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L'EUROPA TRA IMPERIALISMO E
SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

 

 

FONTI

 

L'imperialismo coloniale francese

La Terza Repubblica francese, sorta nel 1875 dalle ceneri del Secondo Impero, dovette preoccuparsi di rompere l'isolamento (e quindi l'accerchiamento) diplomatico nel quale l'aveva costretta l'abile strategia bismarckiana. Lo statista tedesco infatti cercava con ogni mezzo di scongiurare la ripresa della potenza francese, della quale temeva la volontà di rivincita. Non potendo trovare sfogo nello scacchiere europeo, la Francia scelse la via dell'espansionismo coloniale, concepito come affermazione della superiorità etnica e culturale della civiltà francese. Un tipico esponente di questo filone di pensiero fu il primo ministro francese jules Ferry, a capo del governo di Parigi dal. 1879 al 1885, che giustificò le sue scelte politiche e militari con il, ricorso a un'ideologia dichiaratamente nazionalistica. Il riferimento all'orgoglio nazionale francese, in un contesto storico in cui esso era stato umiliato dalla disfatta subita dai Tedeschi, servì a sostenere le ragioni di un'espansione costante e a mantenere viva nell'opinione pubblica la volontà di arrivare a uno scontro diretto e risolutivo con l'avversario di sempre, cioè la Germania.
Una caratteristica peculiare del nazionalismo imperialistico francese fu, accanto all'orgoglio patriottico, un chiaro sentimento razzista: gli eredi della Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789 consideravano le popolazioni africane alla stregua di merce umana da ridurre in condizioni di schiavitù. Il testo che segue, illuminante a questo proposito, proviene da un discorso pronunciato da Ferry nell'Assemblea Nazionale francese nel 1880.

JULES FERRY — Voi non cessate di citarci come esempio, come tipo della politica coloniale da Voi preferita ed auspicata, la spedizione del Signor di Brazzà. Benissimo, Signori, so perfettamente che il Signor di Brazzà ha finora potuto adempiere la sua opera civilizzatrice senza dover ricorrere alla forza; egli è un apostolo, si espone al pericolo, avanza verso una meta eccelsa e assai lontana; ha conquistato sulle popolazioni dell'Africa equatoriale un'influenza personale senza pari; ma chi ci può assicurare che un giorno, nelle colonie da lui fondate, che sono state testé consacrate dall'areopago europeo e su cui è stata solennemente riconosciuta la sovranità della Francia, chi può ga- rantire che, a un dato momento, le popolazioni di razza negra, qualche volta corrotte, pervertite da avventurieri oppure da altri viaggiatori, da altri esploratori meno scrupolosi, meno paterni, meno convinti fautori dei mezzi persuasivi di quanto non lo sia il nostro illustre Brazzà; chi può dire che, ad un dato momento, le popolazioni indigene non abbiano ad assalire le nostre colonie? Cosa farete allora? Non Vi comporterete diversamente da tutti gli altri popoli civili e non sarete per questo meno civili; resisterete opponendo la forza alla forza e Vi vedrete costretti ad imporre, a quelle popolazioni primitive ribelli, il Vostro protettorato, per garantire la Vostra sicurezza. Signori, occorre avere il coraggio di parlare a voce alta e più sinceramente. Bisogna affermare apertamente che le razze superiori hanno effettivamente dei diritti nei confronti di quelle inferiori... (Rumori da parecchi banchi dell'estrema sinistra).
ON. JULES MAIGNE — Come potete osare esprimerVi in tal modo nel Paese in cui furono solennemente proclamati i diritti dell'uomo?
ON. DE GUILLOTET — Quanto afferma l'On. Ferry non è altro che una giustificazione della schiavitù e della tratta dei negri!
JULES FERRY — Se l'On. Maigne ha ragione, se la dichiarazione dei diritti dell'uomo fu redatta anche per i negri dell'Africa equatoriale, allora in base a quale diritto potrete imporre loro gli scambi e i traffici? Essi non Vi chiamano... (Interruzioni all'estrema sinistra e a destra. "Beníssimo! Benissimo! Benissimo!" da diversi banchi a sinistra.) [...].
Ripeto che compete alle razze superiori un diritto, cui fa riscontro un dovere che loro incombe: quello di civilizzare le razze inferiori... (Segni di approvazione dagli stessi banchi a sinistra, nuove interruzioni all'estrema sinistra e a destra.) [...]
Affermo che la politica coloniale della Francia, la politica d'espansione coloniale, quella che, sotto il regime imperiale, ci ha portati a Saigon e in Cocincina, che successivamente ci ha condotti in Tunisia e nel Madagascar – affermo che questa politica di espansione coloniale si è ispi- rata a una verità sulla quale ritengo opportuno attirare per un momento la Vostra attenzione: vale a dire che una Marina come la nostra non può rinunciare ad avere sui mari dei solidi porti di rifugio, difese, centri di rifornimento. ("Benissimo! Benissimo!" e numerosi applausi a sinistra e al centro.) Potete forse ignorarlo, Signori? Consultate il mappamondo e ditemi se gli scali dell'Indocina, del Madagascar, della Tunisia non costituiscono degli scali necessari alla sicurezza della nostra navigazione. (Nuovi segni di consenso a sinistra e al centro).
Signori, nell'Europa quale è attualmente costituita, in questa concorrenza di tanti Stati rivali che vediamo ingrandirsi intorno a noi, gli uni grazie al perfezionamento dei mezzi militari o marittimi di cui dispongono, gli altri per il prodigioso sviluppo di una popolazione in continuo aumento, in una Europa, o meglio in un mondo così costituito, una politica di raccoglimento o d'astensione rappresenta semplicemente la strada maestra della decadenza! Le Nazioni, al tempo nostro, non sono grandi che per l'attività che svolgono; al giorno d'oggi la loro grandezza non è dovuta al pacifico splendore delle istituzioni... (Interruzioni all'estrema sinistra e a destra).

J. Ferry, in H. Brunscnwig, Miti e realtà dell'imperialismo coloniale francese. 1871-1914, Cappelli, Bologna 1964, pp. 104-108.

 

Una "voce fuori dal coro": il leader liberale inglese William Gladstone

Mentre l'intera classe dirigente europea si lasciava coinvolgere nella pericolosa spirale del nazionalismo, non mancarono le "voci fuori dal coro", che cercarono di mettere in guardia circa i rischi e le contraddizioni derivanti dall'adozione di strategie imperialistiche. Una di esse fu quella dell'esponente liberale inglese William Gladstone, più volte a capo del governo di Londra, che si oppose alle scelte del suo antagonista, e allora primo ministro, Benjamin Disraeli al Congresso di Berlino del 1878. Convinto liberale, Gladstone comprendeva che era in atto un chiaro stravolgimento dell'idea di nazione: tale principio, radicato nella cultura politica ottocentesca come garanzia di libertà, di autodeterminazione, di giustizia per individui e popoli, si stava trasformando nella versione degenerata del nazionalismo. Quest'ultimo, a sua volta, si presentava come un'ideologia aggressiva, venata di connotazioni razziste e utilizzata per creare una retorica della grandezza della patria, destinata a giustificare una politica di potenza. In questo modo erano poste le premesse per la spartizione del mondo e per l'occupazione coloniale, quasi sempre accompagnata dalla sistematica violazione dei diritti delle popolazioni sottomesse. Gladstone in particolare biasimava l'atteggiamento tenuto dal governo inglese al Congresso di Berlino: il primo ministro Disraeli, pur di garantirsi appoggi diplomatici in vista di un'ulteriore espansione in Africa e in Asia (all'Inghilterra premeva la conquista del Sudan e della Birmania), aveva avallato la spartizione della regione balcanica fra Austria-Ungheria e Russia, accettando la politica delle compensazioni territoriali elaborata da Bismarck. Tale scelta, secondo Gladstone, era in palese contraddizione con la più autentica tradizione liberale inglese e con la tradizionale politica estera di Londra, da sempre favorevole alle cause nazionali e all'autodeterminazione dei popoli. Egli inoltre individuava in questa deriva imperialista i rischi connessi alle ulteriori occasioni di attrito fra potenze che non sarebbero fatalmente mancati.

L'onore spettante alla recente politica britannica è questo: che dall'inizio del congresso (di Berlino) fino alla fine, i rappresentanti dell'Inghilterra, invece di prendere le parti della libertà, dell'emancipazione e del progresso nazionale, hanno preso [...] le parti della servitù, della reazione e della barbarie. Con uno zelo degno di miglior causa, essi si sono adoperati per ridurre i limiti entro cui le popolazioni della Turchia europea devono essere padrone del loro destino; per mantenere quanto potevano del dominio turco; per indebolire quanto potevano i limiti posti a tale dominio. Né questo fu fatto soltanto per porre un freno o controbilanciare l'influenza della Russia, giacché, a quanto risulta, essi hanno fatto di più di qualsiasi altra potenza per aiutare la Russia a spogliare la Romania del suo territorio della Bessarabia; ed hanno operato energicamente contro la Grecia, che rappresentava l'unica forza viva anti-russa del Levante. [...] L'onore che il governo ci ha procurato a Berlino è quello di aver usato il nome, l'influenza e anche, per i suoi preparativi, il potere militare dell'Inghilterra, per applicare i princìpi di Metternich e scalzare i principi di Canning. Noi, che abbiamo aiutato il Belgio, la Spagna e il Portogallo a diventare liberi, che abbiamo diretto la politica che portò allo stabilimento della libera Grecia, e abbiamo dato un appoggio considerevole alla liberazione e unificazione dell'Italia, ci siamo attivamente dati da fare a Berlino per li- mitare dovunque l'area dell'autogoverno e per salvare quanto era possibile dal naufragio una dominazione che ha contribuito più di qualsiasi altra che sia mai esistita alla miseria, all'oppressione e allo sterminio dell'umanità. [...] Nessun governo, in questo paese, è mai stato punito per aver condotto una politica "vigorosa" ossia una politica angusta, agitata, clamorosa e impegnata alla soddisfazione dell'amor proprio nazionale. [...] Una politica estera vigorosa presenta tutti i vantaggi di una buona e pratica speculazione politica. In primo luogo, con l'indurre lo spirito pubblico a una eccitazione più forte, provoca una relativa indifferenza riguardo ai particolari più noiosi dell'opera legislativa e copre abilmente tutte le deficienze interne. [...] In secondo luogo, invece di appoggiarsi al modo di vedere di un partito, una politica estera "vigorosa" esprime quelle che presumibilmente sono le rivendicazioni e gli interessi della nazione e sparge così un alone intorno ai suoi atti. In terzo luogo, appellandosi così all'amor proprio e all'orgoglio nazionale, è praticamente sicura di estendere per un certo tempo la sua influenza oltre l'ambito dei suoi seguaci più convinti e di ottenere l'appoggio di tutti quei buoni cittadini che dal loggione o altrove applaudiscono i versi: "Me thought upon one pair of English legs/Did march three Frenchmen". ("Mi pareva che su un solo paio di gambe inglesi marciassero tre francesi"). Infine, e questo argomento conta più di tutti gli altri, poiché i rappresentanti dell'Inghilterra si trovano a sostenere la sua grandezza, ne segue che essi sono in grado di mettere subito tutti gli oppositori nella categoria di quanti vogliono una piccola Inghilterra. Tutti coloro che non intendono prestarsi a tale manovra [...] sono subito condannati [...] come uomini che antepongono il loro partito al loro paese, come amici dello straniero, come cospiratori contro la grandezza dell'Impero. [...]
L'ingrandimento territoriale, appoggiato da uno spiegamento di forze militari, è il cavallo di battaglia del governo. L'Impero è grandezza; l'estensione territoriale è impero; la vostra salvezza dipende dal timore che ispirate in altre nazioni; il commercio segue la bandiera; colui che dubita è un nemico del suo paese.

W. E. Gladstone, La missione dell'Inghilterra, in Liberali vittoriani, a c. di O. Barié, Il Mulino Bologna 1961, pp. 197-198.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

L'imperialismo nella storiografia e nelle teorie politiche

Il dibattito storiografico sulle cause, sulla natura e sull'estensione cronologica dell'imperialismo è tuttora aperto e concentrato su due questioni nodali: la relazione tra imperialismo e colonialismo e tra imperialismo e modificazioni strutturali del capitalismo di fine Ottocento. Rispetto alla prima questione è necessario tener presente la distinzione tra il colonialismo dell'età moderna (1500-1700), che fu soprattutto un fenomeno di natura commerciale, e il colonialismo dell'Ottocento, che fu un disegno di assoggettamento politico e sfruttamento economico in cui è stata presente l'iniziativa diretta dello Stato. Conquista di materie prime e di sbocchi commerciali costituirono gli obiettivi della nuova espansione coloniale, le cui cause economiche sono individuabili nelle seguenti condizioni: la svolta protezionistica attuata dagli Stati europei dopo il 1870, che chiuse i mercati agli altri Paesi capitalistici, possibili concorrenti, imponendo la ricerca di nuovi sbocchi; la disponibilità di capitali finanziari costituiti da un'integrazione tra capitale industriale e capitale bancario, suscettibili di investimenti ad alto profitto; la nascita di concentrazioni industriali e di monopoli in grado di diminuire i costi di produzione e di fissare i prezzi di mercato. L'integrazione tra banche e imprese era caratterizzata, da un lato, dal fatto che sempre più spesso le grandi banche controllavano quote rilevanti di azioni delle industrie e, dall'altro lato, dal fatto che i più grandi industriali erano membri dei consigli d'amministrazione delle banche. Questo rapporto di compenetrazione favoriva, evidentemente, un'iniziativa comune, spingendo verso una politica di investimenti a largo raggio, in territori dove non esistevano vincoli protezionistici e dove si supponeva, nello stesso tempo, l'esistenza di risorse non ancora utilizzate. Anche le concentrazioni economiche di tipo finanziario come le holdings, o di tipo industriale come i trusts, erano interessate a una politica di espansione imperialistica. Da qui deriva l'espressione "capitale monopolistico", per indicare una fase dello sviluppo capitalistico caratterizzata, appunto, dal fenomeno della concentrazione economica a vari livelli. In questo contesto, tra il 1870 e lo scoppio della prima guerra mondiale, si è verificata la spartizione quasi completa dell'Africa tra gli Stati europei, nonché l'occupazione di vasti territori dell'Asia a cui parteciparono anche gli Stati Uniti e il Giappone. Altri Stati, come la Cina, la Persia, l'Impero ottomano, caddero sotto l'influenza europea.
Un fenomeno di così vaste proporzioni, capace di sconvolgere tradizionali equilibri, non poteva non essere oggetto di numerose ricerche e di varie teorie interpretative: quella marxista, la socialdemocratica, la liberale e l'interpretazione fondata sulla ragion di Stato.

Tra i marxisti ricordiamo: Rosa Luxemburg, rappresentante della Sinistra tedesca all'inizio del Novecento; Lenin, esponente del Partito bolscevico russo e guida della Rivoluzione del 1917; Baran e Sweezy, neomarxisti americani del secondo dopoguerra, studiosi del fenomeno del sottosviluppo e del neocolonialismo.
Nelle opere di Marx non si trova una specifica teoria dell'imperialismo, ma un'analisi del capitalismo e delle sue interne contraddizioni, nonché un esame delle condizioni dell'India durante la dominazione inglese. I marxisti hanno preso pertanto le mosse dalla sua analisi e, pur in modo differente l'uno dall'altro, hanno interpretato l'imperialismo in stretta connessione con le trasformazioni strutturali del capitalismo. Rosa Luxemburg ha sviluppato la cosiddetta teoria del sottoconsumo, che si fonda sull'idea che il mercato interno di un Paese capitalistico è insufficiente ad assorbire la produzione, dato il basso livello dei salari dei lavoratori, per cui è necessario un mercato estero dove collocare la merce che non si riesce a vendere in patria. Da qui derivano i conflitti tra gli Stati capitalistici, per la conquista dei mercati, nonché i rischi di guerra.
Lenin invece spiega l'imperialismo con il concetto di capitale finanziario che tende ad assicurarsi il controllo delle materie prime e dei mercati su scala mondiale. Man mano che il potere economico si concentra, come capitale finanziario e capitale monopolistico, aumenta il suo potere di controllo sui governi degli Stati, fino al punto in cui la politica è del tutto determinata dai suoi interessi. I conflitti tra gli Stati sono allora inevitabili, come inevitabile è la guerra che aprirà la possibilità della Rivoluzione socialista.
Baran e Sweezy hanno elaborato la loro teoria in un'epoca diversa, dopo la seconda guerra mondiale, quando era in atto il processo di decolonizzazione ed era andato emergendo il ruolo degli Stati Uniti come potenza mondiale. Essi sostengono che il principale motore dell'imperialismo è il capitale monopolistico in cui il surplus (l'eccedenza, il profitto non consumato) viene investito in spese militari che sono utili per due motivi: perché impiegano manodopera che sarebbe altrimenti improduttiva e perché favoriscono lo sviluppo tecnologico.

La tesi socialdemocratica si fonda sia sulla denuncia del nesso organico tra imperialismo e capitalismo, sia sulla fiducia in riforme democratiche che possono correggere le tendenze imperialistiche presenti negli Stati e promosse da diversi gruppi sociali. Il più noto esponente di questa teoria è J. A. Hobson, autore di un'opera sull'imperialismo pubblicata in Inghilterra nel 1902, letta e commentata anche da Lenin. Egli identifica l'origine dell'imperialismo nel sottoconsumo: i capitalisti cercano nuovi mercati di sbocco per la produzione che non trova in patria sufficienti consumatori. Da qui deriva la necessità di riforme sociali che, aumentando i salari e incrementando la spesa pubblica, permettano il graduale assorbimento della produzione, senza bisogno dunque di cercare nuovi mercati, ed eliminando la spinta imperialistica. Rientra nell'area socialdemocratica anche la tesi di R. Hilferding, che in un'opera del 1910 stabilì una connessione tra imperialismo e capitale finanziario, senza però dedurre da questo nesso l'inevitabilità della guerra scatenata dai conflitti imperialistici tra gli Stati. Nel secondo dopoguerra in Germania è stata elaborata da Hans-Ulrich Weheler una tesi esplicativa dell'imperialismo tedesco come il risultato dell'alleanza tra industria pesante e casta nobiliare, costituita dagli alti ufficiali dell'esercito e dalla burocrazia.

L'impostazione marxista è completamente rovesciata da J. A. Schumpeter, studioso americano liberale, autore di un saggio pubblicato nel 1919. Egli ritiene che l'imperialismo sia il prodotto di condizioni politiche, culturali e sociali precapitalistiche, che lo sviluppo capitalistico non è riuscito ancora a eliminare. Il capitalismo, per sua natura, tende a neutralizzare gli atteggiamenti aggressivi, essendo questi irrazionali e contrari alla libera competizione economica. L'imperialismo è piuttosto il risultato di passioni nazionalistiche, diffuse in Europa come retaggio storico di lotte plurisecolari condotte fra gli Stati. Sono, in definitiva, le caste militari feudali e ampi settori delle burocrazie governative i diretti responsabili dell'imperialismo. Quest'ultimo aspetto presenta un punto di convergenza con la tesi di Weheler; è, tuttavia, ben diverso il giudizio che entrambi danno del capitalismo, che, per Schumpeter, è del tutto estraneo a qualunque politica di carattere imperiatistico.

Un altro filone interpretativo è identificabile nelle correnti di pensiero che fanno riferimento alla teoria della ragion di Stato, in modo particolare alla dottrina tedesca dello Stato-potenza (Paul Rohrbach, Max Weber, Otto Hintze, Hermann Schumacher) e alla corrente federalista (Lionel Robbins, Luigi Einaudi, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Mario Albertina). Secondo questa tesi la politica estera di uno Stato è indipendente dalla politica interna, e quindi dalla sua struttura economico-sociale. L'imperialismo ha dunque una radice essenzialmente politica, dipende dal carattere anarchico delle relazioni internazionali dominate dalla legge della forza. Il potere degli Stati si distribuisce in proporzione alla forza di cui dispongono e questo si traduce inevitabilmente in un assoggettamento dei più deboli da parte dei più forti e in uno sfruttamento economico a favore di questi ultimi. Ogni Stato dunque è portato incessantemente, per esigenze di sicurezza, a rafforzare la propria potenza anche attraverso conquiste territoriali ogni volta che se ne presenti l'opportunità. In questa situazione l'unico modo per eliminare l'imperialismo e le guerre da esso alimentate è il superamento dell'anarchia internazionale per mezzo di una Federazione Mondiale di Stati, che sostituisca alla politica di potenza la protezione giuridica dell'indipendenza di tutti.

 

La tesi marxista

In campo marxista una delle tesi più note è quella di Lenin, che pubblicò a Zurigo il saggio L'imperialismo fase suprema del capitalismo, nel 1916, ristampato a Pietrogrado nel 1917, l'anno stesso della Rivoluzione russa. La fama di quest'opera è anche legata al periodo in cui uscì: in piena guerra mondiale e nel corso della prima Rivoluzione socialista. Sembrò che i fatti stessi dessero ragione alla tesi leninista: la guerra come inevitabile conseguenza dell'imperialismo e come occasione per la Rivoluzione socialista.

Dobbiamo ormai tentare di sintetizzare quanto sin qui abbiamo detto intorno all'imperialismo e di concludere. L'imperialismo sorse dall'evoluzione e in diretta continuazione delle qualità fondamentali del capitalismo in generale. Ma il capitalismo divenne imperialismo capitalistico soltanto a un determinato ed assai alto grado del suo sviluppo, allorché alcune qualità fondamentali del capitalismo cominciarono a mutarsi nel loro opposto, quando pienamente si affermarono e si rivelarono i sintomi del trapasso ad un più elevato ordinamento economico e sociale.
In questo processo vi è di fondamentale, nei rapporti economici, la sostituzione dei monopoli capitalistici alla libera concorrenza. La libera concorrenza è l'elemento essenziale del capitalismo e della produzione mercantile in generale; il monopolio è il diretto contrapposto della libera concorrenza. Ma fu proprio quest'ultima che cominciò sotto i nostri occhi a trasformarsi in monopolio creando la grande produzione, eliminando la piccola industria, sostituendo alle grandi fabbriche altre ancor più grandi, spingendo tanto oltre la concentrazione della produzione e del capitale che da essa sorgeva e sorge il monopolio, cioè i cartelli, [...], i trust, fusi con il capitale di un piccolo gruppo di una decina di banche che manovrano miliardi. Nello stesso tempo i monopoli, sorgendo dalla libera concorrenza, non la eliminano, ma esistono con essa e al disopra di essa, originando così una serie di aspre e violente contraddizioni, attriti e conflitti. Il sistema dei monopoli è il passaggio dal capitalismo ad un ordinamento superiore. Se si volesse dare la più concisa definizione possibile dell'imperialismo, si dovrebbe dire che l'imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo. Tale definizione conterrebbe l'essenziale, giacché da un lato il capitale finanziario è il capitale bancario delle poche grandi banche monopolistiche, fuso col capitale delle unioni monopolistiche industriali, e d'altro lato la ripartizione del mondo significa passaggio dalla politica coloniale, estendentesi senza ostacoli ai territori non ancor dominati da nessuna potenza capitalistica, alla politica coloniale del possesso monopolistico della superficie terrestre definitivamente ripartita.

V. I. Lenin, L'imperialismo fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 160-161.

La tesi marxista della relazione tra capitalismo e imperialismo è ripresa oggi dallo storico inglese E. Hobsbawm, che mette in luce le condizioni economiche europee dell'ultimo Ottocento. Queste furono caratterizzate da una diminuzione generalizzata dei prezzi, che rovinò i piccoli produttori, incentivando la concentrazione delle imprese, e da un costante aumento della capacità produttiva del sistema industriale legato all'innovazione tecnologica e a un mercato interno che non riusciva ad assorbire la sovrapproduzione. Protezionismo doganale e investimenti di capitali all'estero furono le scelte governative indotte da questa situazione, in cui si produceva di più, ma si guadagnava di meno. Hobsbawm descrive in questo modo lo stato dell'economia.

L'agricoltura fu la vittima più vistosa di questo calo dei guadagni; alcune sue branche costituivano in effetti il settore più depresso dell'economia, e quello in cui il malcontento aveva le conseguenze sociali e politiche più immediate e di più vasta portata. La produzione agricola, enormemente cresciuta nei decenni precedenti, inondava adesso i mercati mondiali, finora protetti dalla massiccia concorrenza straniera grazie agli alti costi di trasporto. Le conseguenze per i prezzi agricoli furono drammatiche, sia nell'agricoltura europea sia nelle economie esportatrici d'oltre oceano. Nel 1894 il prezzo del grano era sceso a poco più di un terzo rispetto al 1867; cosa molto vantaggiosa per gli acquirenti, ma disastrosa per gli agricoltori, che costituivano ancora il 40-50 per cento della popolazione lavoratrice maschile nei paesi industriali (con la sola eccezione della Gran Bretagna) e fino al 90 per cento negli altri. In alcune regioni la situazione fu aggravata dalla coincidenza con altri flagelli, quali le devastazioni causate dalla fillossera dopo il 1872, che fra il 1875 e il 1889 ridussero di due terzi la produzione vinicola francese. In qualsiasi paese legato al mercato mondiale, fare il contadino nei decenni di crisi era un pessimo affare. La reazione degli agricoltori, a seconda della ricchezza e della struttura politica dei rispettivi paesi, andò dalle agitazioni elettorali alla rivolta, per non parlare di chi moriva di fame, come in Russia nel 1891-92. Il populismo che dilagò negli Stati Uniti negli anni 1890 aveva il suo centro nelle terre cerealicole del Kansas e del Nebraska. Fra il 1879 e il 1894 vi furono rivolte contadine, o agitazioni trattate come tali, in Irlanda, Spagna, Sicilia e Romania. Paesi che non dovevano più preoccuparsi delle classi contadine, perché queste erano scomparse, poterono lasciar atrofizzare la loro agricoltura: come l'Inghilterra, dove due terzi della superficie coltivata a grano disparvero fra il 1875 e il 1895. Alcuni, come la Danimarca, modernizzarono deliberatamente la propria agricoltura, dedicandosi a redditizi prodotti animali. Altri governi, come in misura notevole quello tedesco, ma soprattutto quelli francese e americano, preferirono le tariffe, che tenevano alti i prezzi.

E. Hobsbawm, L'età degli imperi (18751914), Laterza, Bari 1987, pp. 42-43.

La preoccupazione più grande degli uomini d'affari degli ultimi decenni dell'Ottocento fu la diminuzione dei prezzi, la temuta deflazione, in quanto riduceva i profitti. Su questo tema scrive ancora Hobsbawm.

Industria e commercio avevano i loro guai. Un'epoca avvezza a pensare che l'aumento dei prezzi («inflazione») sia un disastro economico può stentare a credere che gli uomini d'affari dell'Ottocento si preoccupavano assai più del calo dei prezzi; e in un secolo, tutto sommato, deflazionistico, non ci fu periodo più drasticamente deflazionistico del 1873-96, quando il livello dei prezzi scese in Inghilterra del 40 per cento. Infatti l'inflazione – mantenuta entro limiti ragionevoli – non è solo un vantaggio per i debitori, come sa ogni padrone di casa con ipoteche a lungo termine, ma produce automaticamente un aumento del tasso di profitto, in quanto merci prodotte a costo più basso si vendono ai prezzi più alti vigenti al momento della vendita. La deflazione, invece, riduceva il tasso di profitto. Una forte espansione del mercato avrebbe potuto ampiamente controbilanciare questo inconveniente; ma di fatto il mercato non cresceva abbastanza in fretta, sia perché la nuova tecnologia industriale rendeva insieme possibili e necessari enormi incrementi di produzione (almeno nel caso che si volessero gestire gli impianti con profitto); sia perché cresceva il numero dei produttori e delle economie industriali concorrenti, con conseguente enorme aumento della capacità produttiva totale; sia, infine, perché un mercato di massa dei beni di consumo stentava ancora a svilupparsi. Anche nel caso dei beni capitali la combinazione della nuova e migliorata capacità produttiva, di un impiego più efficiente del prodotto e dei cambiamenti della domanda poteva avere effetti drastici: il prezzo del ferro diminuì del 50 per cento fra il 1871-75 e il 1894-98.

E. Hobsbawm, L'età degli imperi (1875 1914), cit., pp. 43-44.

 

La tesi socialdemocratica

John Atkinson Hobson, economista inglese non marxista, diede vita al movimento fabiano, un gruppo socialista di ispirazione riformista che sarebbe poi confluito nel Partito laburista. Democrazia e riformismo sociale sono gli ideali politici a cui si ispira Hobson, che, come i marxisti, individua nell'economia le radici dell'imperialismo, ma, a differenza di costoro, non crede alla necessità della rivoluzione e considera la società capitalista riformabile. Secondo la sua tesi, l'imperialismo deriva dai limitati consumi interni, dovuti, a loro volta, ai bassi salari dei lavoratori. L'espansione di un mercato interno sostituirà dunque la ricerca di mercati di sbocco per la produzione eccedente: una politica di riforme sociali è la risposta che bisogna dare ai rischi di guerra provocati dalla competizione imperialistica tra gli Stati. Così Hobson descrive efficacemente la genesi economica della corsa all'espansione coloniale.

La sovrapproduzione nel senso di un eccessivo impianto della produzione di manufatti e d'altra parte il surplus di capitali che non riescono a trovare solidi e convenienti investimenti all'interno del paese, costringono la Gran Bretagna, la Germania, l'Olanda e la Francia, a piazzare parti sempre più imponenti delle proprie risorse economiche al di fuori dell'area della loro attuale sovranità politica; il che stimola, in seguito, una politica di espansione nel senso di annessioni delle nuove aree. Le origini economiche di questo movimento vengono riportate alla luce da periodiche depressioni degli scambi commerciali dovute a una incapacità da parte dei produttori di trovare mercati adeguati e vantaggiosi per ciò che essi sono in grado di produrre [...]. La Germania, al momento attuale, sta soffrendo gravi disagi in conseguenza di ciò che viene chiamato un Glut, un grosso ingorgo di capitale e di,capacità produttiva nel settore dei manufatti: le occorrono quindi nuovi mercati; i suoi consoli stanno agitandosi nel mondo intero in favore degli scambi commerciali; con le buone e con le cattive si arriva alla imposizione di rappresentanze commerciali in Asia Minore, mentre nell'Africa Orientale e Occidentale, in Cina e altrove l'impero tedesco è spinto verso una politica di colonizzazione e di protettorati, in funzione di sbocchi per l'energia commerciale tedesca. Qualsiasi miglioramento nei sistemi di produzione, qualsiasi concentrazione di proprietà e di controllo sembra contribuire ad accentuare questa tendenza. Dal momento che le nazioni entrano una dopo l'altra nell'economia delle macchine e tutte adottano sistemi industriali avanzati, diventa sempre più difficile per i produttori, per gli operatori commerciali, per i finanzieri disporre con profitto delle proprie risorse economiche, sicché essi sono sempre più fortemente tentati di usare i rispettivi governi al fine di assicurarsi per loro uso privato qualche remoto e arretrato paese mediante annessione o protettorato.
Il processo, ci si dirà, è inevitabile e tale in realtà appare a un esame superficiale. Dappertutto ci si presentano forze di produzione in eccesso, dappertutto un eccesso di capitale in cerca di investimento. Non c'è uomo d'affari che non ammetta che l'aumento del potere di produzione nel suo paese eccede la corrispondente crescita dei consumi, che possono essere prodotte quantità di beni maggiori di quelle che possano essere esitate con profitto e che esiste un capitale in eccesso rispetto alle possibilità di trovare investimenti remunerativi.
È appunto questa situazione economica che costituisce la prima ed essenziale radice dell'imperialismo. Se nel nostro paese i consumatori elevassero il proprio livello di consumi così da tenere il passo con tutti gli aumenti del potere di produzione, non potrebbe esserci nessun eccesso di beni o di capitale talmente clamoroso da dover ricorrere all'imperialismo per trovare mercati: esisterebbe, ben inteso, il commercio estero, ma non si presenterebbe nessuna difficoltà nel collocamento di modesti surplus dei nostri produttori di manufatti contro i generi alimentari e le materie prime che assorbiamo annualmente, e tutti i risparmi che realizziamo potrebbero trovare redditizio impiego, se lo volessimo, nelle nostre industrie nazionali.

J. A. Hobson, L'imperialismo, Garzanti, Milano 1971.

 

La tesi liberale

Joseph A. Schumpeter, sociologo liberale americano, considera l'imperialismo come il residuo di un'epoca scomparsa, anteriore alla Rivoluzione industriale, prodotto della politica delle monarchie assolute. Per lui capitalismo significa razionalizzazione e quindi dominio delle tendenze istintuali che sono pura espressione di forza naturale. Una piena affermazione del capitalismo comporterà dunque il superamento dell'imperialismo, che è il residuo atavico di un'altra età in cui dominavano le aristocrazie guerriere e l'assolutismo monarchico.

[L'imperialismo] rientra nel vasto gruppo di quelle sopravvivenza di epoche remote, che hanno una parte così importante in ogni situazione sociale concreta; di quegli elementi di ogni situazione sociale concreta che si spiegano con le condizioni di vita non già del presente, ma del passato, e quindi, dal punto di vista della interpretazione economistica della storia, con modi di produzione non attuali ma trascorsi. È un atavismo della struttura sociale e, insieme, delle abitudini psichiche e individuali di reazione emotiva. Poiché le esigenze vitali che l'hanno generato si sono per sempre esaurite, anch'esso deve a poco a poco scomparire, benché ogni complicazione bellica, sia pure di carattere non-imperialistico, tenda a ravvivarlo. Deve scomparire come elemento strutturale, perché la struttura sulla quale si basava volge al/declino cedendo il posto, nel processo di sviluppo sociale, ad altre strutture che non le lasciano spazio e che eliminano i fattori di potere sul cui fondamento essa si ergeva; deve scomparire come elemento di reazioni emotive abituali, a causa del moto di crescente razionalizzazione della vita e della psiche collettiva, per cui antiche esigenze funzionali vengono assorbite da nuovi compiti attraverso un mutamento di funzione di energie fino allora guerresche. Ne segue, se la nostra teoria è giusta, che i casi di imperialismo devono perdere in intensità quanto più si manifestano in una fase tardiva della storia di un popolo e di una cultura. I nostri esempi più recenti di imperialismo dai tratti chiari e inconfondibili sono quelli offerti dalle monarchie assolute del secolo XVIII. Essi sono indubbiamente «più civilizzati» di quelli che storicamente li precedono.
È dallo Stato monarchico assoluto, che la nostra èra ha ereditato le tendenze imperialistiche di cui dà ancora prova. E l'imperialismo delle monarchie assolute fiorì prima della rivoluzione industriale che ha generato il mondo moderno, o meglio prima che le sue conseguenze cominciassero a farsi sentire in tutti i campi.

J. A. Schumpeter, Sociologia dell'imperialismo, Laterza, Bari 1972, p. 32.

In uno slancio di fiducioso ottimismo Schumpeter presenta un mondo in cui l'economia, l'arte, la scienza, le lotte sociali, assorbono tutte le energie individuali e non lasciano spazio alla guerra imperialistica.

L'economia concorrenziale assorbe tutte le energie degli individui, a tutti i livelli economici. Applicazione costante, vigile attenzione, energia concentrata sono condizioni di sopravvivenza nel suo ambito: prima di tutto, nelle professioni specificamente economiche; in secondo luogo, in altre attività organizzate sul loro modello. Qui, un eccesso di energia da scaricare nella guerra e nella conquista, e tale da alimentarne il gusto, è assai meno riscontrabile che in qualunque società pre-capitalistica. La stessa energia eccedente trova perlopiù sfogo nell'attività economica, dando origine alla sua più brillante manifestazione – il capitano di industria –; mentre per il resto si rivolge alle arti, alla scienza, alle lotte sociali. In un mondo puramente capitalistico, quella che un tempo era energia nella guerra si ridurrebbe a semplice energia nel lavoro, in ogni sorta di lavoro. E le guerre di conquista e le avventure di una politica estera attivistica apparirebbero nella luce di perturbamenti sgradevoli, distruttivi del senso della vita; di aberrazioni dai compiti ritenuti «veri» in quanto e perché abituali. Perciò un mondo puramente capitalistico non potrebb'essere un terreno di coltura di impulsi imperialistici.

J. A. Schumpeter, Sociologia dell'imperialismo, cit., p. 34.

 

La tesi "politica" dell'imperialismo

L'interpretazione economica dell'imperialismo sia di parte marxista, sia di parte socialdemocratica, è messa in dubbio dalle tesi di Fieldhouse, che fa rilevare come le zone del Pacifico e dell'Africa conquistate dagli Stati europei fossero di limitata importanza economica. Le esigenze di una politica di potenza degli Stati furono piuttosto alla base dello slancio imperialistico tra il 187o e il 1914, considerato come un ritorno, sotto questo profilo, alla politica del XVIII secolo.

Il fattore nuovo nell'imperialismo non era privo di precedenti; senza dubbio non era qualcosa duramente economico, al contrario era essenzialmente un ritorno alle origini, ad alcuni atteggiamenti e modi di fare, cioè, caratteristici del diciottesimo secolo. Allo stesso modo che all'inizio del diciannovesimo secolo, gli interessi economici avevano richiesto e ottenuto che le questioni imperiali non venissero più decise su basi politiche, pretendendo ricchezza invece che sicurezza, così alla fine del secolo l'equilibrio fu nuovamente rovesciato. Il tratto più rilevante della nuova situazione fu la subordinazione delle considerazioni economiche a quelle politiche, mentre ogni interesse, ogni pensiero veniva concentrato sulla sicurezza nazionale, sulla potenza militare, sul prestigio delle armi inglesi.
Ancora una volta, non è così difficile trovare le ragioni di ciò. Il grosso fatto significativo degli anni dopo il 1870 fu che l'Europa tornò ad essere ancora una volta un campo di battaglia. La creazione di una Germania unita, la sconfitta dell'Austria e, soprattutto, della Francia dovevano dominare il pensiero europeo fino al 1914. Tra la Germania e la Francia si ergeva la questione dell'Alsazia-Lorena: e per entrambe la preoccupazione prima era ormai un sistema di alleanze che potesse consentire, da parte tedesca, di prevenire un eventuale contro-attacco francese, e, da parte francese, potesse rendere possibile la revanche. Inevitabilmente il resto dell'Europa fu trascinato nella politica della balance of power [bilancia del potere, ossia equilibrio politico] tra questi due Stati; e per ogni uomo di Stato la potenza militare tornò a essere il criterio, il metro della grandezza nazionale. Altrettanto inevitabilmente, tale stato di cose con le sue analogie, con la politica del diciottesimo secolo, portò con sé un ritorno agli atteggiamenti del mercantilismo. L'emigrazione verso paesi stranieri, invece di essere considerata come valvola di sicurezza economica, divenne ancora una volta una perdita di potenziale umano ai fini militari o manifatturieri; e le statistiche demografiche tornarono ad essere misura di forza nazionale relativa. Tornarono daccapo le tariffe protettive, con il primario scopo di edificare una autosufficienza nazionale e il potere di fare la guerra.

D. K. Fieldhouse, L'età dell'imperialismo (1830-1914), Latenza; Bari 1975, pp. 520-521.

Fieldhouse non esclude, evidentemente, la presenza di interessi economici nel processo di colonizzazione. Ciò che rifiuta è che il dominio politico dei territori, ossia il controllo da parte dello Stato dei possedimenti coloniali, sia stato funzionale agli interessi economici. Ritiene invece che sia stato dettato da un ritorno alle relazioni internazionali imposte da problemi di sicurezza nazionale o di politica di potenza. In altre parole, la politica estera sarebbe stata più importante della politica interna.

I fattori economici furono presenti e in varia misura influenti in quasi tutte le situazioni al di fuori dell'Europa che portarono come risultato ultimo alla colonizzazione; e il valore specifico di molti di questi territori per gli europei stava nelle opportunità commerciali e d'investimento o in altre forme di attività economica.
Ma i fattori economici non portarono necessariamente e neppure comunemente, da soli, all'esigenza o al desiderio di creare delle colonie. Il vero «imperialismo economico» dei mercanti e dei finanzieri europei fu spesso sordo ai fattori politici. Il dominio formale sul territorio fu raramente essenziale o addirittura opportuno per l'attività economica e in alcuni luoghi avrebbe potuto avere conseguenze decisamente negative per commercianti, piantatori, speculatori terrieri e altri. Gli ambienti ufficiali europei invece ritennero a lungo che gli interessi economici avrebbero dovuto curarsi da soli senza interventi diretti dello Stato.
Il legame vitale tra economia e colonizzazione non fu dunque né la necessità economica di colonie da parte della metropoli né l'esigenza degli interessi economici privati, ma la conseguenza secondaria dei problemi creati alla periferia dall'attività economica ed extraeconomica europea e per i quali non esisteva una semplice soluzione economica. A un estremo questi problemi influenzavano direttamente interessi nazionali che gli ambienti europei consideravano preminenti. All'altro causavano difficoltà politiche marginali, come l'instabilità di un regime politico indigeno o gli ostacoli frapposti da altri europei a un soddisfacente svolgimento dell'attività commerciale o di investimento. Ma in quasi tutti i casi la spiegazione ultima dell'annessione fu che il problema economico originale si era in certa misura «politicizzato» e quindi richiedeva una soluzione politica.

D. K. Fieldhouse, L'età dell'imperialismo (1830-1914), cit., pp. 520-521.

Non condivide questa tesi G. Carocci, che collega strettamente politica interna e politica estera: all'espansionismo coloniale fa riscontro, in politica interna, un clima repressivo e autoritario, o, quantomeno, un apparato ideologico diretto a manipolare il consenso e a mantenere l'ordine sociale.

Sarebbe [...] sbagliato ridurre l'imperialismo a politica estera intesa nella sua accezione tradizionale. L'imperialismo è, sì, politica estera ma solo nella misura in cui questa è legata, oltre che alla situazione internazionale, a quella interna (economica, sociale, politica, culturale) dei singoli stati e paesi e ai loro reciproci rapporti. [...] Compito del giudizio storico, ridotto all'osso, è mettere in relazione i vari e multiformi problemi locali con lo stato del mondo nel suo complesso. L'imperialismo è l'insieme di rapporti che viene a stabilirsi nel mondo fra le potenze e fra queste e i paesi dipendenti; è un insieme di squilibri a livello mondiale, generatore alla lunga di conflitti fra le potenze e di conflitti o tensioni fra queste e i paesi dipendenti. Ma noi ci sforzeremo anche di non dimenticare mai che quando, come nell'imperialismo, il ruolo dello stato è esaltato per condurre una politica estera di potenza, esso è esaltato anche in politica interna come apparato di coercizione, di mediazione, di mobilitazione del consenso e di garante dell'ordine sociale; che l'imperialismo si manifesta non solo come potenza in politica estera ma anche come potere in politica interna.

G. Carocci, L'età dell'imperialismo, Il Mulino, Bologna 1979, p. 3.

 

Le relazioni internazionali nell'età dell'imperialismo

Conclusosi nel 1871 il periodo della politica delle nazionalità con la formazione dell'Impero germanico e del Regno d'Italia, il problema europeo s'identifica con lo sforzo d'immobilizzare i gravi contrasti che frattanto erano sorti tra le grandi potenze: tra Francia e Germania per l'Alsazia e la Lorena; tra Austria e Russia per la questione balcanica; tra Inghilterra e Francia per le colonie; tra Russia e Inghilterra per il Mediterraneo orientale; tra Italia e Austria per le terre irredente. A tutti questi problemi cercò di dare una soluzione Bismarck sulla base del mantenimento dello status quo, che assicurava alla Germania il pingue bottino delle tre precedenti guerre. Il cancelliere tedesco, infatti, avvertiva perfettamente la necessità per la Germania di cautelarsi dall'incombente minaccia francese, saldando questo possibile focolaio di crisi all'esigenza di introdurre un più stabile assetto geopolitico in Europa.

Dichiarando che la Germania era satura, e non domandando nulla alle altre potenze – scrive Salvatorelli – Bismarck voleva proteggersi dalle eventuali rivendicazioni degli altri, la più terribile delle quali, perché la più probabile, era quella francese dell'Alsazia-Lorena, la revanche [...]. Obiettivo specifico della sua politica estera, perciò, fu l'isolamento della Francia, al quale ne aggiunse un altro, più grande: impedire la formazione in Europa di qualsiasi intesa generale e permanente a cui fosse estranea la Germania, perché essa poteva divenire una coalizione antitedesca e rinforzarsi con il concorso sicuro, fatale, della Francia. Inoltre egli non desiderava neppure guerre tra le altre grandi potenze europee poiché una guerra austro-russa e franco-inglese avrebbe rischiato di costringere la Germania a un intervento, e di favorire conseguentemente la formazione di coalizioni antigermaniche.

L. Salvatorelli, La politica internazionale dal 1871 ad oggi, Einaudi, Torino 1946.

Bismarck si propone di raggiungere questi obiettivi richiamando in vigore la politica di equilibrio mediante il sistema delle alleanze. Salvatorelli però precisa che non si trattò dell'equilibrio tradizionale, ma di una nuova tattica che indusse molti a considerare il cancelliere tedesco «una specie di demone tenebroso, di machiavellico Mefistofele europeo» che avesse l'intenzione «di spingere gli altri in guerre in cui si logorassero a vantaggio della Germania». In effetti egli considerava sinceramente la pace non solo germanica ma anche europea.

Il Bismarck respingeva l' equilibrio stabile precedente, perché si poteva risolvere facilmente in cristallizzazioni antitedesche, e preferiva l' equilibrio instabile, che equivaleva a una politica opportunistica che cercava, non le soluzioni intrinseche dei problemi, ma di volta in volta, la loro sistemazione provvisoria più opportuna per la Germania e accettabile per le altre grandi potenze, dei cui interessi immediati Bismarck teneva sempre conto.

L. Salvatorelli, La politica internazionale dal 1871 ad oggi, cit.

Per isolare la Francia e per mantenere lo status quo, il cancelliere stimò necessaria l'alleanza con la Russia e con l'Austria; egli non poteva contentarsi della sola Russia, perché questa non era disposta ad abbandonare alla Germania la Francia, né la Germania poteva abbandonare alla Russia l'Austria; inoltre, alleandosi con la sola Russia si sarebbe trovato di fronte coalizzate Austria, Inghilterra e Francia; ma per avere alleate Austria e Russia Bismarck doveva risolvere i gravi contrasti balcanici che le dividevano. Questo era l'ostacolo che egli affrontò ma senza successo. Il cancelliere non propose di dare i Balcani ai balcanici e di rinviare la Turchia in Asia, che sarebbe stata la vera soluzione, non lo fece perché si sarebbe inimicate tutte e due le potenze; propose, invece, in un primo tempo di dividere la penisola in due zone, russa e austriaca, poi di convincere Austria e Inghilterra che la Russia a Costantinopoli non sarebbe stata un pericolo. Quando s'accorse dell'impossibilità di un accordo, cercò la via dell'equilibrio con patti bilaterali. Dopo il fallimento dell'accordo dei tre imperatori, s'alleò con l'Austria (1879) ma in funzione difensiva, riconoscendo nello stesso tempo gli interessi e i diritti dei russi nei Balcani. Quando constatò il nuovo fallimento del ricostituito accordo dei tre imperatori, formò la Triplice Alleanza (1882), con la quale accentuava l'isolamento della Francia e garantiva l'Austria contro ogni attacco russo; alcuni anni dopo, nel 1889, con il patto di contrassicurazione otteneva la neutralità russa.
Principale obiettivo di tutte queste complicate alleanze era il mantenimento dello status quo, impedire a ogni costo la guerra, qualsiasi guerra, della quale certamente avrebbe approfittato la Francia per tentare la rivincita. Quando nel 1878 per la pace di Santo Stefano, imposta dalla Russia alla Turchia, l'Europa fu alla vigilia di una guerra, Bismarck, «onesto sensale», con il Congresso di Berlino evitò il conflitto e mise le basi delle future alleanze.
La decisione più grave del Congresso è ritenuta la concessione in «amministrazione temporanea» della Bosnia-Erzegovina all'Austria; essa è il punto di partenza dei risentimenti serbi, russi e italiani; e separò artificialmente i popoli balcanici, suscitò odi, agitazioni e infine quell'irredentismo slavo che doveva portare alla prima guerra mondiale. Anche al Congresso di Berlino si deve riportare il contrasto franco-italiano per Tunisi, suscitato abilmente da Bismarck per costringere l'Italia ad allinearsi con l'Austria e la Germania.
Più tardi s'intuirono le gravi conseguenze che potevano derivare da questa complicata situazione e si fece qualche tentativo costruttivo: l'Italia, da parte sua, nel 1887, con il rinnovo della Triplice, credette di fermare l'avanzata balcanica dell'Austria subordinandola a preventive consultazioni e a compensi; Russia e Austria nel 1897 allentarono la tensione con un accordo sulla Macedonia. Non erano certamente soluzioni determinanti, ma modesti compromessi che ritardarono di pochi anni la guerra.
Circa gli obiettivi che Bismarck si proponeva con la Triplice Alleanza il giudizio storico non è concorde: fu diretta contro la Francia o contro la Russia? Fisher è convinto che l'epicentro di tutta la politica estera di Bismarck era l'immobilizzazione della Francia che egli vedeva «irriducibile e pericolosa nemica del suo paese e che bisognava sospettare sempre, cercare d'indebolire e isolare da tutti i suoi vicini europei» (H. A. L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari 1938, vol. III). Un altro storico inglese, Taylor, ha affermato la tesi opposta.

Il sistema di Bismarck guardava verso oriente; le velleità di riscossa dei francesi non costituivano un serio pericolo se non nel caso di una guerra austro-russa. I francesi volevano la sicurezza, non volevano guerre, bastava che un uomo politico sembrasse fomentare una guerra contro la Germania perché fosse rovinato, ma la stessa fine, benché meno repentina, era riservata a coloro che aspiravano a una riconciliazione con la Germania. Gli sforzi del Bismarck, pertanto, erano diretti a evitare la guerra austro-russa, ch'egli credeva la più probabile e la più dannosa alla Germania, perché certamente avrebbe suscitato nella Francia la tentazione della revanche. Trattato dei tre Imperatori, alleanza austro-tedesca, Triplice Alleanza e Patto di contro assicurazione sono aspetti di una stessa idea: evitare la guerra russo austriaca.

A. J. P. Taylor, L'Europa delle grandi potenze, Laterza, Bari 1961.

Anche Luigi Salvatorelli pensa che la Russia costituisse il problema più grave per Bismarck in quanto aveva un valore opzionale determinante. La Germania doveva scegliere tra due potenze opposte, o Austria o Russia, e la scelta era piena di gravi conseguenze.

Il Cancelliere optò per l'alleanza con l'Austria, e fu un colpo irreparabile all'accordo dei tre Imperatori; la distinzione fra guerra offensiva e difensiva apparve sottile, elastica e in balia delle interpretazioni delle parti in diversi momenti. L'Austria con il trattato del 1879 ottenne una cambiale: se a Bismarck riuscì d'impedirne la presentazione, i successori non fu- rovo altrettanto abili o altrettanto fortunati. La politica guglielmina nella crisi balcanica del 1908 e in quella serba del 1914 in sostanza derivò da quella del Bismarck nel 1879.

L. Salvatorelli, La politica internazionale dal 1871 ad oggi, cit.

Salvatorelli pensa che il merito del cancelliere tedesco sia solo di aver guadagnato tempo alla pace ma non di averla assicurata durevolmente; egli non seppe risolvere gli scottanti problemi balcanici, li rimandò. Anzi, l'annessione della Bosnia-Erzegovina all'Austria avrebbe, nel lungo periodo, posto le premesse per la vigorosa esplosione del nazionalismo slavo, del quale si fece interprete la Serbia.

All'alleanza austro-tedesco-italiana il Bismarck contrappose il patto di contrassicurazione tedesco-russo, ma questo fu contrappeso imperfetto poiché il legame della Germania con l'Austria rimaneva ben più forte di quello colla Russia: di fronte alla semplice promessa di neutralità in certe contingenze, vi era l'impegno di appoggio militare. Su questo terreno ebbe inizio lo sgretolamento del sistema bismarckiano, col mancato rinnovamento della contrassicurazione subito dopo la caduta di Bismarck [...]. Il venticinquennio diplomatico, che va dalla caduta di Bismarck (1890) alla prima guerra mondiale (1914), può riassumersi appunto in questo sgretolamento e nella sostituzione ad esso di sistemi diversi e contrapposti, di costellazioni varie [...]. Le intese bismarckiane con la Russia e con l'Inghilterra vennero meno, e non riuscirono i tentativi guglielmini di risuscitarle o sostituirle con nuove intese su nuove basi. La Triplice Alleanza diminuì di efficienza e si svuotò di contenuto, e infine crollò al momento decisivo della guerra europea; solo l'alleanza austro-tedesca del 1879 resisté sino alla catastrofe comune dei due imperi nel 1918. Catastrofe di cui fu strumento la formazione di quelle due alleanze antigermaniche, Duplice Intesa franco-russa, Triplice Intesa anglo-franco-russa, che non si erano realizzate durante il periodo bismarckiano. Nella dissoluzione del sistema bismarckiano si possono distinguere due momenti principali: la rottura del filo con la Russia, e la conseguente formazione dell'alleanza franco-russa; la rottura del filo coll'Inghilterra, e il passaggio di questa nel campo antigermanico. A guerra già scoppiata, si ebbe la conclusione di un terzo momento, il distacco dell'Italia. Il processo più complicato fu quello della crisi nelle relazioni anglo-germaniche. Finché il governo inglese fece una politica della mano libera, esso mantenne un equilibrio tra i due gruppi continentali contrapposti, e anche l'Italia fu trattenuta entro la Triplice, sia pure al margine. Perciò, se una linea direttiva, una specie di spina dorsale, si può tracciare attraverso quei tre momenti di dissoluzione del sistema bismarckiano, essa è data da questa crisi delle relazioni anglo-germaniche. La contrapposizione, cioè, che si andò formando tra Inghilterra e Germania influì decisamente sulle relazioni di Russia, Francia e Italia con la Germania, non con una spinta diretta inglese su quelle tre potenze in senso antigermanico, ma in quanto si allentò o venne meno il freno che l'Inghilterra precedentemente esercitava sulle potenze medesime in senso filo-germanico.

L. Salvatorelli, La politica internazionale dal 1871 ad oggi, cit.

Il mancato rinnovo del patto di contrassicurazione determinò di conseguenza l'alleanza antitedesca franco-russa (Duplice Intesa del 1891-93), l'avvicinamento antigermanico anglo-francese (Intesa cordiale del 1904), il graduale distacco dell'Italia dalla Triplice e il suo avvicinamento all'Inghilterra, alla Francia e alla Russia (accordi dei 1898, 1900, 1902, 19o9), il trattato della Triplice Intesa del 1907 tra Inghilterra, Francia e Russia contro gli Imperi centrali.

 

Le diplomazie europee e il Congresso di Berlino del 1878

Il trattato russo-turco di Santo Stefano del marzo 1878 aveva concluso la rapida guerra fra Russia e Impero ottomano, disegnando una penisola balcanica dai risvolti assai instabili e troppo aperta all'influenza predominante russa. Pertanto, anche al fine di evitare un conflitto fra Russia e Gran Bretagna, il cancelliere tedesco Bismarck si propose quale mediatore e invitò i plenipotenziari delle principali potenze europee al tavolo delle trattative, nella cornice del Congresso paneuropeo di Berlino (giugno 1878). Come giustamente fa osservare lo storico inglese Taylor, si trattò dell'ultimo Congresso generale prima dello scoppio della prima guerra mondiale. Prendendo le mosse dalla guerra franco-prussiana, il Congresso si propose di sostituire alla preponderanza della Francia del Secondo Impero la Germania imperiale. Questa l'opinione dello storico inglese.

Gli ultimi trent'anni del XIX secolo videro in Europa il trionfo della politica dell'equilibrio: un sistema di cui furono protagoniste cinque grandi potenze (e più indirettamente una sesta), ciascuna in grado di tutelare la propria indipendenza, nessuna abbastanza forte per dominare le altre. L'antagonismo irriducibile tra Francia e Germania, e quello altrettanto irreconciliabile ma meno persistente tra Austria-Ungheria e Russia nei Balcani, impedirono la formazione di qualsiasi alleanza in grado di affermare il proprio predominio in Europa; la politica dell'equilibrio sembrò configurarsi come una legge naturale, spontaneamente operante senza necessità di modificazioni esterne. L'Europa godette così il più lungo periodo di pace dei tempi moderni, e le grandi potenze rivolsero all'esterno le proprie energie, in un processo di espansione «imperialista», nel corso del quale tutte si conquistarono un impero, alcune nelle immediate vicinanze, le altre oltre oceano. A determinare la creazione di quest'eccezionale equilibrio fu la guerra franco-prussiana, scoppiata nel luglio 1870: iniziata come tentativo francese di arrestare il processo di unificazione tedesca essa ebbe invece il risultato di liberare l'Europa dalla minaccia del predominio francese senza peraltro sostituirvi la preponderanza tedesca. Fu questa l'ultima guerra combattuta esclusivamente sul continente e limitata alle sole potenze europee: più esattamente, anzi, fu combattuta da due sole grandi potenze.

A. J. .P. Taylor, Le relazioni internazionali, in Storia del mondo moderno,
vol. XI: L'espansione coloniale e i problemi sociali, 1870-1898, Garzanti, Milano 1982, p. 681.

Bismarck propose dunque, per la soluzione della "questione d'Oriente" e dell'espansione coloniale, il criterio della spartizione territoriale attraverso occupazione diretta o delimitazione delle aree di influenza. La sua strategia, però, non riuscì a fornire una cornice generale di riferimento alla luce della quale trovare una composizione adeguata dei problemi sul tappeto. Il cancelliere, al contrario, considerava l'Europa nella sua dimensione di frammentazione politica e non nella sua unità culturale e ideale, come era invece avvenuto al Congresso di Vienna del 1815 e, in parte, a Parigi nel 1856. A differenza del liberale inglese William Gladstone, che intendeva ritornare alla strategia del «concerto europeo», che aveva assicurato decenni di pace al Vecchio Continente, Bismarck optò dunque per sistemazioni puramente territoriali e fondate su accordi di compensazione. Mancava del resto una reale solidarietà europea: a Berlino ebbero il sopravvento gli egoismi di stampo nazionalistico. Si avvertivano ormai le prime avvisaglie di quella che sarebbe stata la stagione dell'imperialismo e della politica di potenza. Una volta uscito di scena Bismarck, come avvenne nel 1890, l'Europa della diplomazia si sarebbe inesorabilmente divisa in due blocchi e la Germania ne sarebbe stata accerchiata. Questa l'analisi di Taylor.

Bismarck sollecitò instancabilmente le altre potenze ad ignorare il vicino oriente, o, se non erano disposte a farlo, a spartirselo: Costantinopoli e i Balcani orientali alla Russia, Salonicco e i Balcani occidentali all'Austria-Ungheria, e il controllo dell'Egitto e del canale di Suez alla Gran Bretagna. Di qui il suo consiglio a Salisbury durante il congresso: «Prendetevi l'Egitto»; di qui i suoi incoraggiamenti ai francesi perché si assicurassero la loro parte di guadagno occupando Tunisi. Ma le grandi potenze non apprezzarono i suoi suggerimenti. Da un lato, ciascuna sperava di ottenere la sua parte senza cedere nulla agli altri, come fece la Gran Bretagna cinque anni dopo con l'Egitto; dall'altro — e il motivo era certo ancor meno manifesto — tale soluzione veniva ad essere ostacolata dal carattere essenzialmente negativo delle loro intenzioni. Nessuna delle grandi potenze voleva affrontare le difficoltà e i fastidi che la spartizione del vicino oriente avrebbe implicato.
Una ragione ancora più profonda stava poi nel fatto che le grandi potenze non erano legate da interessi comuni né da lealtà reciproca. Era l'età in cui trionfava l'anarchia degli stati sovrani; in cui si riteneva che nei rapporti internazionali, come nei rapporti economici tra individui, una libertà incontrollata e generale producesse i migliori risultati per tutti. Solo Gladstone perorava la causa del concerto europeo: era una nobile aspirazione, ma come può esservi concerto se gli orchestrali non seguono la stessa partitura? Nessun grande principio o ideale teneva unita l'Europa: la solidarietà dei sovrani non esisteva più, e la solidarietà dei popoli non l'aveva sostituita. Non esisteva nemmeno una paura comune: di una rivoluzione o di un'invasione d'infedeli. In luogo di tutto ciò, esisteva soltanto l'universale fiducia che ciascuno fosse in grado di reggersi da solo, senza portare la civiltà europea, o persino se stesso, al disastro. Bismarck medesimo giudicava sprezzantemente il concerto europeo: «Chiunque parli di Europa ha torto; l'Europa non è che un'espressione geografica.» E ancora: «Sento gli statisti usare il termine Europa solo quando vogliono ottenere qualcosa per sé.» Bismarck accettava l'anarchia dei rapporti internazionali, ma confidava di poterla controllare per i propri obiettivi, cioè per la pace. Certo, fu la Germania a dirigere il «sistema», nei limiti in cui di sistema si può parlare; ma ai tempi di Bismarck il suo unico fine era negativo: evitare la guerra, non realizzare dei guadagni. Poiché anche le altre potenze condividevano questo proposito negativo, sebbene in modo meno consapevole, esse si adattarono, sia pure con qualche riluttanza, alla direzione di Bismarck.

A. J. P. Taylor, Le relazioni internazionali, in Storia del mondo moderno, vol. XI, cit., pp. 691-692.

 

Imperialismo e colonialismo in Africa e in Asia

II dominio coloniale europeo si trasformò in imperialismo quando le potenze europee cominciarono a sostenere direttamente la conquista e la penetrazione nei territori colonizzati, che spesso non erano dettati da reali e urgenti bisogni di natura economica, legati allo sviluppo industriale in atto in tutto il Vecchio Continente. Allora nuovo argomento delle relazioni internazionali fu l'avvio di trattative per il riconoscimento delle pretese di ciascuno Stato nei confronti degli altri: le grandi potenze furono, su questo terreno, ancora una volta, arbitre della situazione. Wolfgang J. Mommsen descrive questa condizione che si spinse spesso sull'orlo della guerra.

Alcuni Stati europei, soprattutto l'Inghilterra e la Francia, avevano già da tempo avviato con successo una politica coloniale nei paesi d'oltremare. Ma verso il 1885 questo processo d'espansione della civiltà europea in tutto il mondo assunse improvvisamente un ritmo vertiginoso; nel giro di pochi anni si trasformò in una vera e propria gara delle potenze europee per appropriarsi dei territori d'oltremare ancora «liberi»; e a questa gara parteciparono dal 1894, anche il Giappone e gli Stati Uniti. Nello stesso tempo mutò anche il carattere del dominio coloniale europeo, che da un giorno all'altro si trasformò in imperialismo. Finora le potenze europee avevano lasciato di regola l'iniziativa a singoli grandi colonizzatori o a imprese colonizzatrici, e spesso avevano esitato a far seguire al commercio anche la bandiera. In ogni caso ogni paese aveva cercato di ridurre al minimo il proprio impegno politico e militare. Ora questa situazione si capovolse. Spinte da un nazionalismo esasperato fino all'imperialismo, le potenze europee cominciarono a perseguire deliberatamente una politica coloniale di nuove conquiste territoriali, e a sostenere con propri mezzi finanziari e proprie imprese economiche la conquista e la penetrazione economica nei paesi sottosviluppati; e ciò addirittura già nella fase iniziale, e non, com'era avvenuto fino allora, solo quando le cose avessero già raggiunto una certa maturazione. Inoltre la crescente rivalità tra le grandi potenze le costringeva all'abbandono delle forme tradizionali di controllo dei territori coloniali mediante poche basi in prossimità delle coste. Ebbe allora inizio una lotta accanita per il possesso anche dell'entroterra, e i vari paesi si sforzarono di definire con precisione i confini dei rispettivi territori coloniali. La stipulazione di trattati di protettorato con i capi di numerose tribù indigene, trattati il cui valore giuridico era per lo più di carattere alquanto dubbio, non era più sufficiente per poter fondare o ingrandire imperi coloniali; ora erano necessarie difficili trattative con le grandi potenze rivali per ottenere il riconoscimento, in base al diritto internazionale, delle proprie pretese su territori spesso ancora completamente inesplorati. E quanto più si riducevano i territori ancora «liberi», tanto più accanite divenivano le contese su tali questioni. In queste circostanze l'Europa arrivò più di una volta quasi sull'orlo di una guerra generale.

W. J. Mommsen, L'età dell'imperialismo, Garzanti, Milano 1970, pp. 173-174.

La spartizione dell'Africa, che avvenne con straordinaria rapidità, non fu, secondo R. E. Robinson, effetto dell'imperialismo, ma piuttosto ne fu una causa. Con ciò lo storico vuol dire che non ci fu un programma preciso di espansione coloniale da attuarsi in vista di vantaggi economici sicuri e prevedibili, ma una certa casualità di iniziative che solo in seguito produsse il mito dell'Africa imperiale, suscitando atteggiamenti di orgoglio nazionalistico nei colonizzatori europei.

La spartizione dell'Africa non fu per gli europei un'impresa eccessivamente difficile, poiché vi si accinsero nel momento storico di massima superiorità rispetto agli altri continenti. Lo sviluppo economico e il progresso tecnico conferivano loro una sicurezza e una forza invincibili, mentre la cultura e l'organizzazione politica assicuravano un potenziale non inferiore a quello delle corazzate e dei cannoni a tiro rapido. Che l'Europa avesse la potenza necessaria per soggiogare l'Africa era assolutamente evidente: ma i suoi governi lo volevano davvero?
Venti anni bastarono per ritagliare il continente in parti simmetriche escogitate dai geometri della diplomazia. Alla fine del secolo, soltanto il Marocco e l'Etiopia erano ancora indipendenti, ma il loro turno stava arrivando. Tuttavia gli statisti che tracciarono i nuovi confini non erano animati dal proposito di governare e promuovere lo sviluppo di quei paesi. Bismarck e Ferry, Gladstone e Salisbury non credevano veramente in un impero africano, e anzi consideravano quasi una farsa il processo di espansione in Africa. Un giuoco d'azzardo, che aveva per posta giungle e savane, poteva interessare un re povero come Leopoldo II del Belgio o un politicante arrivista come Crispi, ma gli autori della grande spartizione del mondo del penultimo decennio dell'Ottocento non collocavano le loro imprese nel quadro di un vasto progetto di espansione imperiale. Non sentivano alcun bisogno di colonie africane, e in ciò rispecchiavano l'indifferenza di tutta l'opinione pubblica, con l'eccezione di ristretti gruppi politici ed economici europei, soggetti agli umori del momento. Allo storico pertanto non resta che registrare le loro azioni. Quali che siano le conclusioni a posteriori dei sociologi, la colonizzazione dell'Africa non fu ispirata da cause o obiettivi generali. Negli annali dell'imperialismo, la spartizione dell'Africa appare come un processo affidato quasi essenzialmente al caso. Raramente degli eventi destinati a sconvolgere un intero continente sono stati determinati in maniera così casuale. Perché mai, allora, gli statisti si preoccuparono di spartire il continente? Si è sempre supposto che in quest'epoca la società europea fosse spinta alla creazione di un impero africano da ragioni più potenti che in passato, e a sostegno di tale ipotesi sono state avanzate tutte le spiegazioni possibili, nessuna delle quali è in grado però di fornire una valida prova dell'esistenza di nuovi e potenti incentivi. I capitali cominciarono a cercare nuovi sbocchi e le industrie nuovi mercati nell'Africa tropicale soltanto quando la spartizione era ormai da molto tempo un fatto compiuto. Ancora alla fine del secolo, l'economia europea continuava a ignorare le limitate prospettive offerte dall'Africa, per rivolgersi invece ai ben sperimentati campi d'azione dell'America e dell'Asia. Né, d'altra parte, sarebbe realistico spiegare l'espansione in Africa con qualche mutamento nella mentalità europea. Lo splendore e il fasto di un impero africano cominciarono a solleticare i gusti popolari solo nell'ultimo decennio del secolo, quando ormai la spartizione era quasi compiuta; e il mito imperiale conquistò l'opinione pubblica europea solo quando l'Africa era stata già divisa e distribuita.

R. E. Robinson, L'espansione coloniale e i problemi sociali, in Storia del mondo moderno, vol. XI, cit., pp. 450.451.

Le cause occasionali del processo di spartizione furono interne all'Africa e si produssero rispettivamente al Nord e al Sud del continente: furono due processi distinti messi in moto da movimenti nazionalisti contro la presenza di bianchi che risaliva a una precedente colonizzazione. Al Sud la guerra anglo-boera, al Nord l'intervento in Egitto da parte degli Inglesi per impedire che sfuggisse loro di mano il controllo del Canale di Suez, di vitale interesse per i rapporti con l'Oriente, furono occasioni determinanti per l'estensione della conquista. Nello stesso tempo la nascita di un nazionalismo islamico contro i bianchi, che Robinson chiama protonazionalismo per indicarne la fase iniziale, costituì l'incentivo a un intervento militare che aprì la fase imperialistica, innestata sul tronco del vecchio colonialismo come sua difesa.

Nel ricercare in Europa le cause dell'espansione verso l'Africa, i teorici dell'imperialismo hanno cercato in direzione sbagliata. I mutamenti fondamentali che misero in moto il processo avvennero nella stessa Africa. Questo continente entrò nella storia moderna in seguito al crollo di un'antica potenza del Nord e al sorgere di una nuova nel Sud.
Da queste crisi interne, esplose ai due estremi del continente, presero il via due processi di spartizione distinti. Nell'Africa meridionale esso fu la conseguenza dell'ascesa del Transvaal grazie ai suoi filoni d'oro, di una lotta tra l'espansione coloniale e quella repubblicana, che si estese dalla Becivania fino al lago Niassa e coinvolse infine il Sudafrica nella spedizione di Jameson [uomo politico sudafricano] e nella guerra boera. La seconda crisi fu la conseguenza del crollo del regime dei chedivè in seguito alla rivoluzione egiziana del 1879-82. Gli errori commessi nei rapporti con questo nuovo proto-nazionalismo trascinarono gli inglesi sul Nilo e ve li intrappolarono. Fu un evento di importanza capitale, che determinò il deterioramento dei rapporti tra Londra e Parigi e aprì una controversia che si estese a tutto il continente prima di essere risolta a Fascioda nel 1898.
L'Europa, dunque, venne coinvolta nell'Africa tropicale da due crisi interne. I conflitti con i protonazionalisti egiziani, e quindi con la rinascita islamica in tutto il Sudan, spinsero le potenze europee a iniziare un proprio processo di espansione nell'Africa orientale e occidentale. Migliaia di chilometri più a sud, i tentativi inglesi di costringere i nazionalisti afrikaaner a collocarsi nel quadro di un antiquato disegno imperialista diedero il via a un nuovo processo di espansione nell'Africa meridionale. Gli ultimi venticinque anni del secolo sono stati definiti spesso l'«epoca dell'imperialismo». E tuttavia, gran parte di questa azione imperialistica fu soltanto una reazione involontaria dell'Europa ai vari movimenti protonazionalisti dell'Islam che già stavano sorgendo in Africa contro l'usurpazione da parte dei bianchi.

R. E. Robinson, L'espansione coloniale e i problemi sociali, vol. XI, cit., p. 453.

L'espansione europea in Asia non fu solo caratterizzata da un'occupazione politico-militare; avvenne anche in forma indiretta, come penetrazione commerciale imposta e appena mascherata da trattati diseguali, che non prevedevano nessun vincolo per le potenze europee e stabilivano forme pesanti di sottomissione per gli Stati asiatici. Dopo la guerra dell'oppio (1840-42), in cui fu imposto alla Cina di aprire i suoi porti al commercio di questa sostanza stupefacente proibita nell'Impero cinese, incominciò la conquista commerciale di questo grande Impero, fino a quel momento estraneo al mondo europeo. Lo storico indiano K. M. Panikkar descrive efficacemente questo processo.

Gli inviati delle potenze firmatarie furono autorizzati ad aprire legazioni e a prendere dimora stabile in Pechino. In seguito ai [...] trattati la corte cinese, che fino allora aveva evitato rapporti troppo stretti con i governi stranieri, dovette subire ogni giorno nella capitale pressioni diplomatiche, proprio quando era meno pronta a fronteggiarle. Le legazioni britannica e francese giunsero a Pechino nel marzo 1861, quella russa nel luglio dello stesso anno; Anson Burlinghame, l'inviato americano [...], arrivò a Pechino nel 1862, dopo un viaggio di piacere, da Canton. Si aprì così nella lunga storia della Cina un nuovo capitolo, la cui caratteristica principale fu la completa dipendenza del paese dai rappresentanti che gli erano stati imposti con la forza dalle potenze occidentali. In forza dei trattati, queste potenze reclamavano ora diritti, privilegi, onori e prerogative che, interpretati con molta libertà e appoggiati dalla forza, si trasformarono nel giro di cinquant'anni in un corpo speciale di leggi internazionali che praticamente controllavano ogni aspetto della vita cinese. Il modo in cui il sistema dei trattati servi a «incatenare il drago» e mascherò l'organizzazione sistematica e risoluta di uno sfruttamento imperialistico delle risorse cinesi; il modo in cui l'orgoglioso impero venne ridotto in uno stato di completa impotenza, mentre interi territori gli venivano strappati e le potenze si spartivano praticamente fra loro in «sfere di influenza» il suo vasto territorio: tutto ciò non ha altro esempio nella storia.

K. M. Panikkar, Storia della dominazione europea in Asia, Einaudi, Torino 1958.

 

Le caratteristiche della seconda Rivoluzione industriale

L'importanza della seconda Rivoluzione industriale emerge pienamente se consideriamo che le trasformazioni prodottesi in quel periodo furono quelle che ancor oggi caratterizzano il nostro tempo o, meglio ancora, l'evoluzione tecnologica odierna continua sull'onda di quelle prime, decisive, innovazioni. Inoltre oggi è universalmente riconosciuto il nesso inscindibile tra scienza, tecnologia, produzione: la tecnica incorpora conoscenze scientifiche e queste modificano il modo di produrre e di vendere. Lo storico Geoffrey Barraclough vede in questi caratteri la differenza principale tra prima e seconda Rivoluzione industriale.

La rivoluzione industriale in senso stretto, quella del carbone e del ferro, voleva dire l'estensione graduale dell'uso delle macchine, l'impiego di uomini, donne e bambini in fabbriche, un passaggio abbastanza costante della popolazione dal lavoro per lo più agricolo all'occupazione nelle fabbriche e nella distribuzione dei prodotti lavorati. Era un mutamento che avveniva (come scrive C. P. Snow) «in sordina, quasi inavvertitamente» e il suo effetto immediato, come spiegò sir John Clapham, spesso può essere sopravvalutato. La seconda rivoluzione industriale era diversa. Intanto, era scientifica in senso molto più stretto, molto meno dipendente dalle «invenzioni» di uomini «pratici» con poca, o nessuna base scientifica. Era volta non tanto a migliorare e accrescere i prodotti esistenti, quanto a introdurne di nuovi. Inoltre, più rapidi erano i suoi effetti, più prodigiosi i risultati che determinarono una trasformazione rivoluzionaria nella vita e nelle prospettive dell'uomo. E infine, non poteva più essere chiamata la rivoluzione del carbone e del ferro, anche se questi prodotti rimanevano fondamentali, perché, dopo il 1870, si iniziava l'età dell'acciaio e dell'elettricità, del petrolio e della chimica.

G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 42-43.

Il 1870 segnò un passaggio decisivo nella storia dei Paesi industrializzati, cambiando aspetti essenziali della vita quotidiana. Scrive in proposito G. Barraclough.

Anche al livello più umile della vita pratica d'ogni giorno è certo significativo che tanti oggetti comuni da noi considerati inseparabili dalla vita civile dei nostri giorni — il motore a combustione interna, il telefono, il microfono, il grammofono, il telegrafo senza fili, la lampada elettrica, i trasporti pubblici a motore, i pneumatici, la bicicletta, la macchina da scrivere, la stampa a buon mercato di giornali a grande diffusione, la prima delle fibre sintetiche, la seta artificiale, e la prima delle plastiche sintetiche, la bachelite – facessero tutti la loro comparsa nei quindici anni tra il 1867 e il 1881; e benché solo nel 1914, per soddisfare alle necessità militari, cominciasse la produzione intensiva di aerei, la possibilità di adattare il motore a benzina all'aeroplano fu dimostrata con successo dai fratelli Wright nel 1903. Qui, come in altri casi, ci volle del tempo prima che fossero risolti i problemi inerenti alla produzione su larga scala, e alcune delle cose che ci siamo abituati a considerare normali, fra cui la radio e la televisione, è ovvio che appartengono a una fase più tarda. Tuttavia si può ben dire che al livello puramente pratico della vita d'ogni giorno, una persona del presente che fosse improvvisamente trasportata nel mondo del 1900, si troverebbe in un ambiente a lei familiare, mentre, tornando indietro al 1870, anche nell'industrializzata Inghilterra, troverebbe da stupirsi più per le differenze che per le somiglianze. Insomma, fu intorno al 1900 che l'industrializzazione cominciò a esercitare il suo influsso sulle condizioni di vita delle masse occidentali, in tale misura che oggi è difficile immaginare fino a che punto anche la gente benestante della generazione precedente era stata costretta ad arrangiarsi.
La ragione principale di questa differenza sta nel fatto che poche delle invenzioni pratiche sopra elencate derivavano da uno sviluppo continuo e graduale, o dal miglioramento di procedimenti già esistenti: la stragrande maggioranza di esse proveniva da nuove materie, nuove fonti d'energia, e soprattutto dall'applicazione della scienza all'industria.

G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, cit., pp. 43-44.

Urbanizzazione, aumento demografico, concentrazione operaia in grandi fabbriche furono alcuni aspetti importanti della nuova società di massa secondo Barraclough.

Il processo di integrazione degli operai degli stabilimenti e delle fabbriche in complessi meno numerosi, ma di dimensioni più vaste, fu comune a tutte le nazioni industriali, e cambiò completamente la loro fisionomia. Le città divoravano i villaggi, e le grandi città crescevano più rapidamente delle piccole. Aree come il bacino della Ruhr in Germania e la «Terra nera» del Midland inglese divennero estese cinture di sviluppo urbano contiguo, divise in teoria da confini municipali artificiali, ma altrimenti senza interruzione visibile. Un ulteriore fattore che affrettava e accentuava l'urbanesimo era la crisi agraria dovuta all'importazione massiccia d'oltremare di generi alimentari a buon mercato. Ne derivò l'estendersi di condizioni sociali mai conosciute in passato, e il sorgere di quella che solitamente viene definita «società di massa». Come conseguenza del progresso dell'igiene e della medicina, la percentuale di mortalità, rimasta virtualmente statica tra il 1840 e il 1870, diminuì bruscamente nei trent'anni seguenti nei paesi più progrediti dell'Europa occidentale (in Inghilterra per esempio, di quasi un terzo, dal 22 a poco più del 15 per mille) e la curva demografica salì. In confronto all'aumento di trenta milioni avvenuto tra il 1850 e il 1870, la popolazione d'Europa, senza contare l'emigrazione, che portò via il 40 per cento dell'incremento naturale, crebbe di non meno di cento milioni tra il 1870 e il 1900.

G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, cit., p. 50.

 

L'Europa al Congresso di Berlino 1878

 

 

 

 

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