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IL DOPOGUERRA E GLI ANNI SESSANTA NEL MONDO

 

 

FONTI

 

La prima proposta di un organismo sovranazionale europeo (1950)

La prima proposta di un organismo sovranazionale europeo fu avanzata dal ministro francese Robert Schuman il 9 maggio 1950: essa è considerata ancora oggi il fondamento ideale dell'Unione Europea. Elaborata precedentemente da Jean Monnet, riconosce che la costruzione di un'Europa unita deve passare da piccole ma decise realizzazioni concrete, che sostituiscano alle rivalità nazionali la solidarietà tra i popoli. Ecco il testo:

Il contributo che un'Europa organizzata e vivente può apportare alla civiltà è indispensabile al mantenimento delle relazioni pacifiche. Nel farsi da più di 20 anni il campione di un'Europa unita, la Francia ha sempre avuto come obiettivo essenziale servire la pace. L'Europa non è stata fatta, noi abbiamo avuto la guerra. L'Europa non si farà in un solo colpo, né in una costruzione d'insieme: si farà per mezzo di realizzazioni concrete che creino innanzitutto una solidarietà di fatto. L'unione delle nazioni europee esige che l'opposizione secolare tra la Francia e la Germania sia eliminata: l'azione intrapresa deve toccare in primo luogo la Francia e la Germania.
Per questo fine, il Governo Francese propone di portare immediatamente l'azione su un punto limitato ma decisivo: [...l propone di porre l'insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto un'Alta Autorità comune, in un'organizzazione aperta alla partecipazione degli altri paesi d'Europa.
La messa in comune della produzione di carbone e d'acciaio assicurerà immediatamente lo stabilirsi di basi comuni di sviluppo economico, prima tappa per la Federazione europea, e cambierà il destino di quelle regioni da lungo tempo votate alla fabbricazione di armi da guerra di cui esse stesse sono state le vittime più costanti.

R. Schuman, Dichiarazione del 9 maggio 1950,
in P. Fontaine, Una proposta nuova all'Europa. La dichiarazione Schuman, 1950-2000,
Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, Lussemburgo 2000, p. 14; trad. P. Arcangíoli.

Il preambolo del Trattato di Roma (1957)

La firma del Trattato di Roma del 25 marzo 1957 rappresenta il momento iniziale del lungo processo giuridico di unificazione europea. I rappresentanti di Italia, Germania, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo crearono ufficialmente la Comunità Economica Europea, poi divenuta nel 1993 Unione Europea. Nella prima parte, qui di seguito riportata, vengono espressi i principi generali della nuova comunità che, pur modificati nel 1991 (Trattato di Maastricht) e nel 1997 (Trattato di Amsterdam), mantengono la loro importanza nell'ordinamento europeo attuale.

Articolo 1

Con il presente trattato, le Alte Parti Contraenti istituiscono tra Loro una Comunità Economica Europea.

Articolo 2

La Comunità ha il compito di promuovere nell'insieme della Comunità, mediante l'instaurazione di un mercato comune e il graduale ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri, uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell'insieme della Comunità, un'espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e più strette relazioni fra gli Stati che a essa partecipano.

Articolo 3

1. Ai fini enunciati dall'articolo precedente, l'azione della Comunità importa, alle condizioni e secondo il ritmo previsti dal presente trattato:
a) l'abolizione, fra gli Stati membri, dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative all'entrata e all'uscita delle merci, come pure di tutte le altre misure di effetto equivalente;
b) l'istituzione di una tariffa doganale comune e di una politica commerciale comune nei confronti degli Stati terzi;
c) l'eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali;
d) l'instaurazione di una politica comune nel settore dell'agricoltura;
e) l'instaurazione di una politica comune nel settore dei trasporti;
f) la creazione di un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato comune;
g) l'applicazione di procedure che permettano di coordinare le politiche economiche degli Stati membri e di ovviare agli squilibri nelle loro bilance dei pagamenti;
h) il ravvicinamento delle legislazioni nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune;
i) la creazione di un Fondo sociale europeo, allo scopo di migliorare le possibilità di occupazione dei lavori e di contribuire al miglioramento del loro tenore di vita;
j) l'istituzione di una Banca europea per gli investimenti, destinata a facilitare l'espansione economica della Comunità mediante la creazione di nuove risorse;
k) l'associazione dei paesi e territori d'oltremare, intesa ad incrementare gli scambi e proseguire in comune nello sforzo di sviluppo economico e sociale.

Articolo 4

L'esecuzione dei compiti affidata alla Comunità è assicurata da:
un'Assemblea;
un Consiglio;
una Commissione;
una Corte di Giustizia; [...]

Articolo 5

Gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dal presente Trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità.
Essi facilitano quest'ultima nell'adempimento dei propri compiti. Essi si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente Trattato.

Articolo 6

1. Gli Stati membri, in stretta collaborazione con le istituzioni della Comunità, coordinano le rispettive politiche economiche nella misura necessaria al raggiungimento degli obiettivi del presente Trattato.
2. Le istituzioni della Comunità vigilano a che non sia compromessa la stabilità finanziaria interna ed esterna degli Stati membri.

Articolo 7

Nel campo di applicazione del presente Trattato, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dallo stesso previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità. Il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione dell'Assemblea, può stabilire, a maggioranza qualificata, tutte le regolamentazioni intese a vietare tali discriminazioni.

Articolo 8

I. Il mercato comune è progressivamente instaurato nel corso di un periodo transitorio di dodici anni. Il periodo transitorio è diviso in tre tappe, di quattro anni ciascuna, la cui durata può essere modificata alle condizioni previste qui di seguito.
2. Per ciascuna tappa è previsto un complesso di azioni che devono essere intraprese e condotte insieme.

Trattato di Roma

Un appello degli studenti e degli operai ungheresi in rivolta contro il potere sovietico (1956)

I presente radiomessaggio, letto alle 17.40 del 28 ottobre 1956 dai microfoni di "Radio Miskolc Libera", riassume le principali richieste degli insorti ungheresi. Mentre i Sovietici procedevano nella loro spietata repressione, le varie zone del Paese rimanevano in contatto tra loro per mezzo di ponti radio, comunicandosi gli andamenti delle azioni militari. In questo appello si condanna apertamente l'ingerenza dell'URSS, preludio alla richiesta di uscita dal. Patto di Varsavia che verrà ufficialmente (ma inutilmente) espressa il 1° novembre.

Attenzione! Attenzione! Vi leggiamo un messaggio dei Consigli Operai e del Parlamento Studentesco della provincia di Borsod. Questo appello si rivolge a tutti i Consigli Operai e a tutti i combattenti della libertà ungheresi: "Consigli operai, combattenti della libertà e gioventù di Debrecen, Szeged, Hatvan Szekesfehervar, Pecs, Szombathely, Gyor, Mosonmagyaronvar, Szolnok, Nyiregyhaza e di tutto il Paese!
Nel corso della nostra lunga lotta per la libertà, le richieste di tutta la nazione stanno lentamente prendendo forma.
Pertanto noi lavoratori, studenti e soldati raccolti sotto la guida del Consiglio Operaio e del Parlamento Studentesco di Miskolc, sottoponiamo le seguenti proposte:

1) Chiediamo un nuovo governo provvisorio, un governo veramente democratico, sovrano e indipendente, che lotti per un'Ungheria libera e socialista, ed escluda dal proprio seno ogni ministro che abbia servito sotto il regime di Rakosi.
2) Un governo del genere può essere creato soltanto attraverso elezioni libere e generali. Poiché non possiamo realizzare questo obiettivo nelle presenti condizioni, proponiamo che Imre Nagy formi un governo provvisorio composto soltanto dei ministeri essenziali. I ministeri di carattere affine dovranno essere unificati. Nella situazione attuale non c'è davvero alcun bisogno di 22 ministeri e di 3 vice-presidenti del Consiglio.
3) Il primo provvedimento di questo nuovo governo provvisorio indipendente, basato su una coalizione del Partito Ungherese dei Lavoratori e del Fronte Popolare Patriottico, dovrà essere quello di ottenere l'immediato richiamo delle truppe sovietiche non alle loro basi, ma nella loro patria, l'Unione Sovietica, e l'abbandono completo del nostro territorio.
4) Il nuovo governo dovrà accettare nel suo programma, ed attuare, le richieste di tutti i consigli operai e di tutti i parlamenti studenteschi del Paese. Queste richieste sono già state rese note attraverso la stampa di tutto il Paese.
5) La nuova autorità statale dovrà avere due soli tipi di forza pubblica: la polizia e l'esercito regolare. La polizia politica dovrà essere abolita.
6) Si dovrà abrogare la legge marziale e piena amnistia dovrà essere concessa, dopo il ritiro delle truppe sovietiche, a tutti i combattenti della libertà ed a tutti i patrioti che abbiano partecipato in qualsiasi modo alla sollevazione.
7) Elezioni generali dovranno essere tenute entro due mesi, con la partecipazione di molti partiti.

Adottiamo un atteggiamento comune basato sui punti suesposti. Questo atteggiamento sembra essere finora condiviso da tutti e non coincide affatto con quello del governo attuale, che poggia su di una potenza straniera. Cerchiamo di mantenere con ogni mezzo i contatti tra di noi, allo scopo di far conoscere con precisione le nostre opinioni: per questi contatti potremo ricorrere specialmente alla radio.
Pecs, Gyor, Masonmagyarovar, Miskolc, Debrecen, Nyiregyhaza ed altri centri sono ormai in possesso di stazioni radio.
È quindi possibile stabilire adeguati contatti radio. Proponiamo che si svolgano sulla lunghezza d'onda di 42 e 43 metri.
Radio Miskolc libera trasmetterà su queste lunghezze d'onda ogni due ore, all'ora piena. Fate tutti appello, anche in russo, alle truppe sovietiche affinché non combattano per la repressione della giusta lotta di liberazione intrapresa dal popolo ungherese. Vogliamo considerare l'Unione Sovietica come un Paese amico, ma vogliamo anche essere indipendenti. Non vogliamo la guerra con i sovietici.
Le truppe dell'Unione Sovietica sono state chiamate nella nostra patria dal tiranno Gero, un seguace di Rakosi, col pretesto menzognero che esse avrebbero dovuto combattere contro bande di controrivoluzionari, gruppi fascisti e criminali comuni. Ma ora anche i soldati sovietici ed il mondo intero sanno che questa è una menzogna. Per questo motivo esigiamo che Gero ed i suoi complici vengano chiamati a rendere conto dei loro atti.
Si annuncia che nel pomeriggio sono state condotte trattative tra il Consiglio Operaio di Nyiregyhaza ed i comandanti dei reparti sovietici, col risultato che i russi hanno promesso di ritirarsi da Nyiregyhaza e di non sostare in città.

Appello degli insorti ungheresi del 28 ottobre 1956,
in La rivoluzione ungherese. Una documentata cronologia degli avvenimenti
attraverso le trasmissioni delle stazioni radio ungheresi
, Mondadori, Milano 1957, pp. 111-113.

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

La ricostruzione economica in Europa

Dal 1945 al 1948 si ebbe in Europa una prima fase di ricostruzione. Francia e Italia sembravano avere i problemi più difficili, resi più acuti da profonde lacerazioni interne e dalla depressione economica. In Germania ebbe effetto positivo la riforma monetaria, che diminuì drasticamente l'inflazione, facendo del marco una moneta forte. A partire dagli anni Cinquanta l'aumento di produttività reso possibile dai nuovi investimenti tecnologici fu alla base dello sviluppo economico, i cui effetti non si distribuirono però equamente né tra le classi sociali, né tra le varie aree geografiche.
Alexander Werth illustra la situazione post-bellica della Francia, che per molti aspetti aveva una situazione simile a quella italiana.

Ricorrendo in certi casi, è vero, a metodi non ortodossi (ad esempio, all'impiego di prigionieri di guerra tedeschi nelle miniere e nell'agricoltura), la Francia, tra la Liberazione e la fine del '46, aveva ripristinato in modo assai notevole la sua produzione industriale. L'indice generale di questa aveva raggiunto nel settembre del 1946 soltanto 1'87% del livello del 1938; ma il carbone, la cui produzione mensile era scesa da 3,9 milioni di tonnellate nel 1938 a 1,1 milioni di tonnellate nel settembre 1944, aveva nuovamente raggiunto i 2,5 milioni di tonnellate nel dicembre 1945 e i 4,2 milioni di tonnellate alla fine del '46. A questa stessa data, la produzione dell'energia elettrica superava del venti per cento il livello del 1938, pur se quella siderurgica restava ancora indietro.
Nonostante il tremendo sforzo compiuto dall'industria mineraria francese, la deficienza di carbone era tuttavia grave, e la protesta più comune da parte dei successivi governi del 1946 era: «Più carbone produciamo, meno riusciamo ad averne dalla Germania», o, come più aspramente osservò «Combat»: «Perisca la Francia, purché la Germania viva». Per tutto quell'anno il carbone fu oggetto di costanti attriti tra la Francia e la Gran Bretagna e chiunque altro fosse responsabile per le assegnazioni del carbone della Ruhr.
I presunti tentativi di strangolare economicamente la Francia, tagliandole costantemente i rifornimenti di carbone, furono, inutile dirlo, attribuiti a sinistri motivi politici, e non solo dai comunisti. L'inflazione continuò per tutto il 1946; la circolazione monetaria salì durante l'anno da 570 miliardi di franchi a 722 miliardi [ ... ] e, ancor peggio, l'indice dei prezzi controllati al minuto, a Parigi, salì da 481 (1938 = 100) in gennaio a 865 in dicembre, crescendo così di quasi il doppio in un solo anno: i prezzi al mercato nero salirono ancora di più, mentre le paghe restarono sempre più indietro. Insomma, difficoltà immense si accumulavano e la sperequazione delle ricchezze anziché attenuarsi, si era ulteriormente aggravata. Non questo aveva sperato la Resistenza!

A. Werth, Storia della Quarta Repubblica, Einaudi, Torino 1958, pp. 421-422.

Si resero necessarie in tutti i Paesi misure drastiche e radicali per evitare il perdurare della depressione economica e tentare di recuperare il terreno perduto rispetto ai livelli prebellici.
Si diffusero in Europa i beni di consumo durevoli che, tra le due guerre mondiali, avevano caratterizzato l'economia statunitense. La liberalizzazione del mercato e il clima di concorrenza tra le imprese favorì la diminuzione dei prezzi, rendendo possibile l'allargamento dei consumi.
Il fenomeno è rilevato dallo storico dell'economia Denis-Gair Lambert, che mette in luce anche l'aumento di produttività:

L'effetto di rinnovamento che la concorrenza comporta, in quanto i prodotti nazionali ed esteri vengono messi a confronto, permette ai consumatori, soprattutto in Europa, di beneficiare molto più rapidamente che in passato di una redistribuzione della produttività, sotto forma di diminuzione dei prezzi. Ad esempio le automobili, rare e costose nei paesi dell'Est, divengono, in Occidente, accessibili agli operai e agli impiegati. Gli apparecchi televisivi, i transistor, le calcolatrici vengono venduti, a quattro o cinque anni dal loro lancio, a prezzi ribassati dal 50 al 70%. [ ... ]
Durante la ricostruzione le imprese si sono equipaggiate prima di tutto per produrre di più, in maniera da riassorbire le perdite verificatesi. La ricerca della produttività consisteva nell'introdurre migliori utensili e migliori tecniche, nell'organizzare una più efficace mobilitazione della forza lavoro, cadenze più intense e gesti più razionali, e nel fabbricare in un tempo dato più merci, di valore aggiunto maggiore.
A partire dalla metà degli anni Cinquanta lo sforzo di modernizzazione e di investimento ha per obiettivo quello di produrre di più e meglio. In effetti però è possibile produrre di più consumando più risorse, sprecando l'energia, le materie prime o la forza lavoro e i capi- tali esistenti, di modo che il surplus apparente deriva da una notevole distruzione di risorse. Le analisi della produttività effettuate nel periodo, ricollegandosi all'interpretazione delle origini dello sviluppo, hanno quindi cercato di fornire una valutazione complessiva dell'efficacia del processo produttivo. La «produttività globale» dei fattori di produzione si fonda per una quota importante sull'utilizzazione della forza lavoro e degli investimenti fissi, ma si fonda ancora di più sulla combinazione dei fattori produttivi, sulla scelta delle tecniche, sulla specializzazione del lavoro e sulla gestione dell'impresa. Spesso imprese dotate di tecniche avanzate hanno una produttività eccellente, ma complessivamente aleatoria, dato che sono male amministrate o gestite male sul piano finanziario. Lo sviluppo produttivo che più colpisce nel dopoguerra è quello industriale; ciò nonostante l'estendersi del progresso tecnico a settori di attività assai arretrati nell'anteguerra, come l'agricoltura, mette in evidenza il generale diffondersi della produttività.

D.-C. Lambert, Lo sviluppo economico, in I nostri anni dal 1947 ad oggi, a cura di P. Léon, Laterza, Bari 1979, p. 24-25.

Lo sviluppo economico non si distribuì tuttavia in uguale misura in tutte le aree geografiche e tra i vari ceti sociali. Rimasero o addirittura verrero acuite le preesistenti differenze tra regione e regione, nell'ambito dello stesso Stato, come osserva Lambert:

L'ampiezza e la varietà delle diseguaglianze economiche e sociali dimostrano l'insufficienza della diffusione dello sviluppo economico. Ancor più inquietante sarà la constatazione del verificarsi di «diseguaglianze cumulative» a detrimento delle classi meno favorite. In effetti, la povertà all'interno di società ricche, negli Stati Uniti, in Francia e in paesi nei quali l'ineguaglianza è meno avvertita dall'opinione pubblica, riguarda ancora tra il 15 e il 20% della popolazione. Certo, le cause più profonde di questa povertà non sono puramente economiche e finanziarie. Nei paesi anglosassoni e scandinavi, alcuni riformatori propongono schemi di assistenza finanziaria e di redistribuzione, sotto forma di imposte negative sul reddito, la cui sperimentazione si rivela spesso deludente. Se il riformismo sociale e redistributivo può migliorare le condizioni di vita degli anziani, degli invalidi o degli immigrati, è infinita- mente più difficile eliminare le diseguaglianze nei confronti della malattia, della morte o della istruzione. La marginalizzazione appare allo stesso tempo come un fenomeno di esclusione di categorie sociali che non hanno altro posto nella società che da assistite e come una reazione di rigetto e di rifiuto di categorie che non possono né vogliono integrarsi nel mondo industriale e postindustriale. Le disparità sociali sono forse una fatalità, una scelta implicita della società concorrenziale e competitiva, un fenomeno di rifiuto culturale? L'economia in espansione non sopprime le diseguaglianze. La «religione» dello sviluppo, al momento in cui le tendenze economiche divengono incerte, entra ormai in un periodo di declino.

D.-C. Lambert, Lo sviluppo economico, cit., p. 43.

La Gran Bretagna tra laburisti e conservatori

Per la Gran Bretagna gli anni del secondo dopoguerra segnano un declino irreversibile dalla posizione mantenuta fino allo scoppio del conflitto mondiale. La perdita di questo ruolo-guida è emblematicamente contrassegnata dalla decisione di svalutare la sterlina nel 1949: ciò significava rassegnarsi al fatto che il dollaro era divenuto il nuovo arbitro delle vicende mondiali.
La società inglese non doveva, se non in maniera del tutto episodica, soffrire sul piano dell'identità nazionale per questo ridimensionamento. Gli anni seguenti vedranno i laburisti e i conservatori, alternatisi al governo della nazione, impegnati, sia pure con differenti orientamenti politici e sociali, a garantire al Paese uno sviluppo adeguato alle nuove condizioni internazionali, senza rinunciare a tentazioni che si potrebbero definire "neo-isolazioniste". Ha scritto James Joll:

In pratica, le riforme introdotte dai laburisti fra il 1945 e il 1951, quando vennero sconfitti dai conservatori che poi rimasero al potere fino al 1964, furono in larga misura un'estensione su scala molto più vasta degli ideali di welfare state agitati per la prima volta quarant'anni prima dal governo liberale di cui aveva fatto parte Churchill. L'obiettivo era di creare un sistema complesso di sicurezza sociale «dalla culla alla bara» che proteggesse ogni cittadino dai peggiori disastri causati dalla disoccupazione, dalla malattia o dalla vecchiaia. Il suo aspetto forse più indicativo fu l'introduzione di un servizio sanitario nazionale che fornisse gratis tutti i servizi medici e ospedalieri.
Altra misura più specificamente socialista fu la nazionalizzazione di circa un quinto dell'industria con particolare riguardo alle miniere di carbone, alle aziende elettriche e del gas, ed alle ferrovie (che, nell'ultimo caso, misero l'Inghilterra alla pari con molti paesi europei, come la Germania, dove le ferrovie erano di proprietà statale fin dal tempo della loro costruzione).
Quella che all'epoca sembrò, e in una certa misura era di fatto, una rivoluzione sociale, fu tuttavia rapidamente accettata dal Partito conservatore, e, almeno fino al 1970, successivi governi tory adottarono in generale il principio dello «Stato assistenziale» e del ricorso ad una forte imposizione per il suo finanziamento e non restituirono quasi mai agli ex proprietari le aziende nazionalizzate.

J. Joll, Cento anni d'Europa, Laterza, Roma-Bari 1975, pp. 573-574.

La Germania di Adenauer

Come in Italia, anche in Germania la guida del Paese fu assunta da una formazione politica confessionale, l'Unione Democratico-Cristiana. La Repubblica Federale Tedesca avrebbe conservato fino all'avvento al potere dei socialdemocratici l'impronta antisovietica e anticomunista del leader della CDU, Konrad Adenauer, che terrà ininterrottamente la carica di cancelliere per 14 anni, fino al 1963. Ha scritto Enzo Collotti:

Il lascito di Adenauer sotto il profilo del regime interno era destinato a sopravvivere a lungo anche alla sua scomparsa fisica. Fu il ruolo che egli attribuì al cancellierato a dare senso e peso all'esecutivo forte; fu l'appello alla scelta di civiltà antisovietica e anticomunista che consentì il recupero in posti anche di elevatissima responsabilità dei vecchi nazisti e impedì una reale presa di coscienza dei guasti provocati dal nazismo, agevolando i processi di rimozione del passato; fu l'appello all'anticomunismo che consentì l'integrazione dei rifugiati dall'Est come componente organica dell'elettorato della CDU (e in particolare della sua consociata bavarese di Franz Josef Strauss), ma anche, su un versante diverso, la rottura di ogni solidarietà antifascista che aprì la possibilità di operare sulla sinistra politica, sindacale e intellettuale chiusure tali da creare una vera e propria cittadinanza di secondo grado per le minoranze non integrate né integrabili nella socialdemocrazia; fu ancora la congiuntura del riarmo, con la fase acuta di guerra psicologica che comportò, che fece accarezzare da una parte l'idea di riarmo per la Rft, che impedì dall'altra una reale «laicizzazione» delle nuove forze armate, della Bundeswehr, ostacolando gli intenti di estendere ad essa i tentativi di democratizzazione della società tedesca nel suo complesso. Mentalità autoritaria, di impronta confessionale cattolica, Adenauer ha realizzato insieme al reinserimento nell'Europa della Rft la sua collocazione come polo di riferimento delle forze della conservazione, semplificando le scelte ideali dentro lo schema della guerra fredda e affidandone l'esecuzione a un pragmatismo privo di qualsiasi respiro. Si leggano le pagine di H. Böll sulle memorie di Adenauer per verificare quali controverse opinioni la sua politica poteva suscitare anche all'interno dello stesso mondo del cattolicesimo tedesco. L'era Adenauer è stata anche la fase in cui l'identità fra democrazia di Bonn e «l'economia sociale di mercato» è stata eretta a dogma e convalidata dal boom, dal «miracolo economico», guidato dal vicecancelliere e ministro federale dell'economia L. Erhard.

E. Collotti, Questione tedesca: le due Germanie nel secondo dopoguerra,
in Il mondo contemporaneo, vol. II, Storia d'Europa, t. II, La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 835-836.

La Francia di De Gaulle

La Francia del secondo dopoguerra sembra intrecciare la propria storia con la biografia di Charles De Gaulle, indubbiamente una delle figure chiave del nostro tempo.
Alexander Werth ne ha tracciato un profilo forse troppo caratterizzato, ma non per questo molto lontano dalla verità storica del personaggio:

Giovane ufficiale, si ribella contro l'organizzazione dell'esercito francese che, tra le due guerre, viveva in un mondo di monotona e sognante routine, del tutto ignara di ciò che sarebbe accaduto nel 1940. Dopo il disastro, si ribella contro l'armistizio auspicato dai generali fuggiaschi del 1940; si ribella contro la loro comoda teoria che, sempre nel 1940, era «semplicemente il turno dei tedeschi di vincere». Durante la guerra assume un atteggiamento ribelle nei confronti di Churchill e di Roosevelt. Dopo la liberazione della Francia, si ribella contro quella stessa resistenza alla quale doveva molto. Nel 1946 si ribella contro la Quarta Repubblica e, dodici anni dopo, partecipa al suo rovesciamento. Subito dopo, tuttavia, come capo del governo, inizia la lunga lotta contro quegli stessi generali e quei «coloni» algerini che lo avevano riportato al potere. In campo internazionale, si ribella contro l'equilibrio atlantico esistente sotto la Quarta Repubblica; combatte contro la «satellizzazione» della Francia, dichiara che il mondo basato sulle due superegemonie rivali, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, appartiene al passato. Si ribella contro il concetto americano di guerra ideologica, ed afferma che la nazione e la coscienza nazionale, in Russia come in Cina o nel Vietnam, sono qualcosa di più profondo e duraturo di una ideologia.

A. Werth, Repubblica di un uomo, Il Saggiatore, Milano 1967, pp. 9-10.

De Gaulle, liberatosi del problema algerino, sviluppò il suo piano di restaurazione dell'indipendenza nazionale, o meglio della grandeur francese. Nel. 1962, con un plebiscito, egli fece approvare una legge che istituiva l'elezione a suffragio diretto del presidente della Repubblica. Inoltre volle competere con le due massime potenze sviluppando il piano atomico francese al di fuori della NATO, e contrastò in ogni modo l'egemonia americana come pure l'ingresso della Gran Bretagna nel Mercato Comune. Nello stesso tempo intensificò i rapporti della Francia con gli Stati dell'America Latina, prospettò un avvicinamento con l'URSS, riconobbe la Cina comunista e ne favorì l'ingresso nell'Organizzazione delle Nazioni Unite.

L'Unione Sovietica di Chruščév

Il Rapporto segreto letto da Chruščév il 25 febbraio 1956 (poi conosciuto in Occidente perché pubblicato dal "New York Times" pochi mesi dopo), denunciando i crimini di Stalin, avviò il cosiddetto "processo di destalinizzazione". In realtà questo processo denunciava sì i difetti del sistema, ma li attribuiva esclusivamente al "culto della personalità", ossia all'atteggiamento di passiva acquiescenza di fronte all'autoritarismo di Stalin da parte dei suoi collaboratori e funzionari. Nella prassi, invece, non alterava la struttura del potere, né modificava i rapporti tra Unione Sovietica ed Europa centrale.
A parere dello storico polacco Isaac Deutscher, la destalinizzazione nacque e si mantenne sotto il segno di una profonda ambiguità, per tradursi in un sostanziale fallimento. Così affermò durante un ciclo di conferenze tenute all'Università di Cambridge tra il gennaio e il marzo del 1967:

È trascorso più di un decennio dal giorno in cui Khrusciov, al ventesimo congresso, denunciò le malefatte di Stalin. Un atto che avrebbe avuto senso soltanto come preludio di un'autentica chiarificazione dei molti interrogativi sollevati da esso e di un'aperta discussione a livello nazionale sull'eredità dell'era staliniana. Ma non è stato così. Khrusciov, e in generale il gruppo degli uomini al potere, anziché aprire il dibattito erano fortemente ansiosi di impedirlo. Volevano che il prologo fosse anche l'epilogo della destalinizzazione. Le circostanze li obbligarono a dare inizio al processo; questo era diventato una necessità imperiosa della vita nazionale. Poiché gli esponenti e persino i seguaci dell'opposizione antistalinista erano stati sterminati, soltanto gli uomini della cerchia di Stalin, potevano inaugurare la destalinizzazione. Ma questo compito non andava loro a genio; anzi era contrario alle loro abitudini mentali e ai loro interessi. Potevano assolverlo soltanto controvoglia e in modo fittizio.
Essi sollevarono un lembo di sipario sull'epoca di Stalin, ma non poterono sollevare tutto il sipario. E così la crisi morale aperta dalle rivelazioni di Khrusciov rimase irrisolta. Le sue rivelazioni causarono sollievo e scandalo, confusione e vergogna, smarrimento e cinismo. Fu un sollievo per la nazione essere liberata dall'incubo dello stalinismo; ma fu sconvolgente constatare quanto profondamente l'incubo avesse corroso il corpo politico del paese.

I. Deutscher, La rivoluzione incompiuta (1917-1967), Rizzoli, Milano 1980, pp. 188-189.

Secondo Deutscher, la prima causa del fallimento complessivo della destalinizzazione rispetto alle speranze e alle aspettative suscitate, e non solo in Russia, sta nella sostanziale reticenza e nell'ambiguità delle accuse fatte da Chru§Eév nei confronti della gestione stalinista. Infatti:

Lo storico rileva ancora un'altra contraddizione nella testimonianza di Chruscév, contraddizione che si rivela pure nel giudizio di Trockij su Stalin, benché in Chruscév essa sia molto più stridente. Questi sottolinea, oltre ai fallimenti, i successi dell'era staliniana. Ma per i successi (sviluppo industriale, progresso dell'istruzione, pianificazione economica, vittoria in guerra) esalta le masse, il popolo, il partito, la dottrina leninista e persino il Comitato Centra- le, il docile e sottomesso Comitato Centrale dell'era staliniana, mentre per i fallimenti biasima unicamente e soltanto Stalin. Questa distribuzione di meriti e di colpe è troppo recisa per essere convincente. Che il contributo personale di Stalin agli aspetti più oscuri della vita sovietica sia stato particolarmente pesante, non ha bisogno di essere dimostrato. Ma senza dubbio l'arretratezza e l'apatia delle masse e la stupida cecità del partito ebbero la loro parte nei fallimenti. Se un uomo solo fu responsabile dei disastri militari subiti dai sovietici nel 1941-42, non fu anche suo il merito delle vittorie del 1943-45? Se tutte le più importanti decisioni politiche e strategiche venivano prese unicamente da Stalin, come dice Chruscév, è per lo meno illogico non riconoscergli tutto il merito dei successi.

I. Deutscher, Ironie della storia. Saggi sul comunismo contemporaneo, Longanesi, Milano 1972, pp. 34-35.

Al centro del dibattito stanno quindi la figura di Chruščév, la sua politica e i risultati conseguiti dalla Russia sotto la sua guida, fino al 1964.
Per Roy Medvedev, storico sovietico e protagonista del dissenso, Chruščév non può essere in nessun caso definito un continuatore della pratica politica di Stalin, ma al contrario, pur nella contraddittorietà delle sue scelte fondamentali sul piano sia interno sia internazionale, un antagonista del modello stalinista. Pur mantenendo infatti le leve del potere assoluto ereditato dall'epoca staliniana, egli usò strumenti autoritari non per continuare la politica tirannica del predecessore, ma per introdurre una serie di riforme economiche e politiche che avrebbero dovuto, nei suoi intenti, aprire maggiormente e modernizzare l'Unione Sovietica.

Si può dire che Chruščév sia stato piuttosto un antagonista che non un continuatore di Stalin. Il periodo legato alla sua figura costituisce una fase del tutto particolare nella storia dell'Unione Sovietica, un'epoca con un proprio stile e una propria fisionomia, del tutto diversa dai tempi cupi del lungo dominio staliniano e anche dal periodo di «stabilità» iniziato dopo la scomparsa di Chruščév dalla scena politica. Nello stesso tempo Chruščév non si prefisse come obiettivo la distruzione di tutto quel sistema politico che era stato strutturato prima di lui, ma anzi, utilizzò al massimo gli strumenti autoritari che lo caratterizzavano sia per consolidare il proprio potere personale che per introdurre tutta una serie di riforme e innovazioni sul piano politico ed economico. In fin dei conti, tuttavia, Chruščév trasformò sostanzialmente il sistema politico e ideologico preesistente, distruggendo non soltanto il culto di Stalin, ma anche il mito dell'infallibilità del partito e dei suoi dirigenti. L'instancabile attività di Chruščév dimostrò che erano possibili riforme «dall'alto» della società sovietica combinate con un appoggio «dal basso», e se molte di queste riforme risultarono effimere o fallimentari la colpa va ricercata principalmente nell'estrema fretta e impazienza del riformatore, e in quello che nel gergo politico che si usa nel nostro paese è stato definito «volontarismo» e «soggettivismo». Un bilancio complessivo della sua azione politica è altrettanto contraddittorio della sua personalità, ma nel complesso il periodo che va sotto il suo nome fu per il nostro paese un'epoca di movimento, un'epoca di progresso. I principali risultati conseguiti in quest'epoca — e quindi i principali risultati positivi dell'operato di Chruščév — furono la liberazione di milioni di persone dai campi staliniani, dalle carceri e dai luoghi di confino, e la loro riabilitazione; la ristrutturazione del sistema colcosiano rispetto alla sua variante staliniana; il mutamento, e da molti punti di vista l'ammorbidimento, della politica estera dell'Urss.

R. A. Medvedev, Ascesa e caduta di Nikita Chruščév, Editori Riuniti, Roma 1982, pp. 8-10.

I moti del 1956 in Polonia e Ungheria

Il XX Congresso del PCUS e l'avvio della destalinizzazione crearono nei Paesi del blocco comunista l'illusione che il rapporto di subordinazione economica e politica all'Unione Sovietica sarebbe diventato meno duro e opprimente, o, addirittura, sarebbe cessato nel tutto. Sorretti da questa illusione, nel 1956 gli operai di Poznan, in Polonia, manifestarono la loro opposizione al regime, chiedendo maggiori libertà e migliorie economiche. Per risolvere la crisi fu necessario l'invio di truppe sovietiche. Si esplicò nel frattempo un'accorta opera di mediazione nei confronti della Chiesa cattolica, elemento principale dell'identità polacca, attorno alla quale si coagulavano tutti gli oppositori. In Ungheria invece il regime comunista non riuscì a realizzare alcun tipo di compromesso con l'opposizione, estesasi a larghissimi strati della società, e subì un vero e proprio tracollo. L'intervento sovietico e una sanguinosa repressione dovevano successivamente riportare l'Ungheria alla normalizzazione.
Scrive Paolo Calzini:

In una situazione di mancata interazione fra regime e società esplodeva in ottobre, preceduta da alcuni significativi episodi, la sollevazione popolare. Dall'incontro di un movimento radi cale e spontaneo con la reazione scomposta d. un partito diviso e impotente, complicato dal l'atteggiamento inizialmente oscillante dei sovietici, prende origine la rivoluzione ungherese. Nonostante l'iniziativa in extremis del nuovo leader, il riformatore Nagy, la situazione venne facendosi incontrollabile. La rivolta con l'entrata in scena di nuovi settori della popolazione, in particolare giovani operai e studenti assumeva dimensioni di massa portando a scontri violenti con i comunisti e i sovietici. L'ispirazione che la muoveva, appariva [...] in rapido mutamento, composita di istanze democratiche e conservatrici, in ogni caso decisa mente nazionaliste; rapidamente si facevano avanti tendenze non riconducibili al socialismo, anche se con lo sviluppo dell'azione de consigli operai e dei sindacati si propugnavano posizioni riconducibili al riformismo. L'anticomunismo, ed è difficile dire quanto potesse ridursi all'antistalinismo, tendeva, si ritiene generalmente, a divenire la nota dominante. Sotto i colpi di una rivoluzione mossa da forze sempre più eterogenee, sulla quale i comunisti riformisti avevano ridotta influenza, il Partito comunista privo ormai di ogni capacità di mediazione andò incontro, a fine ottobre, a una completa disgregazione. Il ritorno a un sistema pluripartito e l'uscita dal patto di Varsavia, annunciati dal governo, rappresentarono tentativi estremi di adeguamento ad una spinta irrefrenabile. L'intervento dell'Armata rossa all'inizio di novembre per reprimere la rivoluzione è da considerarsi avendo presente [...] che erano stati ormai superati i limiti del nazionalcomunismo. Solo così si riuscì ad assicurare, grazie anche alla collaborazione di un gruppo comunista facente capo a Kádár, la continuità della democrazia popolare ungherese evitando probabilmente una diffusione della crisi nella regione. La politica di repressione in Ungheria, e quella parallela di compromesso in Polonia, concludevano, definendone i limiti, la tappa più drammatica e virulenta della destalinizzazione. Sotto questo profilo [...] l'intervento di Mosca, condizionato e sostenuto da Pechino, risultò nell'opinione generale drastico ma producente. L'ipotesi riformista ne usciva ridimensionata confermando le tendenze prevalentemente conservatrici dei comunisti europeo-orientali. Con la conseguenza, tra l'altro, di un raffreddamento nei rapporti con la Jugoslavia, la cui influenza sugli avvenimenti di ottobre [...] non era mai venuta meno. D'altra parte non si registravano ritorni alla prassi più autoritaria del passato, nonostante che alla fine del 1956 si manifestassero indicazioni in tale direzione da parte dei partiti comunisti più oltranzisti.

P. Calzini, Democrazie popolari, in Il mondo contemporaneo, vol. II, Storia d'Europa, cit., t. I, pp. 227-228.

Gli Stati Uniti da Eisenhower a Kennedy

Il trapasso dalla guerra alla pace fu per gli Stati Uniti, a differenza di tutti gli altri Paesi industrializzati, relativamente indolore.
La rapida riconversione dell'industria dalla produzione di guerra ai beni di consumo, gli opportuni alleggerimenti fiscali, l'allentamento dei vincoli restrittivi e il mantenimento di un alto livello della spesa pubblica consentirono uno slancio considerevole dell'economia. Già durante la guerra gli Stati Uniti conobbero una fase di espansione economica straordinaria. Alla fine il loro potenziale economico era cresciuto del 50%; la produzione industriale era di gran lunga superiore a quella degli altri Paesi. Di conseguenza anche i redditi, compresi i salari, erano aumentati sensibilmente.
Nonostante questo quadro positivo fosse in parte offuscato, soprattutto negli anni 1946-1947, dal lievitare dell'inflazione, l'aumento dell'occupazione e dei consumi crearono le premesse di quella che sarebbe stata poi definita la «società opulenta». Ha scritto Pierre Chaunu:

Questa America vittoriosa e inquieta degli anni 50 e 60 è una America in piena trasformazione. Anzitutto perché, rinunciando al malthusianesimo feroce degli anni 20 e 30, si è posta, durevolmente a quanto sembra, in un equilibrio medio, il 15 per mille all'anno [si intende il tasso di incremento], uno dei più alti fra i grandi complessi industriali (superiore a quello dell'Europa occidentale e a quello dell'URSS), appena inferiore alla media mondiale.
Se esiste un optimum di incremento demografico nel secolo XX, l'insieme Stati Uniti-Canada, proprio in questo momento, non è lontano dall'averlo raggiunto.

P. Chaunu, L'America e le Americhe, Dedalo, Bari 1969, pp. 418-420.

L'eccezionale sviluppo americano negli anni Cinquanta e Sessanta si deve porre in relazione con la consolidata egemonia americana sul mondo, costruita a partire dalla guerra fredda e ampliatasi con i primi passi della distensione. Ne fanno fede gli investimenti esteri, destinati in due decenni a raggiungere livelli eccezionali.
Scrivono Oscar e Mary F. Handlin:

Dopo il 1950 il governo degli Stati Uniti, desideroso di coinvolgere il settore privato nello sviluppo, fece utili concessioni come, ad esempio, l'esonero da tasse dei profitti guadagnati all'estero fino a quando non venivano riportati in patria. Il ritorno alla stabilità in Europa e in Giappone calmò le preoccupazioni sulla sicurezza dei diritti di proprietà. Nuovi mercati di consumo si allargarono; e, come prima, gli imprenditori, pronti a trarre vantaggio dai bassi costi della manodopera estera, o non disposti a rischiare di mettersi nei pasticci con le leggi anti-trust, o desiderosi di difendere i loro mercati dagli effetti delle tariffe o dei controlli sugli scambi, compresero l'utilità delle ramificazioni industriali all'estero. Soprattutto, la garanzia di un rapporto fisso fra il dollaro e l'oro dava alle corporations americane una posizione di forza all'estero. I dollari li mettevano in condizione di acquistare consociate e di creare filiali estere a condizioni favorevoli. Nel 1968, il valore contabile degli investimenti diretti fuori dal paese era stabilito a 65 miliardi di dollari, distribuiti in modo molto simile a prima del 1914: circa il 30% in America Latina e il resto in Africa, Asia e Australia. Nel 1970, il totale era salito a 78 miliardi di dollari, con altri 26,8 miliardi in portafogli.

O. e M. F. Handlin, Storia della ricchezza sociale negli Stati Uniti, Rizzoli, Milano 1978, pp. 321-322.

L'incessante sviluppo economico si accompagnò a manifestazioni di conservatorismo e di intolleranza sul piano sia politico sia sociale. Ci fu in particolare un momento in cui sembrò che il clima d'isterismo e di xenofobia che aveva pervaso la società americana nel periodo successivo al 1918, allorché era stato agitato lo spettro del "terrore rosso", stesse per riproporsi. Furono gli anni del maccartismo. Molti Americani, tra cui intellettuali di prestigio, attori e artisti di successo, furono le vittime di questa psicosi; emarginati e condannati da un'opinione pubblica ossessionata dal "pericolo comunista", assursero a emblema dei limiti e dei rischi che erano insiti nello sviluppo democratico del Paese.

Col termine maccartismo s'intende non soltanto il fenomeno limitato alla carriera politica del senatore Joe McCarthy e della sua violenta campagna anticomunista, ma si descrive anche un intero periodo della storia americana caratterizzato da una sostanziale limitazione delle libertà democratiche e individuali, dallo scadimento complessivo della vita politica nazionale e dalla affermazione di metodi e di uno spirito di inquisizione in un paese di antica tradizione democratica. Maccartismo è un'espressione coniata da Owen Lattimore, professore della John Hopkins University e sinologo di fama internazionale, che, accusato da McCarthy di essere «la più importante spia sovietica in America», si difese, fra l'altro, definendo il suo accusatore, nemico dichiarato di ogni «ismo», come l'iniziatore di una nuova astratta dottrina d'intolleranza.
Nel grigio curriculum senatoriale dello sconosciuto McCarthy emergono solo due annotazioni di tipo negativo: nel 1947 la sua difesa degli interessi della Pepsi Cola gli valse il nomignolo di «Pepsi Cola Kid» mentre nel 1951 i giornalisti del Campidoglio lo elessero quale «peggior» senatore. Il 9 febbraio 1950, Mc-Carthy è designato dal suo partito quale oratore al raduno del Republican Women's Club, riunitosi per preparare la celebrazione del Republican Lincoln Day; in quest'occasione egli si scaglia violentemente contro l'amministrazione Truman ed il Dipartimento di Stato, li accusa di tradimento ed afferma di avere nelle proprie mani una «lista di 205 [ ... ] una lista di nomi che, benché precedentemente portati a conoscenza del segretario di stato come membri del Partito Comunista, continuano tuttavia a lavorare e a fare politica nel Dipartimento di Stato». Se questo è l'episodio con cui si è soliti fare iniziare il maccartismo, le sue radici sono ovviamente da ricercare nelle profonde trasformazioni economiche e politiche della società americana di quegli anni; l'esigenza imperialistica di contenere l'espansione dell'Unione Sovietica si somma a quella di ridimensionare il controllo sindacale sulla produzione e di sconfiggere le rinascenti tendenze isolazionistiche. L'essenza politica di questi fatti è nascosta però dalla trasfigurazione idealistica su essi operata dal mondo politico e dai mezzi di informazione, che in quel periodo tendono ad interpretare ogni avvenimento alla luce dello scontro in atto a livello mondiale fra democrazia e comunismo.

A. Lanza, Maccartismo, in Il mondo contemporaneo, vol. V, Storia del Nord America, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 178.

Gli anni della presidenza di Eisenhower, eletto nel 1953, furono caratterizzati da un preoccupante ristagno economico e dall'avvio dei primi passi della distensione sul piano internazionale. Il conservatorismo politico e sociale di Eisenhower e del suo staff di governo, seppure attenuato dal mantenimento dell'impianto e delle strutture fondamentali dello stato assistenziale, si fa evidente soprattutto in relazione al problema razziale e a quello dei diritti civili. I neri e i numerosi gruppi etnici subalterni vivevano in un'odiosa emarginazione e discriminazione sociale ed economica. Ha scritto Gabriel Kolko:

Il basso reddito dei negri rappresenta un fatto di grande importanza nell'anatomia della povertà nel Sud e negli Stati Uniti. La situazione economica dei negri in rapporto a quella dei bianchi, è migliorata nettamente tra il 1939 e il 1947, soprattutto in seguito alla fine della disoccupazione, che colpisce più duramente i negri. Nel 1947, la retribuzione media annuale di un negro maschio rappresentava il 54 per cento di quella di un bianco; dieci anni dopo, questa cifra era salita dell'un per cento, e cioè non era praticamente cambiata. E, nonostante il tanto strombazzato movimento ascendente nelle occupazioni dei negri, che dovrebbe dar luogo a redditi più alti, il segmento dei negri non qualificati o addetti ai servizi è sceso solo dal 56 per cento al 52 per cento nei vent'anni che dividono il 1940 dal 1959. È pur sempre un dato comune dell'esperienza che il numero di negri delle classi più basse di reddito e in situazioni di povertà è, due volte il numero dei bianchi. Nel 1950, i negri, che rappresentavano il 9,4 per cento della popolazione urbana, costituivano il 15,8 per cento delle unità urbane di consumo comprese fra gli 0 e 1.000 dollari e il 21,1 per cento delle unità fra i 1.000 e i 2.000 dollari. Analogamente, nel 1954, gli agricoltori negri del Sud costituivano un decimo delle famiglie rurali della nazione, ma rappresentavano un quinto degli agricoltori compresi nella classe di reddito fra gli 0 e 1.000 dollari. Nei primi mesi del 1958, la percentuale di disoccupazione era del 12 per cento, di fronte al 6 per cento fra i bianchi.

G. Kolko, Ricchezza e potere in America, Einaudi, Torino 1964, pp. 133-134.

L'esplosione della protesta nera esprimeva la contraddizione forse più macroscopica della «società opulenta»: l'incremento della ricchezza sociale veniva ripartito in proporzioni estremamente diseguali. Ma non erano solo i neri a subire questa ingiusta distribuzione dei redditi e delle opportunità sociali. Nel 196o il numero dei poveri variava infatti fra i 2o e i 5o milioni, a seconda dei criteri adottati per definire il livello di vita indispensabile (l'alloggio, il vitto ecc.). Se la potenza mondiale americana si accresceva, lo stesso non poteva dirsi per le sorti civili, sociali e politiche di molti Americani.
Gli anni Sessanta rappresenteranno, proprio su questi problemi, l'apertura di una «nuova frontiera», con una sostanziale ridefinizione e una diversa prospettiva per l'American way of life. L'affermazione di John F. Kennedy nel 1960 fu il primo risultato di queste speranze.
Ecco come viene delineata questa fase di neocapitalismo in un testo curato da Valerio Castronovo:

Il programma della «nuova frontiera», elaborato da un brain trust di tecnici e di intellettuali progressisti, sembrò rinverdire, all'inizio della presidenza di John E Kennedy (1960), l'era del New Deal e avvalorare un nuovo mito, quello di una società caratterizzata da un progresso indefinito, sorretta dallo sviluppo tecnologico e dall'impetuosa espansione dei consumi.
Tra il 1950 e il 1980 il reddito pro capite era cresciuto da 1355 a 2502 dollari, mentre la popolazione urbana aveva conosciuto un poderoso sviluppo da 97 milioni a 126 milioni. Ridottasi ulteriormente la partecipazione dell'agricoltura al prodotto lordo nazionale dal 6,4% al 4%, il settore terziario e dei servizi aveva assunto un ritmo d'incremento notevole sino a toccare il 57% del reddito complessivo. Con più di 300 apparecchi televisivi, con quasi 400 automobili e 110 posti letto in ospedale ogni 1.000 abitanti, gli Stati Uniti fornivano l'immagine più significativa di una società opulenta, in cui il 96% della popolazione attiva era occupata in attività concentrate di tipo urbano, in aziende fortemente meccanizzate e in servizi specializzati, con un grado di istruzione mediamente elevato.
In effetti il programma di Kennedy, mentre tendeva a colmare rapidamente le sacche d'indigenza ancora esistenti in alcune zone più appartate del paese e a eliminare le cause più vistose della segregazione razziale nelle principali aree metropolitane, mirava nel contempo a valorizzare le potenzialità dell'economia americana nell'ambito di una politica federale più attenta alle opportunità di crescita di nuove regioni industriali e alla razionalizzazione dell'agricoltura. Continuavano infatti a prevalere, insieme ai distretti manifatturieri tradizionali del Nord-Est e delle regioni centrali, le industrie che avevano posto le premesse del decollo economico americano (come quella siderurgica e del materiale ferroviario, dei cantieri navali e delle attrezzature minerarie), che avevano accelerato nel periodo fra le due guerre e postbellico lo sviluppo dell'apparato produttivo e dei consumi interni (dall'industria automobilistica a quella del materiale agricolo, agli armamenti), mentre i sistemi di coltura estensiva e la specializzazione regionale della produzione agricola non erano ancora integrati pienamente in un complesso moderno di distribuzione e di servizi.
All'inizio degli anni Sessanta crebbero in particolare i settori a tecnologia più avanzata: dalle costruzioni aerospaziali alle produzioni elettriche ed elettroniche, dal materiale d'equipaggiamento e di uso strategico alle attrezzature per la ricerca scientifica, dall'energia nucleare all'informatica, alle telecomunicazioni. Si estese nello stesso tempo l'area industriale, dal «manufacturing belt» (dalle zone intorno a New York, Boston, Detroit e Chicago) alle regioni centromeridionali e verso il Pacifico. La California, soprattutto, cominciò a conoscere fin da questo periodo uno sviluppo eccezionale, grazie alla diffusione di un ventaglio sempre più ampio di industrie aeronautiche, siderurgiche, alimentari e tessili, all'installazione di nuove fabbriche metallurgiche, di materiale elettrico ed elettronico, militari, di prodotti chimici, di raffinazione del petrolio. Ma anche il Nord-Ovest cominciò a cambiare volto gra- zie alla presenza di abbondanti risorse minerarie, all'impianto (con l'aiuto del governo federale) di cementifici, di stabilimenti meccanici e di centri di ricerca operanti in campo nucleare e aerospaziale.

V. Castronovo (a cura di), Storia dell'economia mondiale, Rizzoli, Milano 1982, pp. 177-179.

I tre anni di Kennedy (che verrà assassinato in circostanze oscure nel 1963), pur non rappresentando completamente la realizzazione delle attese e dei propositi coltivati dai giovani e dai gruppi sociali subalterni, costituiscono di fatto una cesura importante nella recente storia americana.

 

 

 

 

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