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la francia di luigi xiv

 

 

FONTI

 

Luigi XIV emblema del monarca assoluto

Le riflessioni che seguono sono tratte dai Mémoires che Luigi XIV indirizzò al figlio: costui, con il titolo di "Delfino", si preparava alla successione al trono.
Il Re Sole traccia un profilo del sovrano assolutista e, insieme, un modello per il futuro re. In particolare viene sottolineata l'importanza di governare direttamente, senza la mediazione di primi ministri o di segretari di Stato, che avrebbero finito con l'offuscare la personalità del sovrano. Luigi XIV ribadisce al Delfino la necessità di fare della persona del re il cardine di ogni equilibrio della nazione, il fulcro vivente dello Stato, il vertice dell'apparato amministrativo, burocratico e militare. Solo così la monarchia poteva prevalere nella lotta durissima contro le autonomie locali, contro le forze aristocratiche ostili al ridimensionamento delle proprie prerogative e contro le resistenze dei Parlamenti provinciali, feudo della nobiltà di toga.
Il ritratto che emerge è quello di un sovrano la cui figura si identifica con quella dello Stato.

Sarebbe stato certamente far cattivo uso di una così perfetta tranquillità [la situazione internazionale nel 1661], che si presenterà sì e no una volta nel corso di parecchi secoli, non impiegarla all'unico scopo che poteva farmela apprezzare [il rafforzamento del potere interno], mentre la mia età e il piacere di essere alla testa del mio esercito mi avrebbero fatto desiderare un po' più di occasioni all'estero. Ma poiché la principale speranza di quelle riforme stava nella mia volontà, il loro fondamento era rendere la mia volontà assoluta, con una condotta che imponesse la sottomissione e il rispetto: rendendo scrupolosamente giustizia a chi la dovevo; ma quanto alle grazie, concedendole liberamente e senza impedimenti a chi mi piacesse e quando mi piacesse, purché la serie delle mie azioni dimostrasse che, pur non rendendo conto a nessuno, mi facevo nondimento guidare dalla ragione. [...] Due cose senza dubbio mi erano assolutamente necessarie: un gran lavoro da parte mia; una gran scelta di persone che potessero secondarlo. [...] Non so dirvi quale frutto trassi subito da questa risoluzione [di governare personalmente]. Mi sentii come elevare lo spirito e il coraggio, mi trovai diverso, scoprii in me qualcosa che non mi conoscevo, e mi rimproverai con gioia di averlo per troppo tempo ignorato. Quella primitiva timidezza che un po' di senno dà sempre, e che all'inizio mi affliggeva, si dileguò in un baleno. Soltanto allora mi parve di essere re, e nato per esserlo. Provai infine una dolcezza difficile a esprimere, e che conoscerete anche voi soltanto gustandola come me. Perché non dovete immaginare, figlio mio, che gli affari di Stato siano come certe parti oscure e spinose delle scienze, che vi avranno forse stancato, in cui la mente si sforza di elevarsi al di sopra della propria capacità, spesso per non arrivare a nulla, e la cui inutilità, almeno apparente, ci scoraggia quanto la loro difficoltà. La funzione dei re consiste principalmente nel far agire il buon senso, il quale agisce sempre naturalmente e senza fatica. Ciò che ci occupa è talvolta meno difficile di ciò che sarebbe per noi un puro svago intellettuale. L'utilità si vede sempre. Un re, per capaci e illuminati che siano i suoi ministri, non mette personalmente mano all'opera senza distinguervisi. Il successo, che piace in qualunque cosa si faccia, sia pur minima, riempie di gioia in questa, che è la più grande di tutte, e nessuna soddisfazione è pari a quella di notare ogni giorno un certo progresso in imprese nobili e gloriose, e nella felicità del popolo, di cui abbiamo noi stessi concepito il piano e l'idea.

Luigi XIV, Memorie, trad. it. di G. Pasquinelli, Boringhieri, Torino 1961, pp. 44-47.

La revoca dell'editto di Nantes

Nel 1685 Luigi XIV decise di abrogare l'editto di tolleranza con il quale il suo predecessore Enrico IV (1589-1610) aveva imposto la pacificazione religiosa della Francia nel 1598.
Già il cardinale Richelieu si era accorto del pericolo rappresentato da quella sorta di Stato nello Stato costituito dalle piazzeforti concesse agli ugonotti, all'interno delle quali l'autorità del sovrano era veramente limitata. La revoca dell'editto di tolleranza era la logica conclusione di un processo di progressiva omologazione delle articolazioni interne: uno Stato assolutistico non poteva consentire che un lembo, per quanto limitato, del territorio nazionale sfuggisse al controllo pieno e diretto del re.

Il re Enrico il Grande, nostro avo di gloriosa memoria, volendo impedire che la pace da lui assicurata ai suoi sudditi [...] fosse turbata dalla sedicente Religione Riformata com'era accaduto sotto i re suoi predecessori, nell'aprile 1598, con la promulgazione dell'editto di Nantes, stabilì la condotta da tenere nei confronti dei seguaci della detta Religione. [...] Poiché dal 1635 sino alla tregua conclusa nel 1684 con i principi d'Europa il regno ha goduto solo di brevi periodi di pace, non è stato possibile avvantaggiare la Religione Cattolica se non col diminuire il numero dei luoghi nei quali la sedicente Religione Riformata poteva essere liberamente professata, eliminando quelli che risultavano costituiti in violazione delle disposizioni degli editti. [...] Avendo infine Dio concesso che i nostri popoli godessero di una pace perfetta, constatiamo al presente, con la giusta riconoscenza che dobbiamo a Dio, che le nostre cure hanno raggiunto il fine che ci siamo proposto, poiché la migliore e la maggior parte dei nostri sudditi di detta sedicente Religione Riformata ha abbracciato la Religione Cattolica. E dato che, grazie a questo fatto, l'osservanza dell'editto di Nantes e di tutto ciò che è stato ordinato in favore di detta sedicente Religione Riformata risulta inutile, noi abbiamo giudicato che, per cancellare integralmente il ricordo dei torbidi, della confusione e dei mali che la diffusione di questa falsa Religione ha provocato nel nostro regno, nulla potevamo fare di meglio che revocare integralmente il citato editto di Nantes e le particolari concessioni che sono derivate e tutto ciò che in seguito è stato fatto a favore di detta Religione.

Luigi XIV, in Storia politica del mondo, diretta da P. Renouvin, Unedi, Roma 1976, vol. III, pp. 373-374.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

Il tentativo della Fronda

I regno di Luigi XIV ebbe un esordio veramente burrascoso, come è tipico di una stagione di transizione. La nobiltà di toga, che controllava i Parlamenti provinciali, e la nobiltà di sangue, che esercitava importantissimi incarichi di natura militare, avevano tentato dopo la morte di Luigi XIII (1643) la carta dell'annullamento delle riforme di Richelieu.
Mazzarino, però, riuscì a scongiurare questo tentativo che, se vittorioso, avrebbe definitivamente impedito l'evoluzione in senso assolutistico della monarchia francese, avvicinandola al contrario agli sviluppi che stava conoscendo quella inglese di Carlo II Stuart.
Ecco l'analisi tracciata dallo storico inglese Henry Kamen circa il movimento frondista, l'unico reale pericolo per l'assolutismo francese.

Pur non essendo un fenomeno di dimensioni nazionali (le due manifestazioni interessarono soprattutto Parigi e il Nord della Francia), la Fronda provocò disordine paralizzando il governo centrale e scatenando conflitti locali in altre parti del paese, specialmente in città come Bordeaux e Angers. La guerra civile devastò grandi estensioni di territorio e causò molte perdite di vite umane: fu appunto in quegli anni che S. Vincenzo de' Paoli ebbe modo di esercitare la sua missione di carità verso le vittime della carestia e della guerra. Come la maggior parte dei francesi, Luigi XIV ebbe un'acuta reazione d'insofferenza verso questo periodo di caos e nel 1668 ordinò che dai documenti pubblici fosse eliminato ogni accenno alla ribellione. La crisi frondista non sopraggiunse inattesa. Il regime di Richelieu aveva lasciato irrisolte molte tensioni politiche: ancora pochi mesi prima della sua morte, avvenuta nel 1642, vi erano stati dei complotti di corte contro di lui, e la sistematica nomina di intendenti regi, insieme con le restrizioni imposte nel 1641 al parlamento di Parigi, avevano creato motivi di protesta. Meno di un anno dopo essere salito al potere, il suo successore Mazzarino fu minacciato da una congiura di nobili (la cabale des importants, 1643): la Francia era a quel tempo sotto la reggenza della regina madre, Anna d'Austria, e ancora una volta si dimostrò vero che la minore età del monarca portava con sé un periodo di agitazioni politiche. Per di più il governo, per sopperire alle spese di guerra, era ricorso a un forte aumento della tassazione. Nel gennaio 1648 le proposte di ulteriore imposizione fiscale del ministro delle finanze d'Héméry, connesse con la creazione e la vendita di alte cariche giudiziarie, scatenarono proteste a Parigi, e nel luglio di quell'anno tutti i membri delle magistrature superiori, riunite nella Chambre Saint-Louis del Palazzo di giustizia, redassero una petizione di 27 articoli in cui si chiedeva che le intendenze e le nuove cariche fossero abolite e che la taille fosse ridotta di un quarto. Al parlamento di Parigi si affiancarono quelli provinciali, in un tentativo dell'intera classe amministrativa francese di difendere il monopolio della funzione pubblica e di smantellare il sistema finanziario di guerra creato da Richelieu e da Mazzarino. Nell'agosto, l'arresto di uno dei magistrati più influenti, Pierre Broussel, provocò a Parigi una "giornata delle barricate". Una sostenitrice della monarchia, madame de Motteville, scrisse che «il parlamento aveva cominciato a rivendicare poteri così ampi da far temere che quegli uomini di legge fossero stati sedotti dal cattivo esempio della Camera inglese»; e nel 1649 un libellista affermò che la Francia non era sola nella lotta per la libertà e che la strada da seguire era già stata indicata dall'Inghilterra, dalla Catalogna e dal regno di Napoli. Nel fondo dell'animo i frondisti borghesi rimanevano però dei monarchici, ostili alla repubblica e alla rivoluzione: l'esecuzione di Carlo I d'Inghilterra (1649) suscitò orrore in tutta la Francia e soffocò sul nascere ogni sentimento antirealista, sebbene nel dicembre 1651 vi fosse ancora a Parigi un piccolo partito repubblicano. Le richieste dei ribelli erano spesso radicali e di vasta portata, e i loro attacchi contro Mazzarino miravano ad abbattere il regime esistente, ma in sostanza la loro ideologia si risolveva in una conferma del diritto divino della monarchia assoluta.

H. Kamen, L'Europa dal 1500 al 1700, Laterza, Bari 1996.

La società francese nell'età di Luigi XIV

Fermo nella volontà di governare in modo autonomo e privo di qualsiasi condizionamento, Luigi XIV non volle sostituire la figura di Mazarino, il carismatico segretario di Stato scomparso nel 1661: egli infatti intendeva concentrare nelle proprie mani il governo diretto della Francia. Lo si vede anche dalla fermezza con la quale il re sottopose al controllo della Corte tutti gli organi di governo locali (Parlamenti, cariche della burocrazia provinciali, funzionari al soldo dei nobili locali) che potevano rappresentare un contraltare alla volontà centralizzatrice di Parigi.
Lo storico inglese J. Lough sottolinea chiaramente la strategia unitaria e coerente sottesa alle singole iniziative del giovane sovrano. In particolare afferma che il re non poteva non considerare come fonte di grande preoccupazione l'autonomia di cui avevano goduto sino ad allora i ceti sociali che avevano animato la rivolta della Fronda, costringendolo addirittura, nel 1651, a lasciare Parigi.

Così, nei decenni successivi al 1660, tutte quelle istituzioni che avrebbero potuto limitare in qualche modo il potere della corona (i parlements, i governatori delle province, gli stati provinciali e le municipalità) furono gradualmente svuotate di ogni potere effettivo. Il governo dominava incontrastato al centro come alla periferia e non c'era né una classe singola né un'alleanza di classi che potesse porre un freno al suo potere. Il popolo minuto, cioè i contadini, gli artigiani e tutti coloro che avevano un livello di vita inferiore a quello della borghesia agiata, era come se non esistesse agli occhi del governo e delle classi superiori. In pratica, se non in teoria, il terzo stato era limitato agli strati più ricchi del ceto medio: i rentiers, gli officiers (cioè i titolari di cariche pubbliche riguardanti l'amministrazione statale o locale, l'esazione delle imposte dirette e l'amministrazione della giustizia), i banchieri, gli appaltatori delle tasse e i mercanti. È vero che i giudici dei parlements, che erano tra i più importanti officíers, non avevano alcun debito di gratitudine verso Luigi, che li aveva privati di ogni possibilità di ingerenza negli affari di stato; ma sotto un sovrano così autoritario non restava che curvare il capo e obbedire. Anzi, il re spinse la propria avversione contro questi funzionari al punto che volle ridurre il valore delle loro cariche e tentò di impedirne la trasmissione ereditaria decretando che chiunque avesse un padre, un fratello o un cognato in un parlement non poteva esservi ammesso; questi editti rimasero lettera morta, ma i parlements furono ugualmente obbligati a registrarli. È vero ancora che gli officiers di rango inferiore, quelli che si occupavano della riscossione delle imposte e che sedevano nei tribunali inferiori, furono privati di molti dei loro poteri dalla crescente importanza degli intendenti; ma il loro malcontento era troppo insignificante per contare qualcosa. Nel complesso i ceti medi furono in questo periodo i più saldi sostenitori del regime assoluto. Non si era perduto in essi il ricordo della secolare alleanza della borghesia con la corona che aveva stroncato definitivamente il potere della nobiltà feudale, e la tragica esperienza dell'inutilità della Fronda aveva rafforzato la loro fedeltà a una monarchia forte che sola poteva garantire sicurezza e stabilità. Lungi dal nutrire le opinioni sovversive dei loro discendenti che, un secolo dopo, avrebbero reclamato un potere politico proporzionato all'importanza economica, i borghesi del tempo di Luigi XIV consideravano l'assolutismo un giusto prezzo da pagare alla stabilità politica e accettavano la gerarchia sociale esistente come un'istituzione divina; l'unico desiderio del borghese ambizioso era quello di fare abbastanza denaro per elevare se stesso e i propri figli al rango nobiliare.

J. Lough, La Francia di Luigi XIV, in Storia del mondo moderno,
vol. V: La supremazia della Francia, 1648-1688, Garzanti, Milano 1982, pp. 303-304.

Sempre Lough sottolinea che anche l'altra protagonista della stagione frondista, la nobiltà di sangue, venne fortemente ridimensionata nelle sue ambizioni autonomistiche dal giovane re. Luigi XIV non le aveva perdonato la sollevazione in armi guidata dal principe di Condé. Decise pertanto di rimuovere dai vari incarichi di governo (in particolare dalla guida degli eserciti) gli esponenti dell'aristocrazia, che vennero costretti a trasferirsi a corte. Nella splendida ma soffocante cornice del palazzo di Versailles, autentica "gabbia dorata", la nobiltà di sangue conduceva un'esistenza sfarzosa ma vuota, senza poter più coltivare alcuna velleità di ribellione verso Luigi XIV.
In questo modo l'aristocrazia perdeva quella fondamentale funzione sociale connessa all'esercizio delle armi che ne aveva fatto, sino ad allora, il vertice dello Stato francese. La sua agonia avrebbe raggiunto il naturale epilogo con la Rivoluzione francese.

Con una scelta politica deliberata Luigi fece della corte, in un grado mai raggiunto né prima né dopo nella storia francese, il centro della vita sociale dell'aristocrazia, dapprima al Louvre e negli altri palazzi reali intorno a Parigi e poi, dal 1682, a Versailles, che egli trasformò da modesta tenuta di caccia quale era al tempo di suo padre in un immenso palazzo, la residenza appropriata di un sovrano che esercitava in patria un potere assoluto e che con le recenti vittorie aveva conquistato la supremazia in Europa. Versailles era la sfarzosa dimora del re sole, dove il superbo motto «Nec pluribus impar», emblema della sua grandezza, era inciso in oro su ogni porta. Il palazzo era fatto per apparire ai sudditi come un tempio dedicato all'adorazione di un semidio. La vita quotidiana di Luigi, e perciò della famiglia reale e della corte, era regolata dalla più rigida etichetta, in contrasto con l'atmosfera libera e spensierata delle corti di suo padre e di suo nonno. I minimi dettagli del cerimoniale erano deliberatamente studiati con la più grande attenzione; nulla era trascurabile agli occhi di Luigi, se poteva contribuire a un unico grande scopo, l'esaltazione del re sopra il resto dell'umanità. Per impedire ai nobili di rendersi pericolosi egli li volle a corte. E i nobili venivano, non solo perché la vita di corte soddisfaceva la loro sete di lusso e di divertimenti, ma perché era l'unico modo di procurarsi i favori che solo il re poteva elargire. Se non si mostravano a Versailles, non avevano alcuna possibilità di ottenere qualcosa. «Non lo conosco», rispondeva il re quando gli si faceva il nome di qualche assente che aveva chiesto un favore qualsiasi. Oberati di debiti, ridotti spesso ad arrotondare le entrate col gioco e con ogni sorta di mezzi equivoci, i nobili passavano i loro giorni a corte, sempre in attesa di cariche o di pensioni che raddrizzassero la situazione finanziaria. E per dar prova di solerzia, cercavano di non mancare mai quando il sovrano compariva in pubblico o quando andava o tornava dai consigli o dalla cappella reale.

J. Lough, La Francia di Luigi XIV, in Storia del mondo moderno,
vol. V: La supremazia della Francia, 1648-1088, cit., p. 305.

Assolutismo, capitalismo e imperialismo

Nella seconda metà del Seicento la politica di predominio si evolve in imperialismo: imperialistico è il programma di Luigi XIV, che vuole imporre il primato francese in Europa e sui mari; imperialistica è la mira degli Asburgo nei Balcani; imperialistica è la mira degli Inglesi di togliere all'Olanda il monopolio commerciale e coloniale; imperialistica è la pretesa della Svezia di impadronirsi del Baltico.
È questa la conseguenza, scrive Kaser, del consolidamento dell'assolutismo e del capitalismo.

Il capitalismo, già nel XVII e XVIII secolo, è una delle prime forze che muove il mondo e lo trasforma, ed è la molla principale della politica imperialistica. Il grande capitale mira ad avere il dominio del mare e del commercio mondiale, fonda imperi coloniali giganteschi; non tollera concorrenze né sui mercati nazionali né su quelli internazionali. Asserve a sé la politica, sia che si crei organizzazioni politiche con le compagnie munite dal governo di privilegio, sia che pretenda di arrogare a sé lo Stato, sia che lo spinga a trattative diplomatiche, sia che lo porti alla guerra. Si avvicina ora un'era di grandi guerre a movente economico. L'assolutismo ha i suoi trionfi di natura politica, ma ciò non toglie che scoppi una guerra dietro l'altra, nelle quali hanno ancora giuoco particolari tendenze politiche e religiose, e, in fondo in fondo, si lotta principalmente per il dominio sul mare, per l'impero coloniale, per il possesso del mercato mondiale.

K. Kaser, L'età dell'assolutismo, Sansoni, Firenze 1925, p. 32.

Portò pure un contributo, secondo Mousnier, la questione della successione spagnola, la cui soluzione, a favore della Francia o dell'Impero, poteva ridurre l'Europa, i mari e le colonie sotto il controllo di un solo grande Stato.

Se Leopoldo avesse ottenuto la successione, si sarebbe ricostituito l'Impero di Carlo V, il che avrebbe significato, per la Francia, la minaccia di scomparire e per l'Europa quella di venire asservita, cosicché un secolo e mezzo di lotte e di sacrifici sarebbero risultati vani. Ma se l'avesse ottenuta Luigi XIV, ciò avrebbe significato l'egemonia commerciale e marittima della Francia e, per questa, i mezzi per giungere all'Impero universale. Si sarebbe trattato infatti di sfruttare l'impero spagnolo d'America e gli incroci commerciali di vitale importanza: il Mar del Nord, costeggiato dai Paesi Bassi spagnoli, e il Mediterraneo che si sarebbe potuto dominare coi possedimenti spagnoli della Sicilia e del Regno di Napoli.

R. Mousnier, Il XVI e XVII secolo, La Nuova Italia, Firenze 1953, p. 249.

L'eredità spagnola, scrive Pontieri,  per la vastità dei suoi domini abbracciava grossi interessi commerciali e, perciò, interessava piccole e grandi potenze coloniali e marittime.

Nel Mar del Nord preda agognata sono le province fiamminghe della Spagna, sulle quali puntano da un lato la Francia, sorretta da due solide piazzeforti: Dunkerque e la Fiandra Marittima, e dall'altro l'Inghilterra e l'Olanda, naturali concorrenti in quel mare della Francia. Né sono da escludere da questo mare Danesi e Svedesi, che vi hanno notevoli interessi e importanti posizioni, rispettivamente ad Amburgo e a Brema. Nel Baltico conserva ancora l'antico predominio, con l'aiuto di Luigi XIV, la Svezia. Ma ai suoi danni si muovono tre pericolose concorrenti: la Danimarca, che mira al predominio degli Stretti, il Brandeburgo che vuole estendere al di là dell'area arida e triste della Pomerania i suoi possessi, che toccano ormai Stettino, e la Russia. Vivissimi i contrasti nel Mediterraneo, importante come via marittima e come base di potenza in Europa. In esso quelli ch'erano stati i grandi Stati marittimi italiani, Genova e Venezia, sono in irreparabile decadenza. È invece la Francia che si è procurata, negli ultimi decenni, una posizione preminente. Ma in pari tempo, come rivale della Francia, vi si è venuta affacciando anche l'Inghilterra. Ora, in vista della successione spagnola, la rivalità fra le due grandi potenze occidentali assume una maggiore tensione. A chi toccheranno punti vitali nel Mediterraneo, come Napoli, Palermo, Messina? Non v'è dubbio che nella lotta che si profila fra Borboni e Asburgo, l'Inghilterra si affiancherà a quest'ultima. Né meno gravi i contrasti sugli Oceani e sui continenti transoceanici, dove cozzano fra loro interessi olandesi, inglesi, francesi. La Spagna possiede, sì, molte colonie, ma è priva di navi, e tutto il monopolio del commercio delle sue colonie è in potere degli Olandesi; l'Inghilterra ha colonie e flotta; la Francia invece è accesa dall'ambizione di formarsi un vasto dominio coloniale e possiede una flotta imponente. Quale dunque la sorte delle colonie spagnole e dell'asíento, cioè il monopolio del commercio con l'America spagnola, compreso quello del commercio degli schiavi, ch'erano allora in possesso di Olandesi e in minima parte anche di Genovesi? Sarebbero rimasti essi alla Spagna? E, in tal caso, avrebbero conservato gli Olandesi l'asiento, o al primato marittimo olandese avrebbe tenuto dietro un primato francese o inglese?

E. Pontieri, Luigi XIV e la preponderanza francese in Europa, Loffredo, Napoli 1963, p. 187.

La questione spagnola per i suoi immensi riflessi costituiva senza dubbio il problema più scottante della politica europea della seconda metà del Seicento; attorno a essa s'appunta tutto l'interesse dei governanti, si escogitano tutti i compromessi e le alleanze, si nutrono tutte le diffidenze e i sospetti, perché si sa che dalla sua soluzione dipende l'avvenire dell'Europa.
Contro le mire imperialistiche di uno Stato, le altre potenze ricorrono alla formazione di coalizioni con lo scopo di riaffermare e rafforzare la politica di equilibrio ritenuta l'unico mezzo di indipendenza e libertà. Gli Stati europei, dice Morandi, ora pongono in primo piano il principio di equilibrio, considerato come garanzia di stabilità e di sicurezza. Difatti non appena la politica di espansione di Luigi XIV sembra compromettere il vecchio ordine europeo, il motivo dell'equilibrio minacciato, che occorre difendere o restaurare, non solo anima le corrispondenze diplomatiche dei Paesi coalizzati contro la Francia, ma alimenta anche la libellistica e dilaga nelle gazzette, agitando dinanzi all'opinione pubblica lo spauracchio d'una nuova «monarchia universale» (C. Morandi, Il concetto della politica d'equilibrio nell'Europa moderna, La Nuova Italia, Firenze 1940, p. 8).
Imperialismo politico, economico e coloniale da una parte, e politica d'equilibrio dall'altra, come suo antidoto, sono le due forze che alimentano e spiegano tutta la politica europea di questo periodo. Non è da credere che le numerose coalizioni antifrancesi si facessero in nome di una grande idealità, per esempio della civiltà europea, nulla di tutto questo; domina nei singoli Stati il particolarismo: l'Olanda combatte contro il protestantesimo di Colbert; l'Inghilterra per il predominio commerciale e coloniale; gli Asburgo per i territori di confine; la Germania per i territori a ovest dell'Elba. Non c'è il concetto dell'Europa libera ma solo la paura dei singoli Stati di perdere affari, monopoli e territori.
Scrive lo Zeller che:

In seno a queste coalizioni che si succedono e si rassomigliano non si scorgono che egoismi nazionali o dinastici, semplici moti di difesa, nemmeno l'ombra di un piano costruttivo. Ogni stato interessato svolgerebbe da solo il suo compito, se avesse la minima probabilità di riuscire a far fronte o a vincere senza gli altri. Ognuno ha i suoi obiettivi particolari e solo raramente invoca l'interesse pubblico, l'avvenire d'Europa o del mondo. In tal modo l'era di Luigi XIV si concluderà senza apportare sensibili cambiamenti nella struttura politica né in quella spirituale d'Europa, comunque senza profitto alcuno per l'idea di una qualsiasi comunità sovranazionale.

G. Zeller, L'età moderna (1660-1789), La Nuova Italia, Firenze 1960, p. 19.

Lo spirito della politica estera di Luigi XIV

L'espansionismo imperialistico del tempo ha la sua più grande espressione in Luigi XIV.
Gli storici sono discordi nell'interpretazione degli obiettivi della sua politica estera. Fra gli altri, Mousnier, riprendendo la tesi di Albert Sorel, afferma che la gran parte delle conquiste del re francese mirava al raggiungimento dei confini naturali e a salvaguardare la Francia da ogni possibile espansionismo degli Stati confinanti. Il re avrebbe fatto la guerra (1665-68) per «occupare i lembi dei Paesi Bassi onde sbarrare le frontiere di Francia» minacciate dal testamento di Filippo IV di Spagna (morto nel 1665), che ne assegnava l'eredità ai figli di Margherita Teresa e dell'imperatore Leopoldo; avrebbe invaso l'Olanda (1672-78) per reagire «all'imperialismo commerciale olandese» e «alla politica olandese, che limitando i successi francesi nei Paesi Bassi, rischiava di farli cadere un giorno nelle mani dell'Imperatore»; «con la conquista della Franca Contea intendeva chiudere un passaggio dei suoi nemici contro la Francia»; occupando le vie d'accesso del nemico, che ne permettevano facilmente l'offensiva, egli «voleva preservare la Francia dalle invasioni nemiche». Questo, secondo Mousnier, l'intento fondamentale della politica estera del Re Sole (R. Mousnier, Il XVI e XVII secolo, La Nuova Italia, Firenze 1953, p. 251).
Le conquiste difensive, tuttavia, inorgoglirono i Francesi e ispirarono una pubblicistica esageratamente nazionalistica che spaventò gli altri Stati. La Francia diventa «la nazione che ha diritto a grandezza ed eccellenza incomparabili»; Luigi assurge a «esempio di tutte le virtù, come Ercole ed Alessandro, a lui spetta l'egemonia universale»; i Francesi, maestri in tutte le arti, hanno il diritto di guidare i popoli; lo Stato francese è il modello del governo perfetto; la lingua francese, diffusa in tutto il mondo, «preannunzia il dominio politico universale del suo popolo»:

Nessun paese — pensavano questi scrittori — aveva una situazione migliore di quella francese ed era fornito meglio delle cose necessarie alla vita. I Francesi erano dotati di tutti i doni dello spirito e del corpo e facevano la guerra per liberare i popoli e civilizzarli. Come vincitori essi trionfavano con giustizia e grandezza, ma i vinti traevano dalle loro sconfitte un vantaggio maggiore di quello che la Francia vittoriosa traeva dalla sua vittoria. E non era dunque giusto che una nazione simile dominasse il mondo? Secondo loro, la Francia, rispetto all'universo, aveva la stessa posizione del Sole di fronte ai pianeti nel sistema di Copernico. La Francia-Sole era degna del Re-Sole.

R. Mousnier, Il XVI e XVII secolo, La Nuova Italia, Firenze 1953, p. 253.

Manifestazioni così intemperanti all'estero diedero un carattere indubbio di aggressività e d'imperialismo anche alle conquiste del re e, naturalmente, suscitarono preoccupazioni e coalizioni.
Nel 1668 si ebbe la Triplice Alleanza tra Inghilterra, Olanda e Svezia che arrestò le conquiste francesi in Fiandra; nel 1673 l'alleanza tra Olanda, Impero, Spagna, Lorena, Dieta Germanica e Danimarca, che salvò i Paesi Bassi e le Province Unite; nel 1686 la Lega di Augusta che costrinse Luigi XIV a rinunciare a gran parte delle sue conquiste; infine nel 1700 la grande alleanza europea per impedire al nipote di Luigi XIV di diventare re di Spagna.
Se si vuole cercare un'unità d'azione nell'opera di Luigi XIV, può scoprirsi solo nella ricerca della sua gloria, la cosa, come egli stesso diceva, che gli era più cara al mondo. Le sue guerre, continua Zeller, non trovano spiegazione nella «riflessione attenta sullo stato d'Europa e del mondo, ma nelle sue tendenze e in particolare nel gusto smodato per la guerra», unico mezzo che gli consentiva di essere «grande» e di cui si compiaceva alla vigilia d'intraprenderla.

Le possibilità più disparate si aprivano a Luigi XIV e nulla ci può far supporre, che prima di decidersi abbia a lungo esitato esaminando i vari partiti possibili e pensando con comodo le sue probabilità. La lotta contro la Spagna nei Paesi Bassi era una tradizione della politica francese, che Mazzarino aveva ereditato da Richelieu e Richelieu da Enrico IV. Luigi XIV non sembra aver supposto nemmeno per un istante che, nonostante il suo matrimonio spagnolo, potesse ripudiare tale retaggio. Non si potrebbe, d'altronde, affermare che da buon allievo di Mazzarino egli avesse fin da primo momento pensato di attribuirsi un giorno la successione del giovanissimo cognato, unico erede maschio di Filippo IV, suo successore designato. L'idea, lanciata recentemente, che la questione della successione spagnola costituisca il «pernio del regno» non regge all'esame. Basti ricordare una delle prime grandi imprese del regno, forse una delle più significative sotto molti aspetti, la guerra del 1672-1678 contro l'Olanda, alleata tradizionale e naturale dei Francesi contro la rivale spagnola.

G. Zeller, L'età moderna (1660-1789), La Nuova Italia, Firenze 1960, pp. 10-11.

Sulla volontà di guerra del re agirono, per scopi e in tempi diversi, Colbert e Louvois, i due ministri responsabili delle maggiori reazioni europee antifrancesi.
G.B. Colbert, illustre per tante ragioni, fu nocivo, secondo Fisher, per la sua concezione della ricchezza: se è sua gloria aver sostenuto che la grandezza di un Paese dipende dalla ricchezza e che la ricchezza è creata dal lavoro, se è suo merito aver detto agli oziosi nobili di Versailles che la forza di un Paese non si misura dalle smaglianti uniformi delle truppe ma dall'industria, dal commercio e dall'agricoltura, fu un grosso errore, gravido di fatali conseguenze, pensare che la «ricchezza di un Paese si potesse ottenere soltanto coll'impoverirne un altro».

Colbert considerava il commercio internazionale, non come scambio di beni e servizi di cui potessero giovarsi ambo le parti, ma come una guerra di denaro, in cui il vantaggio di un paese portasse con sé inevitabilmente la rovina dell'altro. Calcolando che al commercio dei trasporti dell'Europa occidentale fossero sufficienti ventimila navi, fornite in misura diversa dalla Francia, dall'Inghilterra e dall'Olanda, giunse alla conclusione che il commercio francese poteva estendersi soltanto quando si riducesse la flotta delle sue due rivali commerciali. È straordinario che un uomo così abile ed intelligente fosse vittima di un errore tanto puerile, nel supporre che la ricchezza dell'Europa fosse limitata o consistente unicamente nell'oro: falsa teoria commerciale, da cui fu spinto ad appoggiare la guerra olandese che, provocando altre contese, mandò in rovina l'edificio di prosperità commerciale, scopo supremo della sua vita.

H. A. L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari 1938, vol. II, p. 255.

L'errore politico del sistema colbertiano, che doveva inevitabilmente portare alla guerra, era «un fervido nazionalismo»: in base a esso tutto il mondo avrebbe dovuto produrre per la gloria della Francia e del suo re. Questo nazionalismo economico condusse la Francia a introdurre tante disastrose barriere doganali, nel territorio nazionale e nelle colonie, e a fare l'assurda guerra all'Olanda.
Più dannoso fu l'influsso di Louvois, l'uomo che dopo Nimega prese il posto di Colbert. Egli infatti inaugurò «l'era della violenza e dei continui abusi di forza», mise da parte i problemi economici e perseguì la guerra per la guerra. «Egli sarà fino in fondo quello che era all'inizio della carriera, quando aiutava il padre ministro della guerra», curerà solo l'esercito e spingerà il re, in piena pace, alla politica delle annessioni, tanto da indurre l'Europa a coalizzarsi in maniera determinante contro la Francia.

Gli errori politici del Re Sole

La mancanza di un organico piano di politica estera condusse Luigi XIV, secondo Mousnier, a prendere le sue decisioni empiricamente, passionalmente, senza tener conto delle ripercussioni che esse potevano suscitare nel campo internazionale.
Perché fece la guerra all'Olanda? Per livore, per vendetta e per gelosia. Per livore, in quanto l'Olanda gli aveva impedito di annettersi integralmente le Fiandre spagnole; per vendetta, per soddisfare il suo orgoglio ferito da parte di quei «ricchi mercanti ingrati» e mortificare la loro «insolenza e arroganza»; per gelosia, sobillato da Colbert, non potendo sopportare la superiorità della potenza navale e il dominio coloniale della Repubblica vicina.
In lui agì pure, scrive Pontieri, il risentimento ideologico che lo rendeva incapace di grandi calcoli politici.

La repubblica delle Province Unite, nata dallo spirito rivoluzionario scaturito dal Protestantesimo e tuttora nemica del Cattolicesimo, non riscuoteva le simpatie di Luigi XIV. Tanto meno un autocrate come il Re Sole, incarnazione della monarchia assoluta di diritto divino, poteva tollerare la libertà di stampa esistente in Olanda, soprattutto se si tiene presente che la sua stessa persona era impunemente diventata oggetto di attacchi sempre più acrimoniosi e insolenti.

E. Pontieri, Luigi XIV e la preponderanza francese in Europa, Loffredo, Napoli 1963, p. 90.

In tutti questi risentimenti, nota Zeller, manca tuttavia l'acume politico che avrebbe certamente portato il re a intuire che l'invasione della Repubblica olandese avrebbe determinato quel capovolgimento di alleanze tra Inghilterra e Olanda che poi effettivamente gli fu fatale.
L'ispiratore della guerra fu Colbert, vittima delle sue errate concezioni monopolistiche, ma la maggiore responsabilità ricade sul re, che non previde che Inghilterra e Olanda, avversarie per tante ragioni, di fronte al pericolo comune francese si sarebbero unite contro di esso.

Il prolungato duello tra la prima potenza militare dell'epoca e la prima potenza economica si concluse a vantaggio della seconda. C'era di che esaltare le menti non accecate dal rispetto della forza. Ovviamente la piccola Olanda non aveva vinto il colosso francese, l'aveva però tenuto a bada e non ne aveva accettate le leggi. Dopo che tanti avvenimenti imprevisti avevano frustrato i progetti e le speranze francesi del 1672 stupisce che il responsabile principale non ne ricavasse una lezione di modestia o di moderazione. A distanza, lo storico di Luigi XIV, non può non vedere nella guerra d'Olanda lo sbaglio che fu l'errore capitale del regno, le cui conseguenze furono pesantissime. Basti pensare, alla luce degli avvenimenti successivi, quale prezzo avrebbe avuto per la Francia l'amicizia o per lo meno la neutralità olandese nella lunga lotta che stava per cominciare contro l'Inghilterra. Non fu certo la fatalità a unire le due potenze marinare, Inghilterra e Olanda, anzi! Un prossimo passato le aveva poste in un antagonismo mortale. Il matrimonio che nel 1677 unì Guglielmo d'Orange all'erede degli Stuart, che gli valse poi la successione, fu come già nel 1672, al suo avvento come Statholder, il risultato dei timori suscitati negli inglesi e negli olandesi dalla politica aggressiva di Luigi XIV. Questo semplice fatto denota qual peso recò sul prossimo futuro una guerra di quel genere iniziata non per ragioni frivole (e Colbert che ne fu il massimo artefice non era certo un uomo leggero) ma per ragioni la cui importanza ben soppesata non giustificava un ricorso alle armi. La Francia aveva carte sufficienti per ottenere nella guerra doganale, che durava da anni, più di quanto le venne dopo sei anni di sanguinosi sforzi col trattato di Nimega.

G.Zeller, L'età moderna (1660-1789), La Nuova Italia, Firenze 1960, p. 55.

Dal 1679 al 1681 caddero in mano francese piccole e grandi città dell'Alsazia, della Lorena, della Franca Contea, del Palatinato, Casale e Strasburgo. La Francia arrivò al Reno e al Po.
La politica annessionistica delle «camere di riunione» – commenta Kurt Kaser – in realtà fu «una politica di prede e di rapine» che provocò una generale e intensa reazione, sfruttata e organizzata da Guglielmo d'Orange, il più irriducibile nemico di Luigi XIV, e che culminò nella coalizione degli Stati europei minacciati direttamente e indirettamente dalla Francia.
Il re allora commise un altro grande errore: mentre tutta l'Europa cristiana tremava per l'avanzata dei Turchi su Vienna, egli, per la sua «gloria», pur di demolire l'Impero asburgico, ricorse all'alleanza con i Turchi, il nemico mortale di tutto il mondo cristiano. L'indignazione fu grande; la Polonia si distaccò dall'influenza francese e il suo re, Giovanni Sobieski, nel 1683 salvò Vienna, cioè la civiltà europea. Gli Asburgo da questo momento intrapresero la controffensiva antislamica nei Balcani e si aprirono la strada per crearsi le basi di un altro imperialismo.

Chi ebbe a risentirne fu la Francia, a danno della quale si era spostato l'equilibrio delle grandi potenze. Per la Francia la forza degli Asburgo significava la propria debolezza. Quello che era stato un grande successo francese nella politica delle «riunioni» ora non contava più. Quale importanza avevano, infatti, ora le misere annessioni di Luigi XIV, lungo la frontiera occidentale tedesca, in confronto del raddoppiamento del territorio toccato ora agli Asburgo verso levante, e del prestigio acquistatosi dall'Austria in seguito alle vittorie sui Turchi? Ed invero, si può affermare che non a Luigi XIV spetti il merito dei grandi eventi storici di codesti anni, ma alla monarchia austriaca, coi suoi alleati, per quanto il governo di Vienna affrontasse i problemi politici con soverchia titubanza. Sono state allora iniziate opere, sono state, allora, poste le basi politiche, che hanno sfidato i secoli.

K. Kaser, L'età dell'assolutismo, Sansoni, Firenze 1925, p. 118.

Altra grave conseguenza dell'imprudente alleanza di Luigi XIV con i Turchi fu la perdita della sua influenza in Germania: qui i due maggiori Stati, Baviera e Prussia, abbandonarono il re francese e si schierarono a favore degli Asburgo.
L'isolamento francese si delineava chiaramente e fu accelerato proprio dall'ulteriore politica di forza del re: le sue irruzioni nelle valli del Neckar e del Reno provocarono il fronte unico tedesco, l'intervento dell'Impero e la formazione di una grande alleanza con la partecipazione della Spagna e dell'Inghilterra – dove nel 1688 agli Stuart era successo Guglielmo d'Orange –, dell'Olanda, della Svezia e della Savoia.
Luigi XIV era isolato. La sua imprudenza fu capace di stringere in un solo patto due gruppi di potenze avverse per principi religiosi e politici (cattolici e protestanti, liberali e assolutisti), sotto la direzione del suo più tenace e intelligente avversario, Guglielmo d'Orange, l'uomo che seppe dare alla lotta anche un contenuto ideale, pro religione et libertate. Agì in lui il bisogno di difendere il suo trono inglese e la sua patria olandese, ma egli ebbe l'abilità di attrarre tutti i popoli minacciati dal dispotismo politico e religioso di Luigi XIV.
Furono dieci anni di logorante, terribile guerra (1686-97), dove i Francesi ebbero vittorie nella terraferma e sconfitte sul mare.
Di estrema gravità è giudicata dagli storici la decisione di Luigi XIV di accettare nel 1700 il secondo testamento di Carlo II, che nominava erede universale della monarchia spagnola Filippo d'Angiò, suo nipote. Così facendo, scrive Pontieri, egli infranse apertamente l'accordo di partizione dei territori spagnoli, firmato all'Aja pochi mesi prima il 25 marzo 1700, tra Inghilterra, Francia e Olanda, e provocò ancora una volta la reazione della maggior parte dell'Europa e una fra le più dure guerre della storia.

Chi provocò l'opinione pubblica europea fu proprio Luigi XIV, con la sua condotta irriguardosa, imprudente e noncurante dei patti firmati. Infatti, con lettere patenti del 1° febbraio 1699, egli informava le potenze che intendeva serbare per Filippo V i diritti di successione alla corona francese. Questo atto, che era un ingenuo errore politico, fece sorgere il sospetto che egli fosse disposto a violare la clausola della perpetua separazione delle due corone e che per lui Francia e Spagna dovessero costituire un'unica Monarchia. Oltre a ciò, si atteggiò a padrone nei Paesi Bassi, dei quali si fece accordare il diretto governatorato da Filippo V, e cominciò a ingerirsi negli affari spagnoli, come per volere imporre una specie di tutela su quel paese. Sembrava insomma – per esprimersi con la frase di un cortigiano del Re Sole – che si fossero «liquefatti i Pirenei», e che Luigi XIV fosse il vero padrone della Spagna davanti alla debole figura del nipote. Il governatorato dei Paesi Bassi, assunto da Luigi XIV, significava il possesso in sua mano di una salda base per avanzare intimidazioni nei riguardi delle Province Unite. E poiché le Province Unite tardarono a riconoscere Filippo V come re di Spagna, egli fece occupare sette fortezze della cosiddetta «Barriera», che in seguito al Trattato di Ryswick, erano presidiate da guarnigioni olandesi, allo scopo di difendere il loro paese dalle invasioni francesi. L'audacia di questo atto suscitò un gran panico in Olanda, di modo che gli Stati Generali si decisero a domandare aiuti all'Inghilterra. A queste inopportune provocazioni Luigi XIV ne aggiunse altre: egli irritò gli Inglesi, allorché alla morte di Giacomo II Stuart, che egli da tanti anni ospitava in Francia, dichiarò di riconoscere come successore il figlio Giacomo III Stuart, al quale s'impegnava di dare i mezzi per riconquistare la corona paterna. Era anche questa un'altra violazione del Trattato di Ryswick.

E. Pontieri, Luigi XIV e la preponderanza francese in Europa, Loffredo, Napoli 1963, p. 200.

La politica provocatoria di Luigi XIV nei riguardi della dinastia regnante in Inghilterra aprì gli occhi al popolo inglese, il quale capì che ormai era in gioco la libertà d'Europa e il commercio con il Nuovo Mondo, fonte d'incalcolabile ricchezza. I whigs ebbero la meglio, con il risultato che nel 1702 le potenze marittime e l'Impero mossero guerra a Luigi XIV.

L'organizzazione dello Stato francese

La creazione dello Stato assoluto è simile a un processo lento e complesso in cui le decisioni del re, quando dovevano trasmettersi alle varie parti del Regno, urtavano contro una barriera di usi e tradizioni locali che erano il residuo della società feudale. Inoltre bisogna tener presente che i vari funzionari e ministri erano tutti subordinati al re, la cui volontà era svincolata da qualunque controllo.
Lo storico Robert Mandrou mette bene in rilievo queste caratteristiche della monarchia assoluta di Luigi XIV.

L'organizzazione del governo a partire dal 1660 viene spesso presentata come una creazione molto organica di ministeri e segretariati di Stato, di Consigli consultivi con funzioni ben definite e che costituiscono altrettanti strumenti della volontà regia; quest'ultima, riunendo in sé il potere legislativo e il potere esecutivo, rappresenta la prima o l'ultima parola dell'assolutismo, in quanto sostituisce al legame personale ereditato da un lontano passato, cioè quello della monarchia feudale, questa espressione compiuta di un volere politico che si impone a venti milioni di Francesi. Le realtà che si trovano tra un capo e l'altro di questa catena non sono tuttavia altrettanto chiare: non solo per il fatto che questa costruzione è stata realizzata lentamente (per esempio il Conseil des Parties riceve il suo regolamento nel 1673) e con un personale ristretto; ma soprattutto perché, tra il re ed i suoi sudditi, si è frapposta la barriera di amministrazioni e tradizioni che hanno più spesso intralciato che facilitato la trasmissione della volontà regia. Presso il re si è costituito un apparato complesso, in cui la distribuzione dei compiti non è sempre chiara; nel corso dei primi dieci anni di esercizio, il quadro si precisa: tre ministri di Stato costituiscono il Consiglio superiore, che tratta con il re i grandi affari, come la Guerra, gli Esteri e le Finanze; nei primi mesi fino al settembre 1661, furono Le Tellier, Lionne e Fouquet. [...] Solo i membri del Consiglio superiore possono avere insieme con il re una visione generale della politica prescelta. La conoscenza degli affari è anche privilegio del cancelliere, guardasigilli per la Giustizia, del sovraintendente delle Finanze (sostituito quattro anni dopo la caduta di Fouquet da un controllore generale con le medesime funzioni) e di quattro segretari di Stato che hanno la responsabilità sia di una parte del regno (un certo numero di circoscrizioni finanziarie) sia di un settore particolare: l'uno la Guerra e la Marina del Ponente, l'altro gli Affari esteri e la Marina del Levante; il terzo la casa reale e il clero cattolico, il quarto infine «i pretesi riformati» (le questioni religiose dei dissidenti). Tuttavia queste sei persone non costituiscono un ministero, non tengono sedute collegiali e non hanno neppure il dovere di comunicarsi quelle informazioni che potrebbero concernere «dipartimenti» differenti: sono a disposizione del re, che li consulta separatamente, li convoca eventualmente ai Consigli e li tiene perfino all'oscuro delle decisioni che toccano le loro circoscrizioni finanziarie.

R. Mandrou, Luigi XIV e il suo tempo, Einaudi, Torino 1976, pp. 90-91.

La nuova Europa dei trattati di Utrecht e di Rastadt

La lunga lotta tra Luigi XIV e l'Europa centro-occidentale, iniziata sostanzialmente nel 1665, si concluse con i trattati di Utrecht e di Rastadt del 1713-14, opera della diplomazia inglese.
Essi modificarono profondamente la situazione dei Paesi europei e diedero all'Europa una certa stabilità:
 - Filippo V di Borbone rinunciò alla Corona francese ed ebbe la Spagna con le colonie americane, gli Stati di Milano, Napoli, i Presidi, la Sardegna e le province meridionali dei Paesi Bassi;
 - la Francia conservava il possesso dell'Alsazia e di Strasburgo;
 - Vittorio Amedeo II otteneva il Regno di Sicilia;
 - l'elettore di Brandeburgo riceveva il titolo di re di Prussia;
 - la Spagna dovette cedere all'Inghilterra Gibilterra e Minorca, l'asiento (il monopolio del commercio con l'America spagnola, compreso quello degli schiavi neri) e il «vascello di permissione» (il diritto di non pagare tariffe doganali);
 - la Francia diede all'Inghilterra le colonie di Terranova e Acadia e riconobbe ufficialmente la sua dinastia regnante;
 - la Repubblica delle Province Unite ottenne la «barriera» nei Paesi Bassi.
I due trattati mirarono soprattutto a stabilire in Europa un equilibrio di forze tra le varie grandi potenze, in funzione degli interessi dell'Inghilterra. Per questo la questione spagnola fu risolta con il criterio della ripartizione tra i Borboni e gli Asburgo. D'altra parte bisogna riconoscere il merito degli statisti inglesi che cercarono, ispirandosi al principio di equilibrio, di «sottrarre l'Europa ai pericoli di una egemonia, francese o asburghese che fosse, conservando l'indipendenza alla Spagna, evitandole di fondersi o con l'uno o con l'altro dei due Stati contendenti; e indennizzando, altresì, gli Asburgo della forzata rinunzia» (K. Kaser, L'età dell'assolutismo, Sansoni, Firenze 1925, p. 154).
I due trattati, tuttavia, in rapporto a Luigi XIV e ai suoi avversari, vengono tutto sommato giudicati dal Kaser favorevoli al re di Francia.

Tirate le somme, si può arrivare a dire che Luigi riportasse un bel successo. Infatti, superate terribili catastrofi e fatto fronte ad atroci angustie finanziarie, il vecchio re chiuse il ciclo del suo regno con un grande trionfo dinastico; al nipote suo era toccata, nella spartizione dell'eredità spagnola, la parte più grande e, a sud dei Pirenei, alla Francia era stata assegnata, in sostanza, una nuova sfera politica d'influenza. Così, nelle divergenze internazionali del secolo XVIII, Francia e Spagna potettero, quasi sempre, procedere unite, anche se loro occorse superare, all'inizio, alcune difficoltà. I trattati del 1713 e del 1714, per quanto direttamente riguarda la successione di Spagna, attestano quanta forza avessero ancora le correnti imperialistiche delle varie dinastie. I risultati conseguiti dal re di Francia e dall'imperatore furono, in fin dei conti, più vantaggiosi alle loro dinastie, che non ai loro popoli, e se la guerra impedì il sorgere di una monarchia universale francese, il territorio europeo della Francia, sebbene più volte nel corso della guerra minacciato da invasioni nemiche, non subì diminuzioni ad onta della lunga serie di sconfitte militari patite. La Francia riuscì, infatti, a conservare i suoi confini orientali quali erano nel 1559, nel 1648, e nel 1697, né dovette restituire alcuno dei territori di confine, già annessi sia per convenzione, sia per guerra, sia per rapina, e il Reno continuò per sempre a segnare la frontiera tra Francia e Impero tedesco. Ma, certo, i Francesi dovettero porre al loro passivo: la riduzione dei loro possessi del Nord-America, la preminenza inglese per mare, il fallimento delle speranze di accaparramento del commercio di Spagna e di America, e re Luigi subì una umiliazione pel fatto che le condizioni di pace non le aveva potute dettare lui ma le aveva dovute accettare dalla buona grazia del vincitore. Ma ad onta di quanto le era stato tolto, ad onta della diminuzione di prestigio e d'influenza, sia al nord che nel levante, la Francia conservava ancora il suo posto nel concerto degli Stati Europei. Essa continuò ad essere una nemica temuta e una gradita alleata. La politica francese, nel sec. XVIII, non rinunziò quasi ad alcuna delle sue vecchie pretese, e scrive Ranke a questo proposito: «La Francia non giunse a dominar il mondo, ma continuò ad essere la più grande potenza continentale».

K. Kaser, L'età dell'assolutismo, Sansoni, Firenze 1925, p. 154.

 

 

 

 

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