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LA GUERRA DEI TRENT'ANNI

 

 

FONTI

 

La Germania alla vigilia della guerra dei Trent'anni

L'ambasciatore della Repubblica di Venezia Giuseppe Soranzo presso la corte di Vienna ci ha lasciato un'acuta relazione circa la situazione politico-religiosa della Germania agli inizi del Seicento.
Attivo alla corte asburgica durante il regno dell'imperatore Rodolfo II (1576-1612), Soranzo ha in particolare analizzato le cause dell'endemica debolezza della Germania, che a suo avviso dovevano essere ricercate nella lacerazione religiosa del paese, continuamente insanguinato dagli scontri fra cattolici, calvinisti e luterani, e nella crescente potenza dei principi territoriali tedeschi ai danni dell'autorità imperiale.
I sette principi, responsabili della scelta dell'imperatore, perseguivano infatti una strategia politica autonoma, finalizzata a limitare in ogni modo l'autorità imperiale a vantaggio della dilatazione della propria sfera d'azione: nel momento in cui fosse stato designato al trono di Vienna un sovrano energico e deciso a riaffermare le prerogative imperiali, lo scontro con i principi territoriali sarebbe stato inevitabile. Questa situazione si sarebbe puntualmente verificata nel 1618, con la designazione al trono imperiale di Ferdinando II d'Asburgo.
Con lucidità l'ambasciatore veneziano individua nella difesa gelosa della propria autonomia politica, e non nella volontà di superare la divisione religiosa del Paese, il terreno del futuro scontro fra principi tedeschi e casa d'Asburgo.

In Germania, dov'è la propria sedia1 dell'imperio dovrebbe anco fiorire l'auttorità, et la potenza di Cesare2; tanto più, che quella nobilissima provincia non è inferiore a qual si voglia altra del mondo per ampiezza di sito, per copia3 di città, per numero de' popoli, per quantità et potenza de' prencipi, per ricchezze, per li potenti esserciti, che vi si possono facilissimamente ammassare, per fiorirvi ogni sorte d'arti mecaniche, et per ogni altra qualità, che pub render felicissimo qual si voglia stato. Ma la diversità delle religioni, le intestine4 discordie, le contese, che passano tra li prencipi e terre franche, l'odio, che universalmente viene portato alla grandezza della Casa d'Austria, la rende tra se stessa contentiosa5, disunita, et debole. Li prencipi non vogliono riconoscere l'Imperatore per lor capo. Le città hanno mutato religione, et forma di governo, et vogliono dipender assolutamente da se stesse senza haver superiorità alcuna. Li grandi, et piccoli non sono dediti ad altro, che al lusso, ai conviti, et alle ebrietà; onde per tante novità, et alterationi viene ad essere assolutamente scancellata la buona forma di governo, che le diede Carlo Magno; et le disunioni interne, et la diversità di religione, la rende cosi debole, et fiacca, che non si trova in stato di poter inferir6 danno alcuno a questa provincia d'Italia, tutto che' Protestanti desiderino in estremo di penetrarvi per abbassar 1'auttorità, et potenza de' pontefici romani. Solevano le Diete Generali dar vera regola di buon governo alla Germania, ma hoggidi chi non vi vuol concorrere, chi non vuol obedire, chi si contenta di pagar parte delle contributioni, chi non vuol esborsar alcuna cosa, onde tutto passa con disordini, et confusioni infinite, che tutto tende a levar l'obedienza, et la riputatione a Cesare; et quanto più si diminuisce l'auttorità di S. Maestà, tanto maggior riputatione, et essistimatione si acquistano gli Elettori, che doppo di lei tengono il primo luogo di dignità nell'Imperio. Questi non si stimano punto8 inferiori alli re, et quando sono uniti, usano grandezza, et auttorità molto grande. Sono sei, tre ecclesiastici, et tre secolari9. Li ecclesiastici sono li Arcivescovi di Treveri, Magonza, et Colonia, tutti signori di gran stato. Tengono corte da prencipi grandi. Sono circondati da numerose guardie di soldati, et ritengono più della grandezza imperiale, che della dignità pastorale. Gode ogn'un d'essi da trecento in quattrocento mille taleri d'entrata, et uniti possono metter in campagna10 forze di consideratone, massime, che hanno li stati comuni assai contigui11. Questi sono eletti dalli capitoli delle lor chiese cathedrali, come segue di tutti li arcivescovati, et vescovati, di Germania; che dà occasione alli pontefici di haver anco per questo rispetto poca parte in quella provincia, seben tutti prendono la confirmatione a Roma, et cadendo alcuno delli Elettori ecclesiastici in heresie12, o altro delitto grave pub essere deposto dal pontefice, come seguì non molti anni sono del Trusses Elettor di Colonia13, che cavò di monastiero una monaca, et se la prese per moglie, et in tal accidente li capitoli ne eleggono un altro, onde ogni privato, che conseguisce il grado di canonico, pub ascender all'eminenza della dignità elettorale. Li tre Elettori secolari sono il Conte Palatino, il Duca di Sassonia, et il Marchese di Brandemburg14, tutti Prencipi grandi, et possedono stati di consideratione15, che possono ogn'uno d'essi formar esercito di qualità, et hanno la dipendenza, et il seguito di tutti li prencipi di Germania.

1. la propria sede, cioè la corte di Vienna. — 2. in questo caso si intende l'imperatore in generale. 3. gran numero. — 4. interne. — 5. lacerata al proprio interno e litigiosa. 6. arrecare. — 7. benché. — 8. affatto. — 9. in realtà erano quattro, dal momento che doveva essere incluso anche il re di Boemia, titolo che era da sempre attribuito al duca d'Austria (e quindi alla dinastia asburgica). — 10. mettere in campo. — 11. Soranzo intende dire che i tre arcivescovi avevano sempre sviluppato una strategia politica omogenea e solidale, dal momento che le loro signorie territoriali erano contigue e localizzate nella regione renana. — 12. per "eresia" in questo caso s'intende il passaggio alla confessione luterana. — 13. Gebhard Truchsess von Waldburg (1547-1601), arcivescovo di Colonia che aderì al protestantesimo, venne pertanto scomunicato e deposto da papa Sisto V e sostituito con Ernesto di Wittelsbach, della casa di Baviera. — 14. il marchese del Brandeburgo. — 15. di notevole potenza.

G. Soranzo, Relazione, in F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze, Principato, Milano 1971.

Il programma assolutista del cardinale Richelieu

Armand-Jean du Plessis de Richelieu divenne segretario di Stato del regno di Francia nel 1624, sconfiggendo il candidato dei cosiddetti dévots (i "devoti"), che propugnavano un'alleanza con la Spagna asburgica al fine di impedire il dilagare dell'eresia protestante in Europa.
Da primo ministro Richelieu avrebbe retto le sorti del regno sino alla morte, sopraggiunta net 1642.
Il suo programma risulta delineato con evidenza in questo Indirizzo di governo inviato a re Luigi XIII, che ne sosteneva con convinzione l'operato. Per Richelieu l'obiettivo prioritario era il consolidamento e l'ulteriore dilatazione dell'autorità del sovrano, unico baluardo al dilagare del caos e della guerra civile e condizione necessaria per avviare la Francia a una politica di potenza in Europa.
Per ottenere questo scopo egli intendeva eliminare tutti gli ostacoli, a partire dalla questione ugonotta, che voleva risolvere cancellando tutte le piazzeforti calviniste create da Enrico IV con l'editto di Nantes del 1598.
Il suo programma comprendeva inoltre la stabilizzazione finanziaria del regno e l'intervento in Europa al fine di limitare la potenza spagnola, ancora minacciosa ai confini della Francia. In ciò si confermava la tradizionale strategia di politica estera francese, volta a impedire che ai confini meridionali e settentrionali del paese si consolidasse la potenza asburgica.
Sarà questa strategia a indurre il primo ministro francese, nel 1635, a partecipare direttamente alla guerra dei Trent'anni.

Ora che la Rochele è presa1, se il Re si vuol rendere il più potente monarca del mondo e il principe più reputato, deve considerare davanti a Dio, ed esaminare accuratamente e segretamente, con i suoi fedeli consiglieri, ciò che v'è da desiderare nella sua persona e ciò che si deve riformare nei suoi Stati [...]. Per lo Stato occorre dividere i suoi interessi in due capi: l'uno che concerne l'interno, l'altro l'estero. Per ciò che riguarda il primo, bisogna anzitutto terminare la distruzione della ribellione dell'eresia2, prendere Castres, Nimes, Montauban e tutte le altre piazze della Linguadoca, della Rouergue e della Guyenne3. [...] Bisogna radere al suolo tutte le piazzeforti che non sono di frontiera, non controllano il passaggio dei fiumi, o non servono da freno a grandi città irrequiete e turbolente; e fortificare alla perfezione quelle di frontiera e particolarmente stabilire una piazzaforte a Commercy, che bisogna acquistare, diminuire gli aggravi del popolo, non ristabilire più la «paulette»4 quando sarà scaduta di qui ad un anno, abbassare e moderare le «compagnie» che per una pretesa sovranità si oppongono costantemente al bene del regno. Fare in modo che il re sia assolutamente obbedito dai suoi sudditi grandi e minori, coprire i vescovati5 con persone sagge e capaci, riacquistare il demanio del regno, e aumentare le sue entrate della metà, ciò che pub essere fatto senza ricorrere a mezzi illegali. Resteranno ancora altri disordini da regolare, ma per la prima volta è abbastanza rimediare ai principali. Per quel che riguarda l'estero, occorre avere come scopo costante di arrestare il corso dei progressi della Spagna e, mentre questa nazione ha per iscopo di aumentare il suo dominio e di estendere i limiti, la Francia deve pensare solo a rafforzarsi e ad aumentare le sue fortificazioni, e ad aprirsi delle porte per entrare in tutti gli Stati suoi vicini, per poterli garantire dalle imposizioni della Spagna, quando se ne presenterà l'occasione. A tale scopo, la prima cosa da fare è di rendersi potenti sul mare, che dà accesso a tutti gli Stati del mondo. Inoltre, bisogna pensare a fortificarsi a Metz, ed avanzarsi fino a Strasburgo, se è possibile, per acquistare un ingresso in Germania; ciò che bisogna fare senza fretta, con gran discrezione e in maniera cauta e coperta. Bisogna fare una gran cittadella a Versoy, per acquistare peso agli occhi degli Svizzeri, avervi una porta aperta e fare di Ginevra uno dei baluardi esterni della Francia.

1. la presa della piazzaforte ugonotta di La Rochelle sull'Atlantico avvenne nel 1628 e rappresentò un primo notevole ridimensionamento dell'editto di Nantes. – 2. il cardinale considerava eretici gli ugonotti, che avevano abbracciato il calvinismo. – 3. regioni della Francia meridionale dove forte era la presenza degli ugonotti. – 4. imposta particolarmente esosa che colpiva coloro che detenevano cariche pubbliche, introdotta nel 1604 dal ministro Sully durante il regno di Enrico IV. – 5. in base al concordato del 1515 tra papa Leone X e il re di Francia Francesco I, spettava al re individuare i candidati alle principali sedi vescovili francesi.

A.-J. Du Plessis De Richelieu, Indirizzo al re di Francia, in F. Gaeta-P. Villani, Documenti e testimonianze, Principato, Milano 1971.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

L'Europa alla vigilia della guerra dei Trent'anni

Il dibattito storiografico si è soffermato ad analizzare i decenni che hanno preceduto lo scoppio della guerra dei Trent'anni, al, fine di individuarvi in nuce gli elementi scatenanti il conflitto.
Un'analisi superficiale porterebbe a ritenere che gli anni che vanno dalla pace di Vervins (1598) alla "defenestrazione di Praga" (1618) rappresentino un periodo di stabile e durevole pace. In realtà, tutti i fattori che avrebbero determinato lo scatenarsi della guerra erano già presenti, anche se in secondo piano.
La Francia nella fase di minore età di Luigi XIII, era retta da un Consiglio di Reggenza guidato dalla regina madre Maria de' Medici, favorevole a un'alleanza con la Spagna e legata al partito dei dévots, che ponevano come primo obiettivo la sconfitta dell'eresia protestante.
In Spagna, in particolare, dopo il lungo regno di Filippo II e i suoi ripetuti tentativi di imporre l'egemonia degli Asburgo di Madrid in Europa, il segretario di Stato, cardinale duca di Lerma, primo ministro di Filippo III (1598-1621), aveva adottato una politica pacifista.
Egli, come spiega Hugh Trevor-Roper, si rendeva conto del fatto che il consolidamento della cosiddetta pax Hispanica (Madrid controllava ancora buona parte del circuito commerciale e mercantile mondiale attraverso l'Atlantico e rappresentava a tutti gli effetti la principale potenza politica continentale) avrebbe consentito a Filippo III di stabilizzare il regno, provato da bancarotte e dissesti finanziari.
Tale politica sarebbe stata però gradualmente abbandonata a partire dal 1617 con l'ascesa del conte-duca di Olivares, perché ormai inadeguata agli interessi spagnoli: il nuovo slancio imperialistico degli Asburgo di Spagna si spiegava con la necessità di sottomettere le Province Unite, la cui presenza lungo le rotte atlantiche danneggiava moltissimo gli interessi mercantili iberici, e di approfittare della rinnovata vitalità militare degli Asburgo d'Austria per assumere il pieno controllo dell'Europa centrale.
Le due Corone asburgiche, infatti, si preparavano a giocare la carta dell'imposizione di una pax Asburgica all'intera Europa, attraverso una strategia che prevedeva un'intesa politica e militare a tutto campo, dall'area tedesca ai Paesi Bassi.

Nel 1617, con la caduta di Lerma, il «partito della guerra» ottenne la sua prima vittoria: e non perché la nuova giunta di stato di Madrid, una semplice fazione di corte, fosse favorevole, ma in quanto, nello stesso anno, Baltasar de Zúñiga ritornò a Madrid dalla Germania e prese posto nel consiglio di stato come portavoce dei governatori spagnoli in Europa. L'anno dopo, il facinoroso Bedmar, espulso da Venezia, compariva a Bruxelles in qualità di ambasciatore con lo scopo di controllare l'arciduca Alberto; infine nel 1621, allo scadere della tregua, lo stesso arciduca scompariva. Con la sua morte, la sovranità delle Fiandre ritornava a Madrid, ma non più al pacifico Filippo III. In quell'anno, infatti, anche lui moriva, e la sua scomparsa apriva finalmente i centri del potere ai fautori della guerra, sin allora relegati ai margini. Baltasar de Zúñiga divenne il vero dittatore politico, e a sostenerlo ebbe un nipote che condivideva le sue idee, ne seguiva le direttive, e dominava completamente il suo pupillo, il giovane Filippo IV. Questi era Gaspar de Guzmán, il futuro conte-duca di Olivares, che avrebbe cercato di rinnovare in Olanda come in Francia, e persino nel Baltico e contro l'Inghilterra, le più grandiose ambizioni di Filippo II. Perché i viceré e i governatori del 1618, i responsabili della politica spagnola nel 1621, considerarono la pax hispanica un fallimento? Avevano dimenticato, tra le ricchezze delle Fiandre e dell'Italia, la povertà e la bancarotta spagnola, ed erano forse sordi a qualsiasi considerazione che non fosse il ricorso alla forza? Sarebbe errato affermarlo. Tra loro vi erano uomini di valore, che nel consiglio di stato ascoltavano ed esprimevano pareri ragionati. La loro tesi era che la tregua olandese del 1609, e forse persino la pace del 1604 con l'Inghilterra, benché al momento fossero apparse indispensabili e avessero inaugurato un periodo di pacifica supremazia spagnola, in realtà erano state un gravissimo errore. Filippo II aveva avuto ragione: la guerra si sarebbe dovuta combattere sino in fondo.

H. Trevor-Roper, La Spagna e I'Europa, 1598-1621, in Storia del mondo moderno, vol. IV: La decadenza della Spagna e la Guerra dei Trent'anni, 1610-1648, Garzanti, Milano 1982, pp. 323-324.

Anche nell'ambito della Germania si andavano manifestando diversi segnali di insofferenza nei confronti degli equilibri imposti dalla pace di Augusta (1555).
La lacerazione religiosa del Paese, le ricorrenti ostilità fra luterani e cattolici, con il consolidarsi di due schieramenti quali l'Unione evangelica e la Lega cattolica, lasciavano presagire l'imminenza di una guerra di vaste proporzioni. Durante la seconda metà del XVI secolo era prevalsa la linea attendista degli imperatori della Casa d'Asburgo Ferdinando I (1556-64) e Rodolfo II (1576-1612), disponibili a limitate concessioni ai luterani in cambio della pace.
La strategia interventista di Mattia I (1612-18) e di Ferdinando II (1619-37), invece, fini con l'alterare gli equilibri piuttosto precari che si erano instaurati. Del resto Ferdinando II si era ben reso conto che i principi luterani avevano finito per mettere apertamente in discussione l'autorità suprema dell'imperatore e stavano in tutti i modi cercando di alterare a proprio vantaggio gli equilibri religiosi faticosamente raggiunti in Germania con la pace di Augusta. Pertanto la ripresa delle ostilità contro i principi protestanti dell'Unione evangelica, necessaria per imporre un rapporto di forza a tutto vantaggio dei cattolici, avrebbe comportato di conseguenza un notevole rafforzamento dell'autorità imperiale sull'intera Germania.
È in questi termini che lo storico inglese Beller presenta la situazione della regione tedesca alla vigilia della "defenestrazione di Praga":

Ai primi del XVII secolo, il sacro romano impero della nazione germanica ebbe la sventura di trovarsi al centro di violente rivalità interne e internazionali. L'autorità dell'imperatore, della dieta e dei tribunali imperiali era ormai priva di valore, e non era più possibile trovare una composizione pacifica ai conflitti di interesse riguardanti territori e titoli. I principi protestanti temevano la perdita delle terre ecclesiastiche secolarizzate dopo il 1552; il ritorno in seno alla chiesa di Roma di vescovati, abbazie, conventi e innumerevoli parrocchie significava altresì la forzata ricattolicizzazione delle popolazioni che ne dipendevano. Dopo l'incidente di Donauwörth nel 1608, non una sola città imperiale poteva più sentirsi sicura della scelta della propria confessione religiosa. L'esistenza di una Unione protestante di carattere difensivo, fronteggiata da una Lega cattolica in armi, costituiva di per se stessa una minaccia alla pace. Sebbene per la maggior parte i principi tedeschi fossero favorevoli alla pace, talvolta anche a rischio della loro stessa sicurezza, restava sempre un piccolo gruppo di principi pronti a cogliere la prima occasione favorevole per ampliare i loro territori e aumentare il loro prestigio. Se all'interno incombeva il pericolo del caos e della guerra civile, esisteva anche un intreccio di interessi esterni che costituivano una minaccia ancora più grave. L'Inghilterra e le Province Unite (l'Olanda) aderivano all'unione protestante. Il matrimonio dell'elettore palatino con la figlia di Giacomo I accentuò gli interessi britannici in Germania. Più a nord, vi erano altre interferenze straniere: il re di Danimarca era anche duca di Holstein, e quindi principe dell'impero, accampando come tale diritti su vescovati secolarizzati. Le sue ambizioni al controllo delle coste baltiche erano, a loro volta, contrastate dal re di Svezia. Ma più importante di tutto era la stretta collaborazione tra l'imperatore asburgico e il ramo della stessa famiglia che regnava in Spagna. Qualsiasi accrescimento dei loro poteri nell'impero significava sviluppo dell'assolutismo e persecuzione dei protestanti. Due grandi problemi dominavano la scena internazionale europea: la determinazione della Francia a spezzare l'accerchiamento territoriale asburgico, e i preparativi della Spagna per riconquistare le Province Unite. Si trattava di due problemi connessi tra loro, e che entrambi interessavano l'impero. Per raggiungere l'Olanda dalla terraferma, la Spagna mirava ad assicurarsi un sicuro corridoio che dai domini italiani, attraverso la Valtellina svizzera, discendesse lungo la valle del Reno. Era una minaccia in più per la Francia, ma da parte francese una vigorosa politica anti-asburgica fu tuttavia procrastinata sino all'avvento del Richelieu. Gli olandesi si erano assicurati un temporaneo respiro con la conclusione della tregua dei dodici anni nel 1609, ma la riapertura delle ostilità con la Spagna era indubitabile. Ancor prima del suo scadere, un'insurrezione boema contro il dominio asburgico e contro il prepotere cattolico diede fuoco alla miccia che scatenò quella serie di conflitti noti col nome di Guerra dei trent'anni.

E. A. Beller, La Guerra dei Trent'anni, in Storia del mondo moderno, vol. IV: La decadenza della Spagna e la Guerra dei Trent'anni, 1610-1648, Garzanti, Milano 1982, pp. 355-356.

La politica del conte-duca di Olivares

L'apertura del conflitto tra l'Impero e gli Stati protestanti suscitò nella Spagna le speranze di riconquistare l'Olanda e i suoi possessi coloniali. Anima della nuova politica fu il ministro conte-duca di Olivares, vero dominatore della politica spagnola sotto il regno di Filippo IV.
Fu suo proposito di riportare la Spagna alla grandezza e allo splendore del secolo precedente.
Con questo intento intraprese un'intensa attività riformatrice contro gli abusi e i privilegi della nobiltà e del clero e a favore dell'assolutismo monarchico, introdusse un pesante sistema fiscale atto a procurargli i mezzi necessari per affrontare le ingenti spese per la "riconquista" del ruolo di grande potenza.
L'intervento nella guerra dei Trent'anni, contro le sue aspettative, non segnò il ritorno della Spagna all'antica grandezza, ma ne avviò l'irreparabile declino.
Olivares ebbe qualche successo contro i Francesi in Italia e nella Navarra, ma dovette subire la perdita del Portogallo (1640) e la ribellione della Catalogna, che gli furono fatali.
Il giudizio storico su di lui è completamente negativo e mette in evidenza la sua assoluta inferiorità nei confronti di Richelieu, suo grande avversario. Gli si rimprovera mancanza di realismo politico e di senso delle proporzioni. Nella sua mania di grandezza non si accorse che la Spagna, privata dell'opera produttiva dei moriscos e degli ebrei, senza denaro per l'enorme deflusso di oro e d'argento dall'America, decaduta nell'agricoltura, senza industrie, stremata dalle spese pazze dei suoi re, costretta a comprare tutto all'estero, non era in condizioni di competere con la Francia, con l'Olanda e con l'Inghilterra, Stati economicamente attivi ed evoluti.

Uno statista, non affascinato dallo splendore della guerra coll'estero — scrive Fisher — avrebbe capito che uno Stato, caduto in basso come la Spagna, all'assunzione di Filippo IV, chiedeva imperiosamente un lungo periodo di pace, di economia e di riforme civili. Con le finanze in disordine, la flotta oceanica ridotta ad un'ombra, perdute le Indie, le colonie americane attaccate ormai ad un filo, il Portogallo e Napoli frementi di malcontenti, la moneta disprezzata e i Paesi Bassi praticamente perduti per sempre, la Spagna non era più in grado di dirigere le forze cattoliche dell'Europa contro il nemico protestante. Olivares era abile, vigoroso ed irrequieto, ma era un cortigiano completamente digiuno di scienza politica. Il suo ozioso padrone fu lusingato dall'idea di una grande guerra estera che, diretta da un abile ministro, restituisse alla corona I'antico splendore. Questa politica naufragò urtando contro lo scoglio della finanza, causa prima di tutti i suoi fallimenti.

H. A. L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari 1938, vol. II, p. 212.

Per lo storico inglese John Huxtable Elliott, all'attività politica e amministrativa del conte-duca di Olivares bisogna riconoscere il raggiungimento di alcuni risultati positivi, destinati a durare nel tempo. Egli infatti sottolinea il tentativo, in buona misura riuscito, di procedere a un vigoroso accentramento amministrativo nell'ambito dell'apparato di governo degli Stati iberici: Olivares fu il primo segretario di Stato in grado d'imporre ovunque la piena e indiscussa autorità della Corte di Madrid, infrangendo la tradizionale politica di rispetto delle autonomie locali perseguita in Spagna dall'età dei Re Cattolici. Egli, quindi, fu il primo statista spagnolo intenzionato a concentrare progressivamente ogni potere decisionale nelle mani del sovrano. Questa strategia lo avvicina, per molti aspetti, agli indirizzi di governo assunti dal suo omologo cardinale di Richelieu in Francia.

Solo nel campo della riorganizzazione amministrativa Olivares raccolse qualche concreto successo. Nel tentativo di liberare il governo dal macchinoso apparato del sistema consiliare, egli venne affidandosi in misura sempre maggiore a giunte speciali o permanenti, composte dei suoi stessi amici e parenti e di un gruppo selezionato di funzionari in cui poteva riporre la sua fiducia. Furono questi gli uomini di punta del nuovo regime, uomini come José Gonzalez e Jerónimo de Villanueva, personalmente devoti a Olivares e alla realizzazione dei suoi ideali. Lavorando attraverso piccole giunte, ad alcune delle quali presenziava di persona, Olivares si assicurò un assai più stretto controllo della macchina amministrativa di quanto sarebbe stato altrimenti possibile. L'uno dopo l'altro, i vecchi consigli ormai scivolati nella routine videro i loro poteri limitati dalla creazione di qualche nuova giunta: giunte per la flotta, le guarnigioni e le miniere, per gli ordini militari, per l'amministrazione delle nuove imposte. Persino il consiglio di stato, supremo organo di governo sotto Filippo III, perse buona parte dei suoi poteri a vantaggio di una speciale Junta de Ejecución destinata a diventare l'organo di effettiva elaborazione politica negli ultimi anni del regime di Olivares. Ma, sotto il conte-duca, il governo fu essenzialmente un affare personale: consigli e giunte continuarono a riunirsi ed emettere le loro consultas, ma era Olivares a prendere le decisioni.

J. H. Elliott, La penisola iberica dal 1598 al 1648, in Storia del mondo moderno, vol. IV: La decadenza della Spagna e la Guerra dei Trent'anni, 1610- 1648, Garzanti, Milano 1982, p. 537.

La politica del cardinale Richelieu

Molto diversamente è giudicato il cardinale Richelieu, il grande ministro di Luigi XIII che direttamente e indirettamente organizzò e diresse la reazione europea contro gli Asburgo.
A lui si riconosce «un intelletto lucido, spietato e logico, dal principio alla fine», una capacità «eccezionale» che gli permise con opportuna liberalità di denaro e mezzi di «ravvivare il languente entusiasmo degli indispensabili Svedesi», e con «una finezza straordinaria di far balenare ai loro occhi il miraggio di una pace imminente» e «una magistrale destrezza con cui placò i rivali più temibili — Danesi e Polacchi — e li convinse a rinchiudersi in una tranquilla neutralità» (H. A. L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari 1938, vol. II, p. 220).
Circa il suo obiettivo in politica estera, la storiografia tradizionale ha visto in Richelieu «il politico dei confini naturali»; gli storici più recenti lo considerano l'assertore della «meditata e intelligente opposizione al ritorno dell'egemonia asburgica in Europa».
Per opera sua la Francia, dopo la brusca svolta di Maria de' Medici, riprese la tradizionale politica antiasburgica, ma con genialità, accortezza e spregiudicatezza e con risultati risolutivi.
Il Mousnier fa notare che il cardinale pose il giovane Luigi XIII di fronte a una scelta di campo radicale: o seguire i suggerimenti del partito dei dévots, guidato dal carismatico cardinale de Bérulle e dal ministro Marillac, che volevano l'alleanza con la Spagna e la lotta contro l'eresia ugonotta, o intraprendere una guerra con la potenza iberica, necessaria per salvaguardare i reali interessi della Francia.
I dévots, in particolare, godevano di numerosi appoggi a corte e avevano il convinto sostegno della regina madre Maria de' Medici. Richelieu dava pertanto voce alla tradizionale linea politica antiasburgica, da sempre sensibile ai rischi derivanti per la Francia dall'alleanza fra Asburgo di Spagna e d'Austria.
A partire dal 1618 tali rischi erano divenuti reali e prefiguravano una situazione del tutto simile a quella del 1519 con l'ascesa di Carlo V. La scelta della guerra era perciò obbligata: la Francia si preparava a partecipare direttamente alla guerra dei Trent'anni.

Il Richelieu pose dunque dinanzi al re la «grande scelta». Luigi XIII poteva seguire il partito dei dévots, di Marillac e della regina-madre, fare la pace con la Spagna, reprimere l'eresia nel paese, rispettare i diritti e le libertà dei sudditi e adoperarsi per il benessere del popolo. Il Richelieu faceva osservare però che non era possibile convertire i protestanti con la forza, che la sicurezza e l'indipendenza del regno erano il maggiore di tutti i beni e che bisognava eliminare la minaccia asburgica prima di pensare a un qualunque programma di riforme. Il re seguì il parere del Richelieu e il 21 maggio 1629 lo nominò «primo ministro di stato». Nell'aprile 1630 compi il passo decisivo rifiutando di cedere Pinerolo, la porta dell'Italia, il che significava accingersi a una guerra prolungata con gli Asburgo e abbandonare «ogni pensiero di riposo, di economia e di riordinamento degli affari interni del regno». In un primo tempo la Francia si limitò a finanziare le Province Unite e Gustavo Adolfo di Svezia e ad attaccare le linee di comunicazione asburgiche; poi, dopo la disfatta degli svedesi a Nördlingen, fu la guerra «aperta» contro la Spagna e l'impero.

R. Mousnier, Governo e strutture sodali in Francia, 1610-1661, in Storia del mondo moderno, vol. IV: La decadenza della Spagna e la Guerra dei Trent'anni, 1610-1648, Garzanti, Milano 1982, p. 569.

Il cardinale seppe fare degli interessi francesi gli interessi di tutti gli Stati minacciati dagli Asburgo, seppe attrarli nella lotta in nome degli ideali di libertà e d'indipendenza, ma in effetti per la vittoria della Francia. «Noi — egli scrive nell'Ais au Roi —, dobbiamo considerare la possibilità di portare aiuto ai vicini minacciati, di fortificare Metz e di avanzare fino a Strasburgo per procurarci un ingresso in Germania». Attuò questo piano con prudenza, pazienza e gradualità, in un primo tempo indirettamente, sostenendo gli Stati minacciati con aiuti finanziari, ma senza compromettersi con interventi militari, poi, quando i suoi amici furono sconfitti e l'Impero si trovò stanco e provato dalla lunga lotta, intervenne direttamente con forze potenti e fresche. Per impedire alle truppe spagnole di trasferirsi in poco tempo e facilmente dall'Italia in Olanda, negli Stati tedeschi e baltici, intervenne nella questione della Valtellina e della successione di Mantova e del Monferrato, costrinse i Savoia ad accettare l'influenza francese (pace di Cherasco, 1631) e impose la restituzione della Valtellina ai Grigioni protestanti; aiutò finanziariamente e poi si alleò con l'Olanda; con la Dieta di Ratisbona accordò tedeschi cattolici e protestanti contro l'Impero, pacificò Svezia e Polonia (1629), nel 1631 aiutò finanziariamente Gustavo Adolfo a scendere in guerra e spinse i Turchi ad attaccare l'Austria. Tutto questo — scrive Mousnier — in nome della libertà e dell'indipendenza degli Stati, ma in realtà per gli interessi della Francia.

Nella prima metà del Seicento la Francia si prefigge lo scopo di salvare la libertà dei vari Stati europei dalle pretese degli Asburgo a un dominio universale e vede il mezzo di raggiungere questo scopo nell'unione dei popoli europei che subordinasse all'obiettivo comune le loro divergenze religiose e le loro ambizioni individuali. Per questo la sua politica mira ad una unità classica; la Francia diviene il centro della resistenza e stimola e regola gli sforzi comuni. Fino al 1635 essa conduce la guerra contro gli Asburgo in modo «nascosto», riconciliando tra loro gli avversari del nemico comune, fornendo loro il denaro e impadronendosi dei punti strategici. Nel 1635 entra apertamente in guerra con la Spagna e quindi coll'Imperatore.

R. Mousnier, Il XVI e XVII secolo, Le Monnier, Firenze 1953, p. 239.

La morte (1642) impedì a Richelieu di constatare i positivi risultati della sua intelligente opera, ma in lui gli storici riconoscono il maggiore artefice della rovina degli Asburgo di Spagna e di Austria.
Richelieu e Olivares in politica interna praticarono gli stessi metodi e si prefissero le stesse finalità, eppure ottennero risultati opposti. Il realismo politico, che abbondò in Richelieu e mancò completamente a Olivares, ne è la causa principale.

Olivares e Richelieu avevano entrambi ragione a credere che un maggiore accentramento fosse necessario all'efficace svolgimento dei rispettivi governi. Ma se Olivares fallì mentre Richelieu ebbe successo, ciò si deve al fatto che in Francia le condizioni erano favorevoli ed in Spagna contrarie all'accentramento. In Francia tutte le strade conducevano a Parigi. In Spagna, nessuna via conduceva a Madrid. Montagne e uomini sono nell'Iberia ugualmente ostinati. Olivares non tenne conto delle montagne e tentò d'imporsi agli uomini. Contro tale affronto alla sua quiete diletta e romita, nessuna razza al mondo poteva reagire con maggiore testarda ostinazione della razza iberica. Lo spagnolo costruiva vasti sogni d'impero, ma non voleva pagare per attuarli.

H. A. L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari 1938, vol. II, p. 215.

I trattati di Westfalia e dei Pirenei e il cardinale Mazzarino

Nel trattato di Westfalia del 1648 gli storici riconoscono diversi significati.
Giorgio Spini afferma che esso segnò il passaggio della politica internazionale dal piano degli ideali al piano degli interessi contingenti; la rovina definitiva dell'unità religiosa e politica dell'Europa.

Se protestanti e cattolici a Westfalia discutono assieme dell'assetto europeo, vuol dire che essi, dopo essersi per tanto tempo scomunicati a vicenda e trattati da nemici irreconciliabili, hanno smesso di sperare nella instaurazione del regno del Bene assoluto sulle rovine del Male assoluto. In poche parole, l'età delle guerre di religione è finita; lo sforzo della Controriforma per schiacciare la Riforma con le fanterie spagnole e i missionari gesuiti è fallito. Si riconosce ch'è impossibile mettere degli Stati al bando della Comunità occidentale, in quanto eretici. La convivenza di più fedi e più maniere di pensare, s'impone agli europei come una necessità ineluttabile. Per ora questa convivenza e tolleranza reciproca resta circoscritta entro limiti quanto mai ristretti e dominati tuttavia dal principio del cuius regio, eius religio, ma non si tarderà a vedere, col passare del tempo, l'estendersi ulteriore di questi limiti.

G. Spini, Storia dell'età moderna, Roma 1960, p. 554.

L'Impero, ideale dell'unità politico-morale dell'Europa, si rompe in un'infinità di piccoli stati.

L'evento centrale della pace di Westfalia sta proprio nello svuotamento dell'Impero di qualsiasi contenuto positivo e quindi nella distruzione dell'unità politica della nazione tedesca. Ognuno dei trecento e più stati e staterelli della Germania, riceve il diritto di una potenza sovrana, cioè quello di fare pace, guerra ed alleanze per proprio conto, liberandosi degli ultimi residui di una soggezione unitaria. Sulla carta, esistono ancora un Impero, un imperatore, un collegio degli elettori, una Dieta; ma chi può annettere ormai un'importanza qualunque a questi pallidi fantasmi del passato? La Francia e la Svezia sono invocate come garanti della pace e perciò acquistano de jure e de facto il diritto di intervenire nelle questioni tedesche. La stessa casa d'Austria preferisce cedere su tutta la linea per quello che riguarda l'assetto dell'Impero, pur di avere mano libera nei suoi possessi ereditari in Boemia e Ungheria, onde rimodellarli in senso assolutistico e burocratico e fondarvi la propria potenza dinastica.

G. Spini, Storia dell'età moderna, Roma 1960, p. 554.

Il protagonista di questo capovolgimento politico europeo fu il cardinale Mazzarino, succeduto come ministro a Richelieu. Con magistrale abilità, giocando su tutte le pretese, le insofferenze e le ambizioni dei principi tedeschi, egli seppellì, una volta per sempre, il sogno della Mittel-Europa, creò nel cuore dell'Europa un vuoto di potenza, che permise alla Francia e ai suoi alleati di affondare le mani entro il corpo frantumato della Germania; costituì una nuova Europa fatta di Stati che hanno in se stessi e nei loro interessi la propria finalità, senza riguardo alcuno per le idee di giustizia e di autorità superiori. S'inizia, cioè, l'epoca delle gare di potenza, dei cozzi giganteschi degli Stati.
Seguendo e sviluppando le direttive della politica di Richelieu, Mazzarino, svuotando il potere degli Asburgo, liberò la Francia da qualsiasi minaccia d'accerchiamento e la mise in condizione di espandersi. Suoi capolavori sono il possesso di Metz, Toul, Verdun e dell'Alsazia, il frazionamento della Germania, il dominio svedese sul Baltico, l'influenza francese in Italia, gli interessi in Oriente della Casa d'Austria.
Con l'altro famoso trattato del 1659, quello dei Pirenei, che concludeva la guerra con la Spagna, Mazzarino andò oltre la politica di Richelieu, non si contentò di eliminare la minaccia asburgica ma volle mettere «la candidatura della Francia al dominio sul mondo». Con il possesso del Rossiglione e dell'Artois, si assicurò i confini naturali a Sud e a Nord; con il matrimonio di Luigi XIV con Maria Teresa, figlia di Filippo IV, mise una grande ipoteca sulla Spagna.
Scrive lo Spini:

Il Mazzarino per far questo dovette calpestare il cuore stesso del giovane sovrano, innamorato perdutamente di una nipote del cardinale. Ma il grande giuocatore non si lasciò trascinare dal sentimento, nemmeno in una circostanza tanto delicata. È vero che la Spagna cercò di evitare il passaggio del suo impero sotto una dinastia francese, in caso di morte senza eredi del proprio sovrano, esigendo dal re di Francia la rinuncia per se stesso e per i propri discendenti ad ogni pretesa di questo genere. Il Mazzarino riuscì anche in questo caso a girare l'ostacolo, subordinando da una parte l'impegno di rinunzia dell'eredità spagnola al pagamento integrale della dote della infanta, e sollecitando, dall'altra, l'orgoglio del castigiano per fissare questa dote ad una cifra talmente alta, da renderne problematico il pagamento. I begli occhi della nipote poterono piangere a volontà sul proprio sogno di amore spezzato. Attraverso l'ipoteca borbonica sull'eredità spagnola, la Francia pose ormai la propria candidatura al dominio del mondo.

G. Spini, Storia dell'età moderna, Roma 1960, p. 565.

La politica di Mazzarino è stata giudicata diversamente. Fisher non la considera «saggia» perché mise le basi delle guerre imperialistiche di Luigi XIV e del funesto nazionalismo tedesco (H. A. L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari 1938, vol. II, p. 216.).
A coloro che hanno rimproverato al ministro la mancata facile conquista del Belgio, Zeller oppone che essa si deve a saggezza e a intuizione politica.

Il Mazzarino credeva possibile e grandemente desiderabile un'intima unione fra le monarchie di Francia e di Spagna, per poco ancora egualmente potenti, almeno in apparenza. La loro rivalità faceva il giuoco degli Stati protestanti Inghilterra ed Olanda. Il modo migliore di lavorare a questa unione era, secondo gli usi dell'epoca, di maritare il giovane re, ormai quasi adulto, all'infanta figlia di Filippo IV.

G. Zeller, L'età moderna, Sansoni, Firenze 1960, p. 307.

Altri storici hanno dato un'interpretazione più realistica e più convincente; basandosi sulle stesse parole di Mazzarino, contenute in una lettera ai delegati francesi a Münster, affermando che al cardinale stava più a cuore la possibilità di una successione francese al trono spagnolo che la cacciata degli Spagnoli dai Paesi Bassi.

 

 

 

 

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