto termine medio.
Il sillogismo, come del resto qualsiasi
argomentazione, può dirsi “buono” (o corretto) o “cattivo” (o nullo) più che
vero o falso. È questione di struttura formale: un sillogismo può essere
corretto, pur presentando una conclusione falsa; la bontà dell'argomentazione,
infatti, è indipendente dalla verità delle proposizioni che la compongono.
A
partire da premesse di ordine necessario si otterranno sillogismo scientifici,
dimostrativi in senso pieno (apodittici); a partire da premesse di ordine
probabile si otterranno sillogismi dialettici (cioè probabili), a partire da
premesse apparentemente probabili si otterranno sillogismi eristici.
Nell'argomentazione induttiva si parte da premesse particolari per ottenere una conseguenza di ordine generale, non universale. “Universale”, in questo caso, significa valido di molti, che si può dire di molti; “generale” significa valido statisticamente per tutti, ma aperto all'eccezione.
Occorre prestare attenzione al fatto che Aristotele usa l'appellativo induzione (epagoghé) per
significare:
- il procedimento argomentativo mediante il quale, a partire da
una collezione di casi particolari, estesa quanto più è possibile, si giunge a
una conclusione di ordine generale, statisticamente valida per tutti i casi;
- l'intuizione intellettuale (altrimenti detta noûs) dei principi primi, che
costituiscono le trame della logica e gli assiomi delle scienze.
È ovvio che,
quando si parla di intuizione, non si intende alcun ragionamento, ma un semplice
atto della mente per il quale essa è “condotta” alla conoscenza dei primi
principi.
FILOSOFIE ELLENISTICHE
Alla fine del IV secolo a. C. la libertà "politica" in Grecia è venuta meno;
l'ellenismo politico e culturale impone alle classi intellettuali la rinuncia
alla partecipazione alla vita pubblica, che aveva tanto caratterizzato le
filosofie di Aristotele e, soprattutto, di Platone.
Ciò comporta un atteggiamento filosofico di riflusso verso l'unico spazio
rimasto aperto all'esercizio della libertà, l'interiorità morale (non
emozionale), il dominio privato all'interno del quale è possibile, in tutta
autonomia, assumere decisioni, stili e indirizzi di vita dei quali non si debba
rendere conto all'autorità costituita esterna.
Consideriamo tre scuole di pensiero che si sono manifestate in evidenza tra IV e II secolo a. C.
EPICUREISMO
Fa capo a Epicuro di Samo (340-270 a. C.), all'insegnamento del quale rimane
fedele nelle sue diverse diramazioni.
Epicuro fonda ad Atene la sua scuola, il
Giardino, dove si riuniscono amici ed amiche che ne condividono il pensiero,
sostanzialmente finalizzato all'indagine e alla pratica della morale.
La canonica
La filosofia, per Epicuro, è tripartita in logica, fisica ed etica. La prima
elabora i "canoni", cioè le regole, secondo le quali possiamo riconoscere la
verità, la seconda studia la costituzione del reale, la terza il fine dell'uomo,
ovvero la felicità. La prima e la seconda sono elaborate in funzione della
terza.
Criteri di verità Epicuro
capovolge l'idea platonica secondo la quale le sensazioni confondono l'anima;
per lui soltanto esse "colgono l'essere" in modo infallibile, dati i loro
caratteri strutturali, l'essere "affezioni", cioè passività, l'essere
"oggettive", perché prodotte (come si vedrà) dal flusso atomico, l'essere "arazionali",
quindi spontanee.
Il secondo criterio di verità sono le prolessi (pre-nozioni), cioè le
rappresentazioni mentali delle cose, la memoria, l'impronta di ciò che è stato
oggetto di sensazione.
Il terzo criterio di verità consiste nei sentimenti di piacere e di dolore, cioè
quei moti spontanei che ci determinano le nostre scelte.
Evidenza e opinione I tre criteri sopraelencati godono di evidenza, data
l'azione diretta che, attraverso di essi, le cose esercitano su di noi. Ciò che
è evidente, pertanto, è sempre vero. Attraverso il ragionamento, invece, si
insinua nella conoscenza la possibilità del falso, in quanto attraverso di esso
si generano le opinioni, il cui grado di certezza si attesta alla probabilità
Il metodo per discernere le opinioni vere da quelle false è la costante
riconduzione di esse ai criteri di base, grazie ai quali esse ricevono conferme
o smentite.
La fisica
Materialista, adotta la fisica atomistica di Democrito come base della sua
speculazione di ordine primariamente etico.
Nulla nasce dal non essere, altrimenti tutto potrebbe nascere da tutto e il
tutto sarebbe ormai perito se qualcosa potesse mai dissiparsi nel nulla.
Il tutto è costituito da atomi e vuoto: i primi sono evidenti grazie alle
sensazioni, il secondo grazie all'evidenza del movimento. La realtà, cioè il
tutto, è infinita, così come l'estensione del vuoto.
I corpi sono o composti o semplici; questi ultimi sono gli atomi, concepiti come
il limite razionale dell'indivisibilità.
Diversità rispetto a Democrito
Gli atomi, qualitativamente identici, si distinguono per figura, peso e
grandezza; sono fisicamente indivisibili, ma ontologicamente costituiti di
parti, le quali obbediscono al criterio del "minimo", cioè la grandezza
irriducibile. Obbediscono al "minimo" anche il vuoto, il tempo e il clinamen,
cioè la declinazione rispetto alla direzione retta, la curvatura che il
movimento degli atomi assume nel suo percorso di caduta infinita.
Tale clinamen viene introdotto da Epicuro per ragioni di ordine fisico –
spiegare l'urto degli atomi tra loro – e soprattutto di ordine etico, al fine di
garantire all'uomo uno spazio di libertà.
Il mondo, l'anima e gli dei Dagli
atomi infiniti derivano infiniti mondi; essi nascono e si dissolvono, ma il
tutto non muta, perché gli elementi costitutivi rimangono identici.
Alla radice dei mondi, comunque, non c'è alcuna finalità né alcuna intelligenza;
dominano il casuale e il fortuito, dovuti al clinamen.
Come ogni altra cosa, anche l'anima è un aggregato di atomi, ignei, aeriformi e
ventosi, quelli della parte irrazionale, "diversi", invece, quelli che
compongono il razionale. Come ogni altra cosa l'anima si aggrega e si disgrega,
cioè non è immortale.
Sull'esistenza degli dei, immortali, Epicuro non nutre alcun dubbio, ma nega che
essi possano occuparsi degli uomini e del mondo, in quanto essi non possono che
vivere beatamente negli intermundia (gli intermondi), gli spazi esistenti
tra mondo e mondo. La loro esistenza è certissima, in quanto patrimonio comune
di tutti.
L'etica
Essendo ogni realtà materiale, sarà materiale anche il bene specifico
dell'uomo: esso consiste nel piacere (edoné).
L'edonismo Epicuro considera
sommo bene il piacere "catastematico", cioè il piacere in quiete. Più che il
piacere del corpo, per epicuro è rilevante il piacere dell'anima, profondo e
durevole. Esso consiste sia nell'assenza di dolore del corpo (aponía)
sia nell'assenza di turbamento dell'anima (atarassía). La regia nella
vita morale non è, dunque, il piacere in se stesso, ma la ragione che giudica e
discrimina, la saggezza che sceglie i piaceri che non arrecano dolore e
turbamento, mentre scarta quelli che procurano sì godimento, ma che comportano
pene successive.
Tipologia del piacere Per il
raggiungimento di aponía
e atarassía, epicuro distingue:
- piaceri naturali e necessari;
- piaceri naturali, ma non necessari;
- piaceri non naturali e non necessari.
Il benessere si raggiunge perseguendo costantemente i primi, moderando
saggiamente i secondi e rifuggendo decisamente i terzi.
I piaceri del primo gruppo sono necessari al mantenimento in vita; sono gli
unici piacere veramente giovevoli che soddisfano i bisogni primari: mangiare,
bere, riposare. Desiderio e piacere d'amore vengono esclusi, in quanto forieri
di ansie e turbamenti di varia natura.
Al secondo gruppo appartengono le variazioni superflue dei piaceri naturali:
mangiare bene, bere raffinato, vestire in modo ricercato, ecc.
Nel terzo gruppo Epicuro annovera i piaceri "vani", derivanti dalle vane
opinioni degli uomini, quali la ricchezza, il potere, l'onore, la fama e simili,
che procurano soltanto fatiche e affanni.
In sintesi, l'atteggiamento saggio nei confronti del piacere si riconduce
all'autarchia, cioè il poter bastare a noi stessi, la ricchezza e felicità più
grande.
Il male e la morte Il male fisico
non desta preoccupazione, in quanto, se è lieve, è sempre sopportabile e non
arreca offuscamento alla gioia dell'animo; se dovesse essere acuto, poi, passa
presto, mentre, se fosse acutissimo, porterebbe velocemente alla morte, cioè
all'insensibilità. Il male dell'anima, analogamente, non è da prendersi in
considerazione, perché in realtà deriva soltanto da una cattiva amministrazione
dei piaceri, e quindi è del tutto evitabile a partire da un comportamento
saggio. La morte, infine, è considerata male soltanto da chi nutre false
opinioni su di essa. L'uomo, infatti, è un composto atomico; quando il composto
si disgrega, si disgrega anche la sensibilità ad esso legata, e, dunque, la
stessa possibilità di provare dolore o fastidio per essa. La morte non è un
dopo; non c'è alcun "dopo" la morte.
Vita politica e amicizia
L'attività politica è sostanzialmente innaturale; essa comporta continui dolori
e turbamenti, compromettendo la felicità. Il saggio, pertanto, vive in disparte,
defilato; il comandamento epicureo, in proposito, suona: «vivi nascosto». Lo
Stato, la giustizia e il diritto hanno senso soltanto in vista dell'utile, come
strutture di tutela del valore vitale.
L'unico legame tra individui che è fattivo di felicità è quello dell'amicizia,
che unisce assieme chi in modo identico sente, pensa e vive. Nell'amico
l'epicureo vede l'utile sublimato, un altro se stesso.
Il quadrifarmaco La filosofia, in
fin dei conti, serve a Epicuro per assicurare agli uomini un farmaco
tetravalente contro le principali paure: quella dell'aldilà e degli dei, quella
della morte, quella dell'inarrivabilità del piacere e quella del male e del
dolore. L'uomo che sappia applicare a sé tale rimedio acquista la pace dello
spirito e la felicità che nulla e nessuno possono intaccare.
Il saggio sarà dunque "imperturbabile", come lo sono gli dei; la felicità dimora
dentro l'uomo e non dipende dalla realtà circostante, che si connota di vanità.
STOICISMO
Poco dopo la fondazione del Giardino, vede la luce in Atene una nuova scuola
filosofica, destinata a divenire la più rinomata dell'età ellenistica: si tratta
della scuola del Portico (in greco: Stoà), presso il quale Zenone di
Cizio (trasferitosi ad Atene intorno al 312/311 a. C.) teneva le sue lezioni.
A differenza del Giardino la Stoà accettava di mettere in discussione le tesi
del fondatore; pertanto è possibile distinguere tre fasi di sviluppo della
dottrina stoica:
- Antica Stoà, IV-III sec. a. C, i cui scolarchi furono Zenone, Cleante di Asso
e Crisippo di Soli, il maggiore sistematizzatore della dottrina;
- Media Stoà, II-I sec. a. C., con infiltrazioni eclettiche;
- Nuova Stoà o Stoà romana, di età cristiana, caratterizzata soprattutto dalla
meditazione morale e dai toni religiosi.
La logica
L'insieme della filosofia è rappresentato dagli stoici come un frutteto, in
cui la logica corrisponde al muro di cinta, la fisica agli alberi, l'etica ai
frutti.
La rappresentazione catalettica
Il criterio della verità, come per gli epicurei è da attribuirsi, anche per gli
stoici, alla sensazione, l'impressione provocata dagli oggetti sugli organi
sensoriali. Essa si trasmette all'anima e si trasforma in rappresentazione, la
quale non comporta soltanto un sentire, ma anche un "assentire", cioè un
acconsentire razionale. Non siamo liberi di sentire, ma abbiamo facoltà di
assentire o meno alle nostre sensazioni. Soltanto in presenza dell'assenso la
rappresentazione diventa "apprensione" (katálepsis),
criterio e garanzia di verità.
La prolessi Oltre il livello
della catalessi, gli stoici ammettono la formazione dell'intellezione e del
concetto, l'unica forma di realtà che risulta non corporea, cioè "impoverita"
dell'essere materiale e ridotta a puro fatto mentale (prólepsis).
La dialettica È per gli
stoici la scienza dei significanti e dei significati; puntano a considerare come
elemento base della logica la proposizione, non il concetto, e sviluppano la
trattazione del sillogismo ipotetico, applicandolo agli eventi più che hai
termini concettuali.
La fisica
Monismo Gli stoici abbracciano
una posizione che possiamo definire di materialismo monistico e panteistico;
essi identificano la realtà intera con il "corpo", ivi compresi le virtù, i
vizi, la verità e il bene. Tale materialismo, però, non prende la forma del
meccanicismo, ma dell'ilozoismo e dell'ilemorfismo (tutto è vita e tutto è
costituito di materia e forma).
La forma fondamentale sarebbe il Lógos-Dio;
analogamente a Eraclito gli stoici considerano il Lógos un soffio
infuocato, principio che tutto trasforma e penetra. Diversamente dagli epicurei,
gli stoici ammettono la divisibilità dei corpi all'infinito e la loro fusibilità
completa. Il tutto-unico, peraltro, è infinitamente diversificato dal Lógos
che lo pervade con i suoi lógoi spermatikoí, le "ragioni seminali".
L'universo è dunque un unico grande organismo in cui tutte le parti si
armonizzano e "simpatizzano".
Panteismo e finalismo Dio
coincide con il cosmo, fa tutt'uno con esso ed esso consiste delle sue parti.
Siccome tutto è prodotto dal Lógos, tutto è rigorosamente e profondamente
razionale, tutto è come dev'essere e come è bene che sia, e l'insieme è
perfetto.
Strettamente legato a questa idea è il concetto di Prónoia, la
Provvidenza, da non confondere, tuttavia con il concetto cristiano. Essa
consiste, in definitiva, con il destino universale, totalmente immanente, e con
l'Anima del mondo.
Fato e libertà del saggio
L'ineluttabile necessità di tutto ciò che costituisce il mondo, intesa come la
serie irreversibile delle cause, impone l'ordine naturale delle cose presenti
come di quelle future. Anche l'evento più insignificante, pertanto, risulta
necessitato al pari di ogni altra cosa. In tale contesto la libertà si qualifica
come l'assenso dato dal saggio all'accadere del Destino; essere liberi significa
uniformare il proprio volere al Voler del Fato.
Quanto al destino del mondo intero, essendo esso fatto di fuoco, incorre nella
conflagrazione universale finale (ekpúrosis), uno stadio di tutto fuoco,
cui segue una rinascita (palingénesi) che riproduce identicamente il
tutto già compiuto (apokatástasis) fino nei minimi particolari, in quanto
coincidenti con il bene complessivo.
Come il fuoco permea l'universo, così l'anima permea l'uomo, essendo ciascuna
una scintilla dell'eterno Lógos.
L'etica
Anche per gli stoici il senso del
vivere è il raggiungimento della felicità, che si ottiene vivendo "secondo
natura".
Bene e male L'essere vivente, in
generale, agisce guidato dal principio di autoconservazione, cioè tende a
conciliarsi con tutto ciò che è conforme alla propria essenza. Come gli altri
viventi, che lo adempiono inconsapevolmente, anche l'uomo deve seguire tale
principio, conciliandosi con la propria natura razionale.
Bene e male, di conseguenza, sono rispettivamente il giovevole e il nocivo;
piacere e dolore ne sono le conseguenze. Vero bene è la virtù, vero male il
vizio.
Ciò vale per la natura razionale, ma per il corpo il discorso è diverso: tutto
ciò che giova o nuoce al corpo risulta, infatti, indifferente alla morale, in
quanto il corpo non è specifico dell'uomo e segue le logiche della natura
animale e vegetale.
L'indifferenza morale di tutto ciò che non pertiene il Lógos garantisce
che bene e male dipendono sempre e comunque dall'interno dell'uomo, mai
dall'esterno.
Il dovere e l'apatia Le azioni
moralmente perfette sono quelle compiute in tutto e per tutto conformemente al
Lógos; le azioni che concernono gli indifferenti, se condotte
conformemente a natura costituiscono il conveniente (kathékon), che oggi
chiamiamo "dovere". Non tutti gli uomini sono capaci di azioni moralmente
perfette, ma tutti indistintamente sono in grado di adempiere ai doveri, che,
pertanto, sono comandati dalle leggi; il saggio è superiore al dovere e compie
il conveniente in modo moralmente perfetto.
La morale stoica recupera la dimensione comunitaria e antiindividualistica
dell'uomo, in senso apertamente cosmopolitico. Inoltre reinterpreta il concetto
di schiavitù, scollegandolo dalla condizione sociale e legandolo al vizio: il
vero schiavo è colui che è stolto e travolto dai vizi; il saggio è il vero
libero, indipendentemente dalla sua condizione effettiva.
A coronamento di tutto ciò, occorre dire che la realizzazione della felicità
conincide con il raggiungimento dell'apatia, cioè di distacco e l'impassibilità
a fronte di tutto.
Scetticismo
Più che di una scuola, si tratta di un'impostazione del pensiero, apertosi ad
una ricerca (sképsis) senza fine in conseguenza della constatata relatività di
tutte le umane convinzioni.
Lo “scettico” non è colui che diffida di tutto, che non crede, come siamo
abituati a pensare, ma colui che non ritiene di poter affermare nulla di
definitivo, stante la possibilità, per ogni conclusione, di essere messa in
discussione e ulteriormente discussa, in vista di un risultato infinitamente più
profondo.
L'atteggiamento scettico, dunque, è quello della sospensione del giudizio (epoché).
Lo scettico non mette in discussione la realtà, ma qualsiasi teoria sulla
realtà, cioè non l'oggetto in se stesso, ma quanto sull'oggetto si pretenda di
affermare con convinzione di veridicità.
Ciò, d'altronde, comporta la tendenza ad elevare a sistema il relativismo,
facendolo diventare strumento di irrisione e di sistematico smantellamento di
qualsiasi persuasione consolidata, fino al parossismo.
Dal momento poi che lo scetticismo, possibile al livello della teoria, risulta
impraticabile nella vita quotidiana, lo scettico si atteggia a ironica
indifferenza verso qualsiasi aspetto del fare.
IL SISTEMA NEOPLATONICO
Tra secondo e terzo secolo d. C., costituisce l'ultima manifestazione del
platonismo nel mondo antico.
Riassume e porta alla formulazione sistematica le
tendenze e gli indirizzi che si erano manifestati nella filosofia greca e
alessandrina dell'ultimo periodo. Elementi pitagorici, aristotelici, stoici
vengono fusi con il platonismo in una vasta sintesi, nata come filosofia pagana
in concorrenza con il cristianesimo e poi divenuta, quasi paradossalmente, il
modulo fondamentale della teologia cristiana per tutto il medioevo fino all'età
moderna.
Fondato da Ammonio Sacca (175-242), che insegnò senza lasciare scritti
in Alessandria d'Egitto, il Neoplatonismo trovò la sua massima espressione
sistematica nel pensiero di Plotino, stabilitosi a Roma e morto in Campania
verso il 270, e nell'opera di Porfirio, il discepolo di Plotino che ne ha
organizzato ed edito l'opera nelle Enneadi.
Il Neoplatonismo può dirsi la
filosofia dell'emanazione; è il sistema emenazionista. Per emanazionismo si
intende la dottrina che vuole l'origine del mondo in un eterno flusso
dell'essere dall'Uno originario, antecedente l'essere e suprema fonte nonché
fine ultimo di tutte le cose.
PLOTINO
Dai molti all'Uno
La molteplicità delle cose è per Plotino indiscutibile, ma a loro
fondamento egli pone, come condizione, l'unità. Ogni cosa, infatti, anche se
appartenente a una molteplicità di oggetti o costituita da una molteplicità di
parti, è comunque riconducibile, in quanto “quella cosa”, alla propria unità
di fondo, suo principio di intelligibilità. Anche un mucchio di sassi,
infatti, in quanto mucchio è un mucchio di sassi, cioè trova la propria
identificazione nel suo essere uno.
Tolta l'unità, è tolto lo stesso essere dell'ente. Qualsiasi realtà, dunque, è
in quanto è una realtà.
L'unità degli esseri, naturalmente, è distribuita secondo una gradualità
crescente fino all'Uno assoluto, l'Uno primo, totale, in sé, da cui tutto
deriva come dalla radice fondamentale.
Secondo Platone e Aristotele il principio ultimo della realtà erano l'essenza (l'idea o la ousía) e l'intelligenza (il Demiurgo o il Motore immobile); per Plotino, invece, il principio è ancora ulteriore, è l'Uno, il quale è al di là dell'essere e dell'essenza e al di là dell'intelligenza, è principio assoluto.
I caratteri dell'Uno
La caratteristica fondamentale dell'Uno è l'infinitudine; l'infinito è
inteso come illimitata, inesauribile, immateriale potenza produttrice,
infinita spirituale energia creatrice.
Ciò comporta che l'Uno non potrà essere considerato né idea, né forma o
essenza, perché tali concetti implicano il significato di limite, cioè
di delimitazione (essenziale o formale) delle cose; ma non potrà essere
neppure la suprema intelligenza autopensantesi eterna e separata. L'Uno
plotiniano deve trascendere ogni forma di finitezza.
Di conseguenza, allora, Plotino tende a dare dell'Uno connotazioni
prevalentemente negative, perché, in quanto infinito, non gli competono le
determinazioni del finito, che sono tutte posteriori rispetto ad esso. L'Uno è
ineffabile (cioè indicibile, indescrivibile, irriducibile a qualsiasi
significato finito).
Quando invece Plotino riferisce all'Uno caratterizzazioni positive, usa un
linguaggio chiaramente analogico.
L'uno, dunque, non significa un particolare uno, ma l'Uno in sé, la
causa e ragion d'essere dell'unità di tutte le altre cose. L'Uno significa
l'assolutamente semplice, ragion d'essere del complesso e del molteplice. La
semplicità dell'Uno, tuttavia, non è povertà, ma infinita ricchezza, come
infinita potenza: l'Uno è potenza di tutte le cose.
L'altro termine che Plotino usa di frequente per designare il Principio
assoluto è il Bene. Non, naturalmente un particolare bene, ma il Bene
in sé, quindi non ciò che ha bene in qualche misura, ma ciò che è il bene, ed
è il bene per tutte le altre cose. Si tratta, quindi del Bene assolutamente
trascendente.
L'Uno, dunque, è al di sopra dell'essere, al di sopra del pensiero e anche
al di sopra della vita. Ciò non significa il non-essere, ma il principio
infinito da cui derivano l'essere, il pensiero e la vita.
L'Uno è la ragion d'essere di tutto ciò che ad esso segue; è attività
autoproduttrice. In esso volontà ed atto coincidono con l'essere; è il
supremo positivo, vuole essere quello che è, perché è quanto di più alto vi
sia.
Da ciò deriva che il principio supremo sia anche non solo amabile, ma anche amore, amore di sé stesso. Dunque l'Uno è attività autoproduttrice, assoluta libertà creatrice, causa di sé, ciò che esiste da sé e per sé; è il “trascendente se stesso”.
La derivazione del molteplice dall'Uno
Il problema della realtà molteplice si pone per Plotino sotto due diversi
aspetti:
- perché dall'Uno derivano i molti?
- come avviene tale derivazione?
Per rispondere, Plotino si avvale di immagini splendide, che, tuttavia, in
quanto immagini, rimangono comunque entro un certo margine di ambiguità.
La derivazione delle cose dall'Uno, ad esempio, è rappresentata come
l'irraggiarsi di una luce da una fonte luminosa in forma di cerchi successivi,
via via digradanti in luminosità, mentre la fonte stessa della luce persevera
senza impoverirsi pur nel suo espandersi tutto intorno.
Altrimenti, l'Uno è rappresentato come il fuoco che emana calore, come la
sostanza odorosa che profuma, il vivente che, giunto a maturità, genera.
Altre celebri metafore plotiniane sono quelle della sorgente inesauribile che
genera da sé innumerevoli fiumi o quella dell'albero gigantesco che trae
la linfa dal suo radicamento.
Da tutte le immagini si ricava che il principio (l'Uno) rimane e,
rimanendo, genera, nel senso che il suo generare non lo impoverisce, non lo
menoma, non lo condiziona. Ciò che è generato, poi, è inferiore al generatore,
e non serve ad esso; è il generato che abbisogna del generante, non viceversa.
La realtà tutta promana dall'Uno, attraverso un flusso necessario ed eterno,
un inarrestabile fluire d'essere dal principio.
Le attività dell'Uno
Plotino distingue due tipi differenti di attività dell'Uno:
- l'attività dell'Uno;
- l'attività che deriva dall'Uno.
La prima è attività immanente all'Uno, la seconda ne fuoriesce, dirigendosi
all'esterno; la prima consiste nel “rimanere” tale, la seconda nel “procedere”
o derivare delle cose.
Ora, l'attività dell'Uno consiste nel suo voler essere ciò che è, mentre
l'attività che procede dall'Uno consegue necessariamente alla prima; la
seconda, dunque, costituisce una “necessità voluta”, ossia una necessità posta
da un atto libero che la necessita.
Le ipostasi
La processione (emanazione) della realtà dall'Uno si articola secondo tre stadi,
chiamati ipostasi (realtà sostanziali per sé sussistenti):
- l'Uno;
- l'Intelletto (o Spirito);
- l'Anima.
Le generazione delle ipostasi successive all'Uno implica, oltre alle due attività viste sopra (dell'ente e dall'ente), una terza attività, il “rivolgersi” al principio superiore da cui ciascuna ipostasi deriva per guardarlo e per contemplarlo.
La seconda ipostasi, l'Intelletto, si determina e diviene mondo
delle forme rivolgendosi all'Uno, guardando e contemplando l'Uno da cui deriva
per emanazione e fecondandosi e riempiendosi di Esso. La nascita della seconda
ipostasi, pertanto, è nascita di un molteplice, di una molteplicità
intelligibile, di un mondo di idee; tale molteplicità si spiega per
l'incapacità da parte della seconda ipostasi di cogliere l'Uno nella sua
integralità infinita, e per la conseguente necessità di guardarlo per infinite
prospettive, per angoli visuali differenti.
L'Intelletto o Spirito, infatti, non pensa direttamente l'Uno, ma pensa se
medesimo riempito e fecondato dall'Uno, vede sé come molteplice.
L'Uno è “potenza” di tutte le cose, l'Intelletto o Spirito è, a sua volta,
“tutte le cose”. Lo Spirito è intima e inscindibile unione di Essere,
Pensiero, Intelligibile e Intelligenza. Lo Spirito è anche Vita, non
necessariamente fisica, ma spirituale, extratemporale.
L'Intelletto o Spirito, infine, è cosmo intelligibile, suprema armonia,
bellezza insuperabile ed assoluta; infinita varietà.
La terza ipostasi, l'Anima, deriva dalla seconda come la seconda
dalla prima, cioè in virtù dell'attività dall'ente di cui si diceva
sopra. Analogamente all'Intelletto, anche l'Anima diviene tale nell'atto di
rivolgersi al suo principio, l'Intelletto, appunto, per contemplarlo.
Attraverso lo Spirito medesimo l'Anima vede il Bene, cioè l'Uno, e proprio per
questo ottiene il fondamento della propria realtà.
L'essenza dell'anima consiste nel produrre e nel dar vita a tutte le altre
cose che sono (ossia le realtà sensibili), nell'ordinarle e nel governarle.
L'Anima costituisce il momento estremo nel processo di espansione
dell'infinita potenza dell'Uno, è l'ipostasi che genera il mondo come ultimo
dono di sé, dando manifestazione alla dimensione del sensibile.
La posizione intermedia dell'Anima
L'Anima, quindi, è l'ultima dea, cioè l'ultimo livello (il più basso) del
divino, ed ha due volti, orientati l'uno verso l'alto, cioè verso
l'incorporeo, l'altro verso il basso, cioè verso il corporeo.
Nel generare il corporeo, pur continuando ad essere e a permanere realtà
incorporea le accade di avere rapporti con il corporeo prodotto e, quindi, di
assumerne anche le caratteristiche, benché in modo puramente intelligibile.
Indivisibile di per se stessa, essa diviene divisibile e divisa nei corpi,
entrandovi in tutte le parti. L'Anima è dunque divisa e indivisa, una e
molteplice in quanto regge e governa il mondo sensibile da lei prodotto.
La molteplicità dell'Anima si manifesta anche in una gerarchia sussistente nel
proprio intimo; l'Anima è:
- l'Anima universale, cioè la terza ipostasi intelligibile;
- l'Anima del Tutto, o Anima del mondo sensibile, che regge e governa il
corporeo senza lasciarsi compromettere da esso;
- le anime particolari, che presiedono ai singoli corpi, in quanto frutto
della discesa dell'Anima nel corporeo ove la differenziazione è d'obbligo.
L'Anima del mondo è quella deputata alla generazione dell'Universo fisico; essa, tuttavia, rimane perennemente nel mondo intelligibile accanto allo Spirito. Il lembo estremo, l'orlo di quest'anima (è un'immagine di Plotino) costituisce la physis, la natura, che è attività accompagnata dalla ragione e derivante da ragione, non produzione cieca e irrazionale.
La processione della materia
Dopo l'Anima, al di sotto di essa, si estende il mondo del corporeo e del
sensibile, ossia l'universo fisico.
Come e perché dall'Uno incorporeo è derivato, oltre il molteplice incorporeo,
anche il mondo corporeo?
Anche nel mondo incorporeo esiste una materia, ma a livello del tutto
intelligibile, come pensiero. Tutto ciò che deriva dall'Uno, infatti, deriva a
titolo di potenza che, rivolgendosi all'Uno stesso, si realizza prima come
Intelletto e, in secondo luogo, come Anima.
Caratteristica di ogni materia è quella di essere indefinita, indeterminata,
illimitata. La materia sensibile è un'immagine di quella intelligibile, che
deriva dall'intelligibile come estrema tappa attraverso un progressivo
indebolimento dell'impulso primigenio, che rasenta ora la soglia del nulla. La
materia sensibile diventa, così, esaurimento totale, privazione estrema della
potenza dell'Uno, privazione del Bene.
In questo senso essa diventa soglia del male, non come forza
positivamente opposta al bene, ma come, semplicemente, rarefazione estrema,
definitiva assenza, estremo svanire del Bene.
La materia volge verso il non-essere, perde ciò che è proprio del mondo
dell'essere e dell'intelligibile. Essa non ha più la forza di volgersi verso
il principio generante e di contemplare a sua volta, tanto che tocca alla
stessa Anima il compito di reggerla e di governarla, in quanto da sé sola è
incapace di qualsiasi organizzazione.
La configurazione del mondo fisico e la temporalità
In un primo tempo è posta la materia dall'Anima, successivamente l'Anima stessa dà forma a questa materia, squarciando l'oscurità da cui essa è caratterizzata e ricuperandola alla luce dell'intelligibilità. La prima operazione deriva dal fatto che l'Anima vede affievolirsi il proprio anelito all'Uno, la seconda da una sorta di riscossa di di questo stesso anelito, per cui essa dà forma alla materia. Le idee, che costituiscono l'Essere e lo Spirito, sono contemplate e pensate dall'Anima come Forme e sono poi, calate nel mondo fisico come determinazione razionale.
Il passaggio dal mondo intelligibile al mondo sensibile comporta il passaggio dall'essere al divenire, dall'eternità alla temporalità. La temporalità coincide con l'attività stessa con cui l'Anima crea il mondo fisico. L'eternità è vita senza mutamento, vita tutta simultaneamente presente; ma l'Anima, per una sorta di “desiderio di appartenere a se stessa”, non appagata dalla visione del tutto simultaneo nella dimensione dell'eternità, avanza e si distende in un prolungamento di atti seriali che si succedono l'un l'altro e ordina in successione di prima e di poi ciò che era tutto insieme e simultaneo. L'Anima temporalizza il proprio prodotto, cosicché il mondo è strutturalmente immerso nel tempo, benché dall'eternità, in quanto il processo di temporalizzazione avviene da sempre.
Il “ritorno” all'Uno attraverso l'uomo
In alternativa al Cristianesimo, che propone il teorema della creazione, il Neoplatonismo propone l'emanazione; parallelamente, in alternativa alla redenzione operata dal Cristo, propone l'epistrophé, cioè il ritorno all'Uno operato attraverso l'uomo.
L'uomo non nasce al momento in cui sorge il mondo corporeo, ma preesiste ad esso, sia pure in una condizione diversa, cioè allo stato di pura anima (in accordo con le tesi platoniche). Le anime degli uomini erano, in quella condizione, associate all'Anima universale e pertanto conoscevano intuitivamente e simultaneamente la totalità delle cose dello Spirito e, attraverso di esso, il Bene in sé.
Secondo la “norma” della processione del mondo, tuttavia, l'Anima deve
esplicare tutte le proprie possibilità, anche attraverso le cose particolare
e, quindi anche attraverso i viventi particolari, tra cui, oltre gli animali
bruti, c'è anche l'uomo. La discesa dell'anima nel corpo, quindi, non è
volontaria (e dunque non può addebitarsi a una colpa).
Nel contempo, tuttavia, Plotino non può non ammettere che dimorare presso lo
Spirito era meglio che scendere nei pressi della materia, il che, pertanto,
costituisce un peggioramento della condizione dell'uomo e quindi un male
(dovuto a una forma di temerarietà e dunque, in certo modo, a una colpa).
Questa colpa/non-colpa è dunque da un lato una “voglia di appartenersi” da
parte dell'anima, quasi una forma di narcisismo di essa, dall'altro un
chiudersi nell'individualità attraverso l'eccesso di cura per il corpo
acquisito, che sia accompagna all'allontanamento dall'Origine unitaria per
mettersi al servizio della divisione e della differenza. Proprio in ciò
consiste, secondo Plotino, il male dell'anima, che le fa dimenticare la
propria origine nell'uno e la fa disperdere nel molteplice sulla soglia del
non essere.
Tale colpa, non può tuttavia cancellare per intero la memoria della
condizione originaria. Laddove, infatti, nell'al di là l'anima tende a
lasciare cadere i ricordi legati al corporeo e al temporale, nell'al di qua
l'anamnesi delle cose superne non può mai interamente oscurarsi.
Attraverso l'attività più alta, in cui consiste la libertà, l'anima pone la
propria forza operante sulla scia dello Spirito e nell'agire di conseguenza,
secondo quei modi che la portano a unirsi allo Spirito e all'Uno-Bene stesso.
La libertà dell'uomo, pertanto, è sempre e solo la libertà dell'anima che
vuole e cerca di raggiungere il Bene, il che accade nella misura della sua
capacità di distacco dal corporeo e dal materiale.
Per Plotino la felicità è attingibile già in questa vita, nella misura del
distacco dal corpo; il percorso da compiere verso la felicità passa attraverso
le virtù civili (giustizia, saggezza, temperanza e fortezza), semplice punto
di partenza o condizione di possibilità per l'assimilazione a Dio, e in
seconda istanza attraverso l'erotica (arte e amore) e la dialettica
(filosofia).
In quest'ultimo ambito, che consiste essenzialmente nella contemplazione e
nella fruizione della bellezza, l'anima muove dal bello e, superandone la
dimensione sensibile, progredisce lungo i suoi gradi incorporei fino a
diventare essa stessa perfettamente bella identificandosi con il Bello
assoluto (lo Spirito) e con il principio stesso del Bello (il Bene o l'Uno).
L'estasi
La via del ritorno all'Uno, dunque, ripercorre a ritroso la processione o
emanazione proprio attraverso quell'anima che rasenta il nulla attraverso la
sua condizione fisica e mondana. Il ricongiungimento all'Uno, dunque, consiste
nella sottrazione di ogni differenziazione e alterità, ossia in una sorta di
“semplificazione” (áplosis).
Spogliarsi di ogni alterità significa, per l'uomo, rientrare in se medesimo,
nell'intimo della propria anima, distaccarsi dal corporeo e dal corpo e da
tutto quanto ad esso inerisce, anche dalla parola e dalla ragione discorsiva,
perfino dalla conoscenza riflessa.
Icasticamente, il percorso plotiniano si riduce all'imperativo: «spogliati di
tutto!», il che significa il fare ritorno da parte dell'anima a se stessa,
trovando l'aggancio all'Uno, all'essere di tutte le cose.
Lo spogliamento conduce l'anima alla pienezza e al contatto con l'assoluto, vivibile, ma poi non esprimibile, in uno stato di estasi (ékstasis, cioè lo “star fuori di sé”), compresenza, intima unione con il contemplato (l'Uno), assolutamente priva si qualsiasi differenziazione da esso, uno stato di iper-coscienza in cui l'anima vede sé in Dio, riempita dell'Uno e assimilata a Lui.
AGOSTINO AURELIO
Vita vissuta e filosofia sono, in Agostino, intimamente connesse; ciò è bene
espresso nell'opera che descrive il suo itinerario spirituale, le Confessioni.
Egli è determinato nel voler conoscere nient'altro che l'anima e Dio: l'uomo
interiore, l'io nella semplicità e verità della sua natura, e l'essere nella sua
trascendenza, senza il quale non è possibile riconoscere la verità dell'io.
Nacque a Tagaste, nell'odierna Algeria, nel 354.
Figlio di Patrizio, un piccolo proprietario terriero, e di Monica, fervente
cristiana, compì gli studi letterari a Madaura, Tagaste e Cartagine, studi che
perfezionò da autodidatta leggendo molti classici, in primo luogo Cicerone.
Recatosi a Roma e poi a Milano, dove aveva ottenuto la cattedra municipale di
retorica, maturò la conversione al cristianesimo, che compì all'età di trentatré
anni al termine di un itinerario di ricerca intellettuale e religiosa iniziato a
diciannove anni, quando la lettura dell'Ortensio ciceroniano (opera oggi
perduta) aveva risvegliato nel suo animo l'amore per la filosofia.
Durante il suo percorso di ricerca della verità, Agostino aveva abbracciato
per circa un decennio il manicheismo (una dottrina settaria nata tra
cristianesimo e gnosi per opera di Mani, nobile persiano del III sec. che
accreditò sue visioni e rivelazioni facendosi promotore di una dottrina
cosmologica dualistica), finché non rimase deluso da un incontro con il vescovo
manicheo Fausto, la cui ignoranza lo convinse della sostanziale falsità di
quella religione (383). Decise perciò di aderire al cristianesimo, religione in
cui sin dall'infanzia era stato educato dalla madre.
Non era riuscito tuttavia a superare alcune difficoltà quali la concezione quasi
esclusivamente materialistica della realtà e la ripugnanza per lo stile
disadorno della Bibbia. Gli ostacoli caddero dopo l'incontro con il vescovo di
Milano, Ambrogio, il quale fornì ad Agostino elementi per un'esegesi allegorica
della Sacra Scrittura e lo indirizzò verso la filosofia neoplatonica.
La lettura dei trattati di Plotino e di Porfirio mise Agostino in condizione di
intuire l'esistenza del mondo intelligibile e lo aiutò a guadagnare una
fondazione critica della conoscenza, superando il materialismo e lo scetticismo
accademico.
La definitiva adesione al cristianesimo, secondo il racconto delle
Confessioni, avvenne per ulteriori tappe.
Dapprima l'incapacità di una vita di continenza dopo il distacco dalla donna con
la quale aveva vissuto per quattordici anni e da cui aveva avuto un figlio,
Adeodato, portò Agostino a scegliersi una nuova compagna. In seguito il racconto
fattogli da alcuni amici, della conversione di due ufficiali dell'impero, e la
scoperta della vita monastica come pratica forte della sequela cristiana,
maturarono in lui la decisione finale presa nel 386, nel giardino della sua casa
di Milano, dopo la lettura del passo biblico in cui San Paolo invita il
cristiano ad abbandonare «bagordi e ubriachezze, giacigli e lussuria» (Romani
13,13). Agostino decise di lasciare definitivamente la donna e la professione e
di farsi battezzare.
Dopo un periodo di ritiro a Cassiciacum, in Brianza, nella vigilia
pasquale del 387, Agostino ricevette il battesimo, a Milano, dalle mani di
Ambrogio.
Lo stesso anno, a Ostia, sulla strada del ritorno in Africa, morì la madre
Monica; pochi anni dopo (389) a Tagaste morì anche il figlio Adeodato.
Ordinato sacerdote nel 391, cinque anni dopo fu eletto vescovo di Ippona
(l'attuale Bona). Durante il lungo episcopato Agostino di dedicò all'attività
pastorale, soprattutto alla predicazione, alla difesa dei poveri, alla
partecipazione alla vita della Chiesa universale (colloqui, dispute, concili) e
alla stesura di numerose opere.
Tra le opere filosofiche le più importanti sono: Contro gli accademici, La musica, La vera religione, Il maestro, La quantità dell'anima, Soliloqui; tra le opere teologiche le principali sono: La dottrina cristiana, La Trinità, La città di Dio.
Ragione e fede
Dio e l'anima, come già accennato, sono stati i termini verso i quali si è
costantemente indirizzata la filosofia di Agostino; di fronte a tali argomenti
null'altro risulta importante e degno di considerazione: solo Dio e anima.
Dio e anima, d'altronde, sono per Agostino intimamente connessi in una
reciprocità che le rende conoscibili nel loro confronto continuo. Cercare
l'anima, cioè indagare l'intimità dell'uomo, significa nel contempo e
identicamente cercare Dio; viceversa, indagare la natura divina significa
aprirsi la possibilità di cogliere i caratteri più propri dell'anima.
L'uomo è fatto per Dio e trova quiete soltanto in lui.
In questa cornice speculativa ragione e fede sono altrettanto intimamente
connesse. Le due modalità epistemiche (della conoscenza), infatti, l'una fondata
ultimamente sulla constatazione empirica diretta e mediata dal ragionamento,
l'altra radicata nel sapere di una fonte di cui è accertata l'autorevolezza,
sono complementari nella vita dell'uomo e si sostengono a vicenda.
Il credere è la prerogativa per comprendere, mentre il comprendere è la
condizione stessa del credere più maturo e consapevole, che a sua volta diviene
la nuova prerogativa del sapere in una crescita di livelli che conduce
all'approfondimento speculativo continuo della realtà.
Verità e conoscenza
Agostino sostiene che non è possibile dubitare della propria esistenza, in
quanto il dubbio stesso offre la garanzia della certezza dell'esistenza. Il
dubitare, infatti, non è possibile del dubitare stesso; già lo stesso dubitare è
certezza di dubbio, e il dubbio non può essere a prescindere dall'esistenza: se
dubito, esisto; nella misura stessa in cui dubito.
Inoltre, se il dubbio muove sulla verità, la verità risulta certa, in quanto se
è vero il dubbio, se, cioè, è vero che non si dà verità certa, allora si dà la
certezza, cioè la verità certa, che la verità non è data, ma questo è
contraddittorio. Se dunque la verità non c'è, in quanto messa in dubbio, essa
c'è nella misura della verità del dubbio stesso.
Il dubbio presuppone, per sua stessa natura, un rapporto dell'uomo con la
verità. Tuttavia la verità, di cui l'uomo partecipa, conoscendo, non si
identifica con l'uomo stesso o con le sue capacità; la verità trascende l'uomo
che ne è soltanto fruitore e partecipe. L'uomo si sperimenta mutevole,
incostante, incerto proprio a fronte di una verità immutabile, salda e
assolutamente certa. Tale verità è il nome stesso di Dio, è Dio e da esso,
dunque proviene all'uomo che ne può partecipare.
L'uomo è illuminato dalla verità, che si presenta come una fonte inestinguibile
di quella luce nella quale all'uomo è data la conoscenza. L'uomo conosce alla
luce della verità. Dio-Verità, dunque illumina interiormente l'uomo, ne è
maestro interiore.
La dottrina dell'illuminazione, nome con il quale si intende comunemente la
teoria della conoscenza di Agostino, spiega in modo cristiano ciò che Platone
diceva con la teoria dell'anamnesi o reminiscenza. Laddove Platone esigeva la
vita metempirica dell'anima, precedente alla vita carnale, come situazione in
cui l'uomo apprende tutte le conoscenze che poi può essere condotto a ricordare
nella vita nella materia, Agostino ritiene che tutto ciò che l'uomo conosce, in
particolare rispetto alle verità intramontabili ed eterne (non ai fatti
contingenti) derivi direttamente dalla luce che abita nell'anima e che è infusa
direttamente da Dio in termini di verità salde e incorruttibili.
Per Agostino la verità non è la ragione, ma la legge della ragione, la formula
dell'ordine stabilito da Dio all'atto della creazione del mondo. Per conoscere
la verità l'uomo non deve indagare vanamente al di fuori di se stesso, ma deve
rientrare in sé, nel proprio intimo e, sperimentandosi mutevole ed incerto,
superarsi nel senso della profondità fino a raggiungere la radice più intima del
proprio essere, cioè Dio che trascende i limiti dell'uomo e apre un orizzonte
infinito di conoscenza, da desiderare e da amare.
I giudizi di valore, contraddistinti dall'immutabilità e dalla necessità che la realtà coincida con quello che si afferma, non possono derivare dei sensi né dall'immaginazione, né dalla ragione, tutte facoltà mutevoli; la necessità di quei giudizi può solo derivare dall'intelligenza, il livello più nobile dell'anima umana, in cui ridiede la stessa luce di Dio partecipata agli uomini. Mediante l'illuminazione divina, l'uomo dispone della conoscenza di alcune verità essenziali, relative al mondo spirituale; Dio non è perciò conosciuto al termine di una dimostrazione, è, invece, la prima realtà conosciuta dalla mente, essendo egli la luce interiore, lo stesso criterio di verità partecipato all'anima umana.
Gli attributi di Dio
La verità, dunque, è Dio. Dio è scoperto come Essere e Verità, Trascendenza e
Rivelazione, Padre e Lógos. Egli è
Trascendenza dell'intimità stessa dell'uomo, ma nel contempo è Rivelazione in
quanto luce di conoscenza; in base, poi, alla rivelazione biblica, Dio è Padre
(corrispettivo dell'Essere), ma nella misura in cui è Padre, termine relativo, è
anche Figlio, quindi Lógos, Verbo
(corrispettivo della Rivelazione).
Risultano quindi dedotte le prime due persone della Trinità cristiana, ma in
quanto Padre e Figlio, perché tali, suppongono una relazione, anche la loro
relazione, vissuta a livello divino, è persona che va sotto il nome di Spirito
Santo, relazione d'amore tra Padre e Figlio.
Dal Dio-Verità Agostino giunge al Dio-Amore; l'Amore non si rivela se non a chi
cerca la Verità. Dio è la condizione che rende possibile e vero ogni amore.
La struttura dell'uomo e la volontà
La possibilità di dialogare interiormente con Dio e di sperimentarlo
nell'amore è offerta all'uomo dalla sua stessa struttura. L'uomo, creato a
immagine e somiglianza di Dio, ne rispecchia la trinitarietà, essendo
costituito, nella propria anima da tre facoltà analoghe, nell'operazione, alle
tre persone divine.
L'uomo conosce e ama, cioè è, pensa e vuole; in ciò
rispecchia Padre, Figlio e Spirito in quanto memoria, ragione (intelligenza) e
volontà, le tre facoltà che, nell'insieme, costituiscono una sola vita, come
uno solo è Dio in tre persone.
La volontà è una novità di rilievo nella concezione filosofica dell'uomo.
L'antropologia greca non aveva saputo individuare la facoltà pratica, fermandosi
con Aristotele a parlare di determinazione razionale e con Plotino di libertà
incanalata dallo Spirito, incorrendo irrimediabilmente nei paradossi
intellettualistici di ascendenza socratica per cui l'uomo buono è il sapiente
(che non può errare in quanto sapiente) mentre l'uomo malvagio è l'ignorante
(che non può non sbagliare in quanto cieco).
In base alle suggestioni raccolte nel testo biblico, la filosofia giunge invece
a teorizzare il volere dell'uomo come facoltà dell'assenso e del dissenso nei
confronti dell'essere. Oltre l'intelligenza, facoltà teoretica dell'anima, la
filosofia scopre la capacità dell'uomo di decidere del manifestarsi o meno
dell'essere per quello che è, cioè la capacità di intervenire, con un giudizio
di approvazione o di rifiuto, nei confronti dell'ordine stabilito da Dio
all'atto della creazione. La volontà, dunque, a partire dal cristianesimo, si
configura filosoficamente come la facoltà dell'amore e dell'odio, da intendersi
questi ultimi come l'accoglimento e la promozione della realtà o la resistenza
ad essa e la sua distruzione.
In connessione con la scoperta della volontà, cambiano quindi i connotati
della condizione umana che, nella filosofia greca poteva darsi come sapienza o
come ignoranza, corrispondenti a felicità e ansia, imperturbabilità e
turpitudine, ma che ora, alla luce della Bibbia, viene a differenziarsi come
condizione di grazia o di peccato, di adesione o di rifiuto nei confronti di
Dio.
Il peccato, ancor prima di essere inteso come trasgressione di un precetto,
appare come la defezione da Dio e dall'essere, come uno stato di decadimento
della natura umana derivante dalla scelta consapevole dell'uomo stesso di
recedere dal tipo di vita offertogli con la creazione, per aderire a un progetto
autonomo tanto resistente quanta è la forza che l'uomo può impiegarvi, fino al
suo esaurimento nella degenerazione e nella morte.
Il male
«Se Dio esiste, d'onde viene il male?».
L'interrogativo è drammatico, in quanto sembra denunciare una contraddizione
insanabile che tormenta dalle origini tutta la realtà.
In gioventù, per tentare una soluzione, Agostino aveva aderito al Manicheismo,
che in un certo senso offriva una risposta al problema del male nel mondo,
perché faceva derivare tutta la realtà dall'esito della lotta tra due principi
supremi: il principio del bene e quello del male, la luce, da cui deriva la
bontà propria del mondo spirituale, e le tenebre, da cui trae origine il male
che contrassegna il mondo materiale e che si diffonde per mezzo della materia.
Scoprendo l'illusorietà della soluzione manichea del problema, Agostino
comprende che la materia in sé non è male e che il principio del male non può
esistere, perché, per essere un vero e proprio male dovrebbe esserlo “molto
bene”, il che è contraddittorio. Il male, dunque, non può che essere privazione
del bene, in quanto non è in grado di produrre nulla e non può coincidere con
nulla che esista positivamente, perché ogni esistenza manifesta la positività
che solo il bene esprime.
Il male non può essere una sostanza, quindi, perché se lo fosse sarebbe un bene,
ma, privo di sostanzialità, il male come tale non esiste né può esistere.
Il male, allora, viene ricondotto da Agostino alla volontà dell'uomo, che può
darsi, negativamente, come volontà del non-essere di ciò che è. La perversione
della volontà che si volge dalla parte opposta della sostanza somma verso le
realtà inferiori, dunque, costituisce la radice del male, che, in sé, non
consiste (già Plotino aveva anticipato tale teoria, attribuendo l'origine del
male al narcisismo dell'Anima, distratta dall'Uno e rivolta alla materia).
Se di male si vuole parlare, allora, a proposito dei cosiddetti mali di natura,
bisogna distinguere:
- il male che deriva dalla necessaria differenziazione delle realtà create del
cosmo, da intendersi come inferiorità di certe cose rispetto alla superiorità di
certe altre, un male, cioè, che risulta funzionale alla completezza del mondo in
tutte le sue varietà;
- il male funzionale all'armonia del creato, come l'ombra rispetto alla luce o
la dissonanza rispetto all'accordo.
I mali fisici, poi, che affliggono l'uomo, discendono per Agostino dal peccato
dell'uomo che ha corrotto l'originaria perfezione della natura umana,
soggiogandola alla morte, mentre il male morale fa capo al peccato in quanto
tale, cioè consiste nella volontà del non essere di ciò che è, nella volontà
della sua distruzione.
La creazione e il tempo
L'universo è il risultato dell'atto libero di creazione da parte di Dio, che
Agostino legge come un atto di amore divino verso le cose create e verso l'uomo
in particolare, il quale, scrutando l'universo sensibile, scopre l'immagine
dell'ordine, della bontà e della bellezza del suo creatore.
Dio ha creato tutto attraverso la Parola, il Lógos
coeterno con il Padre, il Figlio. Questi contiene in sé le ragioni immutabili
delle cose, eterne come eterno è egli stesso; in conformità con tali forme o
ragioni sono dal Padre formate tutte le cose sensibili e transitorie. Queste
idee eterne, dunque, non costituiscono un cosmo intelligibile (l'iperuranio
platonico), ma l'eterna Sapienza attraverso la quale Dio ha creato il mondo.
Tali ragioni di sapienza vengono associate da Agostino alla ragioni seminali (di
origine stoica) che assicurano la divisione e l'ordinamento delle cose nell'atto
della creazione.
La discussione sulla creazione sollecita l'interrogativo sul “quando” della creazione, cioè sulle coordinate temporali dell'atto divino: «Che cosa faceva Dio prima della creazione del mondo?». La domanda è oziosa, ritiene Agostino, perché il tempo fa parte della creazione stessa, è la dimensione di ciò che è creato, e quindi non può essere attribuita a Dio che della creazione è autore: l'avverbio “prima”, infatti, è un avverbio di tempo, che non può essere attribuito al fare di Dio, come se Dio abitasse una dimensione temporalmente antecedente il tempo (il che sarebbe una contraddizione).
Che cos'è, dunque, il tempo?
La difficoltà ad attribuire un volto preciso al tempo, costituito dal presente,
il quale tuttavia si disperde nell'inesistenza del passato, ed è generato dal
futuro, che ancora non esiste e quando esiste non è più futuro, ma è diventato
il presente, spinge Agostino verso una soluzione originale del problema: il
tempo non esiste nelle cose, non fa parte della realtà del mondo fisico, ma
esiste nello spirito, nell'anima dell'uomo. Il tempo, propriamente, è un
distendersi dell'anima, una distensione dello spirito del soggetto che rileva le
cose nel passato (con la memoria), nel futuro (con l'attesa) nel presente (con
l'attenzione).
Il tempo non è una realtà oggettiva, esiste solo in rapporto con l'attività
della coscienza; è la misura delle vicende con cui l'anima entra in relazione,
attraverso l'attenzione (presenza del presente), il ricordo (presenza del
passato) o l'attesa (presenza del futuro).
A partire dalla sua professione retorica, Agostino ragiona sul significato di un
discorso, che, nell'immediatezza della sua pronunciazione è fatto di singoli
suoni istantanei privi di connessione e di significato, ma che, nell'azione del
suo svolgersi dalle premesse alla conclusione ottiene un senso compiuto proprio
grazie al ruolo della coscienza (la presenza a sé) che interviene attraverso le
sue singole dimensioni per raccogliere in unità tutti i segmenti sonori.
Il tempo dunque è la dimensione attraverso la quale l'uomo raccoglie la propria
esperienza storica, fatta di segmenti in se stessi privi di un senso compiuto,
entro un'unità di vita che costituisce l'identità di ciascuno, all'interno della
quale è la decisione dell'uomo a costituire il grado di importanza e di
incisività dei singoli momenti.
Il tempo, dunque, non è una realtà per sé stante, indipendentemente dalle
cose che mutano e che si succedono; “prima” della creazione, allora, esisteva
solo Dio, nella sua perenne immutabilità, totalmente al di fuori del tempo. Dio,
infatti, non si distende nel passato e nel futuro, ma è eterno presente, è
l'eternità, la quale escludendo da sé ogni mutamento e ogni successione, non può
essere considerata come il prolungarsi all'infinito della linea del tempo.
L'eternità è un presente immobile, che non ha durata come lo stato di riposo
dell'anima quando non pensa a niente.
La storia
Connesso con il tema del tempo è quello della storia, alla cui base sta la
convinzione di fondo che l'universo è segnato dalla contingenza, cioè è
appoggiato sull'eventualità del suo possibile non essere; il mondo non è
necessario, Dio avrebbe potuto non crearlo.
Non c'è storia senza tempo, anche se può esservi tempo senza storia, il tempo
della natura oggettivata, priva di coscienza, quale potrebbe immaginarsi la
natura delle cose prima della creazione di Adamo; il tempo della storia implica
la coscienza e la successione. Il contingente è temporale, storico, ma lo è
perché il corso del tempo riceve un ordine, che è l'ordine della coscienza
storicizzante.
Ciò che diviene è storico non in quanto diveniente, ma in quanto, pur fluendo
incessantemente, trova una sua stabilità nella memoria che impedisce ai fatti
transeunti di precipitare nella dimenticanza.
Tra il silenzio del passato e il silenzio del futuro c'è il momento che
sempre si rinnova del presente, della coscienza, l'istante del tempo interiore
che riesce a vincere quei due silenzi e a far nascere la storia. Il divenire
chiuso tra due silenzi non può essere storia; solo dando voce al passato e al
futuro nel presente della memoria, che ricorda e che attende, la storia acquista
la sua voce, che è la stessa parola del presente.
Il corso progressivo del tempo, la sua unidirezionalità e irreversibilità,
risultano dalla finalità della coscienza (dall'orizzonte significativo della
coscienza) che tende a rappresentarsi il tempo e quindi a possederlo,
inscrivendolo nell'unità permanente del soggetto che si distende nell'attenzione
(responsabilità), nella memoria (eredità) e nell'attesa (progetto).
In ciò il pensiero di Agostino risulta estremamente innovativo, e certamente
moderno, nel senso che la storia che noi oggi continuiamo a considerare discende
direttamente dalla concezione agostiniana, benché secolarizzata attraverso
l'Illuminismo.
Il modello creazione/caduta/redenzione/eskaton (definitività), cioè la
storia della salvezza, che scardina la visione ciclica della storia che i greci
avevano sostenuto fino a quel momento, diviene il modulo interpretativo delle
cose umane che ha guidato la cultura occidentale fino ad oggi, benché dal '700
si sia sostituito alla definitività escatologica del Regno di Dio il mito del
progresso della civiltà e della scienza.
La “Città di Dio” e il significato dello Stato
Il progetto dell'opera venne ispirato ad Agostino dalla valutazione del
destino di Roma sottoposta all'assedio dei Visigoti di Alarico e al successivo
orribile saccheggio (24 agosto 410).
L'enorme impressione suscitata dalla violazione di Roma, plurisecolare simbolo
di una civiltà considerata grande e perciò imperitura, indusse il mondo pagano
ad accusare i cristiani della decadenza di Roma e della dissoluzione della sua
civiltà, dal momento che i cristiani non intendevano impegnarsi nella vita
politica e nella difesa della civiltà romana. D'altronde, molti cristiani
avevano sviluppato un disegno di Roma come della nuova capitale religiosa del
mondo, visto che dai tempi della distruzione di Gerusalemme (70 d. C.) essa
aveva assunto le funzioni di culla del cristianesimo, di centro depositario e
propulsore della religione di Cristo e della sua chiesa.
Agostino si impegnò allora per mostrare come la religione e la cultura della
Roma pagana (città terrena) dovessero cedere il posto alla religione e alla
cultura cristiana (città di Dio).
Nella città terrena confluiscono tutte le città, tutti gli imperi e tutte le
civiltà creati dagli uomini e destinati a perire; il vero fine della storia è
legato all'insegnamento del Vangelo di Gesù Cristo, e coincide con la
costruzione di quella città che ha Dio stesso come architetto e costruttore, una
città “futura” quindi, perché in continua crescita.
Finché l'uomo vive sulla terra, città di Dio e città terrena sono talmente
intrecciate e intimamente mescolate fra loro, che il pensiero umano è incapace
di tracciare una distinzione netta tra le due.
Agostino elabora una lettura cristiana dello Stato che è segnata
dall'ambivalenza radicale del tempo della storia, all'interno della quale il
bene e il male crescono insieme, senza la possibilità di essere separati prima
della fine della vicenda storica stessa. L'ultima fonte del potere, poi, è vista
nell'ordine stabilito da Dio con l'inserimento di ogni autorità nel piano
provvidenziale di Dio nei confronti del creato; nel potere costituito, infatti,
il cristiano non coglie solo l'aspetto umano, ma altresì il riflesso di qualcosa
di trascendente.
Uno stato puramente terreno non ha valore definitivo per il cristiano, il quale
non è interessato ad esso, perché la sua vera patria non è costituita da questo
mondo. Il dominio dell'uomo sull'uomo risulta assolutamente estraneo alla natura
umana integra, qual era prima del peccato originale; uno stato che non faccia
riferimento alla giustizia connessa con il Dio cristiano è soltanto un
“latrocinio”, come un insieme di soprusi e di prepotenze.
L'esistenza di un'autorità terrena è per l'uomo il prezzo della prima colpa,
in un certo senso è una conseguenza del peccato originale: all'instaurazione del
regno di Dio, ogni dominazione umana avrà termine. Nell'attesa che ciò si
realizzi, lo schiavo deve ubbidire al padrone, il governato al governante: la
condizione di schiavo e di suddito infatti è in un certo modo naturale, in
quanto è legittima in rapporto al disordine in cui giace l'uomo dopo il peccato,
all'avvilimento della sua natura conseguente alla disobbedienza.
Dunque, il potere temporale trae forza e giustificazione da ciò stesso che lo
condanna, cioè dal suo rapporto con il peccato.
Severino Boezio
Con la caduta dell'impero romano d'Occidente nel 476 inizia il periodo
storico delle “Medioevo”, ossia età di mezzo fra la civiltà imperiale e la
ripresa della civiltà classica con l'Umanesimo e il Rinascimento (sec. XV-XVI).
Il tramonto della civiltà romana e il sorgere della nuova civiltà occidentale e
contrassegnato dal tentativo di mediazione politico-culturale operato da uomini
di grande levatura culturale: spiccano i nomi degli italiani Severino Boezio e
Aurelio Cassiodoro (sec. VI), dello spagnolo Isidoro di Siviglia (sec. VII) e
dell'inglese Beda, soprannominato il Venerabile (sec. VIII).
Nel 529 l'imperatore Giustiniano decretò la chiusura della scuola di Atene, che
per molti secoli aveva ereditato e trasmesso la filosofia dell'Accademia fondata
da Platone; l'esilio dei professori contribuì allo spegnersi della filosofia
pagana tardo-antica e favorì il sorgere di nuovi orientamenti di pensiero; in
particolare entrarono in circolazione, nei centri di dibattito filosofico, le
componenti dottrinali della religione cristiana, che si era ormai saldamente
radicata nei territori dell'antico impero romano.
Nato nel 480, discendente dalla nobile famiglia romana degli Anici, Severino
Boezio si stabilì a Ravenna, alla corte del re ostrogoto Teodorico, di cui
condivise l'illuminato programma di conciliazione tra romanesimo e germanesimo,
mirante a una stretta e feconda alleanza fra la forza difensiva gotica e la
cultura romana.
Nel 522 divenne “Maestro degli uffici”, cioè direttore generale della corte
dello Stato; nel 524 egli s trovò coinvolto in una congiura di palazzo:
accusato di cospirazione ai danni di Teodorico, venne imprigionato e poi
giustiziato in un sobborgo presso Pavia.
Negli anni del soggiorno a Ravenna, Boezio aveva elaborato un ambizioso
programma, quello di tradurre dal greco in latino tutte lo opere di Platone e
Aristotele, per avvivare a mostrarne l'intima conciliabilitià; il programma
venne interrotto dalla prematura e tragica conclusione della vita del maestro,
il quale aveva tuttavia ultimato la stesura di una serie di trattati sulle arti
liberali del ciclo più propriamente scientifico, detto quadrivium
(quadruplice via, comprendente l'aritmetica, la geometria, la musica,
l'astronomia); inoltre aveva composto una serie di opere logiche, dedicate allo
sviluppo dei trattati aristotelici sulla logica.
Tutti questi trattati boeziani furono determinanti, durante il Medioevo, per la
conoscenza del pensiero filosofico e scientifico dell'antichità; in particolare
Boezio contribuì alla trasmissione di un importante problema logico-filosofico,
quello degli universali, relativo cioè alla natura propria dei concetti che si
formano nella mente dell'uomo, attraverso i quali si costruiscono le
proposizioni filosofiche e scientifiche.
La “Consolazione”
L'opera maggiore di Boezio, che gli assicurò fama nel Medioevo non solo sul piano filosofico, ma nel vasto campo delle espressioni letterarie, è rappresentata dalla Consolazione della Filosofia, composta durante i mesi di carcere che precedettero la sua esecuzione capitale (525).
La prima verità forte verte sull'esistenza del sommo bene: che un bene sommo
possa esistere in realtà, e che dunque non si tratti di un'astratta proiezione
del pensiero, lo si evince dal fatto che il mondo dell'esperienza sensibile
rivela soltanto dei beni imperfetti, incapaci di offrire definitive
soddisfazioni del desiderio di bene; la stessa felicità conseguita mediante beni
soggetti alla corruttibilità risulta felicità insoddisfacente.
Facendo leva sulla nozione di imperfetto, Boezio giunge a quella di perfetto;
tutto ciò che viene detto imperfetto, infatti, è evidentemente tale per
diminuzione del perfetto, ne consegue che, se in un qualsiasi genere di cose
sembri esservi alcunché di imperfetto, debba ivi trovarsi necessariamente anche
un qualche cosa di perfetto, e in effetti, tolta la perfezione, non può neanche
immaginarsi da dove sia venuto fuori quel che è imperfetto. Porre i beni
imperfetti senza la contemporanea ammissione del bene perfetto, infatti,
comporta la contraddizione insita nella posizione di chi riconduce l'essere al
nulla: essendo chiaramente contraddittorio che l'essere provenga dal nulla, si
deve affermare che l'imperfetto deriva dal perfetto. La possibilità del bene
perfetto ne implica, dunque, anche l'esistenza reale: se il bene perfetto è
possibile (e tale è perché altrimenti il bene imperfetto, che è reale, sarebbe
impossibile), esso deve esistere nella realtà.
Il sommo bene è Dio.
Un secondo problema affrontato nella Consolazione è quello del
rapporto fra la prescienza divina e la libertà dell'uomo. Se Dio conosce tutto
sin dall'eternità, com'è possibile, infatti, affermare che l'uomo è realmente
libero nelle sue scelte?
La risposta formulata da Boezio diventerà classica presso tutti i maestri
medievali: l'uomo vive nella dimensione temporale, in cui tutto si succede
liberamente, Dio abita l'eternità (definita come completo e perfetto possesso di
una vita senza termini), dalla quale vede e conosce l'intero svolgimento
temporale delle vite umane senza intervenire condizionalmente in esse,
nell'istantanea presenza a tutto il loro percorso.
La “Questione degli universali”
Introducendo allo studio delle Categorie di Aristotele, il filosofo
neoplatonico Porfirio aveva istruito il problema degli universali ponendo circa
il valore dei generi e delle specie (ad es.: “animale” e “cavallo”), i concetti
universali, appunto, la seguente concatenazione di domande, cui, peraltro, aveva
evitato di dare una risposta:
- se generi e specie siano realtà oppure concetti della mente;
- se, ammesso e non concesso che essi siano realtà, essi siano corporei o
incorporei;
- se, ammesso e non concesso che essi siano incorporei, essi siano sussistenti
di per sé oppure in relazione con le cose.
Nel secolo VI Severino Boezio, traducendo e commentando l'Introduzione
porfiriana, aveva trasmesso la questione degli universali all'Occidente latino
fornendo anche una risposta personale: gli universali sono realtà che sussistono
in prossimità delle cose materiali (circa, cioè intorno ai sensibili), ma
vengono compresi intellettualmente a prescindere dai corpi attraverso una
distinzione razionale che prende il nome di astrazione.
Più tardi, invece, le soluzioni del problema si erano codificate secondo tre
interpretazioni:
- realismo radicale o esagerato (di tipo platonico): generi e specie sono
realtà sussistenti in un mondo separato, come l'iperuranio, e consistono nelle
idee;
- realismo moderato (di ispirazione aristotelica): si tratta, in buona
sostanza, della posizione boeziana;
- nominalismo: l'unica consistenza reale dei termini universali è quella del
loro suono, cioè della parola pronunciata, oppure quella della loro sostanza
grafica (inchiostro, gesso, incisione).
Anselmo d'Aosta
Dialettica e Sacra pagina
Nel secolo XI si è soliti individuare un dibattito tipico, tra dialettici e
teologi. Esso consiste nel problema relativo alla liceità o meno
dell'applicazione della logica aristotelica, trasmessa all'Occidente attraverso
le opere di Boezio alla pagina biblica. Ci si chiedeva se la parola di Dio,
quale era ritenuta essere la Bibbia in quanto testo rivelato, fosse suscettibile
di indagine grammaticale e logica, senza il pericolo di snaturarne il contenuto
a partire dalle regole della sintassi della parola umana.
Le posizioni, al tempo, furono diverse: alcuni, come Pier Damiani, si opposero
risolutamente all'esercizio della logica in campo teologico, ritenendolo
pericoloso e potenzialmente eretico; altri, come Berengario di Tours, assunsero
posizioni estremamente critiche nei confronti della dottrina tradizionale della
Chiesa, proprio a partire dall'applicazione indiscriminata dei principi logici
alle pagine bibliche, desumendo conseguenze inedite e indebite da una lettura
razionalistica della letteratura religiosa; altri ancora, assumendo un cauto
atteggiamento mediano, aprirono la strada alla stagione più feconda della
teologia occidentale.
Tra questi Lanfranco da Pavia e il suo discepolo Anselmo di Aosta.
Un problema che si è dimostrato centrale in questo dibattito (e che ha
costituito i prodromi della disciplina teologica) è quello dell'esistenza di
Dio.
Tale problema non è da intendere, naturalmente, nel suo senso razionalistico e
moderno, quello che, a partire dalla filosofia di Renato Cartesio (nel XVII
secolo), è divenuto centrale nella speculazione filosofica, fino a divenire
l'assurdo tormento dei pensatori, vale a dire la cosiddetta “prova
dell'esistenza di Dio”, concepita come se la ragione umana fosse, per così dire,
capace di affermarsi superiore a Dio stesso dimostrandone senza appello
l'obbligatoria esistenza; l'argomentare sull'esistenza di Dio, invece, per i
medievali significa dimostrare che, proprio grazie a Dio, dato per scontato come
presupposto evidente di ogni cosa, le linee guida del pensiero umano, e quindi i
criteri teoretici ed etici (del pensiero e dell'azione), collimano con le
dinamiche del creato in una sintonia facilmente rintracciabile ad ogni livello,
benché disturbata dalla limitatezza e dalla fatica della condizione dell'uomo
(condizione di peccatore).
Dimostrare l'esistenza di Dio, allora, significa per il medievale arrivare a vedere per via
intellettiva ciò che appare come la più grande evidenza estetica, o come la
prima e più ingenua persuasione dell'uomo.
Nato ad Aosta, priore del monastero benedettino del Bec e infine arcivescovo
di Canterbury, Anselmo, come si è detto, è uno dei principali rappresentanti
della via mediana tra dialettica e sacra pagina.
Il problema dell'esistenza di Dio gli si è presentato come un crocevia
irrinunciabile per poter affrontare una riflessione “dialettica” sulla
Rivelazione.
La verità come rectitudo
Sullo sfondo dei diversi percorsi dell'intelletto volti a rendere evidente in
linea dialettica l'esistenza di Dio dobbiamo costantemente tenere presente il
concetto anselmiano di verità: essa è, con un'espressione latina non
immediatamente traducibile, rectitudo, cioè rettitudine. La rettitudine
di cui Anselmo parla potremmo chiamarla, per capire, allineamento,
unidirezionalità; significa la scoperta che il linguaggio dell'intelletto è
potenzialmente in linea con le strutture della realtà, significa che la realtà è
intelligibile proprio perché l'intelletto, che ne fa parte, è modulato secondo i
medesimi criteri di essa e, pertanto, li sa e li può esprimere. La verità dunque
esprime la possibilità del linguaggio di essere corrispondente e coerente con
l'esperienza: ciò che l'intelletto formula coerentemente è la necessità della
natura.
Se il linguaggio dell'intelletto può esprimere l'esistenza di Dio, è perché Dio
esiste; allora Dio esiste, né potrebbe essere altrimenti.
Gli argomenti del Monologion (discorso con se stesso)
Si tratta di percorsi che traggono spunto da una ricognizione fenomenologica,
cioè che fanno appello alla constatazione di qualcosa per poter argomentare a
partire da essa nel quadro di diversi ordini di realtà: l'essere, la causalità,
le perfezioni.
Lo schema del ragionamento è analogo in tutti i casi:
- si constata che nel mondo si danno all'esperienza diversi gradi di essere,
che cioè ci sono cose che “sono” più di altre, il cui spessore di esistenza è
più consistente di quello di altre cose. Ma, se non esistesse un criterio
d'essere estraneo alla scala graduata dell'essere delle cose, cioè un criterio
d'essere assoluto, la gradualità non avrebbe neppure senso. Ora, il senso la
gradualità ce l'ha, dunque il criterio assoluto è un dato reale, benché non
immediatamente percepibile, in quanto non appartenente all'esperienza
compromessa entro i gradi. Dio è il criterio d'essere assoluto;
- si constata che nel mondo si danno all'esperienza diversi gradi di causalità,
che cioè ci sono cose che “causano” più di altre, il cui spessore di causalità è
più consistente di quello di altre cose. Ma, se non esistesse un criterio di
causalità estraneo alla scala graduata della causalità delle cose, cioè un
criterio di causalità assoluto, la gradualità non avrebbe neppure senso. Ora, il
senso la gradualità ce l'ha, dunque il criterio assoluto è un dato reale, benché
non immediatamente percepibile, in quanto non appartenente all'esperienza
compromessa entro i gradi. Dio è il criterio di causalità assoluto;
- si constata che nel mondo si danno all'esperienza diversi gradi di
perfezione, che cioè ci sono cose che sono più perfette di altre, il cui
spessore di perfezione è più consistente di quello di altre cose. Ma, se non
esistesse un criterio di perfezione estraneo alla scala graduata della
perfezione delle cose, cioè un criterio di perfezione assoluto, la gradualità
non avrebbe neppure senso. Ora, il senso la gradualità ce l'ha, dunque il
criterio assoluto è un dato reale, benché non immediatamente percepibile, in
quanto non appartenente all'esperienza compromessa entro i gradi. Dio è il
criterio di perfezione assoluto.
L' argomento “unico” del Proslogion (discorso rivolto ad altri)
Insoddisfatto dai precedenti percorsi a motivo del loro strutturale
riferimento all'indagine fenomenologica, Anselmo cerca un argomento che si
qualifichi “unico” per la sua esaustività e per il proprio riferirsi unicamente
alla facoltà dialettica, a prescindere da qualsiasi appoggio esterno.
Coerentemente con la sua posizione di teologo dialettico, si impegna a formulare
un percorso argomentativo che renda ragione dell'essere di Dio esclusivamente
facendo appello alle risorse del pensiero.
Per fare ciò intavola una conversazione fittizia con l'insipiente del Salmo
XIII, il quale diceva “in cuor suo”, cioè nel proprio intimo pensiero, «Dio
non esiste».
Dopo avere ringraziato Dio per avere impresso nel suo intimo la sua immagine da
sottoporre ad indagine, Anselmo esprime a Dio il suo desiderio di comprenderlo
nella verità, che già con il cuore e con la mente dice di amare. Anche Anselmo
crede per comprendere e afferma: «Se non crederò, non comprenderò».
Ecco allora l'argomento:
La fede, dice Anselmo, insegna a credere Dio come id quo maius cogitari
nequit. Ora, anche l'insipiente, pur professando la non
esistenza di Dio, quando sente con l'orecchio l'espressione “ciò di cui
non si può pensare il maggiore” ne capisce il significato: il significato dei
singoli termini usati in quell'espressione, infatti, gli è noto e, pertanto, gli
è noto anche il significato globale. Altro, tuttavia, è l'essere
nell'intelletto, a livello di comprensione, altro è il comprendere l'essere in
natura, a livello di esistenza. Ma “ciò di cui non si può pensare il maggiore”
non può comprendersi come esistente soltanto nell'intelletto, a livello di pura
comprensione, altrimenti sarebbe possibile pensarlo anche come esistente in
natura e, di conseguenza, lo si potrebbe pensare maggiore di sé, il che è
contraddittorio. Se infatti fosse possibile pensare qualcosa di maggiore di “ciò
di cui non si può pensare il maggiore” (in quanto esistente anche in natura), è
evidente che si penserebbe la contraddizione, perché “ciò di cui non si può
pensare il maggiore” non sarebbe in verità “ciò di cui non si può pensare il
maggiore”. Dunque, “ciò di cui non si può pensare il maggiore” esiste
necessariamente anche in natura.
Tale conclusione non significa, come dopo qualche secolo si è detto (da parte
di Emanuele Kant), che Anselmo pretenda un indebito passaggio dall'ordine logico
all'ordine ontologico, una passaggio che Anselmo, con le categorie filosofiche
disponibili al suo tempo non avrebbe nemmeno potuto immaginare; significa,
invece, nella prospettiva anselmiana della verità come “rettitudine”, che il
predicato dell'esistenza compete di necessità a ciò che viene espresso con la
formula “ciò di cui non si può pensare il maggiore”. Siccome, poi, vale che
l'esistenza di Dio è un'evidenza anteriore alla prova e che il linguaggio umano,
grazie all'immagine di Dio impressa nell'uomo all'atto della creazione, è
chiamato a corrispondere alla realtà in un perfetto allineamento, ecco
dimostrata la necessità di attribuire l'esistenza a Dio, anche da parte di chi
pretenda di negarla, visto il significato dei termini: Dio esiste in verità e
non è possibile pensare il contrario. L'insipiente poté affermare la non
esistenza di Dio per il solo motivo di essere insipiente, cioè incapace di
comprendere il significato delle parole.
La dialettica si ritrova al servizio della teologia per confermare la
persuasione della fede secondo l'adagio: «credo per comprendere, comprendo per
credere».
Il monaco Gaunilone, peraltro, si prese la briga di contestare ad Anselmo
l'inefficacia dell'argomento, obiettando:
- che “ciò di cui non si può pensare il maggiore” può benissimo essere
nell'intelletto alla stregua di una pittura finita nell'animo di un pittore che
si accinge a produrla;
- che in verità non è possibile possedere con la mente il significato pieno
dell'espressione “ciò di cui non si può pensare il maggiore”;
- che se valesse l'argomento allora dovrebbero esistere le isole beate,
cioè le isole presso le quali la vita è “la vita di cui non si può pensare vita migliore”.
Anselmo, in sostanza, risponde che l'argomento può valere solo ed esclusivamente
per la formula “ciò di cui non si può pensare il maggiore”, in quanto solo tale
formula esprime l'assoluto. Soltanto a “ciò di cui non si può pensare il
maggiore” si può applicare l'argomento perché esprime la perfezione assoluta e
insuperabile e non una perfezione relativa e parziale come quella delle isole
felici.
Pietro Abelardo di Nantes
Figura di rilievo del secolo XII, rappresentante e protagonista della cultura scolastica, celebre per la sua acribia nell'atteggiamento critico e indipendente da qualsiasi autorità. Egli assume una posizione in parte innovativa, benché discutibile, all'interno della “Questione degli universali” e segna un progresso significativo in campo pratico, aprendo la stagione dell'etica dell'intenzione.
Abelardo, contestando come platoniche le posizioni sostenute via via dal
maestro Guglielmo di Champaux, sostanzialmente boeziane, sostiene la teoria
secondo la quale la consistenza dei termini universali si esprime nel loro
significato e viene denominata “stato”, che significa lo stato di
cose, la condizione in cui si trova attualmente ogni singola sostanza. Tale
“stato” non avrebbe un suo spessore d'essere, ma rappresenterebbe il significato
a partire dal quale ogni individuo viene compreso in situazione, data
l'impossibilità di conoscerlo nel dettaglio preciso.
Non si capisca, poi, come tale stato sia riconoscibile nell'atto conoscitivo, se
non in ragione di un previo universale già conosciuto che ne permetta
l'individuazione, ma Abelardo, su tale problema, non dà risposta.
In quanto maestro, Abelardo viene considerato l'iniziatore del metodo scolastico della quaestio disputata (= problema dibattuto) grazie al metodo applicato nella sua opera dal titolo Sic et non, che, allo scopo di discutere esaurientemente varie questioni di ordine filosofico-teologico, riporta ordinatamente a titolo di documentazione le opinioni favorevoli e le opinioni contrarie alla tesi da dimostrare per poi, attraverso il loro confronto, giungere a una soluzione magistrale del problema indagato e proporre risposte confutatorie nei confronti delle tesi avverse. Tale metodo, inaugurato, appunto, da Abelardo, sarebbe divenuto il metodo consueto per tutti i maestri delle scuole nei secoli a venire.
Sotto il profilo etico, infine, il pensiero di Pietro Abelardo risulta fortemente innovativo, per avere sottolineato l'importanza decisiva che, nel giudizio morale, deve essere attribuita all'intenzione, cioè alla componente soggettiva dell'atto libero, rispetto alla materia dell'atto in quanto tale, il versante oggettivo dell'azione, che, precedentemente costituiva il criterio quasi esclusivo di valutazione morale. Tale innovazione comporta, di conseguenza, la distinzione tra vizio e peccato, considerati rispettivamente come l'inclinazione a peccare, che non può ancora essere considerata un male, e come l'atto trasgressivo nei confronti della legge morale, il vero e proprio male morale.
La vicenda medievale del pensiero aristotelico
Nel 529 d. C. l'imperatore Giustiniano decretava la chiusura della scuola
filosofica di Atene, cioè dell'antica Accademia platonica, atto che comportò la
fuga dei maestri della scuola, i quali si rifugiarono presso Damasco, in Siria.
Il patrimonio culturale della scuola comprendeva il pensiero platonico,
neoplatonico e aristotelico; le opere di Aristotele, trasferite in Siria,
subirono una prima traduzione dal greco in siriaco, traduzione che
inevitabilmente comportò anche una certa contaminazione con elementi estranei al
pensiero aristotelico.
Successivamente, con la conquista araba conclusa a metà dell'VIII secolo,
l'opera di Aristotele, reinterpretata e tradotta in arabo, visse diversi periodi
di fulgore, soprattutto ad opera del medico e filosofo Avicenna (che operò in
Persia nel secolo X) e del filosofo e teologo Averroè (vissuto a Cordova, in
Spagna, nel sec. XII), il celebre commentatore dell'opera di Aristotele.
Attorno al secolo XII, poi, cresciuti i contatti tra il mondo latino e il mondo
arabo, alcuni maestri conoscitori della lingua dell'Islam si fecero interpreti
di nuove traduzioni, questa volta dall'arabo in latino dell'opera aristotelica,
ormai difficile da distinguersi all'interno di un più vasto corpus
scientifico d'avanguardia.
Giunto in Occidente, dove di Aristotele si conosceva soltanto l'organon,
cioè le opere di logica, trasmesso da Boezio, il sistema del filosofo di
Stagira (Aristotele) suscitò un enorme interesse, misto a una comprensibile
diffidenza che, ben presto, fu sostituita da un'entusiastica ammirazione. Esso
si proponeva, infatti, come un'interpretazione completa, consistente ed
esauriente del mondo intero, in tutte le sue dimensioni, che risultava
alternativa rispetto alla tradizionale interpretazione del mondo, basata sulla
dialettica e sulle conoscenze desumibili dall'interpretazione della Bibbia.
Il sistema aristotelico, che era già stato assorbito dall'Islam, un'altra
cultura che, come il Cristianesimo, aveva una visione di fede, costituiva ora
una sfida per il mondo Occidentale, nel senso che appariva urgente
confrontarsi con esso e con la sua avanzata scientificità, per tentare di
leggerlo in una chiave compatibile con la fede della Chiesa.
A questa opera si dedicarono molti maestri, secolari e religiosi, del mondo
universitario europeo, tra i quali spiccarono, per importanza i due domenicani
Alberto di Colonia (Alberto Magno) e il suo discepolo e confratello Tommaso d'Aquino.
Del primo ci si limiterà a dire che, una volta letta l'opera pressoché
integrale di Aristotele, ne fu talmente colpito da asserire senza remore che
la filosofia dello Stagirita poteva considerarsi tout court il sistema
della verità razionale.
Tommaso d'Aquino
Il concetto di ente
Tommaso espone le linee fondamentali della metafisica nell'opera
giovanile Ente ed essenza, dove esplicita questi due concetti e delinea i tratti
caratteristici delle premesse teoretiche che sorreggeranno la sua costruzione
filosofico-teologica.
Il concetto fondamentale è quello di ente, con cui si indica una qualsiasi cosa
che esiste. Esso può essere sia logico o puramente concettuale, sia reale o
extra-mentale. Tale distinzione è di somma importanza perché vuol dire che non
tutto ciò che viene pensato esiste realmente. L'ente logico e quello reale sono
due versanti da tenere distinti.
L'ente logico Ebbene, l'ente
logico è espresso mediante il verbo copulativo essere, coniugato in tutte le
forme. «La sua funzione è di unire più concetti, senza con ciò pretendere che
questi esistano effettivamente nella realtà almeno nel modo in cui sono da noi
concepiti. Noi adoperiamo la copula "essere" per esprimere connessioni di
concetti, che sono vere in quanto collegano correttamente quei concetti, ma non
esprimono l'esistenza dei concetti che connettono. Se si dice che
"l'affermazione è contraria alla negazione" o che "la cecità è negli occhi", si
parla con verità, ma l' "è" della copula non significa che l'affermazione esista
né che esista la cecità. Esistono uomini affermanti, ed esistono cose intorno
alle quali si possono pronunciare affermazioni. ma non esistono affermazioni.
Esistono occhi privi della loro funzione normale, ma non esiste la cecità: la
cecità è il modo in cui l'intelletto esprime il fatto che certi occhi non
vedono» (Sofia Vanni Rovighi). Dunque, non tutto ciò che è oggetto del pensiero
esiste tosi com'è pensato. Non bisogna ipostatizzare i concetti e credere che
ognuno di essi abbia un corrispettivo nella realtà. Si comprende in questa
direzione il realismo moderato di Tommaso, per il quale il carattere universale
dei concetti è frutto del potere astrattivo dell'intelletto. L'universale non è
reale, perché è reale soltanto l'individuo. Tale universalità però non è priva
di un qualche fondamento nella realtà da cui in effetti è dedotta. Sollevandosi
sopra l'esperienza sensibile. l'intelletto perviene a un'universalità che è in
parte espressione della sua azione astrattivi e in parte espressione della
realtà.
L'ente reale e la distinzione fra
essenza ed esistenza Ogni realtà, sia il mondo sia Dio, è ente, perché
sia il mondo sia Dio sono, esistono. L'ente si predica di tutto, sia del mondo
che di Dio, ma in maniera analogica, perché Dio è l'essere, il mondo ha
l'essere. In Dio l'essere si identifica con la sua essenza, per cui è detto
anche atto puro, essere sussistente; nella creatura invece si distingue
dall'essenza, nel senso che questa non è l'esistenza ma ha l'esistenza o meglio
l'atto grazie al quale non è più logica ma reale.
I due concetti ricorrenti di essenza e atto di essere (actus essendi)
sono i due pilastri dell'ente reale. L'essenza indica il "che cos'è" una cosa,
ossia l'insieme delle note fondamentali per cui gli enti — Dio, l'uomo,
l'animale, la pianta — si distinguono fra di loro. Se per quanto concerne Dio
l'essenza si identifica con l'essere, per tutto il resto l'essenza significa
semplice attitudine a essere, cioè potenza all'essere (id quod potest esse).
li che significa che se le cose esistono, non esistono necessariamente,
potrebbero anche non essere, e se sono, possono perire e non essere più. La loro
essenza è attitudine all'essere e non identificazione, come in Dio, con
l'essere.
E poiché l'essenza delle creature non si identifica con l'esistenza, il mondo,
nel suo insieme e nei singoli componenti, non esiste necessariamente, cioè è
contingente, può essere e può non essere.
Infine, poiché è contingente, se pure esiste, il mondo non esiste per sua virtù
— la sua essenza non si identifica con l'esistenza — ma per virtù di un altro,
la cui essenza si identifica con l'essere, cioè Dio. Sarà questo il nucleo
metafisico che sorreggerà le prove di Tommaso a favore dell'esistenza di Dio.
Dall'insieme risulta che se è fondamentale il discorso sull'essenza, è ancora
più fondamentale il discorso sull'essere o meglio sull'atto di essere, da Dio
posseduto in forma originaria, dalle creature in forma derivata o per
partecipazione.
I trascendentali
Nelle Quaestiones disputatae de veritate, poi, Tommaso
discute il teorema dei predicati trascendentali, cioè quei predicati
trans-categoriali che risultano, per tradizione aristotelica convertibili con il
predicato di ente.
Essi sono, oltre l'ente, l'uno, il vero, il buono, la cosa, il qualcosa.
Pur essendo convertibili con l'ente, tuttavia tali predicati esprimo particolari
prospettive di approccio all'ente:
- l'uno ne manifesta l'unitarietà e l'integralità indivisibile (ciò che è,
nella misura in cui è, è unitario);
- il vero ne rappresenta la relazione a un intelletto (ciò che è, nella
misura in cui è conosciuto, è vero);
- il buono esprime finalisticamente la realizzazione (ciò che è, nella
misura in cui è ciò che è, è realizzato quanto al suo orientamento nell'ordine
universale);
- la cosa significa la sostanzialità di ciò che è (ciò che è, nella misura
in cui è, è sostanzialmente consistente in se stesso);
- il qualcosa interpreta la distinzione e la determinatezza (ciò che è,
nella misura in cui è, è riconoscibile come tale in rapporto al resto).
L'unità dell'ente (omne
ens est unum) Dire che
l'essere è uno significa che l'essere è intrinsecamente non contraddittorio, non
è diviso, anche se è partecipabile. Anzi, l'unità dipende dal grado di essere,
nel senso che quanto maggiore è il grado di essere che si possiede, maggiore è
l'unità. L'unità di un mucchio di pietre è minore dell'unità di Pietro o di
Paolo, e ciò perché l'essere posseduto dall'uno e dall'altro è diverso. La
filosofia di Tommaso non è la filosofia dell'unità, ma la filosofia dell'essere
e, di conseguenza, dell'unità. È l'essere il fondamento dell'unità: l'unità di
Dio è diversa dall'unità di Pietro e questa dall'unità di un sasso, proprio a
causa del diverso grado di essere. L'unità di Dio è l'unità della semplicità,
perché l'essere è totale; l'unità di Pietro è l'unità della composizione
(essenza + actus essendi) come lo è l'unità del sasso, anche se in grado
inferiore. L'unità trascendentale non è identificabile con l'unità numerica: la
prima si predica di ogni ente, la seconda solo degli enti quantitativi, cioè di
quegli enti che, in possesso della quantità o materia, sono misurabili. L'unità
trascendentale rientra nell'ambito della metafisica, l'unità numerica
nell'ambito della matematica.
La verità dell'ente (omne
ens
est verum)
Il vero è un trascendentale dell'ente nel senso che ogni ente è intellegibile,
razionale. A questo punto è opportuno rilevare che Aristotele, nel VI libro
della Metafisica, alla domanda se la metafisica debba occuparsi della verità
risponde in modo negativo. E la ragione è questa: la metafisica si occupa
dell'essere reale e non della verità, che non è nelle cose ma nella mente, o
meglio nel giudizio dell'intelletto che compone e scompone i concetti e lì
connette tra loro. Più che la metafisica, il luogo della trattazione della
verità è la logica, poiché la verità è nel pensiero e non nella realtà.
Tommaso, pur dando il dovuto spazio alla logica e alla trattazione dei suoi
principi fondamentali (principio di identità, principio di non contraddizione,
principio del terzo escluso e relativi annessi), ritiene che anche la metafisica
si debba occupare della verità, e ciò perché il mondo e le singole creature sono
l'espressione del progetto divino, sono il frutto del pensiero di Dio. Allorché,
dunque, afferma che ogni ente è vero, egli vuol dire che ogni ente è espressione
dell'architetto supremo che creando ha inteso realizzare un preciso progetto. Ed
è questa la verità ontologica, cioè l'adeguazione di un ente, di ogni ente,
all'intelletto divino (adaequatio rei ad intellectum). La verità
ontologica è da distinguere dalla verità logica o verità umana, che è o deve
tendere a essere adeguazione del nostro intelletto alla cosa (adaequatio
intellectus nostri ad rem).
Ciò che si è detto dell'unità si può dire anche della verità ontologica. La
verità dell'ente dipende dal grado di essere che possiede. Dio è la somma verità
perché è sommo essere. Gli enti finiti sono più o meno veri in base al grado di
essere o di partecipazione all'essere divino. Tutti gli enti però sono veri,
perché ognuno a suo modo esprime un progetto, ha una ragione di essere, ha una
vocazione: alcuni sono necessariamente fedeli a tale vocazione; altri, dotati di
intelligenza e volontà, possono essere fedeli o tradire tale vocazione, che però
resta inscritta, come una sorta di ineliminabile richiamo, nella loro essenza o
natura.
La bontà dell'ente (omne
ens est bonum) Se
questa non può dirsi la tesi portante, tuttavia è certamente la tesi che
qualifica come cristiana la metafisica di Tommaso. Tutto ciò che è, ogni ente, è
buono, perché frutto ed espressione della bontà suprema e liberamente diffusiva
di Dio. Come un'idea musicale non può essere espressa attraverso un unico suono,
per la ricchezza di quella e la povertà di questo, così la suprema bontà di Dio
non poté rivelarsi attraverso una sola creatura. Il mondo, con le sue infinite
meraviglie, è un primo tentativo di esprimere tale bontà. Tutte le cose, dunque,
singolarmente e nel loro insieme, sono buone, perché hanno un grado di essere e
di perfezione.
Orane ens est bonum quia omne ens est ens. Il cristiano non può essere
pessimista, al contrario è radicalmente un ottimista: l'ammirato stupore dinanzi
al creato riflette un atteggiamento ancora più radicale, proprio di chi si sente
partecipe della bontà di Dio ed è fiero di scoprire tale dipendenza, che esalta
e non umilia.
Ma se ogni ente è buono perché ogni ente è a suo modo una perfezione, ogni ente
è buono perché è oggetto di una volontà o in genere di un appetito o desiderio.
Bonum est quod omnia appetunt: la bontà implica il desiderio di tale
perfezione. Le cose sono buone in quanto volute da Dio in forma fondativi (Dio
crea amando), dall'uomo in forma derivata: l'uomo ama le cose perché buone.
Dalla prospettiva del bene in quanto da noi desiderato, Tommaso distingue il
bene onesto, che è il bene desiderato per se stesso; l'utile, che è il bene
desiderato come mezzo per raggiungere qualcos'altro; il dilettevole, che è il
bene desiderato per il piacere che esso offre. È ovvio a questo punto che il
bene onesto e dilettevole è Dio, e che gli altri beni sono tali in vista di quel
fine cui devono condurre.
L'analogia dell'essere e l'ontologia della partecipazione
L'ente si predica delle cose in modo
molteplice e diverso Nel IV libro della Metafisica Aristotele scrive che
l'ente si predica delle cose in modo molteplice e diverso, sempre però in
relazione a un ente privilegiato, a un'essenza particolare, non equivocamente,
ma come si attribuisce "essere sano" al vivente e alla medicina che ne è la
causa, e al colore del volto che ne è l'effetto. Lo stesso vale per l'essere:
sono esseri la sostanza e gli accidenti, ma la sostanza in modo particolare,
principale, primo e privilegiato, e gli accidenti solo in quanto modificazioni
secondarie della sostanza.
L'analogia fra Dio e il mondo Da
quanto detto, risulta che Aristotele è interessato al rapporto orizzontale degli
esseri tra loro, e parla dell'analogia in rapporto alla sostanza e agli
accidenti. Tommaso d'Aquino, pur stabilendo le modalità secondo cui l'essere si
predica degli enti finiti, a differenza di Aristotele, è più interessato al
rapporto tra Dio e il mondo. Aristotele si muove in direzione orizzontale – e
cioè ha di mira in primo luogo le realtà sensibili –, Tommaso in direzione
verticale, facendo particolare riferimento al trascendente. A questo proposito
parla dell'analogia che, oltre a chiarire il rapporto tra gli enti finiti,
precisa il rapporto tra Dio e le creature, tra l'infinito e il finito. Le
creature, in quanto partecipano dell'essere di Dio, in parte gli somigliano e in
parte no. Non c'è identità tra Dio e le creature; ma non c'è neppure equivocità
(cioè una assoluta differenza), poiché nel mondo è riflessa la sua immagine. Tra
Dio e le creature c'è dunque somiglianza e dissomiglianza. Ebbene, somiglianza e
dissomiglianza prese insieme costituiscono un rapporto di analogia, nel senso
che ciò che si predica delle creature si può predicare di Dio (e perciò Dio è
simile alle creature), ma non allo stesso modo né con la stessa intensità (e
quindi, in tal senso, Dio e le creature sono dissimili).
Dio, dunque, viene presentato da Tommaso come l'essere stesso, l'atto
sussistente dell'essere, cioè l'atto assoluto dell'essere, l'essere che
costituisce l'essenza stessa di Dio, nel quale, conseguentemente, sono identici
essenza ed esistenza. Dio non esiste (nel senso che non ha l'esistenza),
ma è l'esistere stesso, per essenza.
Tutto ciò che non è Dio, invece, esiste per partecipazione, cioè ha
l'esistenza in quanto ne è reso partecipe per creazione.
Tutto il creato vive dell'essere di Dio, senza identificarvisi; Dio elargisce
l'essere a tutto il creato senza impoverirsi.
Tutto ciò che non è Dio, quindi, distingue in sé l'essenza e l'esistenza, nel
senso che l'essenza rappresenta la misura specifica della partecipazione
all'atto d'essere stesso che è, invece, l'essenza di Dio. Un uomo, ad esempio,
partecipa all'essere con il suo atto di esistenza nella misura
dell'intelligenza, mentre una pianta partecipa al medesimo essere nella misura
della vegetatività.
Lo statuto epistemologico della Sacra doctrina
In pieno XIII secolo si compie il percorso di
progressiva definizione dello statuto scientifico della teologia. La “Dottrina
sacra” dei secoli precedenti, considerata comunemente come una forma di
sapienza, matura via via la propria consapevolezza epistemologica e giunge, con
Tommaso d'Aquino, a definire i criteri della propria scientificità in ossequio ai
canoni dettati dagli Analitici di Aristotele.
I criteri aristotelici
I requisiti fondamentali di una scienza, secondo le regole dettate dal filosofo
di Stagira, sono, tra l'altro, un'assiomatica consistente e un campo oggettuale
proprio, vale a dire principi primi evidenti da cui partire per argomentare in
modo apodittico e l'esistenza in natura dell'oggetto specifico di studio. I due
requisiti, per la teologia, vengono in chiaro attraverso le pagine della
Somma teologica e della Somma contro i Gentili di Tommaso d'Aquino.
Circa la prima questione, Tommaso elabora l'aristotelica dottrina della
subalternazione delle scienze, secondo la quale può dirsi scienza subalternata
quella disciplina che mutua i propri principi primi da una scienza
architettonicamente superiore, come nel caso dell'ottica che assume i suoi
postulati dalle conclusioni della geometria, la scienza che, rispetto ad essa,
si pone come subalternante. Analogamente, conclude Tommaso d'Aquino, la teologia
è scienza subalternata rispetto alla scienza di Dio (la scienza propria di Dio,
cioè la conoscenza che Dio ha di tutto) e dei beati che, al cospetto di Dio,
godono già della visione definitiva e trasparente delle cose.
Circa la seconda questione, invece, Tommaso risponde affermativamente al quesito
se Dio esista, in quanto campo oggettuale proprio della teologia, scoprendolo
mediante cinque percorsi argomentativi (cinque “vie”) nel principio necessario
che presiede a diversi ordini di realtà e a cui l'appellativo “Dio” viene
assegnato in veste di predicato nella comune considerazione delle cose.
Le cinque viae
Anche per Tommaso d'Aquino vale un'osservazione analoga a quella presentata
per Anselmo d'Aosta: le vie non sono prove dell'esistenza di Dio in senso
moderno, ma percorsi razionali che mostrano l'esistenza e la descrivibilità di
un campo oggettuale su cui fare scienza, quello di Dio, appunto, che viene detto
tale solo a titolo di conferma di un sapere antecedente ed irriflesso che
costituisce, comunque, il punto di partenza della speculazione teologica stessa.
Tra i cinque percorsi se ne possono individuare tre che si sviluppano in modo
similare, benché a partire da constatazioni diverse, di ispirazione
aristotelica, un quarto di ispirazione agostiniano-boeziana e un quinto, infine,
originale e nuovo.
Le cinque vie prendono spunto dalla considerazione delle circostanze e
argomentano il superamento dell'apparente contraddizione del divenire facendo
ricorso a un primo principio necessario.
1ª via, tratta dalla
considerazione del movimento.
Consta che nel mondo ci sono cose in movimento.
Vale assiomaticamente che tutto ciò che si muove è mosso da altro.
Questo “altro”, principio di movimento, a sua volta può essere in movimento e
dunque, per il principio citato sopra, è mosso da altro; e così via.
È però impossibile risalire all'infinito nella concatenazione tra motore
(principio di movimento) e mosso (ente in movimento), pena l'impossibilità di
riscontrare il movimento attuale da cui è partita l'argomentazione, in quanto
tale movimento dovrebbe considerare la sua origine retrocessa assurdamente
all'infinito e mai iniziata.
Dunque, è necessario ammettere che, all'origine del movimento, c'è un motore
primo immobile.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine “Dio”.
2ª via, tratta dalla
considerazione della causa efficiente.
Nella realtà effettuale constatiamo l'esistenza di un ordine di cause
efficienti, ma non è possibile che qualcosa sia causa di se stesso.
Inoltre non è possibile procedere all'infinito della concatenazione di cause
efficienti, pena l'impossibilità di riscontrare qualsiasi effetto attuale.
Dunque, è necessario ammettere che, nell'ordine delle cause, c'è una causa prima
incausata.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine
“Dio”.
3ª via, tratta dalla considerazione
del rapporto tra ciò che è possibile e ciò che è necessario.
Nella realtà constatiamo il darsi di cose che possono essere e non essere, dal
momento che possono generarsi e corrompersi, e quindi possono non essere.
È però impossibile che tutte le cose che sono, nessuna esclusa, siano di questo
genere, perché ciò che può non essere talvolta, appunto, non è. Quindi tutta la
realtà, potendo non essere, talvolta (almeno una volta) non sarebbe.
Se ciò fosse vero, allora nulla esisterebbe, perché dal non essere del tutto non
deriva nulla.
Non tutto ciò che esiste, dunque, è possibile, ma qualcosa deve essere
necessario.
Ciò che è necessario o ha causa in altro o non ha causa; ma è impossibile
risalire all'infinito nell'ordine delle cause, pena la contraddizione.
Dunque è necessario porre qualcosa che sia per sé necessario che non abbia la
causa della propria necessità in altro, ma che sia causa necessaria di
tutto il resto.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine
“Dio”.
4ª via, tratta dalla
considerazione della gradualità riscontrabile nelle cose.
Constatiamo che c'è qualcosa di più buono e qualcosa di meno buono nella
realtà, qualcosa di più o meno vero, di più o meno nobile, e via di seguito.
Il più e il meno, tuttavia, si possono riconoscere alle cose grazie al
paragone rispetto al grado massimo, in ciascun ordine di cose.
Pertanto, esiste qualcosa che è buonissimo, verissimo, nobilissimo e che è
causa di tutto ciò che fa riferimento a quel genere.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine
“Dio”.
5ª via, tratta dalla
considerazione del governo delle cose.
Possiamo trovare nella realtà alcune cose che, pur essendo prive di capacità
conoscitiva, per esempio i corpi naturali, che agiscono in vista di un fine,
sempre o, comunque, nella maggior parte dei casi, salvo si dia qualche
impedimento.
Da ciò è deducibile il fatto che tali cose, pur prive di capacità conoscitiva,
non agiscono a caso, ma ottengono il fine a partire da un'intenzione.
Ciò, tuttavia, che è privo di capacità conoscitiva, non tende ad un fine se non
perché vi è indirizzato da un'intelligenza, come nel caso della freccia scoccata
dall'arciere.
C'è, dunque, un'intelligenza dalla quale tutte le cose naturali sono ordinate ad
un fine.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine
“Dio”.
GIOVANNI DUNS SCOTO
Distinzione tra filosofia e teologia
Contro l'assorbimento agostiniano della filosofia da parte della teologia,
come contro il concordismo tomista tra filosofia e teologia, Scoto propone la
netta distinzione dei due ambiti. La filosofia ha un metodo e un oggetto
non assimilabili al metodo e all'oggetto della teologia.
Delimitare gli ambiti della filosofia e
della teologia La filosofia si occupa dell'ente in quanto ente e di
quanto è a esso riducibile o da esso deducibile; la teologia, invece, tratta
degli articula fidei o oggetti di fede; la filosofia segue il
procedimento dimostrativo, la teologia il procedimento persuasivo; la filosofia
si arresta alla "logica del naturale", la teologia si muove nella "logica del
soprannaturale"; la filosofia si occupa del generale o universale, perché
costretta a seguire pro statu isto l'itinerario conoscitivo dell'astrazione, la
teologia approfondisce e sistematizza quanto Dio si è degnato rivelarci circa la
sua natura personale e il nostro destino; la filosofia è essenzialmente
speculativa, perché mira a conoscere per conoscere, la teologia è
tendenzialmente pratica, perché ci mette a parte di certe verità per indurci ad
agire più correttamente. La filosofia non migliora se posta sotto la tutela
della teologia, né questa diventa più rigorosa e persuasiva se utilizza gli
strumenti e tende agli stessi fini della filosofia. La pretesa degli
aristotelici avicennisti e averroisti di surrogare la teologia con la filosofia,
il tentativo degli agostiniani di surrogare la filosofia con la teologia,
l'orientamento dei tomisti di ricercare a ogni costo l'accordo tra ragione e
fede, tra filosofia e teologia, si spiegano, secondo Scoto, con il non
sufficiente rigore con cui vengono sostenute queste tesi e prospettive.
L'univocità dell'ente
La via che dal complesso porta al
semplice Con l'intento di evitare equivoci e deleterie commistioni tra
elementi filosofici ed elementi teologici, Scoto propone di sottoporre ad
analisi critica tutti i concetti complessi al fine di ottenere dei concetti
semplici, con i quali procedere poi alla costruzione di un fondato discorso
filosofico. Solo attraverso questa scomposizione si può pervenire alla
semplicità dei concetti; in caso contrario, le combinazioni dei concetti
rischierebbero di contenere delle ambiguità o dei passaggi ingiustificati.
Ciò
che esiste e su cui meditiamo è complesso. Il compito del filosofo è di
contribuire a dissipare tale complessità, aiutando innanzitutto a mettere ordine
e a vedere chiaro nella selva dei nostri concetti.
In tale contesto e con un
simile compito Scoto elabora la dottrina della distinzione (distinzione reale,
formale e modale). È questa la via che dal complesso porta al semplice, che
permette di superare le incomprensioni e di vincere le false pretese.
Tra
Socrate e Platone c'è una distinzione reale; tra l'intelligenza e la volontà la
distinzione è solo formale; tra la luminosità e il suo specifico grado di
intensità la distinzione è invece di tipo modale. Se ciò è vero, un concetto può
essere concepito senza l'altro, ed è deleterio considerarli insieme, quasi
costituissero una sola nozione.
Oltre a queste distinzioni che trovano il loro
fondamento nella realtà, esiste la distinzione di ragione che ha luogo allorché
scomponiamo ulteriormente un concetto, per comprenderne più chiaramente il
contenuto, senza che ciò abbia un corrispettivo nella realtà (per esempio se
distinguiamo l'animalità dalla razionalità [genere e differenza specifica] nel
concetto di uomo). Si tratta di un
bisogno logico, piuttosto che ontologico.
Quando a proposito della
filosofia scotista si parla di univocità, non si intende altro che quella
semplicità irriducibile cui tutti i concetti complessi devono essere
rigorosamente ricondotti. Si tratta cioè di quelli che Scoto chiama concetti
simpliciter simplices, nel senso che ciascuno di essi non è identificabile
con nessun altro. Sono concetti che è possibile solo negare o affermare di un
soggetto, e non l'uno e l'altro insieme, come invece può accadere a proposito
dei concetti analogici, i quali, data la loro complessità, possono essere
affermati e negati insieme dallo stesso soggetto da angolazioni diverse.
L'univocità è la semplicità irriducibile
cui devono essere ricondotti tutti i concetti complessi Tra tutti
i concetti univoci, il concetto primo e più semplice è quello di "ente", perché
predicabile di tutto ciò che in qualsiasi modo è.
Ma, che cos'è l'ente univoco,
fondamento della metafisica di Scoto?
Si è detto più sopra, a proposito della
distinzione modale che è possibile concepire una perfezione – la razionalità, la
luminosità, ecc. – senza il suo grado specifico di intensità: la razionalità di
Dio non è quella dell'uomo; la luminosità del sole è diversa da quella della
candela.
Essere finito e infinito
Estendendo questa distinzione modale a tutti gli enti, si può ritenere il
concetto di ente prescindendo dai modi specifici in cui è effettivamente
concretizzato. In tal caso si ha il concetto semplice e pertanto univoco di
ente, universale perché predicabile di tutto ciò che è in maniera univoca. Esso
infatti si predica sia di Dio che dell'uomo perché entrambi sono.
La differenza
tra Dio e l'uomo non sta nel fatto che il primo è e il secondo no, ma nel fatto
che il primo è al modo infinito, il secondo al modo finito. Ora, se prescindiamo
dai modi di essere, il concetto di ente si predica allo stesso modo di entrambi.
Ma proprio perché prescinde dai modi di essere, la conoscenza di tale concetto
non consente di individuare i tratti specifici degli esseri dei quali si
predica.
La nozione univoca di ente è di indole
metafisica nel senso che esprime l'essenza stessa dell'essere o l'essere in
quanto essere, e non la totalità degli esseri o la loro somma. Proprio perché
prescinde dai modi di essere, tale nozione è detta da Scoto deminuta o
imperfetta.
L'ente univoco oggetto primo dell'intelletto
Universalità del concetto di ente e
povertà dell'intelletto Convinto che uno dei tratti specifici dell'uomo
sia il suo essere intelligente – intelligenza che è espressione prima della
superiorità dell'uomo rispetto a tutti gli altri esseri viventi –, Scoto si
premura di precisare l'ambito conoscitivo umano, preoccupato di non attribuirgli
poteri illusori né di privarlo delle sue effettive potenzialità e prerogative.
Alla domanda su quale sia l'oggetto primo dell'intelletto, egli
innanzitutto risponde che non intende occuparsi dell'oggetto che in ordine di
tempo l'uomo conosca prima, né dell'oggetto più perfetto che l'uomo sia in grado
di raggiungere. Egli invece vuole precisare i contorni di quell'oggetto che sia
in grado di esprimere e insieme circoscrivere l'orizzonte conoscitivo del nostro
intelletto. L'occhio è fatto per il colore e l'orecchio per il suono; l'oggetto che esprime l'ambito
effettivo nel quale l'intelletto può muoversi è appunto l'ente univoco o
l'ente in quanto ente. Come l'ente, perché univoco, è predicabile di tutto ciò
che è, cosi l'intelletto è fatto per conoscere tutto ciò che è, materiale e
spirituale, particolare e universale: non c'è nulla che gli sia precluso. L'uomo
con il suo pensiero può abbracciare l'universo.
Per la sua universalità, il
concetto di ente in quanto ente indica l'estensione illimitata del nostro
intelletto. Ma se per la sua universalità tale concetto lascia intravvedere
l'estensione del nostro potere conoscitivo, per la sua estrema povertà e la sua
massima generalizzazione tale concetto ci fa anche intravvedere la povertà
dell'intelletto e, di riflesso, l'assurda pretesa di certi metafisici di dar
fondo alla complessità del reale.
L'intelletto umano pro statu isto, cioè nella
condizione umana attuale, è costretto a seguire il processo astrattivo e quindi
a raggiungere l'intellegibile prescindendo (astraendo) dalla ricchezza effettiva
della realtà concreta. La conoscenza filosofica si ferma alle frontiere
dell'universale e la metafisica, occupandosi dell'essere comune, prescinde dalla
ricchezza strutturale delle cose.
Accanto alla filosofia occorre porre, in posizione subalterna e autonoma, le
singole scienze e, per gli aspetti di salvezza della nostra esistenza, la
teologia.
L'ascesa a Dio
La nozione univoca di ente, perché priva di modi concreti di essere, è
definita deminuta o imperfetta. Ma proprio perché imperfetta, tale nozione non
solo non ripugna con i modi di essere ma vi tende come alle sue configurazioni
effettive.
È necessario dimostrare l'esistenza
dell'ente infinito Ora, i modi supremi di essere sono la finitezza e
l'infinità, i quali rappresentano l'ente nella sua perfezione effettiva. Tali
modi determinano la nozione univoca di ente così come l'intensità esprime la
luminosità della luce o un particolare grado di colore concretizza la
bianchezza.
Ora è certo che dell'esistenza dell'ente finito
non è necessaria prova alcuna, perché oggetto di immediata e quotidiana
esperienza. Dell'esistenza però infinito dell'ente infinito urge una precisa
dimostrazione, perché non costituisce un dato di immediata evidenza.
Se il concetto di "ente infinito" non è contraddittorio in se stesso – anzi
sembra che la nozione univoca di ente trovi nell'infinità la sua realizzazione
più compiuta –, resta da provare se tale concetto rappresenti effettivamente
alcunché.
Scoto vuole produrre una dimostrazione
dell'esistenza dell'ente infinito che sia la più ineccepibile possibile, il che
comporta che l'argomentazione sia fondata su premesse certe e insieme
necessarie. A tale scopo egli ritiene insufficienti le prove fondate su dati
empirici, perché questi sono certi ma non necessari; è proprio questa la ragione
per cui Scoto non muove dalla constatazione dell'esistenza effettuale e
contingente delle cose, bensì dalla loro possibilità.
Che le cose
sono, è un dato certo, ma non necessario, perché potrebbero anche non essere; ma
che le cose possano essere, dal momento che sono, risulta necessario. In altre parole,
se il mondo esiste, è assolutamente certo e necessario che possa esistere: ab
esse ad posse valet illatio (dall'essere al poter essere vale l'inferenza).
Anche se scomparisse, sarebbe sempre vero che il mondo potrebbe esistere, dal
momento che è stato.
Stabilita la necessità della possibilità, Scoto si chiede quale ne sia
il fondamento o la causa.
Il procedimento a questo punto è quello tradizionale.
Il fondamento di tale possibilità non è il nulla, perché il nulla non è
fondamento o causa; non le cose stesse, perché non è possibile che le cose si
possano dare l'esistenza che non hanno ancora. Occorre quindi riporre la ragione
di tale possibilità in un essere distinto dall'essere producibile.
Ora, questo
essere trascendente la sfera del producibile o delle cose possibili o esiste e
agisce per sé o esiste e agisce per virtù di altro. Nel secondo caso si proporrà
l'identica domanda, perché dipendente da un altro e quindi a sua volta
producibile. Nel primo caso avremmo un ente in grado di produrre, ma per nessun
motivo producibile. Siamo così all'ente che si ricerca, perché spiega la
possibilità o producibilità del mondo, senza che la sua esistenza, a sua volta,
esiga un'ulteriore spiegazione.
L'ente primo, se è possibile, è reale
Dunque: se le cose sono possibili, è anche possibile un ente primo. Ma questo è
solo possibile o esiste di fatto? La risposta è che tale ente esiste in atto,
perché se non esistesse, neppure sarebbe possibile, dal momento che nessun altro
sarebbe in grado di produrlo. Dunque, l'ente primo, se è possibile, è reale. Il suo connotato specifico
è l'infinità, perché è supremo e incircoscrivibile.
Così Scoto, che ha assegnato all'intelletto come oggetto
primo l'ente in quanto ente, scopre che solo l'essere infinito è l'Essere nel
senso pieno della parola, perché fondamento di tutti gli enti e, prima ancora,
della loro possibilità.
L'intelletto umano non può comprendere
l'essenza divina Il concetto di "ente infinito" è il più semplice e il
più comprensivo cui possiamo pervenire. Ma questo altissimo concetto, cui può
pervenire il nostro intelletto, è per sé povero e insufficiente, perché non
riesce a introdurci nella ricchezza misteriosa di Dio.
L'essenza divina, infatti, non è una realtà che possa essere compresa
naturalmente dall'uomo.
Le possibilità e i limiti della filosofia sono dichiarati, così come lo spazio e
la necessità della teologia sono chiaramente affermati. Una qualsiasi
controversia tra filosofie teologi non può scaturire che dall'inconsapevolezza
di questi limiti e dell'ambito di propria competenza.
Rigorizzare il discorso filosofico, coglierne il carattere generale e astratto
significa porre fine alle sue pretese di esaurire il campo dell'essere,
ritenendosi onnicomprensivo e incompatibile con una superiore forma di sapere.
GUGLIELMO DI OCKHAM
L'indipendenza della fede dalla ragione
Le verità di fede trascendono la
ragione naturale Ockham è più di ogni altro consapevole della fragilità
teorica dell'armonia tra ragione e fede. come del carattere sussidiario della
filosofia rispetto alla teologia. Il piano del sapere razionale, fondato sulla
chiarezza e l'evidenza logica, e il piano della dottrina teologica, orientato
alla morale e fondato sulla luminosa certezza della fede, sono asimmetrici. Non
si tratta solo di distinzione, ma di separazione. «Gli articoli di fede non sono
principi di dimostrazione né conclusioni, e non sono neppure probabili, giacché
appaiono falsi a tutti o ai più o ai sapienti: intendendo per sapienti quelli
che si affidano alla ragione naturale, giacché solo in tal modo si intende il
sapiente nella scienza e nella filosofia.»
Le verità di fede non sono evidenti di per sé, come i principi della
dimostrazione. L'ambito delle verità rivelate è sottratto radicalmente al regno
della conoscenza razionale. La filosofia non è ancella della teologia e questa
non è più scienza ma un complesso di proposizioni tenute insieme non dalla
coerenza razionale bensì dalla forza coesiva della fede.
In tale contesto e in tale direzione Ockham trasformò la verità cristiana della
suprema onnipotenza di Dio in uno strumento dissolutorio delle metafisiche del
cosmo che si erano cristallizzate nelle filosofie occidentali d'ispirazione
aristotelica e neoplatonizzante. Se l'onnipotenza di Dio è sconfinata e il mondo
è l'opera contingente della Sua libertà creativa, allora tra Dio onnipotente e
la molteplicità dei singoli individui finiti non c'è alcun legame all'infuori di
quello che scaturisce da un puro atto di volontà creatrice da parte di Dio e,
pertanto, non tematizzabile da noi, ma noto solo alla sua sapienza infinita.
Che cosa sono allora quei sistemi di esemplari ideali, di forme platoniche o di
essenze universali, proposti da Agostino, Bonaventura, Scoto, come tramite tra
il Logos divino e la grande molteplicità delle creature se non residui di una
ragione superba e pagana?
L'empirismo e il primato dell'individuo
L'esaltazione dell'individuo
La netta distinzione tra Dio onnipotente e la molteplicità degli individui è
tale da indurre Ockham a concepire il mondo come un insieme di elementi
individuali, senza alcun vero legame tra loro, non ordinabili in termini di
natura o di essenza. L'esaltazione dell'individuo è tale che Ockham nega anche
la distinzione interna al singolo tra la materia e la forma, distinzione che, se
fosse reale, comprometterebbe l'unità e l'esistenza dell'individuo.
Ed ecco, allora, le due fondamentali conseguenze del primato assoluto
dell'individuo.
- Innanzitutto, in contrasto con le concezioni aristoteliche e torniste secondo
cui il vero sapere ha come oggetto l'uiniversale, Ockham ritiene che l'oggetto
proprio della scienza sia costituito dall'oggetto individuale.
- La seconda è che l'intero sistema di cause necessarie e ordinate, che
costituivano la struttura del cosmo platonico e aristotelico, cede il posto a un
universo frantumato in tanti individui isolati, assolutamente contingenti,
perché dipendenti dalla libera scelta divina.
Conoscenza intuitiva e conoscenza astrattiva
L'empirismo di Ockham Il
primato dell'individuo porta al primato dell'esperienza su cui si fonda la
conoscenza. A questo proposito occorre distinguere tra conoscenza incomplessa,
relativa ai termini singoli e agli oggetti che essi designano, e conoscenza
complessa, relativa alle proposizioni che risultano composte di termini.
L'evidenza di una proposizione scaturisce dall'evidenza dei termini che la
compongono: se non c'è questa non può esserci quella. Proprio da qui nasce
l'importanza della conoscenza incomplessa, che può essere intuitiva e
astrattiva.
La conoscenza intuitiva si riferisce all'esistenza di un essere concreto e
perciò si muove nella sfera della contingenza, perché attesta l'esistenza o meno
di una realtà. L'importanza della conoscenza intuitiva consiste innanzitutto nel
fatto che è la conoscenza fondamentale, senza la quale le altre non sarebbero
possibili. Con la conoscenza intuitiva si arriva a sapere se una cosa c'è o non
c'è, e così l'intelletto giudica in maniera immediata della realtà o della
irrealtà di qualsiasi cosa. La conoscenza intuitiva perfetta si ha quando
l'oggetto, ad esempio dell'arte o della scienza, è una realtà presente; essa è
invece imperfetta quando si riferisce a una qualche realtà del passato. La
conoscenza intuitiva può essere sia sensibile (ad esempio: conoscere questo
tavolo) sia intellettuale, in quanto l'intelletto conosce anche i suoi propri
atti e i moti dell'anima, quali l'amore, il dolore o il piacere. Quindi,
l'empirismo di Ockham è certamente radicale, ma non assolutamente sensistico.
La conoscenza astrattiva deriva da quella intuitiva e può essere intesa in due
modi: in quanto si riferisce a qualcosa di astratto da molti singolari oppure in
quanto essa fa astrazione dall'esistenza o non esistenza delle cose contingenti.
Due conoscenze distinte intrinsecamente
Di conseguenza, l'oggetto di entrambe le conoscenze è identico, ma colto sotto
aspetti diversi: la conoscenza intuitiva coglie l'esistenza o non esistenza di
una realtà, mentre quella astrattiva prescinde da tali connotati. Le due
conoscenze sono distinte intrinsecamente, perché ognuna ha un suo essere
proprio: la prima riguarda giudizi di esistenza, la seconda no; la prima è
legata all'esistenza o meno di una cosa (ad esempio, questo libro sul tavolo),
la seconda ne prescinde; la prima è causata dall'oggetto presente, la seconda lo
presuppone ed è successiva all'apprensione di esso; la prima si occupa di verità
contingenti, la seconda di verità necessarie e universali. Ma in che senso la
conoscenza astrattiva persegue verità necessarie e universali?
L'universale e il nominalismo
Gli universali sono dei nomi, non una
realtà In più occasioni e senza tentennamenti, Ockham ha affermato che
l'universale non è reale. La realtà dell'universale è dunque contraddittoria e
deve essere totalmente e radicalmente esclusa. La realtà è essenzialmente
individuale; gli universali sono dei nomi, non una realtà, e non possono nemmeno
avere un fondamento in essa. La realtà, dunque, è tutta singolare. Cade così il
problema del principio di individuazione che tanto aveva affaticato la mente dei
classici, perché è ritenuto infondato il passaggio dalla natura specifica o
essenza universale al singolo individuo. Ma insieme a questo problema cade anche
quello dell'astrazione come tematizzazione dell'essenza specifica.
Che ne è allora della conoscenza astrattiva e del carattere universale delle sue
proposizioni? Se non è reale né ha fondamento nella realtà, è lecito parlare
ancora di universale? Gli universali non sono delle res esistenti fuori
dell'anima, nelle cose, o prima delle cose. Essi sono semplicemente forme
verbali mediante le quali la mente umana costituisce una serie di rapporti di
esclusiva portata logica. Che cos'è, allora, la conoscenza astrattivi? È
sinonimo della conoscenza ricavata da più oggetti individuali (Cognitio
abstractiva non est aliud quam cognino alicuius universalis abstmhibilis a
multis). Se ogni realtà singola provoca una conoscenza altrettanto singolare, la
ripetizione di molti atti di conoscenza riguardanti cose fra loro simili genera
nell'intelletto dei concetti che non significano una cosa singola, ma una
molteplicità di cose fra loro simili.
Gli universali come segni abbreviativi
di più cose simili Tali concetti, come segni abbreviativi di cose simili,
sono detti universali, i quali quindi non rappresentano che la reazione
dell'intelletto alla presenza di realtà simili. E tosi se il nome "Socrate" si
riferisce a una determinata persona, il nome "uomo" è più generico e astratto
perché si riferisce a tutti quegli individui che possono essere indicati dalla
forma generale e abbreviativa tipica di quel concetto, che per questo è detto
universale.
Ma se non c'è una natura comune né può dirsi reale l'universale, che ne è della
scienza che secondo gli aristotelici e gli agostiniani ha per oggetto non il
singolare ma l'universale? Certo, dalle premesse di Ockham sono esclusi un
sistema di leggi universali e ancor più una si rottura gerarchica e sistematica
dell'universo. Ma la caduta di questo impianto metafisico pregiudica forse ogni
sapere? Secondo il principe dei nominalisti tale tipo di sapere metafisico
cristallizza dannosamente il sapere. È sufficiente un tipo di conoscenza
probabile, che, fondandosi su ripetute esperienze, consente di prevedere che ciò
che è accaduto nel passato ha un alto grado di possibilità di accadere nel
futuro. Abbandonando dunque la fiducia aristotelica e tomista nelle
dimostrazioni metafisico-fisiche, egli teorizza un certo grado di probabilità
che tiene desta la ricerca e insieme la stimola a muoversi in un universo di
cose individuali e molteplici, non correlate da nessi immutabili e necessari.
Il rasoio di Ockham
Nel contesto di questa estrema fedeltà all'individuale non è difficile
cogliere le implicazioni del precetto metodologico, semplice nell'enunciazione,
ma fecondo di conseguenze: «Non moltiplicare gli enti se non è necessario»
(Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem). Noto come il "rasoio di
Ockham", questo canone diventa un'arma critica contro il Platonismo delle
essenze e contro quegli aspetti dell'Aristotelismo in cui maggiormente si
avverte la presenza di elementi platonici. Vediamo in rapida sequenza come,
nella filosofia di Ockham, crollano i pilastri della metafisica e della
gnoseologia tradizionale.
Critiche alla metafisica e alla
gnoseologia tradizionali Innanzitutto è fondamentale il rifiuto della
metafisica dell'essere analogico di Tommaso e dell'essere univoco di Scoto, in
nome dell'unico legame tra finito e infinito costituito dal puro atto della
volontà creatrice di Dio, atto non passibile di alcuna tematizzazione razionale.
Assieme al concetto metafisico di essere analogico cade anche il concetto di
sostanza. Delle cose noi non conosciamo se non le qualità o gli accidenti che
l'esperienza rivela. Il concetto di sostanza non rappresenta che una realtà
sconosciuta, arbitrariamente enunciata come nota. Nessun motivo milita a favore
di una tale entità e la sua ammissione viola il principio dell'economia della
ragione.
Altrettanto si dica della nozione metafisica di causa efficiente. Ciò che è
empiricamente conoscibile è la diversità tra causa ed effetto, pur nel costante
susseguirsi di questo a quella. È possibile enunciare le leggi che regolano il
decorso dei fenomeni, non però un preteso vincolo metafisico e quindi necessario
tra causa ed effetto.
Ciò che si dice della causa efficiente si dica pure della causa finale. Chi
afferma che questa agisce in quanto amata e desiderata parla metaforicamente,
perché il desiderio e l'amore non implicano un'effettiva azione. Inoltre, non è
possibile dimostrare che un qualsiasi evento abbia una causa finale. Non ha
senso dire che il fuoco brucia in vista di un fine, dal momento che non è
necessario postulare un fine perché si abbia tale effetto.
Per quanto concerne la gnoseologia con i suoi addentellati metafisici, il
discorso è più semplice. Al dibattuto argomento, tra aristotelici-averroisti e
aristotelici-tomisti, se è necessario distinguere l'intelletto agente da quello
possibile, Ockham risponde che questo è un problema ozioso. Egli non solo nega
come superflua tale distinzione, ma afferma con decisione l'unità dell'atto
conoscitivo e l'individualità dell'intelletto che lo compie. La supposta
necessità di categorie e di principi universali, che aveva portato alla
distinzione tra l'intelletto agente e quello possibile, è ritenuta puramente
artificiosa e del tutto inutile per l'effettivo compiersi della conoscenza. Se
il complesso delle operazioni conoscitive è unico, unico dev'essere l'intelletto
che lo compie. Se né la memoria né la conoscenza concettuale devono allontanarci
dal contatto immediato con il mondo empirico, ogni ricorso a entità più
complicate e mediatrici va respinto come superfluo.
Lo stesso discorso vale per le species quali immagini intermediarie tra noi e
gli oggetti. Esse sono inutili per spiegare la percezione degli oggetti. Infatti
il valore conoscitivo della specie è nullo perché, se l'oggetto non fosse
immediatamente colto, la specie non potrebbe farlo conoscere, e, se l'oggetto è
presente, essa è superflua. «La statua di Ercole non condurrebbe mai alla
conoscenza di Ercole, né si potrebbe giudicare della sua somiglianza con Ercole,
se non si fosse precedentemente conosciuto Ercole stesso».
Il principio di economia Questa
sequenza di critiche all'impianto metafisico e gnoseologico che Ockham si trova
davanti suggerisce alcune considerazioni di rilievo. Innanzitutto, il rasoio di
Ockham apre la strada a un tipo di considerazione di "economia" della ragione
che tende a escludere dal mondo e dalla scienza gli enti e i concetti superflui,
primi fra tutti quelli metafisici che immobilizzano la realtà e la scienza.
Inoltre, tale critica muove dal presupposto che non bisogna ammettere altro
all'infuori degli individui e, infine, che la conoscenza fondamentale è quella
empirica.
La nuova logica
Nel quadro di questa linea essenzialmente critica dell'impianto metafisico
tradizionale, come si configura la logica, le cui regole vanno rispettate da
qualsiasi discorso scientifico? L'obiettivo che il francescano inglese si
propone è quello di liberare il nostro pensiero dalla facile confusione fra
entità linguistiche ed entità reali, tra gli elementi del discorso e gli
elementi della realtà. Ockham sostiene che ai segni, necessari per descrivere e
comunicare, non dobbiamo attribuire nessun'altra funzione se non quella
dell'insegna o del simbolo, il cui significato sta nel segnalare o nell'indicare
realtà diverse da essi.
I principi fondamentali Ed ecco,
di seguito, alcuni nuclei della logica di Ockham.
- La logica è un sapere pratico ossia è una scienza del linguaggio priva di
implicazioni metafisiche; il suo compito è quello di analizzare e di insegnare
le regole delle proposizioni, che sono operazioni linguistiche attraverso le
quali si costruiscono tutte le scienze.
- Le proposizioni si compongono di termini che Ockham distingue in mentali,
scritti e orali: i primi sono quelli concepiti dalla mente e, in quanto tali,
sono i segni naturali di una cosa; gli altri sono rispettivamente segni grafici
oppure composti di suoni e sono pertanto segni convenzionali perché cambiano a
seconda della lingua adottata. Nonostante questa differenza, tutti i termini
sono suppositiones, ossia segni che "significano" o "stanno al posto di"
qualcosa (dal latino supponere = stare per); pertanto, una proposizione è vera
quando il soggetto e il predicato "suppongono" ovvero "stanno per" la stessa
cosa.
- Un'altra distinzione che Ockham propone è quella fra termini categorematici,
che hanno un significato definito (come uomo, gatto, albero, ecc.), e
sincategorematici (come ogni, nessuno, qualcuno, tutto, ecc.), che non hanno un
significato definito e acquistano senso solo se in congiunzione con i primi.
- Infine, una volta imposto il nome a un oggetto, i termini possono essere
ancora catalogati come di prima imposizione, ossia quelli indicanti direttamente
le cose (che a loro volta possono essere fisicamente fuori dalla mente o
semplicemente pensate), oppure come di seconda imposizione, ossia quei termini
che si riferiscono ad altre parti del linguaggio (come i sostantivi, gli
aggettivi, gli avverbi, ecc.).
Appare pertanto evidente l'intenzione di Ockham di dare alla logica uno statuto
autonomo e più rigoroso di quanto non abbiano fatto i predecessori. Ciò che è
importante sottolineare è la costante negazione di qualsiasi oggettività ai
termini, nel senso che la loro funzione è sempre quella di indicare qualcosa di
diverso da se stessi. Si tratta della separazione radicale tra logica e realtà,
tra termini e res, tra piano concettuale e piano reale.
E qual è mai la fecondità di questa distinzione?
Un'intuizione geniale In primo
luogo, la netta separazione tra logica e realtà consente a Ockham di occuparsi
dei termini come se fossero puri simboli e di correlarli tra loro, senza
occuparsi della realtà designata. In tal modo egli è in grado di offrire
un'impeccabile teoria della dimostrazione logica, evidente e rigorosa in se
stessa, perché costituita da puri simboli. Alla luce dei risultati cui è
pervenuta la moderna logica simbolica, soprattutto con la distinzione tra
"sintattica" e "semantica", è facile intravvedere la genialità di questa
intuizione.
La dottrina della supposizione La supposizione di un termine universale può essere:
- personale, quando il termine, ad es. uomo, tiene il posto di un
soggetto umano concreto, ad es. Antonio, il quale corre: «quell'uomo (Antonio,
appunto) corre»;
- materiale, quando il termine, ad es. uomo, tiene il posto del
segno orale o scritto o inciso nella sua materialità di voce, di
gesso/inchiostro, di fenditura nella pietra: «uomo è un bisillabo, una parola di
quattro lettere»;
- semplice, quando il termine, ad es. uomo, tiene il posto di un
concetto universale: «l'uomo è una specie del genere animale».
La dottrina della supposizione è strettamente collegata alla nuova concezione
sostenuta da Ockham sulla verità, la quale non viene più concepita come una
relazione tra intelletto e realtà, ma come una pura relazione di termini: una
proposizione scientifica è vera se i termini in essa impiegati suppongono per la
medesima realtà.
Conseguentemente, anche dal punto di vista epistemologico (cioè dal punto di
vista della teoria della scienza) e Ockham rappresenta un cambiamento
significativo.
La scienza è vera scienza, cioè discorso rispondente ai criteri della
scientificità, quando risulta costituita da enunciati espressi sotto forma di
proposizioni, perciò in tanto viene assicurata la loro presa sul reale, in
quanto i termini delle proposizioni vengono usati secondo la supposizione
personale. Le scienze reali sono pertanto quelle risultanti da termini che
suppongono per delle realtà extramentali, scienze razionali sono invece quelle i
cui termini suppongono per dei concetti, sia secondo la supposizione personale,
sia secondo la supposizione semplice.
La conoscenza, infatti, è sempre intuizione del singolare, perché non esistono
nature universali, ma soltanto realtà individue; la conoscenza è presa diretta
sulla realtà delle cose singole. Tutto ciò che si tratta in modo universale,
invece, appartiene alla realtà mentale, essendo puro concetto. Il criterio che
garantisce il discorso scientifico è quello per cui nell'indagine, non si
presuppone nulla più di ciò che appaia necessario per la spiegazione dei
fenomeni, il che significa l'abolizione di tutte le nature comuni o universali,
mediatrici della conoscenza secondo la teoria della conoscenza tradizionale, che
nel sistema ockhamiano non trovano più spazio (“rasoio” di Ockham).
È ovvio come, all'interno della scienza di Ockham, il discorso
metafisico-teologico perda in molti campi quella apoditticità (dimostratività)
che gli era attribuita dai maestri del XIII secolo; le prove dell'esistenza di
Dio, ad esempio, che costituiscono parte integrante della teologia, non
garantiscono per Ockham una conoscenza necessaria, ma soltanto altamente
probabile, essendo fondate non sull'intuizione diretta di Dio, impossibile
all'uomo, ma su ragioni rivelate e quindi su conoscenze indirette.
Ciò tuttavia nulla toglie alla scientificità della metafisica di cui Ockham può
considerarsi a ragion veduta un rigorizzatore, stante anche al'interno del suo
sistema l'indiscutibilità della trascendenza.
Il problema dell'esistenza di Dio
Nel contesto delle esigenze logiche come della teoria della conoscenza,
occorre dire che Ockham esclude ogni intuizione di Dio e, per quanto concerne la
conoscenza astrattivi (che parte dagli enti del mondo), ne sottolinea tutta
l'incertezza. In merito alla possibilità di una conoscenza intuitiva di Dio
egli, sempre nella Lettura sententiarum, asserisce con molta decisione che
all'uomo non è possibile conoscere Dio intuitivamente per via puramente
naturale. In merito alla conoscenza a posteriori, egli critica le prove di
Tommaso e di Scoto, persuaso che nessuna sia davvero cogente.
Avendo fatto cadere la metafisica dell'essere, egli è del parere che più che
sulle cause "efficienti" bisogna puntare sulle cause "conservanti", ossia sulle
cause che mantengono le cose nel loro essere, le quali portano a Dio appunto
come prima e suprema causa conservante.
La forza dell'argomento sta nel fatto che gli enti prodotti non possono
conservare se stessi, altrimenti da contingenti si trasformerebbero in
necessari. Gli enti prodotti, perché tali, hanno bisogno di cause conservanti. E
poiché non è possibile conservare ciò che non si è prodotto, allora la causa
conservante è anche causa efficiente.
Motivi per cui è necessaria una causa
conservativa La ragione per cui Ockham predilige questo tipo di
argomentazione sembra la seguente. La realtà della causa conservante è tale
nell'atto in cui esprime la potenza che fa essere e non essere, che conserva e
non conserva. Perciò la certezza della sua esistenza è connessa all'esistenza in
atto del mondo che ha bisogno a ogni istante di essere mantenuto nell'essere.
La ragione non può andare oltre. Cosa può dire infatti degli attributi divini
(unicità, infinità, provvidenza)? Tutte le prove addotte a favore di tali
attributi sono delle semplici persuasiones, degli argomenti probabili, non delle
demonstrationes, perché non riescono a escludere ogni dubbio. È ovvio che Ockham,
criticando le demonstrationes tradizionali, non intende misconoscere l'esistenza
di Dio, bensì sottolineare la debolezza degli argomenti umani. Quelle addotte a
favore degli attributi di Dio non sono argomenW.ioiú rigorose, in quanto sono
incapaci di escludere il dubbio o di vincere l'incertezza.
I limiti della ragione e le verità di
fede Se è cosi ristretto l'ambito della ragione umana per quanto concerne
Dio, si comprende come diventa più ampio l'ambito della fede, cui spettano le
verità note attraverso la Rivelazione, a partire dal Dio supremamente buono per
giungere al Dio uno e trino, semplice e assolutamente perfetto. Ebbene, anche a
proposito di queste verità teologiche, la ragione umana deve abbandonare la
smania di argomentare, di dimostrare. o di esplicitare. La ragione non ha alcun
compito di rilievo in questo ambito, non perché le verità teologiche siano tutte
e solo di indole pratica e non conoscitiva. Ci sono, infatti, affermazioni di
carattere speculativo come: Dio crea il mondo, Dio uno e trino, ecc. L'aspetto
speculativo di queste verità, però, viene dalla natura specifica dei loro
asserti che non hanno attinenza con la prassi, e non dal fatto che il loro
contenuto costituisca una forma di sapere certo e dimostrato mediante la
ragione. La ragione, per quanto concerne Dio, ha un posto irrilevante, superata
dall'intensa luminosità della fede. Assieme all'edificio metafisico della
Scolastica, Ockham scardina ovviamente anche tutta una serie di pretese della
ragione. Per lui il vero compito del teologo non è di dimostrare con la ragione
le verità accettate per fede, ma dimostrare dall'altezza di quelle verità
l'insufficienza della ragione. In questo modo Ockham pensa di istituire un più
rigoroso concetto di ragione, riducendola nei suoi legittimi limiti, e nel
medesimo tempo di salvaguardare la specificità e l'alterità (dalla ragione)
delle verità di fede.
I dettami della fede sono presenti come puri "dati" della Rivelazione nella loro
originaria bellezza, senza gli orpelli della ragione. La loro accettazione è
dovuta esclusivamente al dono della fede. È quest'ultima il fondamento della
vita religiosa, cosi come lo è della verità cristiana. Se lo sforzo della
Scolastica si è mosso nella direzione di conciliare fede e ragione, con
mediazioni e costruzioni di varia portata, lo sforzo di Ockham è orientato a far
cadere simili mediazioni e a ripresentare divaricati, ma con tutto il loro peso,
l'universo della natura e l'universo della fede. Non intelligo ut credam, né
credo ut intelligam, ma credo et intelligo.
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