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la formazione degli imperi coloniali
FONTI
Gli effetti dei commerci con le colonie
I commerci coloniali, soprattutto nel corso del XVIII secolo, ebbero dirette conseguenze anche sull'evoluzione dei gusti alimentari e delle abitudini delle popolazioni europee. Tali trasformazioni, come è evidente, interessarono in modo significativo soprattutto le classi elevate della società del Vecchio Continente; esse però ebbero un effetto permanente nell'introdurre nuovi alimenti nelle diete e nuovi tessuti nell'abbigliamento. Il consumo di cacao, caffè, zucchero e tabacco si affermò in egual misura presso l'alta società francese, inglese, iberica, italiana e tedesca. Il fenomeno viene registrato nelle letterature settecentesche come significativo elemento di novità: ecco, per esempio, il commento, apparso sul numero del 19 maggio 1711 del quotidiano inglese "Spectator", dell'opinionista Joseph Addison in merito all'importanza dei nuovi beni di consumo coloniali e alle nuove abitudini che essi contribuivano a introdurre.
Sembra che la natura
si sia presa una cura particolare nel disseminare i suoi benefici fra le
differenti regioni del mondo, avendo riguardo a queste relazioni e a questo
traffico reciproci fra l'umanità, perché i cittadini delle varie parti del mondo
potessero avere una specie di interdipendenza e fossero uniti assieme dal comune
interesse. Quasi ogni grado di latitudine produce qualcosa che gli è peculiare.
Spesso il cibo cresce in un paese e la salsa in un altro. La frutta del
Portogallo è corretta dai prodotti delle Barbados e l'infuso di una pianta
cinese è addolcito dal midollo di una canna indiana. Le isole Filippine danno un
aroma alle nostre bevande europee. Il solo vestito di una dama di classe sovente
è il prodotto di cento climi. Il manicotto e il ventaglio si riuniscono dai capi
opposti della terra. Il velo è mandato dalla zona torrida e la mantellina dalle
regioni sotto il polo.
La gonna di broccato [tessuta in oro] è mandata dalle miniere del Perù e la
collana di diamanti dalle viscere dell'Indostan.
Se consideriamo il nostro paese nel suo aspetto naturale, senza alcuno dei
benefici e dei vantaggi del commercio, che pezzo di terra spoglio ed incomodo ci
tocca in sorte! I naturalisti ci dicono che fra noi non cresce spontaneamente
nessun frutto, tranne quelli della rosa canina e del biancospino, la ghianda e
la noce di terra, con altre ghiottonerie dello stesso genere [...]. I nostri
meloni, le nostre pesche, i nostri fichi, le nostre albicocche, le nostre
ciliegie sono forestiere fra noi, importate in epoche diverse e naturalizzate
nei giardini inglesi [...], e degenererebbero tutte e decadrebbero a rifiuti del
nostro paese, se fossero trascurate completamente dal piantatore e lasciate alla
mercé del sole e del terreno [...]. Le nostre navi sono cariche del raccolto di
ogni clima; le nostre tavole sono fornite di spezie, olii e vini; le nostre
stanze sono piene di piramidi di porcellana e ornate di oggetti giapponesi; la
nostra bevanda mattutina ci viene dagli angoli più remoti della terra; ci
curiamo il corpo con le droghe dell'America e ci riposiamo sotto baldacchini
indiani.
J . Addison, Dallo "Spettatore", a c. di C. Revelli, UTET, Torino 1957, pp. 97-98.
La tratta degli schiavi
Lo sviluppo dell'economia di piantagione nelle colonie americane di Francia, Spagna, Portogallo e Inghilterra venne reso possibile dall'impiego di un'ingente massa di schiavi provenienti dall'Africa nera e reclutati presso le coste del Golfo di Guinea. Il "commercio triangolare" (com'era definito l'itinerario che portava le navi negriere dall'Europa all'Africa e quindi in America) divenne, nonostante le condanne ecclesiastiche, un fenomeno largamente diffuso, l'unico tra l'altro in grado di sopperire alla spaventosa crisi demografica che si manifestò nelle colonie americane presso la popolazione indigena. Gli Inglesi, autentici arbitri di tale commercio, poterono così accumulare ricchezze ingenti. La vendita degli schiavi era considerata una necessità da parte di molti economisti europei: essi erano consapevoli del fatto che la ricchezza delle colonie e la possibilità di produrre in abbondanza spezie, metalli e prodotti di piantagione, dipendeva soprattutto dalla regolarità dell'approvvigionamento di manodopera servile. Da questo punto di vista l'italiano Antonio Genovesi nel 1757 effettuò la traduzione dell'opera dell'inglese John Cary dedicata al commercio internazionale: in essa la tratta degli schiavi rappresentava un capitolo importante.
Il commercio delle
coste Occidentali dell'Africa presenta agli Europei de' gran vantaggi. Tutto ivi
è, per così dire, guadagno. GI'inglesi soprattutto vi ritrovano le sorgenti
delle loro principali ricchezze. Essi vi cambiano l'oro, l'avorio, la cera, i
Negri, molto spesso con mercanzie di pochissimo valore fabbricate in
Inghilterra, o prese in cambio di altre manifatture uscite da quell'Isola. La
cera e l'avorio ci forniscono la materia di più estrazioni, tanto più preziose,
che non si oppongono in alcun modo allo spaccio delle produzioni naturali
dell'Inghilterra. Riguardo all'oro, è vano distendermi su l'utilità della sua
importazione. Ma per grande che sia il guadagno, che queste tre specie di
derrate apportano agl'Inglesi, il vantaggio ch'eglino ne ricavano, non si
accosta neppure, a quello che loro recano i Negri, i quali prendono su il fiume
Gambia, nella costa dell'Oro, ed in altre Scale, ove trafficano. Il numero di
questi Schiavi che trasportano nell'America, sì per le colonie Inglesi e
Francesi, come per servizio degli Spagnuoli, si suppone che ordinariamente
monti, quando il Commercio non è interrotto, a trenta o quaranta, ed anche
cinquanta mila per anno. Il Commercio della sola Città di Liverpool nella costa
della Guinea è stato stimato l'anno ultimo di 25.000 Negri [...].
Questi sono i Negri, i quali fanno fruttare le Colonie nell'America. Si deve ai
loro sudori la gran quantità degli zuccheri, del tabacco, del cotone, del
zizevero ecc. di cui ci forniscono. Il trasporto di queste mercanzie materiali e
voluminose occupa molto spazio nelle navi. La fabbrica, l'armamento, e '1
mantenimento di queste navi impiegano un gran numero di operai di diversa specie
in Inghilterra. Lo stipendio che ricevono questi operai li mette in istato di
consumare le produzioni naturali dell'Isola, e di contribuire allo spaccio de'
lavori di mille fabbriche.
INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE
Il concetto di «economia-mondo» nella storiografia contemporanea
Nella storiografia di questi ultimi decenni, il contributo decisivo alla
comprensione in termini nuovi del colonialismo europeo tra il XVI e il XVIII
secolo è venuto dallo storico francese F. Braudel. Nella sua famosa opera
Civiltà materiale, economia e capitalismo, uscita a Parigi nel 1979, introdusse
nel linguaggio storiografico il concetto di «economia-mondo», intendendo con ciò
un frammento del pianeta economicamente autonomo, capace di bastare a se stesso,
dotato di una certa unità organica.
Questo concetto, applicato da Braudel al Mediterraneo del XVI secolo, venne
ripreso ed elaborato dallo storico americano Immanuel Wallerstein, per indicare
il tipo di economia che cominciò a formarsi tra la fine del XV e l'inizio del
XVI secolo, con le scoperte geografiche e lo sviluppo del sistema coloniale.
Wallerstein si riferisce alla nuova economia mondiale incentrata sull'Europa;
grande come un Impero senza esserlo politicamente, comprendente dentro i suoi
confini Imperi, Città-Stato ed emergenti Nazioni-Stato.
Il termine «economia-mondo» sta a indicare il fatto che il legame fondamentale
tra le parti del sistema è economico ed è indicativo di uno sviluppo tecnologico
tale da garantire il predominio europeo sugli altri continenti.
Il colonialismo è il sistema prodotto dagli Stati europei per portare dalla
periferia al centro la ricchezza, sfruttando la superiorità tecnologica che,
come scrive lo storico dell'economia Cipolla, si basa sulle vele e sui cannoni:
è, in altre parole, supremazia marittima e militare. In questo quadro anche le
lotte tra i vari Paesi europei ottengono una più ricca interpretazione: non sono
solo lotte per l'egemonia in Europa, ma per il controllo dell'«economia-mondo».
Il colonialismo spagnolo e portoghese
Primi nella scoperta e nell'esplorazione del Nuovo Mondo, Spagnoli e
Portoghesi ne furono anche i primi colonizzatori, quelli per tutte le terre
bagnate dal golfo del Messico e dal mar delle Antille, questi per il vasto
Brasile. Nel Cinque cento, dalla Spagna di Carlo V, nobili e pionieri,
avventurieri e missionari mossero alla conquista dell'America
centro-meridionale, attratti dalle favolose ricchezze e dalla mitezza delle
popolazioni di quelle terre. Non fu difficile piantare la bandiera spagnola
nelle terre del Nuovo Mondo, da cui presto affluirono in Spagna notevoli
quantità d'oro e d'argento. Purtroppo una minima parte di esso giungeva al
tesoro regio, perle enormi malversazioni praticate dai funzionari coloniali.
Peggio ancora, la ricchezza delle colonie non favorì il sorgere nella
madrepatria di nuove attività industriali o commerciali, ma favorì invece la
pigrizia degli Spagnoli. Ricchezza significava per loro la possibilità di
spendere e la Spagna acquistò tutti i beni agricoli e industriali di cui
abbisognava all'estero, senza preoccuparsi per l'isterilirsi delle sue capacità
produttive. Per di più, invece di favorire lo scambio internazionale dei
prodotti coloniali, il governo proibì alle colonie di commerciare con altri
fuori della Spagna, pur non potendo essa provvedere al loro fabbisogno di
prodotti industriali. Si verificarono così due conseguenze negative: fu
ritardato il progresso economico delle colonie e fu favorito un contrabbando su
larga scala che fiorì lungo le loro coste.
Alla ricerca di metalli preziosi e poi di fertili terre da sfruttare mediante il
lavoro di schiavi indigeni e negri, gli Spagnoli estesero il proprio dominio dal
Messico all'Argentina, formando un Impero coloniale destinato a restare per
secoli il più vasto del mondo. Il suo possesso permise loro di svolgere una
grandiosa politica europea e al cattolicesimo di diffondersi assai largamente.
Altrettanta importanza ebbero le colonie per il Portogallo, che per primo ebbe
in Europa il monopolio delle spezie provenienti dall'India e dal Giappone.
Asservito tuttavia alla politica spagnola, esso fin dal Seicento vide ristretto
il suo dominio al Brasile e a pochi scali in Africa e in Asia.
Lo sviluppo del colonialismo condusse alla prima forma di internazionalizzazione
dell'economia: lo sviluppo del capitalismo commerciale significò espansione
degli scambi su tutti i continenti.
Così scrive a questo proposito Braudel.
Se l'interesse dello
Stato e quello dell'economia nazionale nel suo insieme spesso coincidono, poiché
la prosperità dei sudditi è-ffi linea di massima la condizione dei guadagni
dell'impresa-Stato, il capitalismo per parte sua si trova sempre in quella fetta
dell'economia che tende a inserirsi fra le correnti più vivaci e più vantaggiose
degli affari internazionali; si trova quindi ad agire su un piano ben altrimenti
vasto di quello dell'economia di mercato ordinaria, come si è detto, e di quello
dello Stato e delle sue particolari preoccupazioni. Per questo, per forza
naturale, gli interessi capitalistici, ieri come oggi, vanno oltre l'angusto
spazio nazionale, e ciò falsa o almeno complica il dialogo e i rapporti fra il
capitale e lo Stato.
A Lisbona — che scelgo come esempio fra tante altre città — il capitalismo dei
negozianti, degli uomini d'affari, dei potenti, nessuno lo vede agitarsi,
manifestare la sua esistenza: è perché, per quel che lo riguarda, l'essenziale
avviene a Macao, la porta segreta aperta sulla Cina, a Goa, in India, a Londra,
che impone le sue disposizioni e le sue esigenze, nella lontana Russia, quando
si tratta di vendere un diamante di grossezza eccezionale, nel vasto Brasile
schiavista dei piantatori, dei cercatori d'oro e dei garimpeiros
(cercatori di diamanti). Il capitalismo ha sempre calzato degli stivali delle
sette leghe o, se preferite, ha le gambe interminabili di Micromegas.
[...]
La conclusione da ritenere per il momento è che l'apparato del potere — potenza
che attraversa e investe tutte le strutture — è assai più che lo Stato. È una
somma di gerarchie, politiche, economiche, sociali, culturali, un ammasso di
mezzi di coercizione, in cui lo Stato può sempre far sentire la propria
presenza, in cui è spesso la chiave di volta dell'insieme, in cui non è quasi
mai il solo padrone. Può persino avvenire che scompaia, che crolli: ma sempre
deve ricostituirsi, si ricostituisce immancabilmente, quasi fosse una necessità
biologica della società.
F. Baudel, I giochi dello scambio, Einaudi, Torino 1981, p., 560.
Lo storico inglese John H. Elliott, attento studioso dell'evoluzione politica della Spagna asburgica, sottolinea come il XVII secolo (e per certi aspetti già la seconda metà del XVI) fosse risultato un periodo critico per i possedimenti coloniali iberici. Essi infatti furono colpiti da una grave crisi demografica, che neppure la tratta di schiavi dall'Africa nera riuscì a colmare: gli schiavi africani erano meno adatti ai lavori in miniera degli indios e la Spagna non poté mantenere su livelli considerevoli il quantitativo di argento da esportare in Europa. Si spiega anche così l'involuzione economica delle colonie iberiche, unitamente all'attività corsara di Olandesi e Inglesi e alle difficoltà politiche della madrepatria, impegnata da decenni su più fronti di guerra europei per l'egemonia nel continente. La scoperta di nuovi filoni argentiferi in Messico, per esempio, non poté essere sfruttata a fondo proprio per la mancanza di risorse e di mezzi finanziari in grado di consentire l'estrazione del prezioso metallo. L'incipiente crisi dell'economia spagnola avrebbe ben presto trascinato con sé anche gli assetti produttivi dell'intero Impero coloniale di Madrid; neppure il successivo intervento riformatore promosso nel Settecento da Carlo III di Borbone (1759-88) avrebbe risollevato la situazione generale. Pertanto i possessi coloniali spagnoli avrebbero finito con il perdere un ruolo economico rilevante per la Corona di Madrid, ben lontani comunque dall'importanza che essi avevano acquisito nel Cinquecento.
Tuttavia ancora più
grave minaccia per quel sistema fu la simultanea trasformazione che subì allora
l'economia americana. Durante l'ultimo decennio del Cinquecento la situazione
dei decenni precedenti, caratterizzata da una prosperità trionfante, giunse a
termine. La ragione principale del mutamento/che si ebbe nel clima economico è
da indicare in una catastrofe demografica. Mentre la popolazione bianca e quella
meticcia del Nuovo Mondo continuarono a crescere, la popolazione indiana del
Messico, flagellata da terribili crisi epidemiche prima negli anni 1545-46 e poi
negli anni 1576-79, precipitò dagli 11.000.000 dei giorni della conquista – nel
1519 – a poco più di due milioni alla fine del secolo. È probabile che destino
analogo colpisse anche la popolazione del Perù. Dunque, la mano d'opera di cui
erano soliti avvalersi i coloni spagnoli si trovò ad essere terribilmente
ridotta di numero. Mancando un qualsiasi progetto incisivo di natura
tecnologica, quando si contraeva la mano d'opera, era chiaro che si doveva
contrarre anche l'economia. Infatti i grandi progetti di costruzioni furono
bruscamente arrestati e divenne sempre più difficile trovare mano d'opera per le
miniere, tanto più che i negri importati per sostituire gli indiani si
dimostrarono troppo vulnerabili a quelle stesse malattie che avevano spazzato
via la popolazione indigena. Inoltre, il problema dei rifornimenti alimentari
alle città poté allora essere affrontato solo riorganizzando drasticamente le
campagne. Fu allora che vennero creati vasti latifundios dove la mano
d'opera indiana poteva essere sfruttata più efficacemente che nei villaggi
indiani depauperati di braccia.
Il secolo che seguì la grande epidemia indiana degli anni 1576-79 è stato
chiamato «il secolo di depressione della Nuova Spagna»: fu cioè un secolo in cui
l'economia si contrasse e, per effetto di tale contrazione, il Nuovo Mondo si
chiuse in se stesso. Durante quel secolo il Nuovo Mondo ebbe poco da offrire
all'Europa: poté dare meno argento – perché si faceva sempre più dispendioso lo
sfruttamento delle miniere – e poté offrire minori prospettive agli emigranti e
cioè a quelle 800 o poco più persone (tra uomini e donne) che annualmente
nell'ultimo decennio del Cinquecento la flota proveniente da Siviglia
sbarcava in America. Ma se aveva poco da dare all'Europa, aveva anche poco da
chiedere o, per lo meno, aveva poco da chiedere alla Spagna. I prodotti di lusso
europei dovettero sostenere la concorrenza di quelli dell'Estremo Oriente
portati in America sul galeone di Manila. Tuttavia, dal punto di vista spagnolo,
un fatto ben più grave fu che nei possedimenti americani della Corona si
instaurasse un'economia pericolosamente simile a quella della madrepatria.
J. H. Elliott, La Spagna imperiale, 1469-1716, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 335-336.
Olanda e Francia oltremare
L'annessione del Portogallo alla Spagna (1580), chiudendo agli Olandesi il
porto di Lisbona, li aveva spinti a tentare la via dell'Oriente. La Compagnia
delle Indie Orientali, grazie all'ardimento e alla spregiudicatezza dei suoi
iniziatori, aveva fatto di Amsterdam il porto più importante nell'Europa del
primo Seicento. L'Olanda fondò scali, costituì empori, costruì fortezze, dando
vita a un lucroso commercio che in Oriente aveva il suo centro in Batavia, ora
Giacarta, la nuova città fondata nel 1619 nell'isola di Giava. Mentre
nell'oceano Indiano gli Olandesi soppiantavano la concorrenza portoghese, nel
mar dei Caraibi insidiavano il movimento delle navi spagnole, compivano largo
contrabbando di merci e di schiavi. Alcune basi olandesi vennero poste nelle
Antille, in Guinea, nel Brasile e a Nuova Amsterdam, la futura New York,
sull'Hudson.
A differenza della Spagna e del Portogallo, gli Olandesi svilupparono
enormemente la loro Marina mercantile commerciando per conto di terzi; nel
Seicento oltre metà delle navi europee appartenevano ad armatori fiamminghi.
L'accumulazione di ingenti ricchezze permise lo sviluppo della Banca di Cambio
di Amsterdam, che fornì capitali per il miglioramento dell'agricoltura, diede
vita a industrie specializzate di drappi, maioliche, lenti e diamanti. Ebrei
spagnoli e altri perseguitati per motivi religiosi trovarono nell'ospitale
Olanda nuove possibilità per iniziative economiche e contribuirono in cambio ad
accrescerne la prosperità. Solo nel corso del XVII secolo le varie guerre navali
con l'Inghilterra diminuirono l'importanza coloniale olandese.
La Francia, affacciata sull'Atlantico, sviluppò le sue attività coloniali in
maniera notevole solo alla fine del Seicento. Precedute dalle imprese dei
corsari di San Domingo, colonie francesi vere e proprie sorsero nelle Antille e
in Canada solo con la protezione di Colbert, che appoggiò pure lo stanziamento
di colonie lungo il Mississippi (Louisiana). Queste colonie non ebbero tuttavia
alimento da correnti migratorie e le imprese commerciali e industriali connesse,
promosse dall'alto, non trovarono uguale slancio nella nobiltà e nella borghesia
francesi, refrattarie al rischio e propense ai più sicuri investimenti terrieri.
Un segno più evidente di questo scarso impegno in campo coloniale lo si ha nel
Settecento. Mentre imprenditori privati francesi svilupparono al massimo la
produzione dello zucchero nelle Antille e altri privati della Compagnia delle
Indie conquistarono rapidamente la parte migliore dell'India, alla pace di
Aquisgrana (1748), di fronte all'Inghilterra, i negoziatori francesi
rinunciarono senza sforzo alle nuove conquiste; poi il governo, intraprendendo a
fianco dell'Austria la guerra dei Sette anni, mise a repentaglio l'intero Impero
coloniale, del quale nel 1763 non restarono che miseri resti. Mentre
l'Inghilterra s'era spinta a fondo nella guerra coloniale, i Francesi si
rassegnarono presto alle massicce perdite mostrando ancora una volta la loro
decadenza politica.
Lo riconosce anche uno storico inglese non sospetto, Macaulay, il quale
pure esalta la figura energica dell'inglese Robert Clive, cui si dovette la
conquista dell'India.
L'ignobile governo di Luigi XV aveva rovinato, direttamente o indirettamente, tutti i francesi che avevano servito con onore il paese in Oriente. Labourdonnais era stato gettato nella Bastiglia, e dopo anni di sofferenze ne uscì solo per morire. Dupleix, spogliato della sua immensa fortuna, col cuore spezzato dalle attese umilianti nelle anticamere, scese in una tomba ingloriosa. Lally fu trascinato al luogo di esecuzione comune con un morso tra le labbra. Mentre i Comuni d'Inghilterra trattarono in vita i loro ufficiali con quella giustizia illuminata che di rado si applica a viventi. Stabilirono principii generali molto giusti, indicarono con delicatezza dove (Clive) se ne era discostato; e temperarono la loro mite rampogna con generosa lode. Il contrasto colpì Voitaire, sempre parziale verso l'Inghilterra e desideroso di palesare le ingiustizie commesse dal Parlamento francese; sembra infatti che in questo periodo concepisse il disegno di scrivere una storia della conquista del Bengala. Ne fe' cenno al dottor Moore e Wedderburne si interessò molto alla cosa, chiedendo insistentemente a Clive di fornirgli i materiali.
T. Macaulay, La conquista dell'India, A. Mondadori, Milano 1958, p. 94.
Secondo lo storico inglese C. H. Wilson, inoltre, alla base della debolezza dell'impero coloniale francese stavano altri fattori. Per prima cosa egli mette in luce la difficoltà da parte della Francia di rifornirsi di schiavi, indispensabili nella lavorazione delle piantagioni di canna da zucchero delle Antille francesi. Inoltre sottolinea l'atteggiamento di notevole indifferenza con il quale la classe dirigente francese, fatta eccezione solo per il cardinale Fleury e per il ministro degli Esteri Choiseul, guardava alle colonie, delle quali sottovalutava l'importanza economica per il Paese. La Corona, preoccupata in via prioritaria di imporre la propria politica di potenza sul continente, trascurava di conseguenza qualsiasi coinvolgimento in conflitti che non avessero la preponderanza europea tra i loro principali obiettivi.
È dimostrato infatti che la Francia non riuscì a sostenere contemporaneamente le esportazioni, la marina mercantile, e il sistema creditizio necessario, elementi essenziali per far fluire senza scosse e senza interruzioni gli scambi fra la Francia e le sue colonie. In particolare le colonie francesi delle Indie occidentali, la cui economia era basata sullo zucchero, richiedevano forniture di schiavi, prodotti delle manifatture e derrate alimentari, che la Francia era meno ben attrezzata a fornire di quanto non fossero l'Inghilterra, l'Olanda o le colonie dell'America settentrionale. Data la mancanza di crediti sufficienti dalla Francia, le importazioni di manufatti francesi da parte delle colonie segnavano di tanto in tanto una battuta d'arresto; la scarsità del naviglio francese lasciava esposte al deterioramento grandi quantità di zucchero e indaco nelle Indie occidentali, mentre contemporaneamente partivano da Nantes navi zavorrate per mancanza di carico utile. Queste difficoltà si acuirono particolarmente durante la guerra di successione austriaca e la guerra dei sette anni, ma probabilmente erano il sintomo di uno squilibrio nella struttura stessa dell'economia francese, che in tutti i tempi incoraggiava i contrabbandieri (specialmente nelle Antille francesi) e in tempo di guerra lasciava introdursi gli onnipresenti armatori olandesi. La perenne carenza di schiavi per le piantagioni delle Indie occidentali francesi era un aspetto tutt'altro che secondario di questo squilibrio dell'economia coloniale francese. Ma era soprattutto in tempo di guerra che la debolezza della Francia sul mare si manifestava in tutta la sua evidenza: le radici di questa debolezza sul campo navale risalivano molto addietro nella storia francese e si trovavano nelle lunghe lotte dinastiche durante le quali l'accento era stato posto sulla guerra di terraferma, nonché nella relativa autosufficienza economica della Francia che aveva condotto all'indifferenza verso i problemi marittimi. Indifferenza e trascuratezza non assolute, né senza interruzioni (Choiseul si era battuto a fondo e non senza successo nel 1762 per conservare le colonie e le correnti di scambio idonee a sostenere la marina mercantile), ma non mancavano elementi di verità nell'osservazione del Raynal, alla fine del secolo, secondo cui dalla lunga storia di disfatte navali i governi francesi non avevano tratto insegnamento alcuno. L'unico rimedio stava nell'incoraggiare «il ramo mercantile della marina», l'unico che «potesse formare uomini adusi alle avversità climatiche, alle fatiche, ai pericoli delle tempeste». Un atto di navigazione avrebbe potuto essere meno adatto alle esigenze francesi che a quelle inglesi, ma sarebbe stato doveroso per la Francia disciplinare la materia in modo da consentire ai suoi sudditi di «dividere i benefici con gli svedesi, i danesi e gli olandesi, che invece vengono a prenderseli fin negli stessi porti francesi».
C. H. Wilson, Il traffico oceanico e lo sviluppo manifatturiero,
in Storia del mondo moderno, vol. VII: Il Vecchio Regime, 1713-1763,
Garzanti, Milano 1982, pp. 40-41.
Gli storici si sono chiesti in che modo il capitalismo commerciale, dapprima interessato alla sicurezza dei grandi traffici e allo sfruttamento delle risorse locali, abbia favorito anche il possesso territoriale, trasformandosi in dominazione coloniale. Tale evoluzione, presente nei domini coloniali spagnoli e portoghesi fin dalla metà del Cinquecento, diventa prevalente anche per i possedimenti d'oltre mare di Francia, Gran Bretagna e Olanda nella seconda metà del Seicento. Lo storico D. K. Fieldhouse, esaminando il caso olandese, ritiene che la prima ragione dell'espansione territoriale non sia stata la competizione tra Stati europei, ma piuttosto i rapporti tra questi e i poteri locali.
Lo sviluppo dei
domini territoriali olandesi a Ceylon e a Giava verso la fine del XVII secolo e
nel corso del XVIII fu un classico esempio di espansione dovuta ai rapporti tra
Europei e stati indigeni piuttosto che alla competizione tra paesi europei.
Intorno al 1667 gli Olandesi avevano sovranità soltanto sulle isole Banda, su
Amboyna e su una piccola regione intorno a Batavia. Si assicurarono un vero e
proprio controllo di Ceylon in seguito ai conflitti con il regno di Kandy, da
cui dipendeva l'isola. La compagnia olandese ereditò dai Portoghesi il controllo
della maggior parte dei porti e delle regioni in cui si produceva la cannella.
Non voleva di più: ma i suoi interessi non sarebbero stati minacciati solo se le
relazioni con Kandy fossero state soddisfacenti. Tra il 1739 e il 1765 le
controversie per il monopolio della cannella con il ragià sfociarono in una
guerra e nella conquista della capitale. Il ragià rimase sul trono come sovrano
nominale di Ceylon, ma gli fu imposto un tributo. La compagnia amministrava
quasi tutta l'isola, servendosi però, finché era possibile, di intermediari
indigeni. La ricompensa di questo nuovo potere politico fu una fornitura di
cannella che non costava niente.
Un processo analogo, seppur più complesso, portò alla completa occupazione di
Giava. Gli Olandesi avevano costruito la loro capitale a Batavia e controllavano
una piccola regione intorno ad essa: contavano sui trattati con i sultani locali
per la loro sicurezza e per il monopolio delle spezie a basso costo. I sovrani
più importanti, a Giava, erano i sultani di Bantam e di Macaran, la cui famiglia
si era assicurata la supremazia su quasi tutta l'isola. Nel 1646 gli Olandesi
strinsero alleanza con il Susuhunan Arnangkurat: trent'anni dopo il sultano
allora regnante li chiamò in aiuto contro Madura che minacciava la sua
supremazia. Gli Olandesi dovettero appoggiarlo per non perdere la loro posizione
di privilegio. Nello stesso tempo il sultano di Bantam, contrariamente ai
trattati, permise alle compagnie di Francia e d'Inghilterra di creare fattorie
nel suo territorio, nella speranza di assicurarsi terreni vicino a Batavia. Gli
Olandesi lo sconfissero e con un nuovo trattato firmato nel 1684 lo ridussero al
vassallaggio, assicurandosi il monopolio del suo commercio. Cosa più importante
ancora, aiutarono il Susuhunan e restituirono la posizione di supremazia
assoluta al suo successore. Ma nel 1697 questi dovette firmare un trattato che
fece di lui un fantoccio nelle mani degli Olandesi. Garantì alla compagnia il
controllo di diversi porti e il monopolio dell'esportazione di oppio e di
tessuti di cotone. Gli Olandesi acquistarono territori nel Preanger,
annettendosi Batavia, e poi nel Cheribon. Questi successi li costrinsero ad
assumere nuovi fardelli. Per difendere la dinastia di Macaran si impegnarono in
due guerre di successione tra il 1704 e il decennio 1720-29; l'intervento si
risolse in un'ulteriore espansione. Nel decennio 1740-49 si assicurarono il
controllo di tutte le regioni costiere di Giava: nell'isola non c'era ormai più
nessuno in grado di contrastare loro il passo.
D. K. Fieldhouse, Gli imperi coloniali del XVIII secolo, Mondadori, Milano 1967, p. 210.
La rivoluzione finanziaria inglese (1688-1756)
Il grande sviluppo del colonialismo che ebbe come motore trainante la nascita
del capitale commerciale richiedeva, per dare tutti i suoi frutti, una riforma
del sistema finanziario dello Stato. La presenza di numerosi intermediari senza
alcun controllo poteva distruggere quote di ricchezza senza alcun vantaggio per
il Paese, come era accaduto per la Spagna.
Perciò l'Inghilterra attuò un graduale processo di riforma del sistema
finanziario, che andò dal controllo statale delle dogane alla creazione del
Consiglio del Tesoro, fino al controllo della Banca d'Inghilterra.
Lo storico Braudel descrive la gradualità e, nello stesso tempo,
l'efficacia della riforma inglese.
L'Inghilterra del Settecento è riuscita nella sua politica di prestiti e meglio ancora in quella che P. G. M. Dickson ha chiamato la sua «rivoluzione finanziaria», un'espressione giusta in quanto applicata a una novità evidente, ma discutibile se si pensa alla lentezza di un processo avviato almeno a partire dal 1660, che si sviluppa verso il 1688 per compiersi finalmente solo all'inizio della Guerra dei Sette anni (1756-63). Ha dunque richiesto una lunga maturazione (quasi un secolo), circostanze favorevoli e inoltre un sostenuto sviluppo economico. Questa rivoluzione finanziaria, che sfocia in una trasformazione del credito pubblico, è stata possibile solo grazie a una profonda riorganizzazione preliminare delle finanze inglesi, di cui è chiaro il senso generale. Approssimativamente nel 1640 e ancora nel 1660 le finanze inglesi, nella loro struttura, assomigliano notevolmente alle finanze della Francia di quel tempo. Né da una parte, né dall'altra della Manica ci sono finanze pubbliche centralizzate, dipendenti unicamente dallo Stato. Troppe cose sono abbandonate all'iniziativa privata degli esattori d'imposte, che sono al tempo stesso i finanziatori autorizzati del re, finanzieri che hanno i loro propri affari e ufficiali che non sono alle dipendenze dello Stato in quanto hanno comprato la loro carica, senza contare un costante ricorso alla City di Londra, come il re di Francia ricorre, per parte sua, alla fedele città di Parigi. La riforma inglese, che è consistita nello sbarazzarsi degli intermediari che vivevano da parassiti alle spalle dello Stato, si è compiuta con discrezione e in modo continuato, senza tuttavia che sia visibile un qualsiasi filo conduttore. Le prime misure consistettero nel mettere sotto controllo dello Stato le dogane (1671) e, nel 1683, l'excise, un'imposta di consumo introdotta a imitazione dell'Olanda [...]. Nel nostro linguaggio attuale diremmo che è avvenuta a quel tempo una nazionalizzazione delle finanze, implicando in questo lento processo il controllo della Banca d'Inghilterra (un controllo instaurato solo verso la metà del Settecento, sebbene la Banca sia stata fondata nel 1694), e inoltre, a partire dal 1660, l'intervento decisivo del Parlamento nella votazione dei crediti e delle nuove imposte.
F. Braudel, I giochi dello scambio, Einaudi, Torino 1981, p. 532.
Le colonie americane dell'Inghilterra
Ancor prima dell'acquisto di basi in India (Madras, 1640; Bombay, 1661;
Calcutta, 1690) gli Inglesi esplorarono e fondarono qualche colonia sulle coste
dell'America settentrionale. La loro prima città fu Jamestown, l'origine della
colonia della Virginia, fondata nel 1607. Giunsero poi i puritani della
Mayflower, fondatori della colonia del Massachusetts (1620). Quindi numerosi
puritani diedero vita a Boston e alle città vicine, mentre altri coloni
fondavano il Rhode Island, il Maryland e la Carolina. Nel 1664 la colonia
olandese di Nuova Amsterdam, stanca del dispotismo imperante, si trasformò senza
opposizioni in New York, non appena tre navi da guerra inglesi giunsero davanti
al suo porto. Vent'anni più tardi il filantropo quacchero William Penn si
accinse a costituire la repubblica ideale della Pennsylvania, munito di patenti
regie. E poiché l'America poteva offrire vita prospera e ricca di speranze, una
forte corrente migratoria – spesso incoraggiata dall'insicurezza della vita
politica e religiosa nella madrepatria –mosse dall'Inghilterra al Nuovo Mondo.
Sorse così un nuovo popolo, dalla fusione di diversi ceppi, e un nuovo
territorio poco popolato richiamò dall'Europa gente disposta a profondervi
attività e coraggio. Alcuni storici rilevano la novità derivante agli Americani
dalla varietà della loro società: nelle colonie del Nord trasporti e attività
mercantili erano fonti di ricchezza e di nuove ideologie; numerosi erano gli
avvocati, i medici e gli altri professionisti; Boston aveva un movimento di ben
seicento navi, mentre le pescherie del Massachusetts rendevano oltre un milione
di sterline all'anno. Nelle colonie del Centro la maggior parte della
popolazione viveva di agricoltura (cereali e frutteti) e di allevamento, ma
mercanti e artigiani crescevano continuamente di numero: Filadelfia e New York
erano diventate grandi centri commerciali, abituati all'eleganza e nobilitati
dalla presenza di personalità della cultura come Franklin, Rush, Bartram; erano
numerosi anche i neri, ma inesistente la schiavitù. Nelle colonie del Sud
prevaleva una fisionomia rurale, caratterizzata dalle grandi tenute con schiere
di schiavi, case signorili e una vita spassosa: tre classi sociali erano ben
distinte, quella dei grandi piantatori, fra i quali emergevano capi abili (come
Washington), quella dei piccoli agricoltori e dei pochi commercianti, infine
quella degli schiavi, che rappresentavano circa la metà della popolazione (I. A.
Nevins -A. S. Commager, Storia degli Stati Uniti, Einaudi, Torino 1960,
pp. 30-38). Le colonie più interne, della frontiera, si erano costituite nel
Settecento, formate da gente rude, semplice e coraggiosa, più tipicamente
americana. Vivevano isolate, tra una natura selvaggia e l'ostilità degli
Indiani, temprate alla vigilanza e pronte al reciproco appoggio.
Negli ideali di questa rude gente di frontiera Turner ha voluto riconoscere la
base della storia successiva degli Stati Uniti.
La nazione si formò
con gli ideali dei pionieri. Durante i tre secoli che seguirono il primo colpo
di scure del capitano John Smith nella foresta americana al limite orientale del
continente, i pionieri abbandonarono la società per la terra selvaggia, sempre
in cerca, una generazione dopo l'altra, di nuove frontiere. La loro esperienza
lasciò influssi durevoli sulle idee e sulle mete della nazione. In verità le più
vecchie regioni colonizzate furono modellate profondamente dal moto dei pionieri
che scosse e trascinò tutta la nazione, e allo sviluppo del West l'Est ha
partecipato intensamente. Il primo ideale del pioniere fu la conquista. Doveva
assolutamente combattere con la natura per sopravvivere. Questa lotta non si
svolse, come in altri paesi, in un mitico passato, celebrato nei canti popolari
ed epici. È stata continua fino ai nostri giorni. Di fronte a ogni nuova
generazione di pionieri era il continente indomato [...].
Infiammato dall'ideale di sottomettere il deserto, il pioniere
distruttore si apriva la strada attraverso il continente, imperioso e rovinoso,
preparava la via cogliendo ciò che si trovava immediatamente a portata di mano e
godeva del rude vigore e delle imprese ostinate Questa ricerca dell'ignoto,
questo desiderio ardente di spingersi «oltre la linea dell'orizzonte, dove
scendono strade sconosciute», appartiene allo spirito del pioniere dei grandi
boschi, anche se egli era inconsapevole del suo significato spirituale.
Il pioniere era cresciuto alla scuola dell'esperienza e aveva appreso che i
raccolti di un'area non erano buoni per una nuova frontiera; che la falce delle
radure doveva essere sostituita dalla mietitrice delle praterie.
Era costretto a servirsi dei vecchi utensili e attrezzi per nuovi usi, a dar
forma alle vecchie abitudini, istituzioni e idee, inserendole nelle mutate
condizioni, a cercare nuovi mezzi quando i vecchi si dimostravano disadatti.
Costruiva una nuova società rompendo nuovo suolo; aveva l'ideale del non
conformismo e del mutamento. Si ribellava alle convenzioni. Oltre gli ideali di
conquista e di scoperte, il pioniere aveva quello dello sviluppo della
personalità, libero da vincoli sociali e pubblici. Veniva da una società fondata
sulla concorrenza individuale e portava con sé tale concezione nelle terre
selvagge dove una nuova visione gli era aperta dalla ricchezza delle risorse e
dalle innumerevoli occasioni che gli si presentavano.
F. J. Turner, La frontiera nella storia americana, Il Mulino, Bologna 1959, pp. 209-210 passim.
Le colonie inglesi d'America, a differenza di quelle francesi e spagnole,
potevano eleggere assemblee popolari e costituire, accanto al governatore, veri
e propri governi locali; acquistarono così una mentalità ed esperienza politica.
Nonostante poi la loro diversità, esse erano unite da elementi comuni: la
lingua, lo spirito di tolleranza religiosa, l'intraprendenza individualistica.
Così scrivono Nevins e Commager, autori della Storia degli Stati
Uniti.
Già nel periodo
coloniale si hanno radicate anche due idee fondamentalmente americane. Luna era
quella della democrazia, nel senso che tutti godono su per giù d'una stessa
eguaglianza di opportunità. Per giovarsi di tale opportunità per sé, e più
ancora per i figli, intere schiere di coloni erano venute nel Nuovo Mondo. Essi
speravano di stabilire una società in cui ogni uomo avesse, non soltanto
speranze, ma buone probabilità di successo e potesse salire dal fondo della
scala sociale fino al sommo. Questa aspirazione verso un'eguaglianza di
opportunità doveva provocare sempre maggiori mutamenti nella struttura sociale
dell'America, abbattendo ogni sorta di privilegi.
L'altra idea fondamentale fu il sentimento che uno speciale destino fosse
riservato al popolo americano e che questo avesse davanti a sé un destino che
nessun altro popolo avrebbe potuto attuare. Generale ricchezza e vigore di
popolo in un'atmosfera di libertà davano agli americani un fresco e vivace
ottimismo e un'aggressiva fiducia in se stessi.
A. Nevins - A. S. Commager, Storia degli Stati Uniti, Einaudi, Torino 1960,p. 71.
Nelle colonie spagnole vigeva invece un rigido assolutismo e una dura
intolleranza; mancavano gli istituti rappresentativi, mancava un'attività di
industria e di commercio, mentre vigeva lo sfruttamento più brutale del suolo,
delle miniere e degli indios.
I Francesi in America erano più numerosi in Canada, ma scarsi nella Louisiana,
dediti per lo più ad attività di caccia (animali da pelliccia), retti in maniera
dispotica dai regi governatori. Lo scontro tra i Franco-spagnoli e gli Inglesi,
connesso alle guerre europee, divenne alla fine inevitabile e durò con qualche
pausa dall'inizio del secolo XVII al 1763.1 Francesi disponevano di buone
posizioni strategiche e di potenti eserciti, ma gli Inglesi erano quindici volte
più numerosi e compatti, possedevano una flotta migliore, capace di rifornire
regolarmente le loro truppe e di assediare Québec per via d'acqua; avevano
inoltre valenti comandanti, affiancati da ufficiali coloniali che assursero ad
alta distinzione (Washington, Lyman, Bradstreet). Così dopo assedi, battaglie
campali, orribili incursioni di Indiani, alternanza di vittorie e di sconfitte,
l'Inghilterra ottenne l'intero Canada dalla Francia e la Florida dalla Spagna.
Negli stessi anni i Francesi venivano cacciati dall'America del Nord e
dall'India, fatto questo di grande importanza nella storia del
mondo.
La Compagnia delle Indie, strumento della penetrazione inglese in Asia
La Compagnia Inglese delle Indie Orientali fu costituita nel 1600, ma, a differenza di quella Olandese, non ebbe potere di conquiste territoriali, anche se era abilitata a esercitare la forza per la tutela dei suoi interessi. Solo lentamente il suo potere si andò estendendo, riuscendo, alla fine del secolo, ad avere postazioni fortificate in India. Questo fatto, descritto dallo storico P. D. Curtin, mette in rilievo le analogie e le differenze esistenti tra i vari Stati europei a proposito della costruzione dei loro strumenti di dominio e di espansione coloniale.
Agli inizi del decennio 1590-1600, la comunità commerciale inglese aveva le stesse possibilità di quella olandese, e quasi le stesse informazioni sul commercio asiatico. Conoscendo la debolezza portoghese nelle Isole delle Spezie, essa vide la sua più grande occasione nell'Indonesia orientale. Ma la Compagnia inglese delle Indie orientali (English East India Company), costituita nel 1600, si trovò a operare in differenti condizioni interne. Il suo statuto le dava il monopolio su tutto il commercio inglese a oriente del Capo di Buona Speranza, insieme al diritto di esercitare la forza; ma la somiglianza finiva qui, poiché la Compagnia non fu sottoposta al controllo dello Stato. [...] Il suo capitale, che agli inizi equivaleva a circa 1/10 del capitale della rivale olandese, veniva raccolto dagli azionisti ad ogni singola partenza, e restituito con l'eventuale profitto alla fine del viaggio. In tal modo la Compagnia fu privata della possibilità di fare conquiste militari. Dopo il 1613, il capitale venne sottoscritto per un periodo di 3 o 4 anni, ma fino al 1657 la Compagnia non ebbe un fondo di dotazione permanente. Per questo la conquista di postazioni commerciali fortificate come Goa o Batavia rimase del tutto fuori questione, anche se la Compagnia creò dei fondaci a terra per gestire i suoi affari africani tra un viaggio e l'altro. In effetti, fino al 1669, quando la Corona inglese acquistò Bombay dai Portoghesi e la cedette alla Compagnia, questa non ebbe alcun territorio sotto la propria sovranità.
P. D. Curtin, Mercanti. Commercio e cultura dall'antichità al XIX secolo, Laterza, Bari 1988.
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